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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Fascio Primo.''|67}}</noinclude><poem>''Qual de le guerre sue Cesare hà il frutto?''
''Che prima un huom, e poi fù Dio chiamato''
''Da un Bruto; ò un brutto termin’è condutto.''
''Che fa Pompeo, quell’inclito Soldato?''
''In mano al fin del Traditor rimane''
''Mal capitato, e ben decapitato.''
''Che n’è di Mario? Entro palustre tane''
''Di Minturnia palude, ove hà paura,''
''Trombe de’ suoi disnor stridon le rane.''
''Mesto fin finalmente hà la bravura,''
Chi la dura à la corte è vincitore:
Mà ne la guerra al fin perde chi dura.
''Quel, che insegna à temer sol col rigore''
''D’Arme Tiranne i tradimenti insegna;''
Che d’ossequio infedel, Mastro è ’l timore.
''Quel che visse homicida in van si sdegna''
''S’ucciso muore.'' Hoggi l’instabil Diva
Fà vicende servili anco in chi regna.
''E pur s’armano i Mari, e pur l’Argiva,''
''Benche ’n flutti d’Euboa Nave sdruscita''
''Gli urti arrischiar vuol di Capharea riva.''
''E pur s’armano i Campi, e la crinita''
''Discordia i dubbi Regni, agita, e turba''
''E l’altrui Morte à i Regi arme è di Vita.''
''Sotto il manto d’Astrea copron la furba''
''Collera i Grandi anzi col voto solo''
''D’un Feccial capriccio arman la Turba.''
''Ne’ manifesti lor piangono il duolo''
''Delle fiamme attaccate, e pur son tutti,''
''O l’acciaio, ò la pietra, ò ’l solfaiolo.''
''L’haver più Stati in sua balia ridutti,''
''Chiaman novi Nembrotti, arie da caccia,''
''E private letitie i comun lutti.''</poem><noinclude>
<references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|68|''Delle Frascherie''|}}</noinclude><poem>Hoggi il Mondo è comun, di Fera hà faccia
Ogn’un è Cacciator di sua ruina,
O con rete, ò con ferro; ò con la traccia.
''S’empia d’oro la cassa, e sia rapina:''
''Ogn’un cerca se n’hai, mà non già donde,''
Buon odore è il guadagno, e sia d’orina.
''Così al Tiranno il reo pensier risponde,''
''E intanto il furto altrui più che Spartano''
''Perchè lecito sia, non si nasconde.''
Fà guerra hoggi a ragion forza di mano,
Pur che in Erario AURelian sia vivo,
Moia ne’ Tribunali GIUSTiniano.
''Morbò de’ Regni un dominar furtivo,''
''Fine del ''Greco'' fù, Sete d’Imperio,''
''Fallo fù del ''Latino'', un ''Ablativo.''
''L’human desio, per dirvela sul serio,''
''Sempre il Mondo sconvolse; e non sapete,''
Quanto nocque à l’Italia un desiderio?
''Formar leggi infernal, guastar divine,''
''Son de l’horrida Guerra atti leggiadri''
''E son fabriche sue l’altrui ruine,''
''Oh quanti, oh quanti in frà i coscritti Padri''
''Tentar con l’armi altrui farsi Padroni,''
''E del Trono Roman diventar Ladri!''
''Dimmi Cesare tù, per quai cagioni''
''La libertà che in tanti membri havesti,''
''Nel tuo capo Tirannico riponi?''
''E in guerra tu Vespasian che festi?''
''Quando in pelle di Volpe, e di Leone''
''Al porco d’un Vitel guerra movesti.''
''Tù, che armato ti specchi, al tuo ladrone''
''Valor, perche non guardi? Haver ti vanti''
''L’oro col ferro, e pur nascesti Ottone.''</poem><noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Fascio Primo.''|69}}</noinclude><poem>''Ladri de’ Regni altrui fur tutti quanti,''
''Ladri fur gli stranier, ladri i Romani,''
''Ladri fur Capitan, ladri fur Fanti.''
''E se furano in guerra i Capitani,''
''Che faran gli altri in guerra capitati?''
''Se fura il Capo, hor che faran le mani?''
''Sono al Capo regal mano i Soldati,''
''Sono à l’Inferno altrui spirti infelici,''
''Sempre nati à dannar sempre dannati.''
''Rassomigliano il Gatto, il qual nemici''
''Topi combatte, e in caso d’appetito,''
''Più de’ Topi ladron, ruba à gl’Amici.''
''Oh numa tù, che intento al sacro rito,''
''Mai per rubar, nè per pugnar con l’Hoste''
''Da l’Hostia d’un Altar non sei partito.''
''Mira, com’hoggi à soggiogar disposte''
''Son le destre de l’Asia, e ne l’inganno''
''Le saluti, e le leggi altri hà riposte.''
''O Terzi, ò Compagnie pagansi ogn’anno,''
''Perche continue a noi sian le Terzane,''
''Perche frà noi la compagnia sia danno.''
''Voglion d’Asia i Padron, che si dia pane''
''A chi squarta le carne'', hoggi chi regna
Senza pelle intaccar, non tosa lane.
''Con la scusa de l’armi hoggi s’assegna''
''Al Vassallo pacifico una tassa,''
''Mà ch’ella gabba, una Gabella insegna.''
''Per dar nervo a la Guerra, hoggi si lassa''
''Smagrato affatto il popolo di un sangue''
''Che i lombi poi di porca Pace ingrassa.''
''Così contempla il Tributario, esangue''
''Ricchi i Ministri, e ’l popolo tradito,''
''Un nemico, che ride, un Rè, che langue.''</poem><noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|70|''Delle Frascherie''|}}</noinclude><poem>''O buon secolo d’oro, ove sei gito?''
''Le tue colpe, i tuoi colpi eran di ciancie,''
''Marte stava prigion per Fuoruscito.''
''Reggeva Astrea con le due man Bilance,''
''Spada ancor non s’udia, nè Capitano,''
''Eran tele di ragno infrà le lance.''
''La Bottega di Lenno havea Vulcano''
''Sempre rinchiusa, e non leggeasi in carte,''
''Ch’aprisse uscio di guerra il vecchio Giano.''
''De le fortune altrui godea la parte''
''Senza risse il vicin, nè parea nato''
''A dar martiri, à far Martini un Marte.''
''Dormia sotto un sol tetto un vicinato,''
''I Conti e i Contadini eran Cognati;''
''E in tutti apria spirti conformi un fiato.''
''Cauta Sobrietà tendea gli aguati''
''A chiusi morbi, e in faccia à Galateo''
''Facean da Trombe, e da Bombarde i flati.''
''Nessun fea da Procuste, ò da Tifeo,''
''E s’usciva una brusca parolina,''
''Era il cenno d’un guardo un Caduceo.''
''La pace era una Serva, ella in cantina''
''Spillava i vasi, e fea le celle nette''
''Con la scopa d’olive ogni mattina.''
''Il capo non rompean tante Trombette,''
''Il braccio non movean tanti tamburi,''
''Il cor non accendean tante vendette.''
''Non si fea porta, ò chiave à gli habituri,''
''Meze Lune havea ’l Cielo, e non la Terra''
''Le Fortezze eran d’alme, e non di muri.''
''Non reggea Pluto ancor Regni sotterra,''
''E non patia di terren pondo scarca''
''Ripresaglie di furie, anima ch’erra:''</poem><noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Fascio Primo.''|71}}</noinclude><poem>''Forbici sfacendate havea la Parca,''
''Nè traheva Caronte alle sue rive''
''Reggimenti di spirti in sù la barca.''
''Processi non facea d’opre furtive''
''Eaco sù i Reggi, onde vestia l’Inferno''
''Senza i lavor penosi ombre festive.''
''Altra natura hà il secolo moderno,''
''Sol frà l’ire del ferro è l’amor d’oro,''
''Sol di sangue là giù nero è il quinterno.''
''Sol co’ furti sostiensi hoggi il decoro,''
''Che meglio è il dir, de l’altrui robba io vivo''
''Che ’l dir altrui, senza mia robba io moro.''
''Vanti pur con beltà sangue atrattivo''
''Frine trà i Greci suoi,'' d’oro il sembiante
Più di Frine hoggidì volto hà lascivo.
''Di man d’ingegno education cotante,''
''Dal nascer del Bigatto al far calzette''
''Non posa mai l’Italian Mercante.''
''Quanti in vivande, in habiti, in ricette;''
''Perch’habbia il figlio suo scola di culto''
''Scolamenti di borsa un Padre mette.''
''E pur l’affretta al tumulo un tumulto;''
''E per belliche vie movendo l’orma,''
''Stima la sera il suo meriggio adulto.''
''Porge al Fanciullo il Precettor la norma''
''Per trarlo da le man d’un Ignoranza,''
''Che prima del saper l’Anime informa.''
''Mà in pochissimi dì torna à vacanza;''
''Che ’l voto Padre suo pensa che sia''
''L’empir la testa, un crapular di panza.''
Son le lettere in noi Pedanteria,
Beffe di Corte, e morbo de le menti,
Fatiche da poltron, mal di pazzia.</poem><noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|72|''Delle Frascherie''|}}</noinclude><poem>Un’huomo Elementar sol gli Elementi
Basta che sappia, e perche stia fondato
Bastan sol de le Scole i fondamenti.
''Sì dice il Padre; e ’l figlio sregolato,''
''De le regole altrui lascia il precetto,''
''E col furto guerrier cangia il Donato''
''Hor brando impugna, hor s’impugnala il petto''
''Hor dà colpi à credenza, hor li riscote,''
''Guerriero in sestodecimo ristretto.''
''Al fin move à la Guerra armi idiote,''
''Più atto à rivoltar spalle a l’...''
''Ch’al nemico Guerrier mostrar le gote.''
''Là nel vitio rapace, & impudico''
''S’ammaestra il Garzon, finche flagella''
''Un colpo nuovo il suo col pare antico.''
La guerra è un’arte, in cui la vita ancella.
Stassi in lezzo de’ vitij, e ’n cui si desta
Più sentina di mal, che sentinella.
''Ecco in carriera Anibale s’arresta''
''Sù le Campane vie tanto è sfrenato,''
''Che in terra di lavor sonangli a festa''
''Trà i fomenti di Bacco effeminato,''
''A Roma, che ’l desia, l’ebro non passa,''
''E l’opre d’una man vince un palato.''
''Seco si stringa un Marcantonio a lassa,''
''Che per tracciar Madonna Cleopatra''
''La Signora Vittoria à dietro lassa.''
''A la Lupa di Roma il reo non latra,''
''Perche corre d’Amor dietro una Troia''
''E pria, che Vincitor, fassi idolatra.''
''Fonda le gioie sue dentro una foia,''
''E pur mentre bevea, vide il lascivo,''
''Ch’altro non è, ch’un sol boccon la Gioia.''</poem><noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Fascio Primo.''|73}}</noinclude><poem>''Per non parer ne l’ammazzar cattivo''
''Vuol far veder, ch’a generar è buono,''
''E che gradi di bene hoggi ha Gradivo.''
''Già fu cagion un bellicoso tuono''
''Il ratto di bellezza fulminante,''
''Hoggi effetti di guerra irati sono.''
{{Loop|5|. }}.
''Fa scolare i Bicchier, Bacco a la sete,''
''E di doppio Scolar Marte è il Pedante''
''Voi, che d’ira venal l’Alma accendete,''
''E con la man che doppio sangue fura,''
''Per dar le piaghe altrui piaghe volete''
''Voi ch’osate atterrar de la Natura''
''Vostra il vigor, per rinforzar con Arte''
''Di posticcio Padron l’armi, e le mura.''
''Voi ch’ad altri acquistate, e havete parte''
''Ne l’altrui danno, e di sembianti ignoti''
''Fate uccisor, pria che nemico un Marte.''
''Dite infelici voi, dite idioti,''
''Perch’amate un rigor? perche vi piace''
''Da i Penati a penar torcere i moti?''
''Quando parte a la Guerra un huom audace''
''Non credo già, che la sua Madre dica,''
''Hor sì Figliuolo mio vattene in pace.''
''Ma dirà bene. Il Ciel ti benedica,''
''E vuoi lasciar questa tua Madre nuova''
''Per gir nel sen de la tua Madre antica?''
''Hoggi Hippolito alcun non si rinova:''
''E a ravvivar quel che di vita è casso,''
''Altro vi vuol Fratel, che chiara d’ova''
''Movea l’Asino un dì mesto il suo passo''
''Portando invidia à un bel Destrier robusto''
''Ch’a l’occhio del Padron si facea grasso''</poem><noinclude>
<references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|74|''Delle Frascherie''|}}</noinclude><poem>''Ma visto poi d’arme il Cavallo onusto,''
''Ch’à suon di trombe infra il Canon marciava''
''Sonò il Trombon, sparò il Canon di gusto.''
''O son pur io, dicea, viso di fava,''
''Hoggi han fortuna gli Asini par miei;''
''Et io sciocco Asinon mi lamentava.''
''Dir sanità l’Asinità potrei,''
''Non vuò à morir, perch’Asino son nato''
''E se v’andassi, Arcasino sarei.''
''A Guerre andrò quando non hò più fiato:''
''Che de la pelle mia fatto un Tamburo,''
''Darò morto poltron core al Soldato.''
''Meglio, Amici, è il campar ne l’habituro,''
''Che habitar campi, i cori human consola''
''Non la norma Pelea, mà d’Epicuro.''
L’otio è Maestro del mal, la Pace è scola,
Ove imparano ogn’or le Turbe tenere
Il mal de la Lussuria, e de la Gola.
Meglio è Marte seguir, che star con Venere,
{{Pt|E|È}} valor ne la Guerra incenerire,
{{Pt|E|È}} viltà ne la Pace il covar cenere.
Le fortune a i meschin porta un ardire,
Le fortezze ne i cor crea la sciagura,
{{Pt|E|È}} dei nostri dolor gloria il soffrire.
Cede a Forza Ragione. Una bravura
Regge il Mondo, e coregge, e ’n lui si gloria
Non gir soggetta l’ordin di Natura.
Hoggi in battaglia è un’opra meritoria,
Tolto honor, tolta vita, e Regno tolto
Quel ch’in pace è vergogna, in guerra è gloria.</poem><noinclude>
<references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Cruccone" />{{RigaIntestazione||{{Sc|cosmorama pittorico.}}|115}}</noinclude>{{Colonna}}<section begin="1" />{{Centrato}}LE STELLE FILANTI.</div>
Mentre i romanzieri stanno occupandosi della luna, gli astronomi si occupano di qualche cosa di meglio. Eglino stanno osservando e determinando le leggi astronomiche delle periodiche apparizioni delle così dette ''stelle filanti''.
Le stelle filanti differiscono dalle stelle cadenti in questo, che le prime compajono sull’orizzonte a modo di tante lucide gemme che fanno, a guisa dei bolidi, un celerissimo volo e scompajono senza spegnersi, mentre le stelle cadenti o fuochi fatui, cadono per lo più a modo di corpi gravi, e giunti presso alla terra si dissipano disfacendosi. Le Stelle cadenti sono fortuite accensioni che avvengono nell’atmosfera e le stelle filanti son veri globi che appajono e scompajono a modo delle comete, eseguendo un periodico viaggio che si potrà forse col calcolo determinare.
È stato osservato, dice {{AutoreCitato|François Arago|Arago}}, che dai dodici ai tredici novembre, compajono quasi tutti gli anni vere pioggie di stelle filanti, che ora si veggono in una parte ed ora nell’altra del nostro globo. Dalle nove della sera del 12 sino all’alba del 13 novembre dell’anno 1833 fu veduta lungo le coste orientali dell’America settentrionale del golfo del Messico sino ad Halifax, una di queste pioggie di stelle filanti. Esse occupavano tanta parte di cielo che non si potevano enumerate che in via di approssimazione. Un astronomo di Boston si provò a contarle sul far del mattino, quando s’eran fatte minori di numero, e ne noverò 650 in 15 minuti e in una zona circoscritta al decimo dall’orizzonte coperto da queste stelle. E fatto un computo comparativo, egli calcolò il numero di 34,640 stelle filanti per ogni ora, e 240,000 almeno per tutte le ore in cui durò il fenomeno.
Questi asteroidi, per servirci dell’espressione già usata da {{AutoreCitato|John Herschel|Herschell}} partirono da un solo punto del cielo, dalla costellazione del Leone, e poi si allargavano a pioggia e s’allontanavano con una celerità apparente di trentasei miglia per ogni minuto secondo. La direzione di queste stelle pareva diametralmente opposta al movimento di traslazione della terra nella sua orbita.
Questa pioggia di stelle non è cosa nuova. Nella stessa notte del 12 al 13 novembre un’apparizione simile fu veduta nel 1799 in America da {{AutoreCitato|Alexander von Humboldt|Humbold}}, nella Groelandia dai fratelli Moravi ed in Germania da quasi tutti gli astronomi. Nell’anno 1803 da un’ora dopo mezza notte sino alle tre, le stelle filanti si fecero vedere nella Virginia e nel Massachussets in tanto numero che parevano razzi d’artificio. Nell’anno 1777 {{w|Charles Messier|Messier}} racconta di aver veduta passare sul disco solare un numero grandissimo di <noinclude>{{AltraColonna}}</noinclude>globetti neri che egli prese per asteroidi che passavano fra noi ed il sole. Nella notte del 12 al 15 novembre 1831, il comandante del brick ''il Loiret'' M. Berard, vide navigando nel grande Oceano, un numero considerevole di stelle filanti di una grande dimensione. Uno di questi asteroidi apparve al zenith e fece un gran giro dall’est all’ovest lasciando una striscia di luce tanto larga, quanto mezzo il diametro della luna, e presentando i settemplici colori dell’iride. La sua traccia durò dieci minuti.
Nella notte del 13 novembre 1835 una stella filante fu veduta a Lilla in Francia; essa brillava più del pianeta di Giove e lasciò sulla sua via una pioggia di faville come un razzo artificiale. Queste periodiche apparizioni ci rilevano un nuovo mondo planetario, che a confronto del gran sistema de’ pianeti può dirsi un vero mondo microscopico, che è pur meritevole di tutta l’osservazione dei dotti. Noi diamo pubblicità a questa preziosa scoperta delle stelle filanti, perchè si abbia cura ne’ varj punti abitati, di esplorare ogni anno nella notte del 12 al 13 novembre l’apparizione di questo celeste fenomeno per istudiarlo ed illustrarlo. Varrà meglio il badare a queste stelle che piovon luce, di quello che tener dietro alla luna dal cui disco ischeletrito ora non piovono che menzogne.<section end="1" />
<section begin="2" />{{Centrato}}VIRTÙ DI ALCUNE DONNE CIPRIOTE E GENOVESI.</div>
Nel 1570, {{w|Lala Kara Mustafa Pascià|Mustafà}} mosse per prendere ai Veneziani l’isola di Cipro: fu ne’ Turchi la più feroce barbarie, fu invece negl’isolani devoti alla repubblica veneta, un grande coraggio e prodigi di virtù: le donne di Nicosia e di Famogosta si posero coi soldati a difendere la loro città, ma fu invano. Nicosia cadde, e perirono in un sol dì per le mani dei turchi 10,000 italiani; altri furono fatti prigionieri e imbarcati per condursi in Asia. Fra questi sgraziati vi ebbe una gentildonna, la quale dolendosi altamente, non già della servitù, ma del disonore a cui era prossima, mentre era condotta ad Alessandria, pensò di morire altamente; addocchiò nella nave dov’era la munizione, ed animosamente vi diede fuoco: la nave all’impeto della polvere scoppiò, e la donna perì co’ suoi oppressori.
Forse è troppo disperato questo coraggio della animosa Cipriotta: poterono prestare invece più utile servigio alla loro patria, Genova, due vedove generose, Anna e Veronica Spinola. Allorchè pericolava la loro città nel 1672, in una guerra che le movea contro la Savoja, e si stava facendo provvigioni per difenderla, la prima portò in dono ai padri 2,000 scudi d’oro, e l’altra fece a proprie spese una leva di soldati.
<section end="2" />
{{nop}}<noinclude>
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Li mariggnani
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Autore:Vito Capialbi
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| Nome = Vito
| Cognome = Capialbi
| Attività = letterato/storico/archeologo/numismatico
| Nazionalità = italiano
| Professione e nazionalità =
}}
== Opere ==
* ''Biografie del Marchese Domenico Grimaldi, e di Fr. Lodovico Gemelli Cappuccino'', estratto dal n. 15 del ''Maurolico'' 18 dicembre 1835 ([https://www.google.it/books/edition/Notizie_storiche_sulla_vita_del_conte_Vi/QF0Di-eAxQkC?hl=it&gbpv=1&dq=vito+capialbi&pg=PA1&printsec=frontcover GB])
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Carlomorino" />{{RigaIntestazione||{{Sc|d a i s u o i p r i n c i p j ec.}}|169}}</noinclude>e avea pure scolpito in legno un Mercurio ed una Venere a Megalopoli in Arcadia<ref>{{AutoreCitato|Pausania|Paus.}} ''lib. 8. cap. 31. pag. 665''. </ref>. Intorno a quelli tempi era senza dubbio {{Sc|Lafae}}, di cui vedeasi ad Egira in Acaja un Apollo nell’antico stile<ref>id. ''lib. 7. cap. 26. pag. 592. lin. 25''.</ref>; e dopo di lui visse {{Sc|Damea}} che avea {{Nl|Lafae Damea}} lavorata in Elide la statua di Milone crotoniate<ref>id. ''lib. 6. cap. 14. pag. 486. princ''.</ref>; il che dee fissarsi dopo l’olimpiade {{Sc|lx}}., come si argomenta sì dal tempo in cui vivea {{AutoreCitato|Pitagora|Pittagora}}<ref>{{AutoreCitato|Richard Bentley|Bentley}}’s ''Diffen. upon the ep. of Phal. pag. 72. seq''.</ref>, sì perchè avanti la {{Sc|lix}}. olimpiade non era stata eretta in Elide nessuna statua agli atleti<ref>Paus. ''lib. 6. cap. 18. pag. 497''. [ Ved. ''Tomo I. pag. 26. n. 1''.</ref>, qual era Milone. {{Nl|Siadra e Carta}}Fiorirono intorno a questa età {{Sc|Siadra}} e {{Sc|Carta}}, amendue spartani, celebri nell’arte loro e maestri di {{Sc|Euchiro}} corintio, il quale ebbe a scolaro quel {{Sc|Clearco}} {{Nl|Euchiro e Clearco}} di Reggio nella Magna Grecia, sotto di cui nella medesima città studiò l’arte il famoso {{wl|Q2705569|Pittagora}}<ref>id''. lib. 6. cap. 4. pag. 461''. [ Di cui si parlerà qui appresso al ''Capo {{Sc|iI}}. §. 23.''</ref>. {{Nl|Stomio e Somide<br/>Callone}} Succederono a questi {{Sc|Stomio}} e {{Sc|Somide}}, che vissero avanti la battaglia di Maratona<ref>''ibid. cap. 14. pag. 488.''</ref>, e {{Sc|Callone}} d’Egina scolaro del mentovato {{Sc|Tetteo}}<ref>id. ''lib. 2. cap. 32. pag. 187''.</ref>, che dev’essere campato ben vecchio, poiché sopravvisse a {{Sc|Fidia}}; e altronde era suo lavoro uno de’ tre grandi tripodi di bronzo, sotto cui, cioè in mezzo a’ cui piedi, stava la figura di Proserpina, dono fatto dagli Spartani ad Apollo, e collocato nel di lui tempio ad Amicla, dopo la vittoria riportata da Lisandro sugli Ateniesi presso il fiume Egi<ref>id. ''lib. 3. cap. 18. pag. 255. princ''.</ref> nell’anno quarto dell’olimpiade {{Sc|xciii}}.<ref>{{AutoreCitato|Diodoro Siculo|Diod. Sic.}} ''lib. 13. §. 105. pag. 627. Tom. I''.</ref>.
§. 6. Poco prima dell’eginetico fiorì un altro {{Sc|Callone}} di Elide, noto principalmente per le trentasette statue in bronzo, rappresentanti trentacinque giovani messenesi, il loro
<ref follow="pagina174">''lib. 4. cap. 31. pag. 357., & l. 8. c. 31. p. 665''. di altre opere da Damofonte eseguite in marmo, quali furono, tra le altre, una Cibele ed una Venere. [Di questa scrive {{AutoreCitato| Pausania|Pausania}} ''cit. pag. 665.'', che avesse le mani, la testa, e le punte de’ piedi di marmo; il resto di legno. Nel ''cap. 37. p. 675''. descrive un gruppo rappresentante Cerere, ed era in marmo tutto di un pezzo, opera dello stesso scultore.</ref><noinclude>{{PieDiPagina|''Tom. II.''|Y |co-}}
<references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione||''Amore.''|137|riga=si}}</noinclude>{{nop}}
Ella sedeva per l’ultima volta sulla soglia prediletta, guardando minutamente tutti gli oggetti; li salutava ad uno ad uno come persone che non doveva rivedere mai più: «Tazza gentile di porcellana col filetto d’oro, tu mi eri compagna nelle lunghe notti vegliate presso l’inferma; da’ tuoi labbri splendenti bevevo la forza e l’energia. Voi tutti, umili e fidati amici delle pareti domestiche, corone della intimità di famiglia, che tanto bene parlate a chi sa intendere il linguaggio della concordia e dell’affetto, continuate a rallegrare la casa dell’uomo benefico — io ritorno dove non c’è amore, dove non c’è pace, dove ogni cosa è buia, tetra e meschina. Addio, mosche vivaci, brillanti farfalle, ah! voi non mi seguirete — e tu neppure, piccolo grillo, amico dei lieti focolari e della fiamma gioconda. Vuoi venire con me, bel garofano dalle lunghe foglie, dai fiori di porpora? — ma avvizziresti, è vero, laggiù... perchè non c’è aria, nè luce. Addio, dunque! Addio, miei giovani amici... io partirò sola.»
Ella aveva ripetuto a voce, alta: — Partirò sola — e una brusca risposta pronunciata dietro le sue spalle la fece sussultare:
— No — diceva Bruno — non partirà. Chi<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione|138|''Parte terza.''||riga=si}}</noinclude>avrebbe cura di riunire le memorie di ''lei'', le sue vesti che le piacevano tanto, i suoi gingilli, i vezzi e i monili che l’hanno fatta sorridere per così poco tempo?
Si fermò interrotto da uno scoppio di pianto.
Amarilli aderì al pio desiderio. Per volere espresso di Bruno donò a Editta la croce di perle e una quantità d’altre piccole cose. Ella serbò un anellino che aveva appartenuto alla madre di Rachele; questo glielo diede Bruno, soggiungendo: ''Alla sua seconda madre''; pensava forse alla treccia che Amarilli aveva tagliato per lui in quel giorno solenne.
Poi tutto fu chiuso in un armadio come reliquie sante, e Bruno passava i giorni interi colla testa appoggiata a quell’armadio, quasi aspettasse di vederne uscire viva la figlia o di udirsi chiamare per nome.
{{ct|t=1|v=1|⁂}}
— Sei pronta, Editta? Noi dobbiamo alla fine partire. Ho un presentimento che mio fratello sia ammalato; vorrei essergli al fianco.
Nel pronunciare queste parole Amarilli sembrava calma e risoluta. Le sue lagrime, se aveva<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione||''Amore.''|139|riga=si}}</noinclude>pianto, erano già asciugate, e i suoi occhi tanto dolci splendevano di energia. Aveva lottato con sè stessa e aveva vinto.
Editta rispose:
— Sono pronta; ma in casa Spiccorlai non vengo.
Che cosa avrebbe fatto la povera orfanella? Quali erano le sue intenzioni? Non lo sapeva. Pur di non ritornare in quella casa era decisa a sopportare ogni stento. Anche in ciò l’energia del suo sangue non si smentiva; il corpo piegava alla necessità, l’orgoglio no.
Facevano assai tristamente i loro fardelli di nascosto di Bruno, che non voleva lasciarle partire.
Il lutto di Editta era cessato, pure lo continuava per un delicato riguardo verso l’amica morta. Mesta gramaglia! ella pensava, dovrò io portarti eternamente? Sì, perchè ogni gioia è finita per me, quest’abito è meno nero del mio avvenire.
Il signor Giovanni era venuto tutti i giorni dopo la morte di Rachele, ma in mezzo alla generale tristezza egli pure era triste, e non parlava. È ben vero che i suoi occhi si posavano ansiosi e quasi interrogatori sulla fanciulla; seppe<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione|140|''Parte terza.''||riga=si}}</noinclude>finalmente i suoi progetti di partenza. Edita glieli comunicò alla vigilia, intanto che Amarilli leggeva un giornale al signor Bruno, per distrarlo e per compiere fino all’ultimo il suo dovere.
Editta e Giovanni si trovavano in piedi sotto il portico. Un fiore di verbena pendeva dalla cintura della fanciulla; le piccolissime stelle di cui era composto staccandosi ad ogni leggero movimento cadevano per terra. Giovanni le raccoglieva una alla volta in silenzio e le teneva strette nel suo pugno.
— Va via... per sempre? — domandò ad un tratto, facendosi pallido.
— Non so.
— È almeno felice?
— Io non posso avere felicità, nè la chiedo ad alcuno.
C’era dell’amarezza e della superbia in queste parole. Giovanni, che volle scorgervi un sentimento più riposto, si sentì preso da infinita tenerezza e le disse con voce tremante:
— Perchè parla così?
Una gran luce usciva dagli occhi di Giovanni. Editta lo guardava incerta e curiosa.
— Perchè parla così? — ripetè il giovane prendendo l’ultimo fiorellino di verbena che era<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione||''Amore.''|141|riga=si}}</noinclude>caduto sul vestito della fanciulla e accostandolo alle labbra — è una professione di scetticismo che non può avere nel cuore.
— Sa lei che cosa c’è nel mio cuore? — domandò Editta, buttando via il gambo della verbena.
— No — rispose semplicemente Giovanni. — Darei però metà della vita per saperlo.
L’altera fanciulla volse altrove il capo. Giovanni, fremente di passione, continuò:
— Ella sa bene che io l’amo.
Editta voleva parlare, ma il suo cuore era in sussulto, il cervello non le dava nessuna idea, nè la lingua una sola parola.
Egli le prese finalmente le mani — tutte e due — e Editta dovette sentire una lagrima calda, piena d’amore e di timore, caderle sulle dita prigioniere.
— Non ho ricchezze da offrirle, ma le offro tutto me stesso. Dica, vuole corrispondermi? Vuole essere mia moglie?
Con uno slancio vero, sincerissimo, Editta strinse quella mano leale, che si stendeva verso di lei per soccorrerla, per proteggerla.
— Grazie — disse — ella è un nobile cuore!
Era commossa. Sentiva tutto il valore di una<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione|142|''Parte terza.''||riga=si}}</noinclude>offerta che le assicurava l’avvenire; quella prova certa di essere amata la riempiva di una dolce ebbrezza; ma il pensiero di vincolarsi per sempre ad un uomo inferiore, di rinunciare a’ suoi sogni grandiosi, alle sue poetiche speranze, di fermare a un tratto i voli della sua immaginazione e mettersi prosaicamente a cucir camicie a fianco di un marito che allevava galline....
In una vivida percezione del futuro le parve di scorgere Giovanni a piedi nudi in un tino d’uva, e côlta da un pazzo terrore, esclamò:
— Non siamo fatti l’uno per l’altra! Creda, signor Giovanni, le sono riconoscente... forse anch’io... ma è inutile farsi illusione; le nostre vie sono tracciate in un senso opposto; non saremmo felici. No.
Egli non disse una sola parola. La guardò intensamente con uno sguardo che dovette passare da parte a parte il cuore di Editta, perchè le forze le mancarono e si lasciò cadere sopra un gradino singhiozzando.
Il signor Giovanni si allontanò a passi lenti, mal sicuri, come un ubbriaco. Urtò una colonna, poi infilò una porta e sparve.
Amarilli dal salotto interno si accorse che qualche cosa di nuovo era successo sotto il portico;<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione||''Amore.''|143|riga=si}}</noinclude>uscì fuori; vista la nipote accasciata su quel gradino colle mani sulla faccia, le si fece accanto chiamandola a bassa voce.
Nel riconoscere Amarilli Editta balzò in piedi, le prese il braccio con furia e la trascinò dalla parte del giardino. Là raccontò tutto piangendo a calde lacrime.
Amarilli l’ammonì di essersi condotta troppo leggermente, precipitando una risoluzione che metteva in giuoco due vite. Le disse che il signor Giovanni era un ottimo giovane, rispettabile e gentile, soggiunse che non le sarebbe mai più capitato un partito simile; pensava infine come la brusca risposta doveva ferire quel povero cuore e che opinione egli avrebbe recata di lei.
Editta piangeva sempre. Amarilli le disse ancora:
— Se non t’incontrava, dovevi assumere fin dal principio un conteggio diverso e non permettergli di arrivare al punto di una dichiarazione. Più volte io ho sorpreso il tuo sguardo che ricambiava il suo, più volte ti ho vista arrossire; come sarebbe avvenuto se non l’amavi?
Editta si fece tanto vicina a sua zia da metterle la bocca sull’orecchio: allora Amarilli udì queste parole mormorate come un sospiro:
— L’amo.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione||''Amore.''|145|riga=si}}</noinclude>{{nop}}
La sera passò malinconica.
Editta si ritirò presto. Aveva tante cosucce da fare, tanti piccoli preparativi per la partenza; eppure, giunta nella sua camera non diede neppure un’occhiata al baule scoperto ed alle vesti piegate giacenti sulle sedie. Aperse la finestra e guardò fuori nell’oscurità della notte.
Gli alberi del giardino erano immobili; nessun uccello zittiva sotto i rami; nessun gufo batteva l’ala trepida rasente i tetti. Un solo rumore lontano, monotono, rompeva l’altissimo silenzio.
Editta ascoltò quel rumore.
Aveva caldo. Il venticello che, accarezzandole le guancie, vi lasciava alla superficie una sensazione fresca come di foglia bagnata, non penetrava al di là dell’epidermide; nelle vene il sangue le scorreva bollente e ribelle.
Ascoltava con attenzione angosciosa quel rumore, che ora pareva un canto, ora un lamento, ora una preghiera — ed ella sapeva bene che cosa fosse.
Si spinse con tutto il busto sul davanzale della finestra tendendo le braccia quasi volesse implorare qualcuno, ed al suo tacito scongiuro rispose malinconica l’eco della Sonna.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione|146|''Parte terza.''||riga=si}}</noinclude>{{nop}}
— O Giovanni! — mormorò la fanciulla, mentre due lagrime inutilmente represse le scorrevano dagli occhi; e le cadenze meste e gravi del torrente sembravano ripetere: Giovanni!
Stette ancora un pezzo alla finestra, assorta nel magico incanto, poi chiuse i vetri, spogliatasi per metà si gettò sul letto, dove un sonno rapido la colse. Ma al primo raggio dell’aurora era già desta.
Balzò in piedi, guardò l’orologio e con una vivacità febbrile ravviò alla lesta i capelli, l’abito; tese l’orecchio nel giardino quasi buio ancora, sprofondato nel silenzio. Giunse le mani e davanti all’alba che spuntava recitò questa brevissima invocazione:
— Mio Dio, siete voi che lo volete. Aiutatemi!
Girò lentamente la molla dell’uscio, lo rinchiuse con precauzione ed uscì.
Quella mattina la vecchia Margii, appisolata nel suo letto fra le dolcezze dell’ultimo sonnellino, avrebbe giurato che qualcuno apriva la porta di casa; ma fatta persuasa dalla riflessione che nessuno in famiglia aveva l’abitudine di levarsi così presto, si riaddormentò placidamente.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione||''Amore.''|147|riga=si}}</noinclude>
{{ct|t=1|v=1|⁂}}
Editta intanto correva sui verdi sentieri della Sonna, umidi di rugiada. Alcune fragole d’autunno rosseggiavano luccicanti sotto le goccioline, come giovani spose ornate di brillanti; il loro profumo si mesceva a quelli della menta e del sambuco.
Un vapore leggero si alzava dalla terra; la valle destandosi rimoveva al pari di una ninfa i suoi veli ed usciva nuda incontro al sole. Dalle colline le querce si incurvavano scotendo i lucidi rami per specchiarsi nel torrente. Una mezza luce soavissima, stemperata di rosa e di viola pallido, ondeggiava su tutto quel verde così fresco, così folto; l’aria era tranquilla, il paesaggio muto; i sentieri, nella rugiada della notte, si erano rifatta una verginità che le nascenti margherite e i panporcini selvatici imbalsamavano; Editta credeva di inoltrarsi per i viottoli del paradiso.
La decisione che aveva presa le metteva l’orgasmo addosso; non correva più, volava; il cuore le batteva come una campana a martello. Oltrepassò il mulino senza fermarsi, per evitare le interrogazioni della mugnaia che doveva rimanere<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione|148|''Parte terza.''||riga=si}}</noinclude>sorpresa certamente nel vederla in giro a quell’ora.
Incominciò a salire la collina lungo i noccioli, i cui rami sottili le sferzavano i capelli, umettandoli di rugiada. Giunse al punto in cui la Sonna scompariva, e stette ferma qualche minuto ad ascoltarla come aveva fatto la sera prima, e le parve ancora che ripetesse: Giovanni!
Colle guance accese e i denti stretti tornò a salire, finchè vide la casetta bianca; allora le mancò il fiato e si sorresse contro un albero.
I colombi tubavano sul cornicione del tetto quasi a darle il benvenuto, e spiegando le candide ali scendevano fino alla rosea zona degli oleandri, rincorrendosi con graziosi trilli d’amore. Grandi farfalle dorate svolazzavano in silenzio dando opera al giornaliero lavoro e piccoli moscerini bruni uscivano di sotto ai cespugli chiedendo anch’essi una porzione di sole e di fiori.
Tutto era gaio e sereno intorno alla casetta; i grandi e i piccoli vi coglievano una eguale somma di felicità; l’uomo in buona armonia colla natura vi si era fatto un amico di ogni essere e di ogni cosa.
Editta si nascose dietro gli oleandri, tremante d’emozione, ma ferma nei suoi propositi e come<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione||''Amore.''|149|riga=si}}</noinclude>un’ispirata martire raggiante dell’umiliazione che stava per subire.
Era uno slancio troppo poetico e troppo poco ragionato quello che spingeva Editta, ma a chi perdoneremo la poesia e lo sragionamento se non vogliamo perdonarli al divo Amore?
Dall’interno della casa si udivano i mille piccoli rumori che annunciano il principio della giornata. Usci aperti, imposte sbattute, mobili rimossi, legna spezzata, e più alto e più forte l’allegro chiocciare delle galline che copriva i lunghi sbadigli del bracco legato ancora alla sua catena.
Una finestra si schiuse e dietro la modesta tenda apparve per un istante la figura del proprietario. Editta lo vide e fu sul punto di fuggire. La sua posizione le sembrò, oltre che arrischiata, ridicola. Uscì dagli oleandri e mosse alcuni passi giù per la china; avrebbe voluto essere sotterra, poichè al di sopra non poteva più vivere, poichè non sapeva amare. Sentiva il cuore pesante, pieno com’era di rimorsi e di volontà in lotta fra di loro. Si lasciò cadere sull’erba, in ginocchio; allora giunse le mani, e appoggiandovi sopra la faccia pianse.
Le foglie secche dei noccioli, stridendo {{Pt|die-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione|150|''Parte terza.''||riga=si}}</noinclude>{{Pt|tro|dietro}} a lei, le fecero sollevare gli occhi. Giovanni le stava vicino, pallido, immobile. Le tracce di una notte insonne solcavano le sue guance; i suoi sguardi mestissimi portavano l’impronta di un immenso dolore nobilmente sopportato.
Si guardarono entrambi senza aprir bocca; lei vermiglia in mezzo alle lagrime, lui bruno sotto la pelle bruna. Fu un momento solo, ma vi concentrarono l’eloquenza di due secoli.
Chi parlò pel primo? Chi tese le braccia? Chi domandò? chi rispose? Quale fu il più felice fra i due?
Rotte parole e sospiri, strette di mano da non finire mai, riempivano la lacuna che il bacio ognora tremante sulle loro labbra e mai concesso lasciava nei loro desiderii. No, mai concesso, neppure in quegli istanti di dolcissimo delirio; mai chiesto, quantunque la bocca amata sfiorasse quasi la sua, ed egli dovesse chiudere gli occhi per frenarsi.
— Giovanni — disse la fanciulla con accento di nobile modestia — darle il mio amore era poco; le ho sacrificato il mio orgoglio, e per questo sacrificio spero di essere perdonata.
Egli volle interromperla, ma internamente era contento della confessione; il suo maschio cuore<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione||''Amore.''|151|riga=si}}</noinclude>gustava la voluttà di aver vinto un nemico degno di lui.
— Ho compiuto questo pellegrinaggio d’amore — continuò Editta esaltandosi — per castigare il mio orgoglio con un atto che il mondo non approverebbe, che la società segnerebbe col marchio del suo disprezzo; ma ho fatto il mio dovere con me stessa; mi sono rialzata agli occhi di colui che amo, per meritare il suo perdono e la sua fiducia...
— E la sua tenerezza per sempre, o Editta, mia amata e temuta Editta! — rispose Giovanni sorridendo, felice di una dolce e profonda ebbrezza.
Colsero due oleandri e se li scambiarono.
Una bellissima pesca pendeva da un alberello. Giovanni la staccò dividendola, ne porse mezza alla fanciulla.
— «Tu mangerai il mio pane... — voleva fermarsi, ma la citazione così spezzata non gli piaceva, e continuò arrossendo impercettibilmente: — e poserai la tua testa sul mio petto.»
— Così sia, Giovanni — disse la fanciulla coll’accento grave di chi pronunzia un giuramento.
Colle braccia intrecciate, guardandosi fino in fondo alle pupille, commossi, in estasi, discesero<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione|152|''Parte terza.''||riga=si}}</noinclude>verso la Sonna e si fermarono per simultaneo impulso a quel posto dove si erano incontrati per la prima volta.
— Bell’acqua della Sonna — esclamò Editta — tu sei stata il mio Giordano; nel tuo puro lavacro ho cancellata la colpa originale!
— Commemoriamo una sì felice conversione — disse Giovanni in tono ilare, raccogliendo un po’ d’acqua colla mano e spruzzandola sulla fronte della fanciulla: — Siate battezzata in nome vostro e mio e dell’amore che ne congiunge!
Il sole aveva toccato la cima dei colli; tutta la valle splendeva. Era un incanto.
— Ecco là una rondine che ci abbandonerà fra poco — disse Giovanni alzando gli occhi al cielo; — essa cercherà un’altra rondine, e anderanno insieme a fabbricare il loro nido lontano. Ho trovato anch’io la mia rondinella, e il nostro nido lo poseremo in questa valle. Che ne pensa Editta?
Non dissero più altro; ma le loro mani non si disgiunsero finchè furono in vista delle prime case, e i loro cuori stretti il più possibilmente vicini non cessarono un solo istante dal ripetersi che si volevano bene.
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<noinclude><pagequality level="4" user="1per2" />{{RigaIntestazione|154|''Parte quarta.''||riga=si}}</noinclude>{{Pt|tello|fratello}} non le usciva di mente; pare proprio che qualche cosa di vero ci debba essere nei presentimenti, perchè il vecchio Spiccorlai tirava l’ultimo fiato quando Amarilli pose piede nella tana di porta Garibaldi.
La bella Rosa lo assisteva amorosamente, aiutata da Renato; per le premure riunite di questi amabili personaggi il vecchio mago morì quasi da cristiano, su un letto decente, con a fianco una boccia d’acqua e un crocifisso sul petto.
La molla che aveva fatta scattare la sensibilità riposta dei due compari — poichè il lettore sarà ben persuaso che non era naturale — l’aveva mossa lui, il furbone, colle sue dita da moribondo. Appena si fu accorto che tutte le forze mancavano alla sua carcassa arruginita, chiamò la moglie, e, mostrandole il famoso tavolino a scacchiera, le disse:
— Se sei buona, qui c’è un piccolo tesoro, e m’intendo io! Donne, cavalli, orologi; quando sarò morto vedrai.
Tanto bastò. La prospettiva del tesoro attivò così bene i nervi simpatici della signora Rosa che non abbandonò più nè di giorno nè di notte il suo legittimo consorte e lo circondò delle cure più generose, somministrandogli brodo di gallina<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 195 —|}}</noinclude>{{Pt|sto|questo}} non avesse preteso denaro in cambio della sua falsità? — No! — gridò la coscienza. Ed egli sorrise amaramente, ma senza più sdegnarsi nè contro il Porri, nè contro se stesso.
Sentì che quella mattina si era avviato verso le sue ''tancas'' per castigare il Porri, non della falsità, ma della verità detta al giudice. E sino a pochi momenti prima egli non aveva chiaramente distinto la debolezza della sua azione; anzi, uscendo da casa sua, gli era parso d’andar a compiere un atto di giustizia.
Sempre così nella vita!
Inconsapevolmente o per malignità, individualmente o riuniti in consesso civile, gli uomini errano nel giudicare sè stessi e gli altri.
Nel formulare questo pensiero, egli si credè illuminato da una gran luce di verità; ma invece di provarne amarezza sentì aumentare il senso di gioia che tutto lo animava; gli parve che il suo spirito si purificasse, diventando incorporeo e luminoso; e neppur rapidamente lo sfiorò il dubbio che anche in quel momento egli s’ingannasse, e, giusta la sua teoria, fosse fallibile giudice di sè e degli altri.
Ma un incidente abbastanza volgare lo scosse. Era il rotare d’una carrozza sullo stradale: s’udiva lo schioccar della frusta e il grido del vetturino.
I cani si levarono abbaiando. Stefano si sollevò e volse la testa; ma la vettura passò {{Pt|rapi-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||— 196 —|}}</noinclude>{{Pt|damente|rapidamente}}, e al disopra del parapetto egli non vide che il serpentino volteggiar della frusta grigia: poi il rumore delle ruote andò smorzandosi lentamente; e di nuovo imperò per tutta la valle la selvaggia e triste corsa del torrente.
Ma l’incanto era rotto, Stefano perdette quell’intima superiorità di sensazioni che per qualche istante l’aveva reso felice e puro; e rimontato a cavallo riprese la sua via un po’ pensieroso e triste, ma tuttavia invaso da un resto di dolcezza, da un ben forte e ben formulato desiderio di giustizia e di bene.
Sullo stradale fermò il cavallo vicino al paracarri, ascoltando ancora il romore delle acque, e guardando il soleggiato angolo ove si era riposato, quasi ad imprimersi negli occhi la fisionomia del luogo che aveva operato in lui il meraviglioso incanto.
Dall’alto il luogo gli parve diverso, e nella musica del torrente non sentì più che una nota monotona e melanconica; ma non ne provò dolore, perchè entro di sè sentiva ancor indelebile la profonda impressione di quell’alto cielo, di quel motivo musicale che svelava tutte le dolcezze e le grandezze, i sentimenti di scontentezza e le aspirazioni di giustizia, i grandi dolori e le fiere gioie della grande anima sarda.
I cani correvano sempre; un momento sparvero, poi ricomparirono più in alto, più in alto ancora, finchè si fermarono sull’estremo {{Pt|gra-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 196 —|}}</noinclude>{{Pt|damente|rapidamente}}, e al disopra del parapetto egli non vide che il serpentino volteggiar della frusta grigia: poi il rumore delle ruote andò smorzandosi lentamente; e di nuovo imperò per tutta la valle la selvaggia e triste corsa del torrente.
Ma l’incanto era rotto, Stefano perdette quell’intima superiorità di sensazioni che per qualche istante l’aveva reso felice e puro; e rimontato a cavallo riprese la sua via un po’ pensieroso e triste, ma tuttavia invaso da un resto di dolcezza, da un ben forte e ben formulato desiderio di giustizia e di bene.
Sullo stradale fermò il cavallo vicino al paracarri, ascoltando ancora il romore delle acque, e guardando il soleggiato angolo ove si era riposato, quasi ad imprimersi negli occhi la fisionomia del luogo che aveva operato in lui il meraviglioso incanto.
Dall’alto il luogo gli parve diverso, e nella musica del torrente non sentì più che una nota monotona e melanconica; ma non ne provò dolore, perchè entro di sè sentiva ancor indelebile la profonda impressione di quell’alto cielo, di quel motivo musicale che svelava tutte le dolcezze e le grandezze, i sentimenti di scontentezza e le aspirazioni di giustizia, i grandi dolori e le fiere gioie della grande anima sarda.
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 197 —|}}</noinclude>{{Pt|dino|gradino}} del sentiero, campeggianti sull’azzurro del cielo.
Sentendoli abbaiare, Stefano pensò che qualche persona saliva forse l’altro versante, e guardò. Due dei cani sparvero, ma Josto, dal nero profilo, rimase lassù, abbaiando e aspettando il padrone.
Chi saliva, al di là?
Egli battè il fianco del cavallo, e l’animale affrettò il passo; ancora una breve giravolta, ancora un’aspra salita ed ecco la cima. Josto abbaiava sempre, e Stefano fischiò per farlo tacere, pensando che a quell’altezza, in quell’ora radiosa del mezzodì, fra tanto splendore di paesaggio e d’orizzonti, chiunque fosse che veniva incontro, o un pastore a piedi o un ricco viandante a cavallo, aveva diritto di salutare e d’esser salutato. Josto tacque.
Contemporaneamente a Stefano, apparve sulla scintillante linea dell’ultimo gradino, prima la testa, poi il busto e infine tutta la persona forte e snella di un paesano: e le due figure, di cui quella a cavallo parve una equestre statua di bronzo, campeggiarono sul vuoto turchino del cielo, poi sparvero, calarono dalla parte contraria ond’erano salite.
Appena vedutisi, il paesano e Stefano impallidirono, e il rapido sguardo che si scambiarono fu un tragico poema.
Ma di tutte le sensazioni Stefano giunse a<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 198 —|}}</noinclude>afferrarne una sola, e precisamente quella buona e nobile di pace e d’equità che l’aveva seguito su dalla valle sottostante: e benchè sotto il travestimento da paesano riconoscesse Filippo Gonnesa, salutò.
Ma lo colse tale un turbamento, un forte palpitare, che non s’avvide se il nemico aveva o no risposto al saluto; e solo dopo un certo tratto di strada ritrovò perfettamente tutte le sue percezioni. Allora si stupì, si sdegnò, sentì tutto il sangue salirgli ardente al volto: e di nuovo le sensazioni feline e violente vollero levarsi ribelli, rinfacciandogli quel saluto come una viltà; ma ancora una volta s’impose, solenne e limpida come l’estesa visione del gran cielo sereno, del gran {{Ec|peasaggio|paesaggio}} or confinante con le cerule montagne della costa, la nobile idea di giustizia e di pace che lo aveva conquiso nella valle e seguito su per la ''Scala dei gigli''. ''Ianna ’e bentos'' (Porta dei venti), com’era chiamata l’estrema cima del sentiero, s’allontanava ancora. Scendendo lentamente il versante orientale, mentre il cavallo andava ancor più cautamente, Stefano pensò per la prima volta che il Gonnesa poteva essere innocente del delitto imputatogli. Gli restava vivissima negli occhi l’impressione del limpido e profondo sguardo direttogli rapidamente da lui.
Era egli innocente?
Doveva forse esserlo, perchè, se colpevole una<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 199 —|}}</noinclude>volta, ora sarebbe rimasto lassù, sulla ''Porta dei venti'', e avrebbe fulminato il suo nemico e persecutore.
Invece s’era tirato da una parte per lasciar passare colui il cui saluto non poteva che inasprirgli le più sanguinanti piaghe del cuore, e poi era disceso senza voltarsi, senza diffidare, senza porsi in atto d’offesa o di difesa; e il suo sguardo, benchè rapido e sorpreso, era stato così limpido e sereno, che anche Stefano, nel suo turbamento, era sceso senza ombra di diffidenza o di timore.
Dopo circa mezz’ora egli passò il varco della sua grandissima ''tanca'', che scendendo giù per tutto il resto della montagna si stendeva poi in fertilissimi pascoli per un tratto della sottostante pianura. Meno aspro e meno arido dell’opposto, questo versante era vôlto ad oriente, in faccia alle lontane montagne che guardavano il mare, fra le quali spiccava, dolcemente azzurro nella sua chiara tinta calcarea, Monte Bardìa: boschi d’elci e fitte brughiere coronavano la ''tanca'' degli Arca, chiusa da muriccie di schisto le cui lastre brillavano come frammenti di metallo bruno; il ''nuraghe'', che dava il nome al territorio, consisteva solamente in un mucchio di grossi macigni neri che parevano passati al fuoco.
Il Porri, che aveva subaffittato la ''tanca'' ritenendo per il bestiame i pascoli meno fertili<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 200 —|}}</noinclude>e meno facili, stava appollaiato come un avvoltoio in una capanna vicina al ''nuraghe'': di là dominava regalmente su tutta la ''tanca'' e i sottoposti pastori: aveva porci, capre e pecore; aveva una fila d’alveari addossati al muro dell’ovile, e inoltre dissodava certi aspri pendii per seminarvi orzo e frumento.
I cani di Stefano si diedero a scorrazzare allegramente fra le macchie, e dopo un poco Josto penetrò nella capanna, fiutando la pietra del focolare, e sollevò la cenere polverosa. Il grosso cane fulvo legato presso la capanna cominciò ad abbaiare cupamente, con un latrato rauco che destò gli echi sonori dell’aspro paesaggio; ma nessuno apparve.
— Dove diavolo è quel mascalzone? — domandò Stefano smontando. Senza togliergli la sella perchè sudato, legò il cavallo ad un elce: fischiò, attese, ma nonostante i continui e potenti latrati del cane, nessuno compariva. Allora avanzò per una breve radura in cerca del pastore: sulle roccie apparivano le capre bianche dalla lunga barba appuntita; guardavano con grandi occhi neri umidi, e vedendo il giovane signore si arrampicavano ancor più in alto, andando a brucare gli estremi cespugli dei dirupi: anche un branco di porci magri, neri, grigi e gialli, che rovistavano col muso un tratto della radura, sparirono grugnendo.
Finalmente s’udì una voce che gridava per<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 201 —|}}</noinclude>radunare i porci sbandati: — Oh, oh! Och, och! ’Zo, ’zo!
— Ecco l’amico, pensò Stefano, — vediamo che viso fa nel vedermi.
Poco dopo incontrò il Porri, più che mai sporco, con la barba che sembrava proprio una foresta arrossata e ingiallita dai venti autunnali, e la berretta calata fin sugli occhi.
— Oh, compare don Isténe, oh, che Dio lo salvi, oh, che buon vento l’ha portato qui! — cominciò a gridare, cessando di batter le mani e di radunar i porci; ma bastò a Stefano un’alzata di ciglio per accorgersi che la sua presenza turbava il pastore.
— È un’ora che vi cerco! — disse rudemente. — Dove diavolo v’eravate ficcato? Vi è della caccia da queste parti?
Accorgendosi, a sua volta, della poco lieta cera del padrone, che forse aveva incontrato e indovinato donde proveniva Filippo Gonnesa, il pastore volse l’argomento in suo favore.
— Se fosse venuto un’ora fa, sì che ne avrebbe trovato buona caccia! — disse ridendo malignamente. — Non ha incontrato nessuno?
— Io? Nessuno! — rispose Stefano freddamente.
— Non sa chi c’è stato? ''L’aquila nuova'' (''s’abile noa'', così si chiamava il Gonnesa, il cui padre era soprannominato ''l’aquila antica''.) — È venuto a minacciarmi che guai se {{Pt|pronunzia-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 202 —|}}</noinclude>{{Pt|vo|pronunziavo}} il suo nome assieme a quello di Saturnino Chessa, buon’anima, il diavolo l’abbia sotto il suo uncino. E cosa mi puoi fare, gli dissi, facendomi più piccolo d’un capretto. ''S’abile non cassat muscas''<ref>Come il noto proverbio latino: ''aquila non captat muscas''.</ref>. E risi, ma in coscienza mia che il mio riso era giallo come lo zafferano. Egli mi disse: L’aquila t’insegnerà il modo di vivere, vecchio falco! e se ne andò tuonando e lampeggiando. Lo vede bene, compare don Isténe, io sono un uomo rovinato, in qualunque modo mi comporti.
Stefano l’aveva ascoltato svogliatamente, voltandosi di qua e di là, buttando lontano col piede una pietruzza, fischiando e chiamando i cani.
Sicuro della falsità e malignità del pastore, si sforzava invano di crederlo sincero per tenersi sulla via dei buoni sentimenti provati in quel giorno; ma faceva grave violenza a se stesso per tenersi calmo.
— Infine, — disse, — vostra moglie non è venuta a dirci che avete deposto in modo da non procurarvi malanni? Che diavolo volete che vi dica? Comportatevi come meglio vi piace. Son venuto per cacciare, oggi: non mi rompete le tasche con queste storie, delle quali ne ho già abbastanza quando sono in paese. Non<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 203 —|}}</noinclude>vi è dunque nulla quassù? Neppur un’aquila davvero?
— Ah! Ah! — rise il pastore; ma probabilmente con un altro genere di riso giallo. — Altro che ce ne sono! Ma se avesse incontrato quella, eh?
— Gelsomina! — gridò acutamente Stefano, vedendo il cane correr dietro un povero porcellino spaventato.
— Lo prende per un cinghiale! Ohc! ohc! tè! tè! — gridò il pastore battendo le mani. Poi si volse ancora al padrone: — Se avesse incontrato quell’aquila?...
— Avrei fatto quel che mi pare e piace. E così vi prego di far voi. Il resto lo farà la giustizia. Andate e date qualche cosa al cavallo. Ma non c’è dunque nessuno, da queste parti?
— I miei compagni son tutti dispersi qua e là, che il diavolo li disperda. Io dissodavo là sotto; ma ho un bue malato e temo mi muoia. Ho mandato mio figlio nei salti d’Orgosolo, in cerca del ''lentischio vero'', e credo tornerà stasera.
— Cosa è questo «lentischio vero»?
— Oh che non lo sa? — disse il Porri convinto. — È una delle poche macchie di lentischio sacro che si trovano nell’isola di Sardegna: ha le foglie grandi e lucenti, che guariscono le malattie del bestiame.
— Oh chi diavolo l’ha consacrato? Chi gli<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 204 —|}}</noinclude>
diede tanta virtù? — chiese Stefano, ma non rise, tanto sapeva inveterate nel Porri e negli altri pastori le antiche superstizioni tramandate dalle tradizioni popolari.
— Chissà se mio figlio lo troverà! — disse il pastore, guardando in lontananza verso le falde del monte Atha. — Io ci passai cinque anni fa e ne tolsi un mazzo di foglie che conservai, e mi servivano efficacemente; ma poche, che ancora ne possedevo, mi furono rubate, che il demonio gli rubi l’anima e il corpo a chi le prese. Ho mandato mio figlio Bòre, ma temo non che trovi il lentischio, perchè i maligni pastori delle vicinanze non solo non lo indicano, ma sviano quelli che son presso a trovarlo. Dorme qui lei, stanotte? — domandò poi, vedendo Stefano poco attento al suo discorso.
— Se potessi trovar qualche cosa, sì! Ho buscato solo una pernice ed ho vergogna a tornarmene così.
Il Porri si trovò mortificato di non potergli offrire buona caccia: per mezzo di magici scongiuri (''verbos''); egli e i sottostanti pastori avevano ''legato'', cioè impedito le aquile e gli avvoltoi di avvicinarsi alla ''tanca'' per rapire gli agnelli, i capretti e i porchetti: con i medesimi scongiuri, e deponendo di tratto in tratto sui muri foglie d’oleandro colte la notte di San Giovanni, avevano allontanati i cinghiali, le<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 205 —|}}</noinclude>
volpi e le faine che venivano negli ovili per compiervi la stessa rapina.
Stefano si trovava dunque in pieno impero di superstizione, di magie e malie pastorali più o meno efficaci; era quindi inutile sperare buona caccia, a meno che non si contentasse di querule gazze che mettevano la nota azzurra delle loro ali sulle cime verdi-giallastre degli elci selvaggi, o di grossi mosconi iridati e di larghe strane farfalle nere macchiate di sangue e di bronzo che volteggiavano intorno ai cespugli intricati di fresche vitalbe.
Tuttavia non partì. Il luogo lo incantava, proseguendo ad operare in lui il misterioso fascino incominciato a sentire nell’opposta valle. Egli continuava a sentirsi felice e sereno, si obliava, godeva, amava la vita e gli uomini, rappresentati in quel momento dal selvaggio e ipocrita pastore, poche ore prima odiato e disprezzato. Più che mai Stefano sentiva che il Porri, in tutto ciò che diceva, esagerava con malignità, adulazioni e falsità; tuttavia non si sdegnava, talvolta lo ascoltava con piacere, tal altra lo credeva sincero.
Essendosi il pastore allontanato per accomodare il cavallo, egli richiamò a sè i cani e proseguì per il sottilissimo sentiero tracciato attraverso il verde tenero e le pietre della radura, finchè giunse presso le macchie che il Porri estirpava per dissodare il terreno da {{Pt|se-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 206 —|}}</noinclude>
{{Pt|minare|seminare}}, e dove, sotto un riparo di frasche, giaceva steso su uno strato di paglia il bue malato. L’altro bue pascolava un po’ più giù, ma di tratto in tratto scuoteva le corte orecchie pelose, e mandando un leggero vapore dalle narici e dalla bocca ruminante volgeva la testa, quasi per guardare pietosamente l’infermo compagno.
Rasentando col capo le frasche del riparo, Stefano si curvò e stette a guardare. Vedendo che il bue, un magnifico animale giallo dal muso bianco, respirava affannosamente, con gli occhi socchiusi e la bocca orlata di bava, egli indovinò che la malattia era una forte infiammazione viscerale, e appena il Porri si fece vedere gli disse:
— Fareste bene a dargli un po’ di olio, invece di praticare certe sciocchezze.
Ma il pastore aveva dato al bue e l’olio e tante altre cose. Invano.
— Sa lei, don compare, da quando è malato? Le dico la verità, come se mi trovassi alla presenza di Dio.
— Se pure a Dio direste la verità! — disse Stefano, sollevando una mano; e si preparò ad udire un’altra sciocchezza. Infatti il Porri gli confidò che, dieci giorni prima, mentre usciva dal villaggio col giogo che trascinava l’aratro, aveva incontrato il vecchio Gonnesa.
— Dove vai, Arcangelo Porri?<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 207 —|}}</noinclude>{{nop}}
— In campagna.
— E questo giogo color di miele dalla faccia bianca come latte te l’hanno dato forse i tuoi padroni per la tua testimonianza falsa?
— Aquila antica, io non ho padroni, e non vendo l’anima mia per due bestie cornute.
L’altro rise stridendo, il Porri disse degli insulti e il vecchio imprecò:
— Che tu lasci le ossa delle tue bestie e le tue agli avvoltoi di ''Nuraghe ruju''.
Subito arrivati, il bue s’era ammalato.
Il Porri raccontò questa storia lagrimosa con tanta passione, guardando con tale accoramento la povera bestia, che Stefano non sapeva se doveva sdegnarsi, o ridere, o aver pietà. Per tutta la sera, mentre il pastore attendeva con ansia il figliuolo, egli percorse la vasta ''tanca'', sparando inutili fucilate che spaventarono le capre e facevano correr disperatamente i porci: visitò tutti gli ovili, e verso il tramonto risalì la montagna, fermandosi ogni tanto per contemplare il meraviglioso quadro che lo circondava. Il nitido tramonto autunnale accendeva di rosso le montagne della costa. I boschi giallastri, le macchie, i cespugli, le roccie, e ogni macigno, ogni pietra, ogni stelo, proiettavano lunghe ombre dolci e melanconiche giù per le chine solitarie.
Stefano seguiva la riva del ruscello, le cui acque, gialle al tramonto, passavano in un<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 208 —|}}</noinclude>
alveo di argento brunito; cento piccoli rumori sfumati — il lieve mormorìo del ruscello, il tintinnìo delle capre e delle pecore, l’acuto gracchiare delle gazze, qualche latrato di cane, il rumore cadenzato della zappa del Porri che estirpava le radici legnose del lentischio — animavano l’immenso silenzio, la gran pace solenne del tramonto.
Egli saliva sempre: era stanco, preso dalla misteriosa melanconia del luogo e dell’ora; non aveva trovato caccia, non aveva fatto nulla, eppur non si pentiva della giornata trascorsa. Anzi, confrontandola agli altri suoi innumerevoli giorni perduti, gli sembrava una giornata di lavoro e di lotta; non sapeva di che lavoro, non sapeva di che lotta, ma sentiva d’aver acquistato e conquistato qualche cosa di grande e buono che viva gli manteneva nel petto la calda e forte soddisfazione di se stesso, cominciata a provare sotto i selvaggi ulivi della valle opposta.
A un certo punto vide camminargli davanti un ragazzo alto e tarchiato, le cui forme robustissime gonfiavano le vesti un po’ lacere e strette; aveva gli scarponi in mano e i grossi piedi avvolti in stracci; camminava a lunghi passi, e la sua figura oscura risaltava vivamente sullo sfondo verdognolo della china.
Poco prima d’arrivare alla radura, il ragazzo si fermò, fischiò, e spinse in avanti un gruppo<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 209 —|}}</noinclude>
di pecore pascolanti, che s’avviarono stupidamente l’una presso l’altra, col muso a terra, e dopo aver formato una lunga fila si fermarono, si ristrinsero, si aggrupparono di nuovo, formando una macchia giallastra a chiazze nere; poi ripartirono a rilento, spandendo per la china la rustica melodia dei campanacci. E Stefano, che in quel gruppo guidato dalla oscura figura del mandriano, in quel fondo di paesaggio alpestre, in quell’ora dolcemente rossa del tramonto, ritrovava profonda e viva la suggestione artistica dei bei quadri del Segantini, andò dietro il ragazzo finchè lo raggiunse e lo riconobbe.
Era Bore Porri, un bellissimo adolescente rosso, ritornato poco prima dalla ricerca del sacro lentischio. Il pastore attendeva la completa scomparsa del sole per applicare al bue malato le foglie miracolose; raggiuntolo, Stefano stette a guardare curiosamente con le mani intrecciate sulla schiena.
Il sole scomparve, lasciando una zona d’oro dietro le vette; un tepore profondo dilagava per l’aria, sulle macchie e le pietre calde; e il rosso delle lontane montagne si smorzava in tiepide tinte pavonazze.
Salirono altri due pastori e aiutarono il Porri a spalancare la bavosa bocca del bue per introdurvi alcune manate di orzo macinato, fra cui eran state pestate poche foglie del sacro<noinclude>{{PieDiPagina|{{Smaller|{{Sc|Deledda}}, ''La giustizia''.}}||{{smaller|14}}}}</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 210 —|}}</noinclude>
lentischio. Stefano si curvò per guardar meglio entro la bocca dell’animale, ma uno dei pastori gli chiese rudemente:
— Lei non ci crede, non è vero?.
— Non molto! — diss’egli, sempre curvo.
— Allora, se mi permette, la prego d’allontanarsi. In queste cose ci vuol fede, ed è la fede che fa tutto. Se una sola delle persone assistenti deride il rimedio, questo non ha efficacia.
— Ma io non derido nulla!
— Se non crede è come che derida!
— Sta bene! — disse Stefano sollevando la persona. — Dio vi aiuti.
E si allontanò, un po’ stizzito, un po’ mortificato, ma sopratutto sorpreso della misteriosa potenza che le semplici cose, dette volgarmente superstizioni, avevano su quegli uomini selvaggi, rotti ad ogni passione e scevri da tanti altri pregiudizi ben più pericolosi.
Presso la capanna trovò il figlio del Porri, che si disponeva a partire per il villaggio.
— Aspetta, gli disse, — ti dò un biglietto per mia moglie, ma lo porterai appena arrivato. A che ora arrivi? Presto? Il tuo ronzino ha, come te, le gambe lunghe come pioppi.
Il ragazzo rise gaiamente del bel complimento, e mentre si allacciava gli sproni sui piedi ignudi, Stefano staccò un foglietto dal taccuino, e curvo sopra una pietra, portando<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 211 —|}}</noinclude>
ogni tanto alle labbra la punta del lapis, scrisse quasi una letterina amorosa.
''«Mia cara Maria,''
«Non inquietarti se non ritorno fino a domani. Sono a ''Nuraghe ruju'' e benchè i pastori dicano che non c’è nulla, spero stanotte di far grossa caccia. La sera è calda e bella: sembra d’estate. Penso a te. Se tu vedessi che bel luogo è questo e come ispira buoni sentimenti! Riguardo al P.... ho seguito i tuoi consigli. Ti desidero, ti vorrei qui vicina, per sentir completamente la felicità di questo luogo e di quest’ora così bella. Vieni col pensiero e ricevi sulle labbra un affettuoso bacio del tuo
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Rileggendolo trovò il biglietto troppo intimo per esser spedito aperto.
— Avete qualche po’ di ceralacca nella capanna? — chiese scherzando.
— Perchè? — disse il ragazzo maliziosamente. — Per chiuder la lettera? Ma la chiuda con un po’ di pane masticato!...
— Puh! — gridò Stefano, e frugò diligentemente le grandi tasche della cacciatora: ne trasse una scatola di cerini, una candeletta di cera, due coltelli a serramanico, un paio di<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 212 —|}}</noinclude>
forbici chiuse in astuccio, un portasigari, l’immancabile pugno «''box''», spago, giornali, ecc., ma niente ceralacca.
— Faccia presto, disse il ragazzo, salendo sopra una pietra e tirando il cavallo per montarvi.
— Come diavolo devo fare? — pensò Stefano guardando tutti gli inutili oggetti tratti di saccoccia.
Il giovinetto s’accomodò sulle spalle la ''tasca'', specie di bisaccia di cuoio con due cinghie, e mise un piede nella staffa.
— Faccia presto, ch’è tardi!
— Eureka! — esclamò Stefano, e con un fiammifero accese la candeletta, la lasciò un poco ardere, poi la reclinò e chiuse la lettera con tre gocce di cera.
Il ragazzo balzò sveltamente in sella: prese la lettera, se la mise in seno e s’avviò cantando. Il suo ronzino rosso sparve ben presto dietro i muri di schisto, il cui splendore impallidiva col morire delle lontane luminosità vesperali, e la voce si spense fra i boschi. Il mastino del pastore sonnecchiava e gli altri cani fiutavano silenziosamente l’erba attorno al cavallo, che pascolava ancora dietro la capanna.
Rimasto solo, Stefano accese una sigaretta, mise il piede sul fiammifero, e, fumando tranquillamente, attese il ritorno del pastore, mentre la luce dileguavasi e i rumori della {{Pt|monta-|}}<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 213 —|}}</noinclude>
{{Pt|gna|montagna}} si rendevano più distinti e melanconici nell’immenso silenzio dell’alta solitudine.
Il Porri ritornò accompagnato da uno dei pastori; le capre e i porci si ritirarono nei recinti di siepi, il fuoco brillò nella capanna e a ''Polluce'' e alla ''Capra'', gialle come pupille di ambra, fecero tremula corona altre ed altre stelle bianche, azzurre e verdi, apparse nel cielo, la cui luminosità di madreperla s’era cambiata in un dolcissimo e diffuso color di pervinca.
Per cena il Porri tirò fuori del lardo e pane d’orzo e un po’ di latte di capra; quest’ultimo, cosa assai rara in quella stagione, fu offerto a Stefano; porgendogli un corto cucchiaio grigiastro, fatto con l’unghia di una pecora, il pastore gli consigliò:
— Ci metta dentro del pane.
Ed egli, ch’era squisitissimo nel mangiare, si adattò tuttavia alla pastorale cena e non ne provò disgusto. I due pastori intanto sfregarono vigorosamente il lardo sul pane, finchè la sua grigia superficie divenne bianca; poi misero sulle brage il pane così unto, e, allentito dal calore, lo attortigliarono e se lo divorarono beatamente a grandi bocconi. Stefano li guardò come trasognato; dopo cena accese un sigaro e uscì nuovamente sulla radura. Il mastino ringhiava perchè due dei cani del signore, non contenti del pane avuto nella {{Pt|ca-|}}<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 214 —|}}</noinclude>
{{Pt|panna|capanna}}, si degnavano di rubacchiargli destramente la cena (Gelsomina aveva in giornata dato la caccia ad una gazza, l’aveva sepolta, e verso sera disseppellita e divorata, lasciandone appena il becco e le piume rigate d’azzurro); il cavallo brucava e ruminava un fascio d’erba fragrante; vaghi bagliori guizzavano nell’imponente oscurità della montagna, e alla luce vaga delle limpide stelle autunnali le pecore ancor pascolavano, ripienendo il gran silenzio notturno con la lenta e continua vibrazione argentina delle loro campanelle. Stefano pensò vagamente alla fresca dolcezza solenne di un idillio di Teocrito, e canterellò:
<poem>
{{Blocco centrato|style=font-size=85%|{{Smaller|“Candìda Galatea, perchè rifiuti
Chi t’ama?...„}}}}</poem>
ripensando ai primi giorni del suo amore per Maria, ai rifiuti e alle ripulse di lei; e mille memorie giovanili, di ricordi perduti, di piccole cose lontane, di tenerezze dimenticate, gli vennero in quell’ora misteriosa, nel cerchio magico di quella oscurità rischiarata appena dagli astri, dal cielo chiaro, dai lontani orizzonti allagati ed immersi in vapori infinitamente dolci e diafani.
Fu in quell’ora, dopo quella giornata d’arcane sensazioni, che forse per la prima volta egli pensò intensamente al destino di sua {{Pt|so-|}}<noinclude></noinclude>
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{{Pt|rella|sorella}} Silvestra e misteriosamente percepì le sottili angoscie e le ribellioni che le infinite voci della natura, battenti sui muri alti del cortile come onde di mare infuriato, dovevano suscitare nello spirito giovanile di lei sepolta viva.
Amava ella ancora?
Quasi lampi incrociantisi, rapidamente gli passarono nella mente due figure e due sensazioni: Filippo e Maria; e il ricordo degli stolti sdegni, dell’odio feroce che nella ragione e nel cuore l’amore di Silvestra e di Gonnesa gli destavano; e il ricordo della vittoriosa passione che aveva indotto quello stesso cuore e quella medesima ragione alla completa dedizione verso l’umile vedova del fratello. Pensò amaramente:
— È ben facile combattere negli altri le passioni, dalle quali noi medesimi ci lasciamo vincere! E chiusi gli occhi, chinò la testa fra le mani.
Nel gran buio che allora intimamente lo invase, mentre più vibrate e melanconiche s’avvicinavano le note delle greggie pascenti, e più larghe si spandevano le selvaggie fragranze delle macchie, lo riprese la profonda dolcezza di sentirsi superiore a se stesso, di giudicare gli uomini e le cose con sentimenti d’umanità e giustizia. Ma per la suggestiva oscurità della notte, per la stanchezza delle membra, per quella stessa cullante armonia di suoni e {{Pt|profu-|}}<noinclude></noinclude>
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{{Pt|mi|profumi}} che gli causava dolcezza di sonno, le sensazioni cominciarono a velarglisi, sentì il sigaro spegnersi fra le labbra, e ricordò la notte in cui, fumando sul verone una sigaretta egiziana, aveva atteso Maria con ansia tale da smarrir la percezione del tempo e dello spazio.
Ora vagamente rivide nel ricordo, i muri del cortile di Silvestra.
Maria era entrata, aveva parlato e se ne era andata, lasciandogli in cuore una angoscia indicibile: se Silvestra ancora amava, doveva, dietro quei muri, continuamente provare una simile angoscia. Ancora ecco la figura di Filippo Gonnesa in vetta alla montagna e l’impressione del suo rapido, limpido sguardo.
E s’egli era innocente?
In fondo in fondo, nelle incoscienti regioni dello spirito, Stefano si meravigliò per la strana calma con cui pensava a cose che solitamente gli procuravano sdegni violentissimi. E rialzò la testa, si scosse, balzò in piedi. Ma per lunghe ore della notte, mentre invano spiava il passaggio di qualche cinghiale o di qualche faina — in mancanza di meglio si sarebbe contentato d’una miserabile volpe — il pensiero del nemico e il dubbio della sua innocenza gli tornarono a intervalli, passandogli nella mente come saette rapide, ma luminosissime.
Verso mezzanotte, stanchissimo, vinto dal sonno e anche un po’ dal freddo, ritornò nella<noinclude></noinclude>
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capanna e si sdraiò, avvolto nel suo lungo cappotto d’albagio foderato di panno rosso. Per un momento, nel breve e pesante dormiveglia, rivide tutti i luoghi percorsi durante quella giornata, che gli appariva come uno spazio lungo e indeterminato di tempo, e gli sembrò d’essere sdraiato sull’erba della valle soleggiata, cullato ancora dalla misteriosa melodia del torrente. Poi improvvisamente risentì il rude ondeggiare della groppa del cavallo che lo trasportava su per la ''Scala dei gigli'', e di nuovo rivide, nitida e decisa, la figura di Filippo Gonnesa che lo fissava. Sollevò la testa e riaprì gli occhi, vitrei e un po’ spaventati, guardando l’apertura della capanna; ma nel breve spazio nero non scorse che tre stelle rosse brillanti; e, ripiegata la testa sulla piccola bisaccia che gli serviva da guanciale, si addormentò.
Svegliandosi, si trovò solo; il fuoco era spento e l’acuta frescura dell’alba inondava la capanna. Uscì: i cani si svegliarono e lo circondarono guaiendo e sbadigliando: con la prima luce argentina la ''tanca'' s’animava, le capre uscivano dalla mandria, cozzandosi l’una coll’altra; vivida e pura come diamante la stella Diana brillava ancora sopra le montagne della costa, azzurre sul metallico sfondo dell’alba saliente dal mare.
Ma in questa luce sempre più vivida, mentre le gazze ricominciavano a gorgheggiare nel {{Pt|bo-|}}<noinclude></noinclude>
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{{Pt|sco|bosco}} rabbrividente, e sulle macchie le gocce della rugiada riflettendo i bagliori dell’iride sembravano le stelle scomparse dal firmamento, Stefano assistè ad una scena dolorosa e volgare.
Il bue del Porri era morto pochi momenti prima; la gran massa gialla, abbandonata su uno strato di paglia appena più chiara, pareva respirasse ancora, ma gli occhi erano vitrei e alcune mosche impunemente passavano fra le immobili palpebre bionde: il pastore lo guardava, lo palpava e chiamava con così sincero e desolato dolore che Stefano s’intenerì.
— Dopo tutto, disse, — che volete farci? Non è poi un cristiano che vi disperiate così. Scuoiatelo ora che è caldo ancora e profittate almeno del cuoio.
Il Porri credette, e trovò interesse nel credere ch’egli parlasse ironicamente, e si diè un pugno sulla fronte.
— Invece di burlarsene dovrebbe pensare che la causa della mia disgrazia è.... quello che sa lei! Oh, questo è il principio; chissà cosa ancora deve accadermi! — disse quasi piangendo. E tornò a palpare il bue, chiamandolo coi più dolci nomi: — Povero agnello, cuor mio, aiuto mio! L’imprecazione t’è piombata come una saetta; che tutte le saette del cielo piombino su chi ti ha augurato la morte! Cosa farò io senza di te ch’eri la mia mano destra? Cosa farò io senza di te, cuor mio? Senza di te sono<noinclude></noinclude>
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un uomo perduto, sono un inutile fuscello, perchè eri tu il mio aiuto, l’anima del mio lavoro. Cuor mio, cuor mio, tu non le vedrai le messi dell’anno venturo! Non ti muoverai più? Non lo vedi il tuo compagno che ti guarda dolorosamente? Non ti muovi, cuore mio?
— Suvvia! — esclamò Stefano. — Fatevi coraggio, che alla fine ne avete del ben di Dio!
— Non è tanto la perdita che mi addolora, quanto il pensare che sono stato imprecato e che le imprecazioni s’avverano sopra di me.
— Sciocchezze! — gridò Stefano, allontanando con una fronda i cani che fiutavano e leccavano il dorso della bestia morta.
Fieramente il Porri si rizzò, e negli occhi felini, umidi di lagrime, brillò la verde scintilla che li animava allorchè un cattivo sentimento lo urgeva.
— Se ne vada, per carità, don compare, se ne vada! — disse, stendendo il braccio. — Non basta l’altro, che lei viene a deridermi e dirmi che sono sciocco? Eh, sì, io sono sciocco, ma lei, con rispetto parlando, è un uomo senza cuore!
— Porri, rispose Stefano dopo un momento di silenzio, — poichè il vostro bue è morto per causa.... mia, andate, prendete una soga, recatevi nel mio ovile e sceglietevi la più bella coppia di tori spagnuoli.
La verde scintilla si spense negli occhi del<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 220 —|}}</noinclude>
pastore, che ai flebili lamenti di prima fece seguire una litania di salamelecchi e di sviscerati ringraziamenti.
— Sentite, — disse Stefano pochi momenti dopo, rimontando a cavallo, mentre il Porri gli teneva umilmente la staffa; — ora che siete riuscito a strapparmi qualche cosa — e ciò lo faccio non per voi, ma per la creatura innocente che v’ho battezzato — ora venite a dirmi che deporrete quel ch’io vorrò nel processo di Filippo Gonnesa. Quel che io voglio è la verità; null’altro. E vedete questa frusta? (e agitava in aria il frustino). Ringraziate qualche buon santo che ve n’ha liberato ieri. Se deporrete il falso però l’assaggerete, e bene, un altro giorno!
Per il momento si contentò di sbatterla sulla groppa del cavallo, che preceduto dai cani partì galoppando. Il Porri pensò:
— L’ho sempre detto io che don Stene è un po’ matto!
E tornò presso la povera bestia morta per scuoiarla e lasciarla preda alle aquile, nonostante tutto il bene che le aveva voluto.
Dietro le montagne, d’un denso azzurro bronzino, saliva dal mare, come un immenso petalo di glicina, la delicata e violacea aurora autunnale.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 221 —|}}</noinclude>{{ct|f=100%|t=3|v=1|w=0px|L=0px|VII.}}
Nonostante l’irrisoria cacciagione che portava nella piccola bisaccia, Stefano rientrò a casa sua sereno e lieto; ma trovò Maria triste, don Piane cupo, e le domestiche d’umore terribile.
Inoltre Ortensia, che da qualche tempo non andava pienamente d’accordo con la compagna, aveva di tratto in tratto un breve sorriso ironico negli occhietti slavati e loschi.
— Burrasca! — pensò Stefano; e sentì anch’egli svanire la limpida serenità portata dalla campagna.
— Cos’hai? — domandò a Maria, che lo seguì nelle camere di sopra.
— Nulla.
— Nulla! E già! non trovi mai altra parola! — diss’egli inquietandosi; — Cosa c’è stato? Sei pallida.
— Proprio nulla, ti assicuro. Ma ho dormito poco stanotte. Ti aspettai sino alla mezzanotte, e avevo paura, tanta paura, non vedendoti rientrare.
— Come? — esclamò egli stupito. — E il figlio di Arcangelo Porri non ti ha portato un biglietto?<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 222 —|}}</noinclude>
— No! — rispose Maria guardandolo un po’ meravigliata. Poi scoppiò a piangere come una bimba, e gli narrò ciò che era accaduto. Ah, il figlio del Porri? Giusto, quel ragazzo alto e robusto, quel bellissimo adolescente dai capelli rossi, glauchi occhi obliqui e i denti di perla? Bel soggetto! La notte prima, verso le undici, mentre aspettava suo marito, Maria aveva inteso piccoli rumori nel salotto da pranzo. E per scuotersi dal sonno, e pensando fosse stata Serafina a lasciar dispettosamente i gatti nella stanza, scese pian piano. Altro che gatti! Trovò Serafina fra le braccia di Bore Porri, il bel ragazzo a cui tutte le paesane dai tredici ai diciotto anni andavano pazzamente appresso.
— Ma Serafina ha dieci anni più di lui! E si arriva a questo punto? — gridò Stefano. E tutto il limpido orizzonte dei sentimenti puri e sereni tornò ad offuscarglisi.
— Ecco a qual punto è ridotta casa Arca! — disse non meno amaramente Maria. — Questa notte volevo mandar via Serafina, ma tuo padre mi disse di andarmene piuttosto io.
Si rimise a piangere desolatamente, mettendo ne’ suoi singulti tutta l’intensità dell’ira sua, della sua umiliazione e del suo giusto dolore.
— Finiscila! — disse Stefano irritato. Poi si raddolcì. — Non sei più una bimba; e sai che babbo non ha la testa a posto.
— Sì, è finita..., è finita..., ella rispose,<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 223 —|}}</noinclude>continuando a piangere, — è finita..., ed io non ne posso più! Tuo padre mi odia, ed io devo andarmene, sì, devo andarmene.... Devo lasciarvi ''tutti'' tranquilli (che amarezza ella mise in quel ''tutti!''); — ma sebbene tuo padre me lo rinfacci ogni giorno, che io sono un’intrusa, tu lo sai bene, Stefano..., tu lo sai... che io non volevo venir qui.... Il cuore mi diceva ciò.... che ora accade.
— Maria! — gridò egli, pallido d’ira e d’emozione, guardandola intensamente. — Eppure non ti credevo così sciocca, così imprudente e bambina! Oh, chi ci ha maledetto in tal modo che la nostra casa debba andar sempre più in malora! — esclamò poi, battendosi disperatamente le mani sul volto.
— Se la causa delle discordie son io, è giusto che me ne vada..., continuò Maria, piangendo infantilmente, ma nel suo accento vibrava tal fermezza ribelle che Stefano ebbe paura d’uno scandalo sciagurato. E in quell’istante, dinanzi alla ribelle e angosciosa desolazione della moglie, e ricordando tutte le disgrazie piombate in pochi anni sulla sua famiglia, si domandò se Arcangelo Porri non aveva ragione di credere che le maledizioni dei perseguitati s’avveravano sui persecutori.
— Non sei tu la causa, disse andando su e giù per la camera, a passi concitati, — è la maledizione, è la malasorte o il diavolo<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 224 —|}}</noinclude>che ci perseguita. Ma questa volta voglio farla finita con quella..., — e qui scaraventò una trafila di energici aggettivi, accompagnati da imprecazioni ed esclamazioni così violente che Serafina, la quale naturalmente origliava alla porta, impallidì e pensò:
— È finita! — E sembrandole che il padrone stesse per uscire e gettarla giù per le scale, s’allontanò spaventata, digrignando i denti per rabbia. — Guai se mi manda via, guai, guai! Dirò cosa che manderà in perdizione lui e tutta la sua stirpe! — disse ad Ortensia, che incontrò per le scale.
— Cosa puoi dir tu? — fece l’altra con un po’ di sprezzo, fissando gli occhi loschi sulla vôlta, mentre voleva guardar il viso di Serafina, contro la quale, sentendola perder terreno, apertamente si schierava.
— Cosa posso far io? Lo vedrai, bella mia, e lo vedrà anche donna ''Corcuzza'' (''Donna Zucca'', spregiativo nomignolo che dava a Maria.) — Serafina, Serafina! — ammonì l’altra, facendo la savia. — Ti stai procurando il pane!
— Il mio pane è procurato. Procuratelo bene tu, ora, guercia....
Le due donne alzavano la voce, e forse l’avrebbero finita male se una lunga scampanellata, proveniente dal salotto di Stefano, non avesse riempito la scala di forti vibrazioni argentine.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 225 —|}}</noinclude>
— Va, il padrone ti chiama, — disse Ortensia, sorridendo beffarda e trionfante.
— Se mi chiama non è con lo scopo per cui talvolta chiamò te..., e Serafina risalì stridendo come una vipera.
Ancora vestito da caccia, il padrone aspettava ritto vicino alla porta, guardandosi le unghie con calma forzata. Maria s’era ritirata nell’attigua camera.
— Serafina, fra due giorni compiono i tre anni che sei qui. Siccome le faccende domestiche ora non sono poi tante, e gli affari non prosperano, abbiamo pensato mandar via, con nostro dispiacere, una domestica.
Le guance color albicocca della bella Serafina cominciarono a diventar livide, e la lingua guizzò in bocca, pronta a dir parole avvelenate, ma il padrone parlava così calmo, così benigno, che non era possibile rispondergli male.
— Serafina, per non dire che ti mandiamo via malamente, prima d’andartene, stasera, avrai una buona mancia; ma prepara subito le tue robe e vattene.
— Dunque son io che devo andarmene?
— E chi dunque?
— Credevo fosse Ortensia.... È inutile mi guardi così, lei, don Isténe; e certe scuse le dica alle galline....<noinclude>{{PieDiPagina|{{Smaller|{{Sc|Deledda}}, ''La giustizia''.}}||{{smaller|15}}}}</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 226 —|}}</noinclude>
— Macchè scuse! — diss’egli con disprezzo. — Perchè devo farti poi delle scuse?
— E allora dica semplicemente che mi manda via a pedate....
— Macchè pedate! — Stefano rise, ma d’un riso tale che a Serafina fece appunto l’effetto d’una pedata.
— Senta don Isténe; penso e so la causa per cui le viene l’estro di mandarmi via senza neppur cambiarsi la giacchetta....
— Che mi cambi o no, ciò non ti riguarda. O vuoi aiutarmi tu a levarmela?
— Chi l’ha aiutata a levarsela la giacchetta, qualche volta, è stata Ortensia.... disse Serafina a voce alta e stridente, sapendo che Maria ascoltava: — per cui....
— Serafina, non farmi uscire dai gangheri! — avvertì Stefano, ma ridendo forzatamente. — E va via in pace. Del resto so che sei sposa e quindi non ti conviene restar serva....
Le parole e il riso del padrone la pungevano crudelmente, ma egli continuava a parlare così scherzosamente, con tal grazia felina, che ella, per quanta pazza voglia ne avesse, non poteva dire la ''cosa terribile'' che sapeva. Del resto, appunto perchè il padrone pareva scherzasse, ella sperava che il suo licenziamento fosse per burla, e dopo un vivace ma rispettoso battibecco uscì sicura di sè.
Il resto della mattina passò relativamente<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 227 —|}}</noinclude>sereno, ma nel dopo pranzo, mentre i padroni stavano ritirati nelle stanze di sopra, ecco Ortensia con aria altera e beffarda piombar in cucina.
— Serafina, il padrone ti manda queste venticinque lire.
— Qual padrone?
— Don Isténe!
— Allora le avrà date a te, non a me.
— Le ha date a me per darle a te. E ti prega d’andartene prima ch’egli scenda.
— Che il diavolo lo faccia scendere nel profondo dell’inferno! — gridò Serafina, battendosi i pugni sulle anche. E cominciò a imprecare con maledizioni e spergiuri mai uditi.
— Serafina, — disse l’altra con prudenza, cercando di calmarla, e piegando e spiegando il foglio da venticinque lire, — Serafina, fa la savia! Perchè te la pigli così? La colpa è tutta tua, e riconoscila, e sta zitta, invece di pigliarti la parte maggiore, come fai. Se ieri notte avessi fatto entrare quel moccioso di Bore Porri dalla parte dell’orto....
— Mocciosa sei tu! E del resto io non ho mai fatto entrar nessuno, nè dalla parte dell’orto, nè dalla parte dell’inferno.... Chi fa entrare gli amanti sotto i muri non son io....
Ortensia se la prese per sè, arrossì, stese il braccio col foglio da venticinque spiegato e gridò:<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 228 —|}}</noinclude>
— Bada bene come parli, ohè! Io non conosco nè muri, nè porte..., del resto non l’hai con me e ti compatisco! Certo è che ieri notte non dicevi il rosario col figlio di Arcangelo Porri. Almeno avessi tu dato il biglietto alla padrona; ma neppur ciò hai fatto, e ciò spinse don Isténe a licenziarti.
Serafina parve finalmente capir la ragione, e cominciò a pigliarsela contro se stessa, imprecandosi, battendosi i pugni sul capo e singhiozzando senza lagrime.
No, non le pareva possibile che il suo regno fosse finito, ch’ella dovesse abbandonar quella casa dove s’era creduta padrona, ove da tre anni viveva nell’abbondanza, e ritornare fra l’indicibile miseria della sua famiglia.
— Cosa ho fatto io? Cosa ho fatto io? — piangendo confidò ad Ortensia, che cercava di confortarla. — Ma è lui che, venuto per portare quella maledetta lettera, è voluto entrare ad ogni costo. Io non volevo, io non volevo! Ma se stasera lo rivedo, come è vero che son viva, lo piglio a schiaffi e graffi, che se ne ricorderà fin che vivrà.
— Avresti fatto bene a fargli prima d’ora questa faccenda! — osservò l’altra ironicamente saggia.
Ad ogni modo Serafina dovette far fagotto, e tutto pareva irremissibilmente perduto, quando, entrata da don Piane, lo trovò piangendo.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 229 —|}}</noinclude>
— Ebbene, don Piane? Ebbene, don Piane? — chiese sinceramente meravigliata, chinandosi sopra. — Cosa ha?
Nel vederla aumentò il dolore del vecchietto; le piccole mani rugose tremolarono come due foglie di passiflora, e le sottili labbra si sporsero angosciosamente senza poter pronunziare parola.
Serafina s’inginocchiò, si sedette sui calcagni, guardò di sotto in su insistentemente il padrone.
Per qualche istante non s’udì che il breve ansare del vecchietto e i singulti di lei, troppo acuti e prolungati per esser verosimili. Alla fine ella parlò, e fu uno schianto per entrambi.
— È per questo, è per questo che piange lei, don Piane mio? Perchè io me ne vado! E per questo che piange? Non pianga, non pianga; già lo sa lei che l’immondezza deve esser buttata via..., ed io non sono che immondezza.... io.... Non pianga, don Piane mio; abbia pazienza, lo faccia per amor mio, per me che forse sono l’unica a volerle tanto bene! Già lo sa lei che io avrei dato la vita per don Piane Arca, per il mio padrone, già lo sa lei che io volevo consacrargli tutta la mia vita, fino all’ultimo giorno (non pensava la bella Serafina ch’ella aveva ventisei anni e il diletto padrone più d’ottanta?); — ma non hanno voluto, non hanno {{Pt|vo-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 230 —|}}</noinclude>{{Pt|luto|voluto}} gli ''eroni!''<ref>''Erone'', vocabolo senza dubbio proveniente da ''Nerone''; significa persona crudele e malvagia.</ref> Hanno meglio voluto separarci, come si separa l’agnello dalla madre, ed io devo lasciare il mio padrone, il mio padrone buono, il mio padrone amato; devo lasciarlo per sempre....
Che schianto, Dio santissimo! Pareva che a Serafina stesse lì lì per venire un accidente; e bevendosi le lagrime, don Piane l’ascoltava in estasi. Sì, ella, poveretta, ella sola gli voleva bene; ora egli se ne accorgeva più che mai. Gli altri, specialmente Maria, lo odiavano; ed ora, sobillato da lei, Stefano gli voleva dunque rapire quest’ultimo affetto puro ed ardente, disinteressato e immenso? Perfidi, malvagi, ''eroni'', mai, mai più!
— Serafina, tu devi restare, disse.
— Padrone mio, padrone mio! Che mai pensa lei? Don Isténe mi ha mandato via, don Isténe in persona....
— Tu devi restare..., se no me ne vado anch’io!
Ella si vide salva, e coprì di baci e lagrime le manine del padrone; poi, dopo un commovente scambio di ringraziamenti ed affettuose espressioni, lo aiutò a salir le scale e lo lasciò davanti alla porta del salotto di Stefano.
Stefano, raramente lasciando don Piane il<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 231 —|}}</noinclude>pian terreno, immaginò subito la gran cagione che lo spingeva là sopra; ma fu inesorabile, mentre le preghiere e le minaccie del vecchietto commovevano e impaurivano Maria.
— Sarà capace di tutto! — ella disse quando don Piane andò via indignato e barcollante.
— Faccia quel ch’egli vuole, ma ella deve andare via! — rispose Stefano, e uscì pian pianino per far attenzione a che il vecchietto non cascasse dalle scale.
E Serafina andò via, piangendo, strepitando, giurando vendetta; come ultimo trofeo, portò via tre posate d’argento, ma per non acuire lo scandalo, Maria pregò Ortensia di non rivelare a nessuno il fatto.
— E ora, — disse poscia con energico accento, — vedi bene, Ortensia, che quando una serva vuol uscire dal suo regolar posto rischia di perderlo e d’incontrare ogni brutto incidente. Il fatto di Serafina ti sia d’esempio, se vuoi lungamente mangiare il pane degli Arca.
— Monsignora, disse Ortensia, guardando i muri, mentre invece voleva umilmente fissare il suolo, — se ho avuto qualche torto, mi creda, come è giusta l’anima di Dio, la colpa era di quella sciagurata.... Ma vedrà d’ora in avanti, vedrà, monsignora, vedrà. E mi scusi e mi perdoni.
Dopo di che ella diventò, almeno in {{Pt|apparen-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 232 —|}}</noinclude>{{Pt|za|apparenza}}, la più fida e devota domestica che si possa immaginare: per dare alla padrona una prova della sua fedeltà cominciò col raccontarle tutte le mancanze di Serafina e ripetè le imprecazioni e le minaccie proferite dalla ragazza nell’andarsene. Fra le altre fece a Maria un po’ d’effetto la misteriosa minaccia del segreto che, se rivelato, poteva mandar Stefano in perdizione; ma, sempre con prudente intenzione di attutire lo scandalo, non indagò e tacque.
Per tre giorni don Piane pianse, imprecò sotto voce, non volle sedere a tavola, e caricò Stefano e Maria d’improperi e maledizioni.
— Stia zitto, stia zitto! — gli diceva Ortensia, mettendosi una mano in bocca.
— Ora ci mancavi tu sola a impormiti, figlia di uno scarafaggio! — gli gridò don Piane il terzo giorno, minacciandola col bastone. — A buon punto sono ridotto! A questo punto è ridotto Cipriano Arca! Ma ve lo farò vedere io chi sono; ve lo farò vedere a tutti, animali che altro non siete!
E non piccolo fu lo spavento di Maria e della domestica quando verso sera invano per la casa e per l’orto cercarono il vecchietto. Dove e come egli era sparito? Maria ebbe il dubbio doloroso ch’egli si fosse buttato nel pozzo o nella vasca, poi che fosse scappato da Serafina, e s’angosciava e mandava Ortensia<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 233 —|}}</noinclude>a farne ricerca, quando per fortuna rientrò Stefano.
— Forse è da Silvestra, diss’egli, corrugando la fronte.
Messo infatti un biglietto nella ruota, tosto Silvestra rispose che suo padre era là dentro da due ore. Non fu facile cosa il trarnelo fuori; bisognò far venire prete Arca; e, solo dopo molte preghiere ed esortazioni, la solitaria monaca fu lasciata in pace. Ma dopo questo incidente ella si chiuse dall’interno.
A poco a poco don Piane si acquietò, ed anzi parve scordar Serafina, immergendosi tutto nell’affetto profondo ed entusiastico per quattro gattini dati felicemente alla luce da Speranza; quattro cosette bianche e rotonde come gomitoli di seta, dagli occhi celesti-lattei e le orecchie, la lingua, il muso e le palme delle zampette che sembravano foglie di rosa. Dei dentini poi, dei giochetti, dei salti sul dorso della madre, che non finiva di leccarli per ogni verso, è inutile parlarne, perchè sono cose indescrivibili. Don Piane ne restava contento e felice, tanto che, pur recitando il Rosario e leggendo sulla ''Nuova'' le importantissime corrispondenze degli arrivi e delle partenze dei brigadieri ed uscieri e le corse dei cavalli nei villaggi, sorrideva di beatitudine.
I quattro gattini lo ricompensavano del perduto affetto di Serafina; tuttavia un giorno,<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 234 —|}}</noinclude>Maria e Stefano assenti, fece da Ortensia ricolmar di frumento una corba e impose di portarlo dalla ragazza, con questa affettuosa ambasciata:
— Serafina, don Piane ti saluta e ti prega di credere che egli non ti ha dimenticata un solo istante. Quanto prima sarai nuovamente da lui; intanto accogli benigna questo piccolo dono.
— Ma, — osservò Ortensia, — se donna Maria mi vede, o viene a saperne, mi caccia via....
— Macchè donna Maria, o donna asina! Il padrone sono io: va e obbedisci, altrimenti ti caccio io a pedate.
— Non sia mai! Potrebbe cader dall’altra parte! — disse Ortensia beffarda; e prese il frumento, ma lo portò da donna Maurizia. Veramente avrebbe voluto portarlo a casa sua, ma ebbe paura d’esser spiata ed accusata ai padroni.
D’allora in poi, nonostante la sua estrema avarizia, ogni volta che poteva, don Piane inviava a Serafina regali d’ogni sorta, che, sciente Maria, finivano da donna Maurizia.
Ortensia riferì questo fatto ridendo a molte persone; e Serafina, che sempre sperava di rientrar in casa Arca, venutolo a sapere, arse di rancore.
Intanto, rappacificatosi don Piane, Maria cominciò a godere una relativa felicità: ella {{Pt|final-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 235 —|}}</noinclude>{{Pt|mente|finalmente}} portava in seno il fiore del suo mite amore, e pareva che la gioia di questo evento avesse cambiato anche il carattere e i modi di Stefano.
Egli sembrava un altro.
Era tornato spesso in campagna, e cacciava sull’altipiano; luogo forse ancor più suggestivo e grandioso della montagna. Smarrendosi fra le paludi e gli argentei canneti, fra le stoppie imbrunite dall’umido e fra le macchie bruciate a sera dai dissodatori, egli aveva trascorso intere giornate con un profondo oblìo di se stesso, occupato più del volo d’una tardiva quaglia che del processo Gonnesa; ma, o per la crescente malinconia autunnale, o per l’aria già troppo fredda e il cielo vaporoso, se aveva gustato le forti emozioni del cacciatore, non aveva però ritrovato più quel complesso di profonde sensazioni per le quali s’era sentito sollevar al disopra di se stesso.
Eppure, spesso, anzi ogni volta che usciva in campagna, anelava segretamente ad un nuovo incontro con Filippo Gonnesa. Era un desiderio strano, quasi morboso, senza scopo nè perchè, non confessato, ma pungente e vivo. Mentre per la sterminata solitudine dell’altipiano, sotto la grave tristezza del cielo, dalle cui nebulosità metalliche il sole nascosto gettava per sottili squarci d’argento lunghi raggi pallidi, descriventi un enorme ventaglio d’oro {{Pt|sbia-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 236 —|}}</noinclude>{{Pt|dito|sbiadito}} sulle chiare nebbie dell’orizzonte, cavalcando incontro al vento che rigettava indietro spartita la criniera del cavallo e apriva le falde del suo cappotto, Stefano provava un lieve brivido fra piacere e timore, se pel cupo verde dei cisti umidi o nel grigio chiarore degli sfondi del sentiero scorgeva la figura nera e bianca di un paesano.
Era lui? Chi? Filippo Gonnesa travestito. E se egli era, che intendeva Stefano di fare? Salutarlo come in cima alla montagna e ricercar nei limpidi occhi nemici il mistero dell’innocenza perseguitata; o inseguirlo quale selvaggina e far da sè quella giustizia che le autorità non riuscivano a compiere? Stefano non sapeva, ma sentiva il sangue pulsargli forte sulla nuca, e raggiunto o incontrato il paesano, e avvedutosi dell’inganno, provava un inesplicabile dolore.
Non ritrovandole dunque nella realtà, ricercava nella musica le profonde impressioni dell’indimenticabile giornata trascorsa nella ''tanca;'' ma non gli riusciva perfettamente. Lo sforzo che poneva nel fondere le varie melodie sarde, spezzava qua e là la suggestione sinfonica ch’egli s’imponeva; il passaggio, per quanto sfumato, da un motivo all’altro, riproduceva l’effetto di quel rotare di vettura, di quello schioccare di frusta che avevano interrotto il magnifico sogno musicale del torrente e della campana.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 237 —|}}</noinclude>
Restava ancora la pura ed intima dolcezza della salita su per la ''Scala dei gigli,'' del saluto al nemico, della sera e della notte trascorsa all’ovile, ma invano l’anima di Stefano ricercava avidamente la superiorità di percezione e di sentimenti che gli aveva lasciato una indelebile orma, un desiderio quasi angoscioso di bene.
Qualche cosa mancava ancora alle sue note; un filo, una sfumatura, un inafferrabile colore: ma egli sperava di ritrovarli un giorno o l’altro, forse in qualche melodia popolare non ancora sentita, e s’acquetava in questo desiderio.
Così, fra la caccia e la musica, passò l’autunno e venne l’inverno, un inverno straordinariamente mite e verde.
Nella misera quiete del villaggio, l’elegante casa pisana, con a fianco il vigilante muro giallo del ritiro di Silvestra, sonnecchiava al tepore del sole smorto; pareva una regina assopita, nelle cui pupille (i limpidi vetri chiusi) dilagavano tranquilli sogni di felicità. L’orto verdeggiava di chiare erbe invernali, sotto le tenui ombre dei rami spogli, rossi quelli dei peschi, dei ciliegi e degli albicocchi, grigi-argentei quelli del noce e dei salici; in fondo la vasca luccicava ad intervalli con rapidi riflessi metallici.
Nell’angolo del camino, entro cui ardeva {{Pt|odo-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 238 —|}}</noinclude>{{Pt|rando|odorando}} il ginepro, don Piane viveva tranquillo nella contemplazione dei quattro gattini, che se crescevano come «quattro fate» diceva il vecchio, mangiavano come altrettanti cristiani. (In media, fra gatti, cani, galline, cavalli, maiali ed altre bestie gli Arca spendevano circa otto lire al giorno.)
Seguiva la burletta dei regali a Serafina, ed ella, dimagrita e impallidita per la bile e la misera esistenza di casa sua, passava e ripassava come un amante sotto le finestre di casa Arca, con la speranza di veder don Piane e di insultare Ortensia, verso la quale in mancanza di meglio sfogava il suo odio.
Ma appunto per farle dispetto Ortensia cercava di mantenersi forte presso i padroni, diventando d’una devozione, d’una fedeltà e d’una puntualità a tutta prova. Accudiva da sola alle più gravose faccende domestiche, e nel paese si raccontava per miracolo che in una casa come quella degli Arca bastasse una serva sola. Ma Stefano si rallegrava pensando che quel miracolo lo operava Maria, ora ch’era la vera padrona di casa sua.
Dopo tutto, poichè ella non sapeva far la signora, era bene che si fosse stabilita decisamente e fortemente nel suo posto di massaia. Sotto il suo occhio vigile le stanze, se non elegantemente disposte, erano almeno in ordine e pulite; l’orto coltivato; gli animali ben trattati;<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 239 —|}}</noinclude>i servi pastori contenti del pane che loro si forniva; e il formaggio era finalmente ben manipolato e le provviste ben conservate. Ai bei tempi di Serafina il cacio, non abbastanza affumicato, non mosso, non esposto all’aria, si muffiva, per cui prima di venderlo si doveva raschiarlo e poi tingerlo con una certa miscela che dava alle forme un bel colore di formaggio stagionato; inoltre non era raro il caso che qualche grosso sorcio, e una volta anche un gatto, andasse a naufragare nella vasca della salamoia ove galleggiava il cacio fresco, e persino nelle grandi olle d’olio di uliva.
Ora nulla di tutto ciò accadeva; e nonostante le incalzanti faccende domestiche, Maria trovava il tempo di recarsi talvolta nella sua casa paterna ed aggiunger qualche trama alla bianca coperta dalle rosse rose; ma ora queste visite si facevan più rare, forse perchè le eleganti camere della casa pisana, sui cui pavimenti a mosaico e sui tappeti il passo leggero di lei cominciava a farsi lento e grave, la circondavano finalmente con quella tenera e profonda dolcezza delle pareti amate e conosciute; forse perchè, appunto rendendosi grave e lento il passo, ella sentiva bisogno di raccogliersi in se stessa, di sedersi accanto al camino e tagliarvi e cucirvi qualche cosa di così piccolo e così grande da richiamare tutta la sua attenzione.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 240 —|}}</noinclude>
Quando don Piane, che non ostante la sua apparente tranquillità covava amaro astio contro Maria, ed evitava di rivolgerle parola, s’avvide dei piccoli preparativi, provò un senso di tenerezza improvvisa: per un momento, dileguatasi la nebbia senile che velava il piccolo cervello in dissoluzione, il vecchio pensò e sentì, soffrì e gioì normalmente.
E in quel momento mille sensazioni diverse gli passarono dietro la piccola fronte, entro il piccolo petto incartapecorito.
Era una mite sera di gennaio; Maria teneva a portata di mano un canestro d’asfodelo guarnito di nastri, ricolmo di tela e ''piqué'' e trine, e tagliava piccolissime cuffiette. Al fuoco, le forbici brillavano; un gattino allungava la zampetta sul canestro, cercando d’afferrar furbescamente un gomitolo di filo.
Dietro, nella quieta luminosità della finestra, sui cui ultimi vetri moriva il sole, Ortensia, seduta per terra, davanti a un bassissimo tavolo, faceva ravioli e ''sebadas'', focaccie di pasta e formaggio fresco passato al fuoco. Ella stirava la bianca pasta oleosa con un piccolo cilindro di legno che produceva un lieve e monotono rumore; un gattino le stava coricato sul lembo della sottana, con la rosea pancia in aria; e Speranza, seduta sulle zampe posteriori, muovendo la coda sul pavimento per divertire gli altri due gattini, guardava con {{Pt|oc-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 241 —|}}</noinclude>{{Pt|chi|occhi}} intenti sul tavolo, quasi contemplando il lavoro della domestica.
Don Piane guardò intorno e rivisse in un tempo lontano — forse oltre il mezzo secolo — in un invernale pomeriggio velato e tiepido; e rivide le fini mani sofferenti della sua prima sposa, donna Maria Grazia Dossuni, ricca giovinetta del paese di Mores, la cui grossa dote aveva dato principio all’attuale fortuna degli Arca. Le fini mani sofferenti, adorne di rozzi anelli con corniole e coralli incisi, tagliavano e cucivano cuffiette di damasco rosso guarnite di trine d’oro.
Allora, in quel tempo lontano, la casa pisana conservava il suo primiero aspetto, e gli arredi somigliavano a quelli che ora mobiliavano la casa paterna di Maria Arthabella: allora le donne dei villaggi sardi tessevano ancora arazzi, coperte a trame d’argento, bisaccie fiorite e tappeti di lino; posavano il nobile capo su guanciali di broccato annodati di rossi nastri, e i bimbi scuotevano la ancor crostosa testolina entro cuffie di damasco vermiglio, e venivano coperti di ''mantiglie'' di scarlatto orlate di seta turchina.
Tutto questo ricordò don Piane nitidamente, con tale intensità che perdette per alcuni istanti la percezione della realtà, e rivisse nel lontanissimo passato.
Egli aveva amato Maria Grazia Dossuni su<noinclude>{{PieDiPagina|{{Smaller|{{Sc|Deledda}}, ''La giustizia''.}}||{{smaller|16}}}}</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 242 —|}}</noinclude>tutte le donne della terra, e ne aveva avuto un solo figlio, il primo Stefano. Poi ella era morta, morto il fanciullo. Anche le altre due spose, Dorotea Figus e Minnèna Ledda, erano morte; morti, rinati, morti ancora gli altri figliuoli; ma di questo succedersi di nascite e funerali don Piane ricordava solo nitidamente la morte della prima sposa e del primo figlio; il resto gli si confondeva dolorosamente nella memoria, in una fuga di giorni oscuri che mettevano nere macchie sullo sfondo scialbo del passato.
Ora un’altra donna sedeva presso il fuoco e tagliava le cuffiette di un bimbo futuro. Chi era colui che doveva venire?
Solo in quel momento il vecchio capì la grandezza della promessa, e capì il sorriso, prima accolto indifferentemente, con cui il giorno prima Stefano, suo ultimo e solo vivente figliuolo, gliela aveva annunziata.
Ciò ch’egli, il vecchio, aveva teneramente sognato in quel lontano pomeriggio della sua giovinezza s’avverava dunque ora? Il ramo degli Arca non si disseccherebbe sterilmente e — ciò che più premeva al vecchio — le ricchezze accumulate con tante ansie non andrebbero disperse.
In questi pensieri, che gli diedero tutta la dolcezza triste dei ricordi e lo struggimento del rimpianto delle cose morte, e la speranza per le cose da venire, stette don Piane a<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 243 —|}}</noinclude>guardar lungamente Maria, seguendo col moto delle sbiadite pupille i movimenti delle mani di lei e la trasformazione della tela, e il riflesso infuocato delle lucide forbici.
Ella sentì con piacere questa intensa attenzione; sollevò gli occhi sereni e, incontrando lo sguardo del suocero, vide nelle piccole pupille un’espressione così insolitamente tenera e limpida che volle tentar la riconciliazione.
— Non ci credevate forse? — domandò, sorridendo e accennando alla cuffietta che tagliava.
Egli sporse le labbra per rispondere, ma le ritirò e tacque.
— Eppure è vero, proprio vero. Gli metteremo nome Stefano, come il padre?
Egli parve contrariato, e solo alla inopportuna osservazione di Ortensia:
— E se sarà femmina?
— Tu, zitta, stupida! — rispose.
Ed ella zittì. Breve silenzio, solo interrotto dal rumore del cilindro, dallo stridìo delle forbici e dal miagolìo del gattino, che introdottosi nel canestro volteggiava attorno al gomitolo. Maria si volse, si chinò e afferrata la bestiolina la tirò fuori.
— Va via, va via, cattivo.
E come ella s’indugiava curva ad avvolgere il filo del gomitolo, don Piane, non vedendosi guardato, ardì sporger le piccole labbra per esprimere il suo egoistico parere:<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 244 —|}}</noinclude>
— Stefano! Stefano! Macchè Stefano! Cosa ci ha da veder il nome del padre! Si devono ricordare i vecchi, il nonno paterno, prima di tutti, poi il nonno materno, poi la nonna paterna, ecc.
— È vero..., cominciò Ortensia, ma un più vibrato: — Sta zitta tu, marmotta! — la richiamò a posto.
— Se il padre vuole..., per me fa lo stesso chiamarlo Piane o Stene, — disse Maria, sollevando il busto.
— Il padre, il padre! — ripicchiò don Piane, — Macchè padre! Cosa se ne intende egli degli antichi usi? Devi volerlo tu, non lui....
La vocetta si fece aspra, dispettosa: il momento di lucidità, di tenerezza e soavità era passato.
Maria pensò che doveva contentare il suocero a scanso di altri malumori. Grazie a Dio se egli sembrava finalmente riconciliante!
— Ma io lo voglio di certo, ma sicuramente, sicuramente....
Rientrando dopo qualche momento, Stefano sentì l’ancora animata discussione; ma al suo apparire si fece silenzio.
— Cosa c’è? — domandò.
Don Piane e Maria tacevano, quasi vergognosi, ma intervenne Ortensia:
— Il padrone vuole....<noinclude></noinclude>
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— Zitta, zitta, zitta tu, sciocca!... — gridò il vecchio.
— E mi lasci dire una buona volta! — gridò ella, minacciandolo col cilindro. — Il padrone vuol metterci Piane, donna Maria vuol metterci Stefano.... A chi? Ma a suo figlio! Ma facciano una cosa per non adirarsi nessuno. Ci mettano un nome che non sia nè l’uno, nè l’altro. Per esempio.... Mosè!
Don Piane ebbe una delle sue rarissime infantili risate, e Stefano stette a guardarlo affettuosamente, con tutta la pietosa tenerezza che gli destava nell’anima quella piccola vecchiaia ricondotta alle debolezze dell’infanzia; poi, per troncar la questione senza pronunziarvisi, annunziò ch’era nominato giurato delle Assise di Sassari.
Partì pochi giorni dopo, e le due quindicine che passò a Sassari furono fra i giorni più gai e felici della sua vita. Sapeva Maria e don Piane in pace, sereni nella tranquilla gaiezza della casa pisana; aveva molti denari nel portafogli e in conseguenza molti amici, coi quali le serate gli trascorrevano veloci, al teatro, nei caffè, giocando, ridendo e chiacchierando. Se in quelle ore di godimento spensierato lo spirito si raccoglieva qualche momento in se stesso, cercando d’interpretare le proprie sensazioni, queste gli rispondevano con un pieno ardente inno alla vita, e tutto l’essere suo si sentiva<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 246 —|}}</noinclude>leggero, agile, sano e perfetto come in quell’indimenticabile istante di benessere provato nella valle. Allora, con la stessa larghezza, se non con la medesima intensità di vedute umanitarie, egli giudicava il prossimo suo.
E con questa indulgenza, e con l’idea fissa, quasi trasformata in monomania, che l’umana giustizia errasse ne’ suoi verdetti; che la giustizia ufficiale fosse composta solo d’uomini sani, ma inetti; o da uomini illusi che, spinti da istintivo desiderio di progredire nella loro carriera, vedevano in ogni accusato un delinquente da condannare; o da uomini malati di corpo e quindi non sereni, nè imparziali di spirito; o da uomini infelici nella vita privata e quindi spinti da incosciente reazione di crudeltà verso il prossimo; o infine da uomini non superiori, non integri, non sollevati al loro posto da vocazione nè conscienziosamente scelti nella società da chi, governando i popoli, dovrebbe specialmente tutelarne i giustizieri; ma innalzati ad un posto tanto alto e delicato dal materiale bisogno della vita e dalla scelta d’una carriera, Stefano, — quando sedeva nel banco dei giurati vedeva volentieri un innocente in ogni accusato, era proclive a credere falso ogni teste contrario (ricordava sempre il Porri), e quanto più il Pubblico Ministero incrudeliva, esponendo cavilli spaventosi, tanto più egli provava strano piacere nell’assolvere l’imputato.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 247 —|}}</noinclude>
Se poi questo veniva condannato, egli lo riteneva assolutamente innocente, e se ne rattristava e avrebbe provato rimorso se, come Pilato, non avesse creduto compiuto tutto il suo dovere nell’aver, per parte sua, riconosciuta la verità.
Solo nell’estremo dibattimento dell’ultima quindicina diede voto di condanna ad un reo confesso. Ma al ritorno da Sassari, mentre viaggiava nelle secondarie, essendo passato un momento in terza, giacchè nella prime classi era una desolante solitudine, rivide la moglie del condannato; una donnina curva, gialla, cieca d’un occhio, imbacuccata in una gonna d’orbace gettata sul capo, e tremante di freddo e d’angoscia. Ritto, le mani in tasca, egli stette a guardarla così intensamente che ella sollevò fino a lui il suo unico occhio fisso, scuro e lucente come un’uliva, e anch’ella, riconoscendo il giurato, ebbe nello sguardo il fiero balenìo di una imprecazione.
E se ne accorse; e, non per pietà, nè per interesse, ma per semplice impulso di curiosità, domandò:
— Voi siete la moglie del tale?.
— Sicuro! — disse la donna; e il suo occhio olivastro rimase sollevato, fisso e ardente d’odio e dolore. — E tu sei uno dei giurati?
— Sì.
— Me l’hai fatta la camicia tu; mi hai aiutato<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 248 —|}}</noinclude>ad allevar i miei figli: che Dio t’aiuti secondo la tua intenzione! — disse ella amarissimamente; poi, sempre dandogli il latino ''tu'' usato nelle fiere libere montagne nuoresi, gli raccontò il fatto del marito, un delitto per passione; e narrò l’estrema miseria in cui ora restava la sua famiglia. Ella, era andata a piedi fino a Sassari con in mano le scarpe e sul capo un involto di pane di orzo; non ostante la neve sarebbe ritornata nello stesso modo, se la carità di molti testimoni, ora viaggianti nello stesso vagone, non le avesse procurato un biglietto ferroviario.
Stefano ascoltò e non provò pietà e neppur compassione, forse perchè l’occhio fisso della donna lo disgustava; ma si pentì del suo unico voto e pensò che anche questa volta la giustizia aveva commesso un errore sociale, togliendo a un dato numero di esseri il sostegno dell’esistenza, condannando un uomo non malvagio, che forse si sarebbe riabilitato nella libertà, mentre dal castigo riporterebbe un cumulo di vizi corporali e morali. Ed anche nella giovanissima famiglia di questo uomo, abbandonata a se stessa ed alla miseria, fecondato dall’infelicità e dal bisogno spunterebbe il germe della delinquenza e del male.
La stessa malvagità, tanto più profonda ed amara, quanto più impotente, che riluceva nell’occhio livido della donna, era un immediato<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 249 —|}}</noinclude>effetto della condanna del marito. Prima quell’occhio non splendeva certamente così; e chi sa ora qual segreto di male la donna riportava entro il suo petto. Certo una fiala di veleno che stillerebbe sui figli aspettanti sulla spenta pietra del focolare, sui fratelli, sui cognati, su tutta la stirpe pronta a vendetta: e forse nel fiero villaggio montano genererebbe una di quelle sarde inimicizie tanto dannose al progresso della umana civiltà.
Dunque, anche condannando il reo confesso, la giustizia aveva commesso un errore sociale? Ma allora dove si andrebbe?
Stefano non trovò subito risposta, e forse non volle trovarla, perchè negativa riguardo alla sua tesi; ma sentì un improvviso malumore, uno spirituale e fisico disgusto, e lo attribuì all’ambiente di quello scompartimento, zeppo di misere donne insolentemente curiose, che lo guardavano come bestia rara, e di uomini dai capelli unti e dalle vesti puzzolenti di cuoio.
Pensò quindi d’andarsene; e nell’uscire ebbe un’idea; si fermò, ostruendo con la sua persona la porta del vagone, cavò il portafogli, ne prese qualche biglietto di banca, li arrotolò e, volgendosi, li porse alla donna:
— Buona femmina, pigliatevi un caffè.
Ella protestò e imprecò, con l’occhio scintillante: non voleva elemosine, non ne voleva<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 250 —|}}</noinclude>da nessuno e tanto meno da chi avevale gettato il marito in galera. Ma poi si lasciò facilmente convincere dalle compagne di viaggio, prese i denari e ringraziò, chinando l’occhio; ma appena Stefano scomparve gli lanciò dietro una fiera maledizione e, fra l’invidiosa attenzione delle altre viaggiatrici, contò i biglietti.
Stefano non vide, ma intuì questa scena, e, solo nel piccolo, incomodo scompartimento di prima classe, s’abbandonò a un profondo malumore: il freddo intenso, il disagio, la melanconica visione dei fuggenti paesaggi nevosi contribuirono a renderlo triste.
La neve stendevasi fino all’orizzonte, e sul suo desolato candore i radi alberi selvaggi, le macchie e gli alti cespugli, da cui il vento aveva scosso il bianco mantello, apparivano d’un umido verde giallastro e cupo, che accresceva l’impressione solennemente triste del paesaggio.
In lontananza, sulle marmoree altezze delle montagne, si scorgevano nitide le fosche macchie dei boschi; il cielo era tutto un’apocalittica visione di viaggianti nuvole di un grigio chiarissimo, dissolventisi in misteriose figure di mostri profilati d’argento. Solo sopra le montagne nuoresi si apriva uno squarcio di cielo azzurro e sereno, un lungo aereo lago, la cui liquida purezza rifletteva l’oro d’un invisibile tramonto. E questo tranquillo, misterioso riflesso calava sulle nevi, gettando sulla {{Pt|deso-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 251 —|}}</noinclude>{{Pt|lazione|desolazione}} del paesaggio un bagliore d’indicibile tristezza.
Sui vetri del finestrino alcune stille di neve liquefatta avevano pur esse il tenue riflesso d’oro del lontano orizzonte: Stefano stette a guardarle, poi i suoi occhi vagarono sul paesaggio, sulle montagne, sui cieli; e la sua tristezza aumentò, si acuì, si estese e per un momento divenne intensa così da raggiungere il senso della disperazione. Gli parve di esser solo, smarrito, portato violentemente da un’occulta forza malefica attraverso ignote e sconfinate solitudini fredde e morte. Quel lembo di cielo azzurro, quel moribondo riflesso di luce lontana non erano forse il vano desiderio di beni sempre sognati e mai raggiunti? E l’anima umana non forse somigliava alla stilla di neve liquefatta che, tremolando sui vetri, rifletteva il lontano bagliore del sogno, ma che fra un istante sarebbe evaporata e scomparsa del tutto?
Chi parlava nella triste, tranquilla luce delle nevi, nella immensa solitudine dei cieli e delle montagne lontane? Una voce muta, triste. Parlava la vanità della vita, l’impotenza dei sogni; parlavano i cari morti e sorgevano le memorie dei dolori trascorsi, delle perdute illusioni, di ciò che non torna, di ciò che passa per non tornare mai più.
Stefano curvò il viso fra le mani e con {{Pt|que-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 252 —|}}</noinclude>{{Pt|ste|queste}} melanconiche idee rimpianse il mese inutilmente passato a Sassari; si meravigliò di avere potuto godere per sì vuoti e piccoli piaceri; e ancora si pentì dell’unico voto con cui s’era permesso, egli debole, egli imperfetto, egli gaudente e felice, di condannare un povero....
Più la sera avanzava, più cresceva la tristezza sua e quella dei fuggenti paesaggi: si addensavano i grigi velari del cielo, e il tenue riflesso dell’unico lontano lembo di luce smorzavasi, cangiandosi in chiarore come di luna.
Egli provò a scuotersi, cercando conforto nel pensare che l’indomani, a quell’ora, sarebbe a casa sua: ma, prima di raggiungere tanta dolcezza, ei doveva passar la notte a Nuoro e poi nuovamente viaggiare per cinque ore entro una incomoda vettura. Con quel tempo e con quell’umore! Oh, Dio! Chiuse gli occhi con raccapriccio e, quasi ciò non bastasse, ricordò che l’indomani mattina — certo, una noiosissima, orrenda mattina — doveva calpestar la fangosa neve delle vie di Nuoro per recarsi da avvocati e magistrati onde sollecitare il processo Gonnesa.
— Oh, Dio mio, Dio mio! — gemè, rialzando le palpebre; e di nuovo, trovando tanta contraddizione fra ciò che sentiva e quello che doveva operare, provò un disperato scontento. Come nella indimenticata mattina {{Pt|d’au-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Utoutouto" />{{RigaIntestazione||— 253 —|}}</noinclude>{{Pt|tunno|d’autunno}}, egli sentiva tutta la sua debolezza, tutta l’imperfezione del suo carattere; ma ora, nel freddo e morto cerchio di quel vespero nevoso, disperava di trovar la sua via.
Avvicinando il volto ai vetri, tanto che il suo fumante alito li appannò, tornò ad immergersi nella visione del fuggente panorama nivale: le nuvole invadevano anche il lontano lembo sereno, le gocce del vetro tremavano grigie, ogni luce, ogni estrema speranza, ogni sogno moriva nell’uniforme, sconfinato, gelido squallore delle nevi. Tutta la vita, tutta la natura era un immenso cimitero marmoreo, e i morti, solo i morti parlavano nel lento avanzarsi delle nuvole cineree e nell’immacolato silenzio dei pallidi orizzonti.
Stefano pensò a Carlo, l’ultimo e il più amato de’ suoi morti, e fu in quella sera di supremo sconforto che vagamente, mentre disperava della vita e di se stesso, ebbe l’idea di porre il nome del defunto al figlio nascituro. Il pensiero dei morti lo spingeva verso coloro che dovevano nascere; e mai come in quella triste sera pensò più intensamente al figlio che fra pochi mesi, forse al maturar del grano, Maria gli avrebbe dato. Oh, se i morti parlavano nelle dilaganti nuvole nevose, i nascituri avevan sorriso nel lembo di cielo sereno, e il loro sorriso d’oro restava ancora occulto, ma potente e benefico, sulla tristezza dell’anima turbata. {{Pt|Las-|}}<noinclude></noinclude>
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{{A destra|{{sans-serif|'''Ugine — Urbino.'''}}}}
{{Centrato|{{Sc|Collegio di}} '''Ugine'''.}}
«ali Î
1 27 aprile 1848| 868 | 1° vot. 569 || De Villette (Cheyron) conte} 273 Fontaine Filippo, avv. cons. f 238 (a)
28» » Ball 544 Vittorio, gue di Ca-| 285 d'appello 259
mera di S. M.
II |22 genn. 1849| 868 447 Mathieu Antonio, ex inten-| 347 | Blane Pietro, avv .. 84 | Opzione (8)
dente genergle
20 marzo » 868 | 1* vot. 178 | De Lachenal Ambrogio, avv. 90 De Villette (Chevron) conte 87
21 » » Ball. Si 62: Vittorio 22
II 15 luglio >» 865 485 De Lachenal Ambrogio, avv. | 5359 Le Ta (Chevron) conte] 95
Ittono
IV 9 die. » | 1041 761 MO {Chevron) conte| 474 | De Lachenal Ambrogio, avv. | 257 | Dimissioni (0)
ittorio
15 die. 1851] 1162 | 1* vot. 330] Blano Maurizio. .. 120 | De Lachenal Ambrogio, avv. | 184
7 » » Ball. 320 175 142 È
v 8 die 1853] 923 | 1*vot. 508 || Blane Maurizio. . . 317 | De Lachenal Ambrogio, avv. 159 | Dimissioni {d)
11 » » Ball. 424 295 126
S1 die. 1854| 1103 | 1* vot. 350 | Mathieu Antonio, consigliere | 346 | De Lachenal Ambrogio, avv. 1
4 genn, 1855 Ball. 155 di Stato 155 »
VI 45 nov. 18571 1175 |[1* vot. 676! Lachenal Eugenio, dott. . .| 344 | De Lachenal Ambrogio, avv. | 319
» » Ball. 654 389 266
VII 25 marzo 1860|| 1278 |1* vot. 3421 Blane Maurizio. . .,,. 183 | De Lachenal Ambrogio, avv.| 135 e)
29 » » Ball = 184 140 | 39
{{Centrato|{{Sc|Collegio di}} '''Urbino'''.}}
VII ||27genn. 1861] 729 |1% vot. BAI] Silvani Paolo, avv ..| 195 | Valerio Cesare, ing . .| 135
Sfebbraio » Ball. 508 301 207
IX ||22 ottobre 1865| 774 |1*vot. 276 Seismit-Doda Luigi, gen. .: 146 | Gardini Galdino, prof. . . .|} 40
22 » i» Balli. 291 199 92
X . [|10 marzo 1867] 851 |1* vot. 336! Alippi Luizi,avv., consigliere 161 | Seismit-Doda Luigi, generale| 92
Hi *% » | Ball. 358 d'appello 187 168
i Leoni Quirino, avv. (15 vot.). 73
MI 20 nov, 1870] 1018 | 1*yot. 341] Alfppi Luigi,awv., consigliere | 230 | Villari Pasquale, prof .| 94
21 » » Ball. 405] d'appello 233 163
XII 8 nov. 18744 1038 | 1%vot. 451] Di Carpegna c.te Guido.. .| 159 Î Alippi Luigi, avv 148 || Proel. di ball.
» » Ball 419 a 213 7 203 "
: Pianciani e.te Luigi {1% vot.) | 138
(a) Nella tornata del 16 maggio 184s la Camera deliberò un'inchiesta per conoscere di varie irregolarità occorse in questa elezione, Essendo
esse apparse insussistenti l'elezione fu convalidata il 26 giugno 1848.
{b} Optò pel collegio di Annecy il 10 febbraio 1849,
(c) Dimissionario il ®1 novembre 1851,
(d) Dimisstonario il 1° dicembre 1854,
(€) Ceduta Savoja alla Francia (legge 11 giugno 1800) il collegio cessò di far parte del Regno d'Italia.
(7) Il 10 dicembre 1874 la Camera deliberò un nuovo ballottaggio fra Di Carpegna e Alippi perchè gli elettori di due Comuni non poterono,
nel 2° scrutinio, recarsi al capoluogo della sezione per impraticabilità delle strade e in considerazione della possibilità di nna modificazione del-
l'esito della votazione se quegli elettori non fossero stati da forza maggiore impediti dal votare.
--><noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="Carlomorino" />{{RigaIntestazione||– 702 –|}}
{{sans-serif|'''{{type|l=-0.5px|Ventimiglia — Verbicaro.'''}}}}</noinclude><!--a
<noinclude>{|class="tabella1"
{{Storia dei collegi elettorali/intestazione}}
|-
|colspan=9 |{{Ct|f=1.5em|v=1.5|t=1.5|''Segue'' {{Sc|Collegio di}} '''Ventimiglia.'''}}
|-
|-
|align=center|<small>Collegio uninominale</small>|| || || || || || || ||
|—
-->
<!--c
<br/>
{{cs|C}}| —
{{cs|L}}|
align=center|
V || 8 dic. 1853) 427|1ª vot. 295| Biancheri Giuseppe, avv.| 128 | Ricottì Ercole, prot.| 11 {a}
|nòo " Ball. 398 I86 | 149 |
| Ò
VI 15 nov. 1857) 607 383 Biancheri Giuseppe, avv.i 252! Cassini Francesco, avv. +.| 120
VII ||25 marzo 1860| 955 655 Biancheri Giuseppe, avv.| 552 Piana Giuseppe, avv.| 78
di et i =:. dl
Il {V. S. Remo) | f
{{nowrap|{{Wl|Q48803028|{{Sc|Collegio di}} '''Verbicaro'''.}}}}
VII ||27genn. IS61f 757 | 568! Giunti Francesco, dott| 348 | Gentile Alfonso, dott. 841
| i
IX 22 ottobre 1865) 684 367 Giunti Francesco, dott| 280 Balsano Ferdinando 67 |
X |1Omarzo 1867] 646| 459 | Giunti Francesco, ott| 273 | Casella Arcangelo. 102 |
| De Benedictis Gaetano, avv. 50 |
XI 420 nov. 41870} 637 |1ª vot. 359 Giunti Francesco, dott| 160 | De Benedictis Gaetano, sa 153, Morte {b)
27"" (Bel 485; | 246 |! 185]
| | |
| 7luglio 1872} 737 |1ª vot. 510 Giordano Francesco, ing.| 127 Ne Benedictis Gaetano, avv. 158
14"" Ball. 561 315: 237
De Seta Errico (1ª vot),. 86
i | |
XII i 1874] 866 (1ª vot. 688 Giordano Francesco, avv.| ale | Palermo Tommaso, avv! 168}
1"" [eo 435 | 200
| | De Seta Frane., avv. (1ª vot,)’ 150 Î
| i | | Fazio Luigi (id.) . 138ì
| | Î
XII 5 nov. 1876) 905 |1ª vot. 761! Fazio Luigi. Î 372 | Giordano Francesco, ing, 190
(12"" Ball. 781 | 525! 199 |
| De Seta Frane., avv. (1ª vot.)! 187 |
XIV |16maggio1880]1000| 749 |Fazio Luigi.! 404! De Seta Francesco, avv. 318 |
Scrutinio |
di lista | | |
XV, XVI [Compreso nal collagioî — " <= pui" =" |
e XVI di Cosenza IL E i i
| |
Collegi | I $ | |
uulanziasie. |
XVIII | 6nov. 1892] 3623 2394 De Novellis Fedele, dott. 1247 | Carlomagno Ang. Ant., avv. 1116
{a) Nella tornata del 23 dicembre 1853 la Camera deliberò un’inchiesta giudiziaria (delegata al presidente del magistrato d’appello di Nizza}
pugnata dallo stesso onorevole Biancheri, per conoscere la verità su accuse di corruzione denunziate da una protesta di 17 elettori della sezione
di Dolceacqua, Nella tornata del 24 marzo 1854, la Camera, udita la relazione dell’ufficio che concludeva per la convalidazione dell’elezione
non risultando che il Biancheri avesse preso alcuna purte ai brogli elettorali (anzi era assente dal collegio durante il periodo elettorale) è non
essendo provata la corruzione di alcun elettore, deliberava che gli atti dell’inchiesta fossero depositati per 3 giorni nella segreteria della Camera.
Infine nella tornata del 1° aprile 1854 l’elezione fu convalidata.
<ref>Morto il 5 giugno 1872.</ref>
-->
|-
|}<noinclude></noinclude><noinclude></noinclude>
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Carlomorino
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<noinclude><pagequality level="1" user="Carlomorino" />{{RigaIntestazione||— 696 —|}}
{{sans-serif|'''{{type|l=-0.5px|Velletri.'''}}}}</noinclude>{|class="tabella1"
{{Storia dei collegi elettorali/intestazione}}
|-
|colspan=9 |{{§|Velletri}} {{Ct|f=1.5em|v=1.5|t=1.5| {{Wl|Q48801900|{{Sc|Collegio di}} '''Velletri.'''}}}}
|-
|-
|align=center|<small>Collegio uninominale</small>|| || || || || || || ||
<!--c
<br/>
{{cs|C}}| —
{{cs|L}}|
align=center|
{{Wl|Q48801900|Collegio elettorale di Velletri}}
<!--a
XI 20nov. 1870] 561} 1* vot, 328 Caetani diSermoneta duca| 134 | Taneredi Vincenzo, avy. . .) 104 Opzione (a)
27 » » Ball. 267) Michelangelo. 184 | 1 &
i
|
8genn. 1871] 561) 1* vot. 256 | Tanoredi Vincenzo, avv.. .| 103 | Colaciechi Raffaele... . . 53 | Annullamento {b)
15 » > Ball. 279 | 153 125
23 febb. » 570 324 Tancredi Vincenzo, avy. . . 87 | Novelli Ettore... 2. 85 } Annallamento (¢)
Caucei-Molara mareh, Filippo 85 |
Colacicehi Raffaele... . 62
28 maggio » 560] 1° vot. 255 } Colacicchi Raflacle. . . .| 72 | Novelli Ettore... .. .. 9 | Annullamento (d)
4 gingno » Ball. 287 154 129 |
3 marzo 1872) 590] 1% vot. 350 | Caetani Onorato peine. di 95 | Novelli Etlore.. 2 2 2... 128
j20 » » Ball. 396 Teano. 251 136
! | Caucei-Molara march. Filippo a
(1* vot.). H
‘Taneredi Viniwenzo (id.). 2 | 53 |
. i]
Xu 8 nov. 1874) 1080] 1* vot. 558 | Caetan! Onorato prince. di] 246 | Novelli Rttore.. . 2... 101 ||
15 » > Ball. 563 Teano. 335 222 |;
Garibaldi Menotti (1* vot.) «| 96 |
Fasci Baltussarre {id.}. 2.) 60
XUL Snov. 1876 | 1060) 1° yot. 629 | Garibaldi Menotti, gen. . ./ 260 | CaetaniQuorato p.pedi Teano | 148 |
13, + Bali. 613 384 221
! H Taneredi Vine., avy. (1% vot.) | 128
! Novelli Luigi, avy. (id.}. .
anand
XIV ad 1880} 1042| 1* vot. 607 | Garibaldi Menotti, gen. . .| 317 | CactaniOnorato p.pedi Teano | 319
> >
Ball. $88 | | 439 354 |
Serausio | |
di lista I !
XV 29 ottobre 1882 || 13080 7693 Garibaidi Menotti, gen . .| 4937 | Gori-Mazzoleni Achille. . .| 3185 |
Capeluoge Ferri Felice... .... 4419 | Braschi duca Homualdo. . .| 801
dal Collage Glovagnoli Raflaello, prof... 4248 | |
xine th Baccelli Augusto, avy... .) 3868 |
{Dep. 4) i H | y
XVI | 23 maggio 1886 15182 9212 Garibaldi Menotti, gen. . . | 7255 | Giovagnoli Rallaello, fos .| 3497 | Opzione (2)
Ferri Felice. . 2.» 2 ! 5818 ° Colonna-Seiarra p. eo .: 2537 |,
Baccelli Augusto, avv. . . S677 Imbriani-Poerio Matteo Ren.| 95t
ens Onorato princ. di 4400 Giamimarioli Felice... . .| 430
eano.
I
)
25 luglio » | 15264 5067 Marchiori Giuseppe, dott.in 4547 Garilialdi Ricviotli, gen. . me
Opzione (f°)
! | matematiche, tl
<ref> Optò pel V collegio di Roma il 16 dicembre 1870.</ref>
Annullata 1'elezione il 30 gennaio 1871 perché nella sezione di Terracina, in votazione di ballottaggio, il secondo appello fu fatto alle ore dodici meridiane.
<ref> L'ufficio della sezione principale non proclamò il ballottaggio in seguito alle proteste di vari elettori, e deliberò rimettere gli atti alla Camera. La Giunta, il 25 aprile 1871, propose l’annullamento delle operazioni elettorali, che la Camera approvò, perchè nella sezione di Sezze avevano illegalmente preso parte al voto 17 elettori che non avevano diritto a ciò fare non essendo inscritti nelle liste elettorali.</ref>
<ref> Deliberata una inchiesta giudiziaria il 24 giugno 1871 per irregolarità e fatti di corruzione di cui in una protesta. Accertati questi fatti dall'inchiesta, l'elezione fu annullata il 3 febbraio 1872.</ref>
<ref> Opzione del deputato Caetani pel collegio di Ascoli Piceno il 29 giugno 1886.</ref>
<ref> Opzione del deputato Marchiori pel II collegio di Udine il 2 dicembre 1886.</ref>
inscritti
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|14|{{Sc|il re giovanni}}|}}</noinclude>{{Ct|t=3|v=2|f=150%|ATTO SECONDO}}
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{{Ct|t=2|v=1.5|f=120%|SCENA I.}}
{{Ct|v=1|f=90%|Francia. — Dinanzi alle mura d’Angers.}}
{{indentatura}}''Entrano da un lato l’''{{Sc|Arciduca}} ''d’Austria, dall’altro'' {{Sc|Filippo}} ''re di Francia coi loro eserciti;'' {{Sc|Luigi, Costanza}} ''e'' {{Sc|Arturo}} ''seguono quest’ultimo''.</div>
''Luig''. Prode duca d’Austria, siate il ben giunto dinanzi alle mura di Angers. Giovine Arturo, quell’eroe il di cui sangue scorre per le tue vene, Riccardo, che svelse il cuor di un leone, e che nelle guerre sante meravigliò la Palestina coi portenti del suo valore, discese troppo presto nel sepolcro, vittima di questo valente duca; ed è ora per espiarne la morte, servendo la sua posterità, che egli ha ceduto alle nostre istanze, e vien qui a spiegare i suoi vessilli in tua difesa. A respingere egli viene l’usurpazione di Giovanni d’Inghilterra, tuo zio snaturato: tu accoglilo, amalo, ed onoralo.
''Art''. Dio vi perdonerà la morte di Riccardo mio avolo, poichè date vita ai suoi discendenti, proteggendo i loro diritti all’ombra dei vostri stendardi. Ve ne ringrazio, porgendovi una mano impotente, ma insieme con essa un cuore pieno d’amor sincero. Siate il benvenuto dinanzi alle porte di Angers, valoroso duca.
''Luig''. Nobile fanciullo, chi non vorrebbe sostenere i tuoi diritti?
''Arc''. Possa questo tenero bacio, ch’io imprimo sulla tua gota, esser suggello del giuramento che ti fa la mia amistà! Essa ti giura, ch’io non rivedrò i miei Stati se non quando Angers, e i dominii che ti appartengono in Francia, non che quelle rive biancastre<ref>Si crede che il nome di Albione dato all’Inghilterra proceda dalle bianche scogliere con cui essa si mostra al continente.</ref> il di cui piede respinge l’onda spumante dell’Oceano, che ne separa gli abitanti dalle altre contrade d’Europa, quella fiera Inghilterra infine che il mar cinge con un baluardo di flutti e che irride baldamente a tutti i disegni degli stranieri, non ti abbia riconosciuto e salutato re da una punta all’altra del suo<noinclude><references/></noinclude>
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{{Ct|t=3|v=2|f=150%|ATTO TERZO}}
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{{Ct|t=2|v=1.5|f=120%|SCENA I.}}
{{Ct|v=1|f=90%|Il campo di Bolingbroke a Bristol.}}
{{indentatura}}''Entrano'' {{Sc|Bolingbroke, York, Northumberland, Peroy, Willoughby, Ross}}: ''ufficiali di dietro con'' {{Sc|Bushy}} ''e'' {{Sc|Green}} ''prigionieri''.</div>
''Boling''. Fate avvicinare coloro. — Bushy e Green, io non vuo’ cruciare le vostre anime (che fra un istante saranno separate dai loro corpi) rimproverandovi troppo i delitti della vostra vita: in ciò non sarebbe carità. Nondimeno, per assolvere le mie mani dall’effusione del vostro sangue, esporrò qui, dinanzi a testimoni, alcune delle cagioni della vostra morte. Voi avete pervertito un principe, un degno re, nato di un sangue generoso, dotato di un generoso volto, per voi fatto vile e quasi irriconoscibile. Voi avete, associandolo in qualche modo alle vostre orgie, cagionato il divorzio fra lui e la regina, a cui avete tolto il letto regale, la cui bellezza avete offuscata colle lagrime che le vostre ingiurie atroci le han fatto versare. — Io stesso, principe per fortuna e per nascita, affine al re per vincoli di sangue e di amore, io stesso mi sono veduto oppresso e vittima del vostro odio; e nato inglese, mi è convenuto respirare aria straniera, mangiando il pane amaro dell’esilio, intanto che voi vi impinguavate sulle mie terre, atterravate i cancelli dei miei parchi, spogliando i miei alberi di frutti, togliendo dalle mie finestre i miei stemmi gentilizi, non lasciando verun indizio che provar potesse che son nato nobile. Per simili iniquità e per molte altre, siete condannati alla morte. — Consegnateli (''agli ufficiali'') ai carnefici onde facciano loro subire la condanna.
''Bus''. Il colpo di morte è men fatale per me, che non lo sia Bolingbroke all’Inghilterra. — Signori, addio.
''Green''. Quello che mi racconsola è che il Cielo accoglierà le nostre anime, e punirà l’ingiustizia con castighi eterni.
''Boling''. Signore di Northumberland, vegliate alla loro esecuzione. (''esce Nort. coi prigionieri'') Zio, non diceste voi che la regina stava nel vostro castello? In nome del Cielo, abbiate cura che vi sia ben trattata: ditele che le invio l’assicurazione del mio<noinclude><references/></noinclude>
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''Boling''. Fate avvicinare coloro. — Bushy e Green, io non vuo’ cruciare le vostre anime (che fra un istante saranno separate dai loro corpi) rimproverandovi troppo i delitti della vostra vita: in ciò non sarebbe carità. Nondimeno, per assolvere le mie mani dall’effusione del vostro sangue, esporrò qui, dinanzi a testimoni, alcune delle cagioni della vostra morte. Voi avete pervertito un principe, un degno re, nato di un sangue generoso, dotato di un generoso volto, per voi fatto vile e quasi irriconoscibile. Voi avete, associandolo in qualche modo alle vostre orgie, cagionato il divorzio fra lui e la regina, a cui avete tolto il letto regale, la cui bellezza avete offuscata colle lagrime che le vostre ingiurie atroci le han fatto versare. — Io stesso, principe per fortuna e per nascita, affine al re per vincoli di sangue e di amore, io stesso mi sono veduto oppresso e vittima del vostro odio; e nato inglese, mi è convenuto respirare aria straniera, mangiando il pane amaro dell’esilio, intanto che voi vi impinguavate sulle mie terre, atterravate i cancelli dei miei parchi, spogliando i miei alberi di frutti, togliendo dalle mie finestre i miei stemmi gentilizi, non lasciando verun indizio che provar potesse che son nato nobile. Per simili iniquità e per molte altre, siete condannati alla morte. — Consegnateli (''agli ufficiali'') ai carnefici onde facciano loro subire la condanna.
''Bus''. Il colpo di morte è men fatale per me, che non lo sia Bolingbroke all’Inghilterra. — Signori, addio.
''Green''. Quello che mi racconsola è che il Cielo accoglierà le nostre anime, e punirà l’ingiustizia con castighi eterni.
''Boling''. Signore di Northumberland, vegliate alla loro esecuzione. (''esce Nort. coi prigionieri'') Zio, non diceste voi che la regina stava nel vostro castello? In nome del Cielo, abbiate cura che vi sia ben trattata: ditele che le invio l’assicurazione del mio<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|106|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>rispetto: sovvenitevi di porgerle il mio saluto e di chiarirle i miei pensieri.
''York''. Mandai uno dei miei ufficiali con una lettera, nella quale le dichiaro tutta l’affezione che sentite per lei.
''Boling''. Grazie, gentile zio. — Venite, signori, partiamo; andiamo a combattere contro Glendower e i suoi complici; ancora alcuni giorni di fatica ci rimangono, e poscia molti di riposo e di festa. (''escono'')
{{Ct|t=2|v=1.5|f=120%|SCENA II.}}
{{Ct|v=1|f=90%|Le coste del paese di Galles. — Un castello a qualche distanza.}}
{{Ct|v=1|lh=1.4|''Squillo di trombe: al suono del tamburo entrano il re'' {{Sc|Riccardo}}, ''il vescovo Carlisle'', {{Sc|Aumerle}} ''e soldati''.}}
''Ricc''. Non è il castello di Barkloughly, quello che là si vede?
''Aum''. Sì, milord: come trova Vostra Maestà l’aria dopo tanti giorni di tempesta?
''Ricc''. Mi è impossibile di non respirarla con avidità: piango di gioia veggendomi anche una volta sul suolo del mio regno. — Amata terra, ti saluto colla mia mano, sebbene i ribelli ti strazino coi ferri dei loro cavalli. Come una madre, da lungo tempo separata dal suo fanciullo, piange e sorride di tenerezza per la gioia di rivederlo, io ti saluto del pari, mia patria, e cogli occhi pieni di pianto, e il riso sulla bocca, ti palpo e ti bacio con effusione di affetto. Terra, amica di Riccardo, non alimentare il nemico del tuo sovrano! Rifiutati a rifocillare coi tuoi doni preziosi i suoi sensi affamati! Accumula sul suo cammino i tuoi rettili impuri, turgidi del tuo veleno, onde striscino sotto i suoi passi e pungano i piedi del vile usurpatore che osa calpestarli. Non produrre per quei ribelli che strazianti dumi; e se vogliono divellere dal tuo seno un fiore, cela, te ne scongiuro, accanto ad esso un serpe che lo difenda, e il cui doppio dardo infonda un mortal veleno nel cuore degli avversari del tuo re. — Badate, lôrdi, di non irridere alla mia imprecazione, o di crederla indirizzata ad un oggetto insensibile. Questa terra mi udrà, e le sue pietre si cangeranno in soldati armati, prima che il re, nato nel suo seno, soccomba sotto le armi colpevoli dei ribelli.
''Vesc''. Rassicuratevi, mio sovrano. Il potere che vi fece re è abbastanza forte per mantenervi tale, in onta di tutti: ma convien prendere il mezzo che il Ciel ci offre, e non negligerlo: altrimenti rifiuteremmo da noi la nostra salvezza.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|atto terzo}}|107}}</noinclude>
''Aum''. Ei vuol dire, mio principe, che siam troppo lenti, intantochè Bolingbroke, profittando della nostra sicurezza, s’ingrandisce e si fa forte.
''Ricc''. Cugino, che ti compiaci nello spaventarci, non sai tu, che, quando l’occhio penetrante dei cieli si nasconde dietro al globo, e scende a rischiarare il mondo, che è sotto i nostri piedi, è allora che sul nostro i pirati e i malfattori errano fra l’ombra invisibili e sanguinosi, spargendo per tutto l’omicidio e l’oltraggio? Ma allorchè il grand’astro, rialzandosi dal basso emisfero, colorisce da oriente le alte cime delle nostre foreste, e vibra i suoi raggi luminosi nelle caverne colpevoli, allora gli omicidii, i tradimenti, tutti i delitti abboniti, nudati del nero mantello delle tenebre, restano scoperti e fremono nel contemplarsi. Così, dacchè quel vile, quel traditor Bolingbroke, che corse tutta la notte, mentre noi eravamo assenti e cacciati quasi agli antipodi, ci rivedrà fulgidi e lieti rimontare sul nostro trono, i suoi tradimenti si dipingeranno sul confuso suo volto: ei non potrà sopportare lo splendore del dì, e atterrito di se stesso inorridirà alla vista del suo delitto. Tutti i flutti dell’Oceano non cancellerebbero l’augusto carattere di un re e l’unzione santa che lo ha consacrato. Il rappresentante d’Iddio, una volta eletto, non può essere abbattuto dal soffio di una voce mortale. Per opporlo agli uomini che Bolingbroke ha costretti ad alzare un ferro minaccioso contro la nostra corona, e per difendere Riccardo suo luogotenente in terra, Iddio arma nel Cielo un angelo immortale: e se gli angioli combattono per noi, convien che i deboli mortali soccombano! Il Cielo tutela i giusti. (''entra'' {{Sc|Salisbury}}) Siate il benvenuto, milord. A qual distanza è il vostro esercito?
''Sal''. Non più presso, nè più lontano, mio grazioso principe, che noi sia questo debole braccio. Lo scoramento domina la mia voce, e non mi permette altra parola che ''disperazione''. Temo, signore, che un giorno di più non abbia oscurato tutta la gloria dei tuoi bei giorni. Oh! fa retrocedere il tempo, richiama il dì di ieri, e avrai ancora dodicimila combattenti: ma questo giorno che ti illumina, questo sventuratissimo giorno disperde i tuoi amici e abbatte ogni tua grandezza. Tutti i Gallesi, alla voce sparsa della tua morte, disertarono e si congiunsero a Bolingbroke.
''Aum''. Coraggio signore. Perchè impallidite così?
''Ricc''. Non è che un momento, che il sangue di ventimila uomini parati alle mie difese mi riempiva di fiducia: ma e’ m’han derelitto! Fino a che io non rivegga un egual numero di combattenti, avrò io motivo per non esser pallido e costernato? Tutti<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|108|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>quelli che amano la loro sicurezza mi abbandonano..... Il tempo, lo veggo, ha accumulata una densa nube sulla mia gloria.
''Aum''. Racconsolatevi, mio sovrano; rammentate chi siete.
''Ricc''. Lo avea dimentico: non sono io il re? Risvegliati, pigra maestà! Tu dormi? Il nome di re non vai forse quarantamila uomini! armati, armati, nome onnipossente! Un vil suddito osa aggredire la tua suprema grandezza! Non affiggete così i vostri occhi sulla terra (''ai lôrdi''), voi favoriti di un re. Non siam noi i Grandi del regno? Grandi siano adunque i nostri pensieri! So che mio zio di York ha forze bastanti per difendere i nostri diritti. — Ma chi si avanza? (''entra'' {{Sc|Scroop}})
''Scro''. Il Cielo conceda maggior salute e felicità al mio sovrano, che la mia voce, nunzia di sventura, non glie ne possa arrecare.
''Ricc''. Il mio orecchio è aperto, e il mio cuore apparecchiato. I mali maggiori che tu potessi annunciarmi non saranno mai che una perdita di beni temporali. Tu puoi spiegarti, parla: il mio regno è caduto? Ebbene, era per me una sorgente d’inquietudine, e nulla si perde perdendo tali molestie. Bolingbroke aspira egli a divenir grande quanto il fummo noi? Maggiore nol diverrà mai: e s’ei serve Iddio, noi pure lo serviremo e in ciò saremo eguali. I miei sudditi si ribellano? È un infortunio a cui non posso por riparo: ma e’ violano la fede che han giurata a Dio e a noi. Dichiara adunque, decadenza, perdite, ruina, distruzione: il peggiore dei guai è..... la morte, e la morte ha il suo dì inevitabile.
''Scro''. Son lieto di vedere che Vostra Maestà siasi afforzata di tutto il suo coraggio per sostenere l’avversità. Simile a tempesta subitana e orribile che gonfia i pacifici fiumi al disopra delle loro rive sommerse, come se il mondo si fosse tutto sciolto di lagrime, così si spande lontano l’alto furore di Bolingbroke, coprendo i vostri Stati atterriti d’armi e d’acciaio, e di cuori più duri anche dell’acciaio. I vecchi dalla barba folta e incanutiti per gli anni, vestirono di elmi le calve loro teste contro Vostra Maestà: i fanciulli si sforzano d’ingrossare la loro voce femminile, e intesi ad imitare i suoni maschi dei guerrieri veggonsi coprire le delicate loro membra con armi pesanti per investire la vostra corona. Fino i vostri limosinieri, da voi pagati per pregar Dio per voi, imparano a piegar l’arco per valersene in danno vostro; e le donne, le di cui mani non conoscono che la conocchia, si addestrano nei loro focolari a trattare il brando, e minacciano il vostro trono. Giovani e vecchi, tutti si ribellano: e la verità è anche più orribile del mio racconto. Ogni cosa è in uno stato più deplorabile, ch’io non vel possa esprimere.<noinclude><references/></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|atto terzo}}|109}}</noinclude>
''Ricc''. Esponesti abbastanza bene tutti i miei danni. Dove è il conte di Vilthshire? Dove Bagot? Che avvenne di Bushy? Dove è Green? Così lasciarono essi un pericoloso nemico avanzarsi in pace sopra le nostre frontiere? Se alfine vinceremo, le loro teste ne faranno ammenda. — Ho fede che e’ fecero la pace con Bolingbroke.
''Scro''. Questo fecero infatti, milord.
''Ricc''. Oh, scellerati! Vipere dannate senza redenzione! Cani, avvezzi a lambir la mano di ognuno! Serpi che riscaldai nel mio fieno, e che ora mi pungono il cuore! Traditori mille volte più detestabili di Giuda! E’ fecer pace? Il terribile inferno faccia un’eterna guerra alle impure loro anime per questo atto vile.
''Scro''. Signore, lo veggo, la tenera amicizia cangia natura e muta ad odio mortale. — Rivocate le vostre maledizioni dalle loro anime; e’ fecer pace dando i loro capi, non le loro mani. Quelli che maledite riceverono il colpo crudele della morte, e giacciono ora profondati nella terra.
''Aum''. Bushy, Green e il conte di Wilthshire sono morti?
''Scro''. Sì, tutti e tre a Bristol perderono la testa.
''Aum''. Dov’è il duca mio padre col suo esercito?
''Ricc''. Non vale ov’ei sia; niuno parli di conforti; discorriamo di tombe, di vermi e d’epitafi, riduciamo in polvere le nostre carte, e colla pioggia dei nostri occhi scriviamo il nostro dolore sul seno della terra. Scegliamo i nostri esecutori testamentarii, e dettiamo le nostre ultime volontà. Ma nondimeno, no..... perocchè che potremmo noi lasciare, tranne il cadavere di un re detronizzato? Le nostre terre, la nostra vita, tutto appartiene a Bolingbroke, e nulla più v’è che possiamo dir nostro, fuorchè la morte, e questo misero ed ultimo vestimento di argilla, che inviluppa e cuopre le nostre ossa. In nome del Cielo, assidiamoci sopra la terra, e riandiamo le triste istorie della morte dei re. Quanti monarchi balzati di seggio! Quanti uccisi in guerra! Quanti incalzati ognora dalle larve di coloro ch’essi avevano atterrati! Quanti avvelenati dalle loro donne, o sgozzati fra le braccia del sonno o in altra guisa vilmente assassinati! La morte ha stabilita la sua corte nel cerchio di questa corona che circonda la mortal fronte dei re: è qui che schernitrice si asside, e che irridendo alla vana maestà, l’insulta; e dopo aver concesso all’uomo un lieve soffio di vita, una breve scena regale, annulla con uno sguardo tutto il suo orgoglio e la sua stolta presunzione. Coprite i vostri capi (''ai lôrdi'') e non beffate con omaggi profondi una massa fragile di carne e sangue. Bandite il rispetto, le {{Pt|for-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|110|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>{{Pt|malità|formalità}}, le cerimonie, inutili mostre approvate dall’uso. Voi v’ingannaste; e mi avete sconosciuto fin qui: io vivo come voi di pane; sento come voi i bisogni e gli amari dolori; a me occorrono amici quali voi siete. Soggetto a tante necessità, come potete voi dire ch’io sono un monarca?
''Ves''. Signore, l’uomo saggio non deplora mai i mali presenti, ma usa il presente ad evitare di deplorarne altri nell’avvenire. Temer così il vostro nemico e lasciar che lo sconforto soggioghi la vostra operosità è fortificare colla vostra debolezza la potenza del vostro avversario; e con ciò il vostro folle dolore combatte contro di voi stesso. — Temere ed essere ucciso..... nulla di peggio vi può accadere combattendo..... Lottare e morire è un rendere la morte che si riceve, e distruggere il distruttore: mentre morire tremando è un cedere da schiavo alla morte il tributo della propria esistenza.
''Aum''. Mio padre ha un esercito; fate ricerca di lui, e sappiate con un membro solo comporre un corpo.
''Ricc''. Tu mi rimproveri con senno. — Vengo, superbo Bolingbroke, a misurarmi con te, in questo giorno fatale che definirà la nostra sorte. L’accesso del dolore è interamente dissipato; e facile è il vincere noi stessi. — Dimmi, Scroop, dov’è nostro zio colle sue schiere? Parla dolcemente, uomo, sebbene i tuoi sguardi siano aspri.
''Scro''. Gli uomini giudicano dal cielo dello stato e delle tendenze del giorno: voi potreste del pari leggere nei miei sguardi tristi e abbattuti, che la mia lingua vi serba un racconto anche più funesto. Io compio qui in onta mia la parte di un tormentatore che prolunghi lentamente le vostre agonie, aspettando a vibrare per ultimo il colpo più crudele. Il vostro zio di York si è unito a Bolingbroke: tutti i vostri castelli del nord si sono arresi a lui, e la nobiltà delle provincie del mezzogiorno si è posta sotti suoi vessilli.
''Ricc''. Dicesti abbastanza. — Maledizione su di te, cugino crudele, (''a Aum.'') che mi strappasti alla dolcezza che stavo per gustare nella disperazione! Che dici tu ora? Quale speranza ci rimane? Pel Cielo! io odierò con odio mortale chiunque intenderà omai di consolarmi. Andiamo al castello di Flint. Ivi vuo’ morire’ del mio dolore. Si vedrà colà un re, oppresso dalla sventura, sottomettersi alla sventura regalmente. Licenziate gli uomini che mi rimangono; e se ne vadano a lavorare la terra che offre loro ancora qualche soccorso. Per me non ne rimane più alcuno. — Nessuno dica motto per farmi mutar pensiero: ogni consiglio è vano.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|atto terzo}}|111}}</noinclude>
''Aum''. Signore, una parola.
''Ricc''. Mi oltraggia doppiamente chi mi blandisce colle sue adulazioni. — Congedate il mio seguito. Fugga ognuno lungi dalla notte tenebrosa in cui Riccardo è sepolto, e vada ad irradiarsi alla luce che rischiara Bolingbroke. (''escono'')
{{Ct|t=2|v=1.5|f=120%|SCENA III.}}
{{Ct|v=1|f=90%|Dinanzi al castello di Flint.}}
{{Ct|v=1|lh=1.4|''Entrano con tamburi e bandiere'' {{Sc|Bolingbroke}} ''e il suo esercito;'' {{Sc|York, Northumberland}}, ''ed altri''.}}
''Boling''. Così, questa notizia ne arreca che i Gallesi sono dispersi, e che Salisbury si è unito al re che dianzi approdò su questa costa con alcuni intimi amici.
''Nort''. La novella è vera, dolce signore: Riccardo ha nascosto il suo capo non lungi di qui.
''York''. Sembrerebbe che lord Northumberland dovesse dire il re Riccardo. — Oh giorno sciagurato, in cui il legittimo sovrano è costretto a celarsi!
''Nort''. Vostra Grazia non mi intese; fu solo per amore di brevità che omisi il suo titolo.
''York''. Passò un tempo in cui se aveste osato di essere così breve, vi si sarebbe per tutta licenza accorciato di tutta la lunghezza della testa.
''Boling.'' Non vi offendete, zio, più che non dobbiate.
''York''. Nè voi, buon cugino, inoltrate più che non convenga, per tema di non smarrire. Il Cielo è al disopra della vostra testa.
''Boling''. Lo so, zio; e non mi opporrò ai suoi voleri. — Ma chi viene verso di noi? (''entra'' {{Sc|Percy}}) Ebbene, Enrico; non si arrenderà il castello?
''Percy''. Il castello è regalmente difeso, milord, contro di te.
''Boling''. Regalmente! Ma in esso non istanno re.
''Percy''. Sì, mio buon signore, esso contiene un re! Il re Riccardo è racchiuso fra le mura che là vedete, e con lui sono i lôrdi Aumerle e Salisbury, sir Stefano Scroop, e un venerando prelato di cui non potei sapere il nome.
''Nort''. Forse il vescovo di Carlisle.
''Boling''. Nobile lord, (''a Nort''.) avanzatevi fino alle mura di quell’antico castello, e lo squillare della tromba ne chiami gli {{Pt|abi-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|112|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>{{Pt|tatori|abitatori}} a parlamento, con questo messaggio pel re. «Enrico di Bolingbroke, prostrato sulle sue ginocchia, bacia con rispetto la mano di Riccardo, e manda a Sua Maestà l’assicurazione del suo omaggio, e della fede leale del suo cuore. Egli qui viene per porre a’ suoi piedi le armi e l’esercito; purchè la rivocazione del suo bando sia pronunziata, e i suoi dominii gli vengano restituiti. Ove ciò non segua, userà del vantaggio della sua potenza, e annaffierà la polvere della state con torrenti di sangue versati da ferite inglesi: sebbene quanto costi al cuore di Bolingbroke di essere costretto ad arrossare di sangue la faccia ridente e fiorita di questo bel regno, possono provarlo la sua umile sommissione e il suo tenero affetto». — Va, recagli queste parole; intantochè noi ci avanzeremo sul tappeto di questa pianura verdeggiante. — (''Nort. si dirige al castello con un trombetto'') Marciamo senza far udire minaccioso strepito dei tamburi, onde nulla turbi i negoziati che stanno per farsi dall’alto delle mura ruinose di quel castello. — Mi sembra, che l’incontro del re Riccardo e di noi non debba riescire nè meno violento, nè meno terribile di quello di due elementi nemici, che nel loro urto formidabile squarciano con gran rumore la fronte nebulosa del cielo. — Ma sia egli il fuoco, io sarò scorrevole come l’acqua: infuni a sua posta, mentre io passerò mollemente sopra la terra e non sopra di lui. Marciamo innanzi e osserviamo quale sarà l’aspetto di Sua Maestà.
{{blocco a destra|larghezza=75%|(''il trombetto chiama a parlamento, e gli vien risposto dall’interno della fortezza. Entrano sulle mura il re'' {{Sc|Riccardo}}, ''il vescovo di Carlisle'', {{Sc|Aumerle, Scroop}} ''e'' {{Sc|Salisbury}}).}}
''York''. Vedete, vedete il re Riccardo comparisce splendido e malinconico come il sole alla porta infiammata dell’Oriente, allorchè vede nubi gelose che si apprestano ad offuscare la sua maestà. Nondimeno mantiene l’aspetto di re: mirate il suo occhio, lucido e sfolgorante come quello dell’aquila, di quanta gloria fregia il suo volto! Oimè, oimè, quale onta sarebbe il fare oltraggio a sì sublimi sembianze!
''Ricc''. Siamo stupiti, e così fummo lungamente, vedendo che il tuo ginocchio (''a Nort''.) non piegava dinanzi a noi, che credevamo essere il tuo legittimo sovrano. Se è vero che lo siamo, come osi tu obliare di porger l’omaggio che devi alla nostra presenza? se nol siamo, mostraci quando fu che la mano di Dio ci tolse quell’autorità che ci aveva accordata: imperocchè ben sappiamo che alcuna mano di carne e sangue non può toccare il nostro<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|atto terzo}}|113}}</noinclude>sacro scettro se nol profani, nol derubi, non lo usurpi. Ma quantunque tu creda che tutti i miei soggetti, imitando il vostro esempio, mi abbiano tolto il loro cuore, separandolo dal nostro, e che noi siamo abbandonati e privi d’amici; sappi che il mio signore, il Dio onnipossente, raduna nell’aere, in nostro favore, eserciti di nubi pestilenziali che abbatteranno i vostri figli che ancor debbono nascere, e li puniranno per avere i padri loro ardito alzar mani vassalle contro la testa del loro re, attentando alla gloria di questa augusta corona. Di’ a Bolingbroke (perocchè è lui che parmi vedere laggiù) che ogni passo ch’ei fa nei miei Stati è un delitto, un tradimento. Ei viene ad aprire il volume sanguinoso della guerra; ma prima che la corona, a cui intendono i suoi sguardi, riposi in pace sopra il suo capo, quante madri vedranno i cranii ammonticchiati dei loro figliuoli contristare la ridente superficie di questi campi! La bella pace gemerà manomessa dalla guerra, e queste vaste pianure saranno inondate dal sangue più puro e più fedele dell’Inghilterra.
''Nort''. Il Re del Cielo non voglia mai che i vostri sudditi armino così le loro braccia per avventarsi contro il loro monarca! Il tuo illustre e generoso cugino, baciandoti umilmente la mano, ti giura per l’onorata tomba che cuopre le ceneri del vostro regio avo, per la regal nobiltà del vostro sangue, la cui sorgente comune si è divisa fra di voi due e scorre per le vostre vene, per l’inanime polso del bellicoso Gaunt, per la sua gloria e il suo onore personale, sacramento che val tutti gli altri, che il suo ritorno in questo regno non ha altro intento che di reclamare la sua eredità, e di dimandarvi genuflesso il libero godimento de’ suoi diritti. Appena Vostra Maestà abbia aderito alla sua istanza, ei ridona tosto alla ruggine del riposo le sue armi brillanti, rimette nelle stalle i suoi rapidi corsieri, e consacra il suo cuore al fedel servigio della Maestà Vostra. Questo è quanto promette di osservare da principe giusto e onorato: io sulla mia fede di nobile, ne sarò il garante.
''Ricc''. Northumberland, digli: «questa è la risposta del re. Il suo nobile cugino è qui il ben accolto, e tutte le sue giuste dimande verranno appagate». Quindi, coi termini più graziosi che saprai trovare, assicuralo de’ miei teneri sentimenti. — (''Nort. va verso Boling.; il Re si volge ad Aum''.) Io mi umilio, non è vero, cugino, mostrando tanta debolezza e parlando con sì gran bontà? Debbo invece richiamare Northumberland, e mandare un cartello al traditore, per morire?
''Aum''. No, no, mio buon sovrano: combattiamo con miti {{Pt|pa-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|114|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>{{Pt|role|parole}}, fin {{ec|[che]|che}} il tempo ci presti amici, e questi amici il soccorsa delle loro spade.
''Ricc''. Oh Dio! oh Dio! Convien dunque che la mia bocca, che pronunziò sentenza di bando contro quel suddito altero che veggo laggiù, la revochi oggi con detti sì cortesi! Oh! perchè non son io così grande come lo è il mio dolore; o perchè non sono al disotto del titolo che porto, onde poter obliare quello che fui; nè sentir ciò che sono! Pulsi tu feroce, mio cuore? Io te ne darò ben donde: dappoichè i tuoi nemici intendono di avvilirci entrambi.
''Aum''. Northumberland ritorna da Bolingbroke, signore.
''Ricc''. Che debbe far ora il re? Debbe sottomettersi? Ebbene, il re si assoggetterà. Debb’essere detronizzato? Lo sia. Debb’ei perdere il titolo di re? In nome di Dio, tal titolo vada disperso! Cangierò i miei diamanti in un rosario, i miei superbi palagi in un eremo, la porpora che mi cuopre nella tunica del mendicante, le mie tazze d’oro in coppe di legno, il mio scettro in un bastone di palma, i miei sudditi in grossolane statue di santi, e il mio vasto regno in una angusta e oscura tomba! forse sarò io sepolto nella pubblica via, in loco dove il piede de’ miei soggetti possa ad ogni istante calpestare il capo del loro sovrano; avvegnachè essi calpestano di già il mio cuore, sebbene io respiri? Questo avvenga; e perchè nol farebbero? Aumerle, tu piangi! Mio tenero e buon cugino! — Oh! piangiamo, piangiamo fino a scavarci una fossa colle lagrime: suscitiamo una tempesta coi nostri pianti dispregiati; essi e i nostri sospiri distruggeranno la messe estiva e recheranno la fame in questa terra ribelle: ovvero irridiamo ai nostri danni, e intendiamo soltanto a farci col pianto il sepolcro, affinchè su di esso venga scritto: ''qui giacciono due cugini che si scavarono la tomba colle lagrime''. Tal male allora volgerà in letizia. — Ma veggo ch’io prorompo in vaniloquii, e divengo schernevole ai tuoi occhi. — Potente principe, (''a Nort. che ritorna'') lord Northumberland, che dice il re Bolingbroke? Sua Maestà vuol concedere a Riccardo di vivere, finchè Riccardo muoia? Quel profondo saluto mi chiarisce che Bolingbroke dice del sì.
''Nort''. Signore, ei vi aspetterà nella corte del palazzo per conferire con voi: volete discendere?
''Ricc''. Sì, discenderò come il lucido Fetonte, lasciando sfuggire le redini di indocili cavalli. — Nella corte? (''Nort. torna da Boling''.) Un re si umilierà fino a venirne a conferenza con un traditore, fino a fargli grazia! Nella corte? discendiamo, {{Pt|discen-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|atto terzo}}|115}}</noinclude>diamo dalla nostra grandezza! I gufi mandano gridi lugubri dove li dovrebbe udir solo il canto dell’allodola. (''discendono'')
''Boling''. Che dice Sua Maestà?
''Nort''. Il dolore, di cui il suo cuore è pieno, lo farà parlare come un demente: nondimeno ei viene verso di voi. (''entrano il re Riccardo e il suo seguito'')
''Boling''. Ritiratevi tutti a parte, e mostrate il più gran rispetto per Riccardo. — Mio grazioso signore... (''inginocchiandosi'')
''Ricc''. Gentil cugino, voi invilite il vostro sovrano ginocchio toccando con esso la vil polvere della terra. Preferirei che il mio cuore sentisse gli effetti della vostra amistà, anzi che vedere quel rispettoso omaggio che mi ferisce. Alzatevi, cugino, alzatevi: imperocchè sebbene i vostri ginocchi si abbassino tanto, il vostro cuore si solleva, lo so, fino almeno a quest’altezza. (''toccandosi il capo'')
''Boling''. Mio grazioso signore, non vengo che per patrocinare la mia causa.
''Ricc''. La vostra causa è vinta, e siamo tutti in vostra potestà!
''Boling''. Siatelo, mio temuto monarca, finchè i miei fedeli servigi meriteranno il vostro amore.
''Ricc''. Per ora lo meritate: chè è ben meritarlo il conoscere i mezzi più sicuri e più forti per ottenerlo. — Zio (''a York'') datemi la mano: tergete le vostre lagrime: esse provano l’amistà, ma non riparano i mali. — Cugino, (''a Boling''.) son troppo giovine per esser vostro padre, quantunque voi siate abbastanza vecchio per esser mio erede: quello che volete avere ve lo darò di buon grado; perocchè convien far di buon grado ciò che la forza ci obbligherebbe di fare. — Andiamo verso Londra. — vi piace, cugino?
''Boling''. Sì, mio buon signore.
''Ricc''. Allora io non debbo dir di no. (''squillo di trombe; escono'')
{{Ct|t=2|v=1.5|f=120%|SCENA IV.}}
{{Ct|v=1|f=90%|Langley. — Il giardino del duca di York.}}
{{Ct|v=1|lh=1.4|''Entrano la regina e due Signore''.}}
''Reg''. Che far potremmo in questo giardino per sollevar la mia anima dalle nere inquietudini che la divorano?
1ª ''Sig''. Signora, giuocheremo alle boccie, se lo bramate.
''Reg''. No, tal giuoco mi farebbe pensare che il mondo è pieno<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|116|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>di ineguaglianze e di ostacoli, e che la mia fortuna, distolta dal suo corso, si avvia al precipizio.
1ª ''Sig''. Ebbene, danzeremo.
''Reg''. Non saprei conservare il tempo nella danza; mentre il mio povero cuore è in preda a un dolore senza misura: non parliam di danza, fanciulla; qualch’altro sollazzo.
1ª ''Sig''. Signora, novelleremo.
''Reg''. Di dolore, o di gioia?
1ª ''Sig''. Di entrambe cose, signora.
''Reg''. Di niuna di esse, fanciulla: perocchè se di gioia fosse, ciò non varrebbe che a richiamare le mie pene, a me, che priva sono di ogni contento, se di mestizia, non si farebbe che accrescere il mio dolore, che non ha d’uopo di essere accresciuto: però mi sarebbe doloroso il compiangere i mali che ho; doloroso il lamentare i beni che più non posseggo.
1ª ''Sig''. Dunque, canterò.
''Reg''. È bene che tu lo possa; ma mi piaceresti di più piangendo.
1ª ''Sig''. Piangerei, signora, se le mie lagrime valessero a sollevarvi.
''Reg''. Ed io pure potrei piangere se il piangere mi giovasse, e non avrei bisogno del soccorso delle tue lagrime. — Ma cessa — Odo i giardinieri: ascondiamoci fra le ombre di questi alberi. — Vorrei arrischiare le mie sventure contro un mazzetto di spille, che essi parleranno dello Stato; perocchè ognuno ne favella nei momenti delle grandi catastrofi. — Le gravi calamità son sempre precedute da presagi generali. (''La Regina e le signore si ritirano. Entra un giardiniere e due operai''.)
''Giard''. Va a potare quello impronto albicocco, i di cui frutti, come figli ingrati e indocili, fan piegare il padre loro sotto l’oppressione d’un peso eccessivo: puntella quindi il tronco affaticato. — Tu, riseca quei polloni tanto rigogliosi; troncane il capo che si innalza di troppo, e domina sulla nostra repubblica. Tutto deve essere ad un livello nel nostro governo. — Intantochè attenderete a ciò, io estirperò quelle erbe moleste, che rubano senza alcun profitto alla terra succhi che appartengono a fiori salutari.
1° ''Op''. Perchè pretenderemmo noi nello spazio di questo angusto giardino mantener leggi e norme, allorchè la gran terra cui racchiude l’oceano, il regno nostro, è piena di dumi; e i suoi più bei fiori son cincischiati, i suoi alberi fruttiferi negletti, le sue siepi atterrate e ogni altra pianta manomessa?
''Giard''. Ristatti in pace. — Quegli che tollerò infierisse tanta<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|atto terzo}}|117}}</noinclude>tempesta in primavera, volge ora alla stagione della caduta delle foglie. Gli sterpi malefici, ch’ei proteggeva colla vasta sua ombra e che lo divorano facendo le lustre di sostentarlo, sono divelti fino dalla radice da Bolingbroke; intendo di Withshire, di Bushy e di Green.
1° ''Op''. Che! Son essi morti?
''Giard''. Sono morti, e Bolingbroke ha fatto prigioniero il re dissipatore. — Oh! quale sventura ch’egli non abbia coltivato il suo regno, come noi abbiamo coltivato questo giardino! Noi, in certa stagione dell’anno, feriam col ferro la tenera radice dei nostri alberi per tema che riboccanti di succhi non periscano vittime della loro ricchezza. S’egli del pari avesse adoperato coi grandi e cogli ambiziosi, essi avrebbero potuto vivere per essere utili, egli per godere dei frutti della loro obbedienza. Noi potiamo tutti i rami soverchi per conservar la vita ai fecondi che rimangono: ove avesse ciò fatto Riccardo, ei cingerebbe quella corona che la sua oziosa indolenza, e il suo lusso rovinoso fecero cadere dalla sua testa.
1° ''Op''. Che! Credete voi che il re sia deposto?
''Giard''. Lo è già. La notte scorsa sono venute lettere ad un amico del buon duca di York, recanti novelle infaustissime.
''Reg''. Oh! io mi sento soffocata dal mio silenzio! Tu, vecchio, posto alla cura di questo giardino (''avanzandosi''), che mi dai imagine del vecchio Adamo, come la temeraria tua lingua osa ella ridire sì triste novelle? Qual Eva, qual serpente ti ha sedotto per esporti a meritare la tua caduta e a rinnovare sul tuo capo la maledizione proferita sul padre degli umani? perchè asserisci tu che il re Riccardo è deposto? Osi tu, tu che non più nobile sei di questa polvere vile, presagire la sua caduta dal trono? Dimmi, dove, quando e come ti son giunte queste notizie? Rispondimi, miserabile.
''Giard''. Signora, perdonate. Io non godo nel ripetere tali racconti; ma quel che dico è vero. Il re Riccardo sta sotto la terribile mano di Bolingbroke; le fortune di entrambi sono pesate nella bilancia. Dal lato del vostro sposo non v’è che egli solo e le sue frivolezze che lo rendono anche più lieve: dal lato del gran Bolingbroke sono i Pari dell’Inghilterra che contrastano e vincono il re Riccardo. Fatevi condurre a Londra, e vedrete ivi la verità di quanto asserisco: io non ripeto qui che ciò che tutti sanno.
''Reg''. Oh avversità, il di cui volo è sì rapido, non era a me che appartenevano le primizie del tuo sinistro messaggio? E l’ultima<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|118|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>sono ad esserne istruita! Oh! tu non mi servi che per ultima, perocchè sai che sono io che debbo conservare più lungo tempo nel mio seno la tua dolorosa puntura. — Venite, mie amiche; andiamo a trovare a Londra il re di Londra nell’infortunio. — Oh Cielo! sono io nata perchè il mio dolore accresca i trionfi del superbo Bolingbroke! — Giardiniere, per avermi annunziate queste disastrose novelle, auguro alle piante che coltivi di non prosperar mai. (''esce col suo seguito'')
''Giard''. Povera regina! Se da ciò dipendesse che tu fossi meno infelice, vorrei che la mia arte andasse soggetta ad ogni tua maledizione. — Qui cadde una delle sue lagrime, e qui pianterò un ramo di sensitiva, erba di grazia e di commiserazione; in questo luogo fra breve il germoglio crescerà, monumento solenne dei pianti di una Sovrana. (''escono'')
{{rule|4em}}<noinclude><references/></noinclude>
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Vita e morte del Re Riccardo II/Atto terzo
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{{Ct|t=3|v=2|f=150%|ATTO QUARTO}}
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{{Ct|t=2|v=1.5|f=120%|SCENA I.}}
{{Ct|v=1|f=90%|Londra. — La sala di Westminster. — Il Clero alla dritta del trono; la Nobiltà alla sinistra; i Comuni al disotto.}}
{{indentatura}}''Entrano'' {{Sc|Bolingbroke, Aumerle, Surrey, Northumberland, Percy, Fitzwater}}, ''un altro Lord, il Vescovo di Carlisle, l’abate di Westminster, e seguito; uffiziali al di dentro con'' {{Sc|Bagot}}.</div>
''Boling''. Si faccia avanzare Bagot. — Ora parla liberamente e di’ quello che sai intorno alla morte del nobile Glocester. Chi la tramò di intelligenza col re? Qual mano assunse di eseguire quell’ordine sanguinoso, di troncare prima del tempo il filo de’ suoi giorni?
''Bag''. Fate comparire dinanzi a me lord Aumerle.
''Boling''. Cugino, avanzatevi e guardate quest’uomo.
''Bag''. Lord Aumerle, io vi conosco abbastanza ardito per non volere disconfessare quello che la vostra bocca ha una volta dichiarato. Nei tempi iniqui, in cui si statuì la morte di Glocester, io vi udii dire: «il mio braccio è abbastanza lungo per abbattere, dal seno della corte d’Inghilterra, la testa di mio zio a Calais». Fra molti altri propositi che teneste in quei tempi, diceste ancora che avreste rifiutata l’offerta di centomila scudi, piuttosto che acconciarvi col ritorno di Bolingbroke; aggiugnendo che massima ventura di questo regno sarebbe stata la di lui morte.
''Aum''. Principi e nobili lôrdi, qual risposta degg’io fare a quest’uomo da nulla? Dovrò io disonorare l’illustre stella della mia nascita, discendendo fino a lui, per punire la sua insolenza? Ciò m’è pur troppo necessario, a meno che non acconsentissi di vedere il mio onore macchiato dall’accusa della sua bocca calunniatrice. Eccoti il pegno. (''gli getta il guanto'') È per te arra di morte e condanna d’inferno. — Sosterrò a spese del tuo vil sangue, indegno di macchiare lo splendore della mia spada da cavaliere, che quello che hai detto è falso.
''Boling''. Fermati, Bagot, ti vieto di accettarlo.<noinclude><references/></noinclude>
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''Boling''. Si faccia avanzare Bagot. — Ora parla liberamente e di’ quello che sai intorno alla morte del nobile Glocester. Chi la tramò di intelligenza col re? Qual mano assunse di eseguire quell’ordine sanguinoso, di troncare prima del tempo il filo de’ suoi giorni?
''Bag''. Fate comparire dinanzi a me lord Aumerle.
''Boling''. Cugino, avanzatevi e guardate quest’uomo.
''Bag''. Lord Aumerle, io vi conosco abbastanza ardito per non volere disconfessare quello che la vostra bocca ha una volta dichiarato. Nei tempi iniqui, in cui si statuì la morte di Glocester, io vi udii dire: «il mio braccio è abbastanza lungo per abbattere, dal seno della corte d’Inghilterra, la testa di mio zio a Calais». Fra molti altri propositi che teneste in quei tempi, diceste ancora che avreste rifiutata l’offerta di centomila scudi, piuttosto che acconciarvi col ritorno di Bolingbroke; aggiugnendo che massima ventura di questo regno sarebbe stata la di lui morte.
''Aum''. Principi e nobili lôrdi, qual risposta degg’io fare a quest’uomo da nulla? Dovrò io disonorare l’illustre stella della mia nascita, discendendo fino a lui, per punire la sua insolenza? Ciò m’è pur troppo necessario, a meno che non acconsentissi di vedere il mio onore macchiato dall’accusa della sua bocca calunniatrice. Eccoti il pegno. (''gli getta il guanto'') È per te arra di morte e condanna d’inferno. — Sosterrò a spese del tuo vil sangue, indegno di macchiare lo splendore della mia spada da cavaliere, che quello che hai detto è falso.
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|120|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>
''Aum''. Eccetto uno, vorrei che il più illustre di quest’assemblea mi avesse fatto tale insulto.
''Fitz''. Se il tuo valore ha tanto a cuore la eguaglianza, ecco mio guanto, Aumerle, che oppongo al tuo. Per questo puro sole che ci rischiara entrambi, io ti ho inteso dire, e di ciò ti esaltavi, che eri l’autore della morte del nobile Glocester. Se lo nieghi, mentisci vilmente, e con questa spada farò rientrare la tua menzogna nel cuore in cui è stata fabbricata.
''Aum''. Vile, tu non oseresti vivere fino al dì di tal combattimento.
''Fitz''. Per la mia anima, vorrei che seguisse in quest’istante.
''Aum''. Fitzwater, tu consacri così la tua anima all’inferno.
''Percy''. Menti, Aumerle. Il suo onore è così puro in questa sfida, come vero è che tu manchi alla verità, e getto il mio pegno ai tuoi piedi, parato come sono a provartelo anche coll’ultimo soffio della vita. Rialzalo se l’osi.
''Aum''. S’io nol rialzo, possa la mia mano infracidarsi e non sollevare mai più un ferro vendicatore sul lucido elmo del mio nemico!
''Lord''. Spergiuro Aumerle! Io pure sfido il tuo coraggio, e ti do tante mentite, quante accumularne potrei nelle tue perfide orecchie, nel corso di due soli. Il mio onore è compromesso: mettilo alla prova, se ardisci.
''Aum''. Chi altri di voi vuole assalirmi? Pel Cielo, vi accetterò tutti: non ho che un cuore, ma dotato di bastante ardire per reggere all’urto di venti di voi.
''Sur''. Milord Fitzwater, io mi rammento del tempo in cui vi intrattenevate con Aumerle.
''Fitz''. Milord, è vero: voi eravate presente allora; e potete attestare che dico la verità.
''Sur''. Quello che dite, lo giuro al Cielo, è così falso come il Cielo è vero.
''Fitz''. Surrey, tu menti.
''Sur''. Garzone senza onore. Questa mentita sarà confidata alla mia spada, e tu sentirai il suo ferro vendicatore, fino che ti lasci così immobile sotto terra, come lo è il cranio di tuo padre. Accetta la sfida, se hai cuore.
''Fitz''. Stolto, quale imprudenza è la tua di irritare un lione già furioso? Come è vero ch’io mangio, bevo e respiro, ardirei affrontare Surrey in un deserto, e rigettargli in volto la sua indegna menzogna; con ciò la mia parola s’impegna a punirti come lo meriti. Ma possa io prosperare in questo mondo ancora nuovo<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|atto quarto}}|121}}</noinclude>per me, come è vero che Aumerle è colpevole di quello ch’io gli rimprovero: inoltre udii dire a Norfolk bandito, che fosti tu, Aumerle, che mandasti due dei tuoi sgherri per assassinare il nobile duca a Calais.
''Aum''. Qualche anima onesta mi presti un altro guanto da gettare, onde provare che mente anche Norfolk. Se Norfolk dovesse ritornare, egli sia tenuto a difendere il suo onore.
''Boling''. Tutte queste sfide resteranno sospese, fino alla venuta di quel duca: ei sarà richiamato, e sebbene mi sia nemico, verrà rimesso nei suoi dominii, e giustificherà il suo onore contro di Aumerle.
''Ves''. Non mai si vedrà quel giorno glorioso. — Il bandito Norfolk ha combattuto cento volte pel Redentore: lungo tempo ha portato nei campi dei cristiani lo stendardo della croce, contro i Mori, i Turchi e i Saraceni; finchè, stanco delle sue opere guerriere, si è ritirato in Italia, e là nella bella Venezia ha reso il suo capo alla terra, la pura sua anima a Gesù Cristo suo Signore, sotto i cui vessilli aveva per tanto tempo militato.
''Boling''. Che! Vescovo, è morto Norfolk?
''Ves''. Sì, come è vero ch’io vivo, signore.
''Boling''. Una pace lieta guidi la sua anima nel seno del buon vecchio Abramo! — Signori, le vostre sfide resteranno sospese fino a che vi assegniamo il giorno di compierle. (''entra'' {{Sc|York}} ''con seguito'')
''York''. Gran duca di Lancastro, vengo a te per parte dello sfortunato Riccardo, che, caduto in tanta costernazione, ti nomina suo erede di buon animo, e cede il suo illustre scettro alle tue mani regie. Ascendi al suo trono da cui egli è ora disceso, e una lunga vita arrida ad Enrico quarto.
''Boling''. In nome di Dio io occuperò il seggio regale.
''Ves''. Iddio nol voglia! — Quello che oserò dire alla vostra augusta presenza, potrà increscervi: ma la parte che meglio mi si addice è quella della verità. Se Dio volesse che vi fosse in questa illustre assemblea un uomo abbastanza grande, per divenir giudice legittimo del nobile Riccardo, la sua elevazione stessa, e una vera nobiltà gli insegnerebbero ad astenersi da una ingiustizia sì rea. Qual suddito può pronunziare la condanna del proprio re? E chi fra di quelli che siedono qui non è soggetto di Riccardo? I ladri non sono mai condannati, senza essere intesi, per quanto evidente sia l’apparenza del loro delitto; e l’imagine della Maestà di Dio, il suo rappresentante sopra la terra, il suo augusto luogotenente, eletto coronato, consacrato e possessore<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|122|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>del trono da tanti anni, sarà giudicato da un suo soggetto, da un suo subalterno, senza neppur essere presente? Oh Dio! non permettere che in paese cristiano, uomini civili diano al mondo l’esempio di attentato sì odioso e reo! Io parlo a sudditi, ed è un suddito che, animato dall’ispirazione del Cielo, alza la voce per prendere arditamente la difesa del suo re. Milord di Hereford che è qui presente, e che voi chiamate re, è un traditore al legittimo sovrano del superbo Hereford; se lo incoronate, io vi predico che il sangue inglese feconderà queste glebe, e che le generazioni future saranno punite per tanto delitto. La pace andrà a stabilire il suo dolce imperio presso gl’infedeli; e in quest’isola, suo soggiorno naturale, la guerra armerà le famiglie contro le famiglie, i parenti contro i parenti; il tumulto, i disordini, gli orrori e la rivolta abiteranno in questo regno; e questa terra, fatta bianca dalle ossa dei suoi abitatori, verrà chiamata il campo del Golgota. Oh! se voi innalzate una casa regia contro altra casa regia, date luogo alla più fatale rottura che mai funestasse questa contrada. Prevenite tale sventura: opponetevi a tanta ingiustizia: non mai si compia, se non volete che i figli dei vostri figli gridino abbominio contro i loro padri!
''Nort''. Parlaste assai bene, signore; e in mercede della vostra eloquenza vi sospendiamo qui come colpevole di alto tradimento. — Signore di Westminster, sappiate vegliare su di lui fino al giorno del suo processo. — Volete, o lôrdi, concedere ai Comuni la loro inchiesta?
''Boling''. Si introduca Riccardo, onde abdichi pubblicamente: allora avremo proceduto colle debite forme e saremo tutelati da ogni rimprovero.{{spazi|5}}(''esce'')
''York''. Io lo condurrò.
''Boling''. Voi, lôrdi, che siete qui arrestati per nostra autorità, date le vostre cauzioni per assicurarci che verrete il giorno in cui dovete risponderci. — Noi dobbiamo assai poco alla vostra affezione (''al vescovo'') e poco contavamo sul vostro appoggio. (''rientra'' {{Sc|York}} ''col re'' {{Sc|Riccardo}}, ''ed ufficiali portanti una corona'')
''Ricc''. Oimè, perchè debbo io comparire dinanzi ad un re prima di aver perduto ogni regio sentimento e l’amore di un trono, su di cui tanto tempo mi assisi? In così breve tempo non ho potuto apprendere a piaggiare, a supplicare, a genuflettere. Date al mio dolore il tempo di avvezzarsi a questo abbassamento. E nondimeno (''guardando intorno'') io ben ricordo ancora i volti di queste persone..... Non furono esse mie suddite? Non mi dissero più<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|atto quarto}}|123}}</noinclude>volte: omaggio e rispetto al re? È così che Giuda salutava Gesù; ma egli fra dodici discepoli non ne trovò che uno malvagio; io in dodici mila uno non ne trovo che mi gridi letizia! Alcuno che dica: così sia! A me dunque conviene essere il sacerdote e il chierico che canta e risponde? — Sia: e dame medesimo venga l’Amen. Dio conservi il re! Quantunque io non sia più re, dicasi: così sia; e questo sancisca il Cielo, se il Cielo vede in me ancora un sovrano. — Per quale oggetto venni io qui condotto?
''York''. Per compiere la vostra libera volontà; per esprimere l’offerta che Vostra Maestà, stanca del trono, ha fatta ella stessa; la cessione della vostra grandezza e della vostra corona a Enrico Bolingbroke.
''Ricc''. Datemi la corona. — Prendete, cugino, prendetela. La mia mano la tiene da questa parte; la vostra la tenga dall’altra. Ora questa corona d’oro somiglia a un profondo pozzo, al disopra del quale stanno sospesi due secchi che si riempiono l’uno col moto dell’altro. Il secchio vuoto scorre per l’aere; l’altro sta in fondo invisibile e pieno di acqua. Quest’ultimo riboccante di lagrime sono io, che sommerso stommi ne’ miei dolori, intantochè voi vi alzate verso la cima.
''Boling''. Avevo creduto che abdicaste di buon grado.
''Ricc''. La mia corona, sì; ma i miei dolori mi rimangono sempre; voi potete togliermi gli onori e le grandezze, ma non i dolori: di questi rimango sempre re.
''Boling''. Una parte me ne trasmettete, cedendomi la corona.
''Ricc''. Le cure che vi assumete non mi tolgono le mie. La cagione de’ miei sospiri è la perdita delle cure alle quali l’abitudine mi aveva avvezzo; e la cagione dei vostri sono le cure nuove che si aggravano su di voi. Le inquietudini che cedo mi restano anche dopo averle cedute; e sebben seguano la corona, non però mi abbandonano.
''Boling''. Non è di buona voglia che rinunciate alla corona?
''Ricc''. Sì, e no. Sì, perchè vi sono astretto. No, perchè è a te che la cedo. — Ora ascoltatemi, che vuo’ porre a nudo me stesso. Io libero il mio capo di questo grave diadema, e il mio braccio dal fardello di questo scettro: strappo dal mio cuore l’orgoglio dei re e le care gioie del comando; cancello, colle mie lagrime, il sacro carattere che mi impresse l’unzione santa; rigetto la mia corona dalla mia mano; abiuro colla mia bocca la mia grandezza; sciolgo tutti i miei sudditi dai loro giuramenti; rinunzio alla pompa e alla maestà regale; anniento tutti i miei atti di sovranità, tutti i miei decreti e tutte le mie leggi. Iddio perdoni i voti<noinclude><references/></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|124|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>che mi furono fatti, e che sono stati violati! Iddio conservi inviolabili tutti i giuramenti che a te (''a Boling''.) fatti vengono! Ei tolga ogni dolore a me, che non posseggo più nulla: e te in tutto appaghi, te, che di tutto sei possessore. Possa tu vivere lungo tempo assiso sul trono di Riccardo; possa Riccardo discendere in breve nell’abisso del sepolcro! Dio conservi il re Enrico! È il voto dell’ex monarca. Che rimane di più?
''Nort''. Nulla più rimane, fuori che di leggere da voi stesso coteste accuse (''presentandogli un foglio''); questi delitti odiosi, commessi da voi e dai vostri ministri contro le leggi e gli interessi di questo regno, onde, dopo la vostra confessione, il popolo sia convinto che venite giustamente deposto.
''Ricc''. Son io ridotto a tanta umiliazione? Debbo rivelar qui tutte le mie follie? Gentile Northumberland! se le tue colpe fossero registrate in un libro, non arrossiresti di farne lettura dinanzi a questa assemblea? E se la facessi, qual nero delitto non vi troveresti?..... — La deposizione di un re e la rottura violenta dei sacri vincoli di un giuramento, ti condannerebbero senza speranza a un eterno castigo. — E voi tutti che mi attorniate e i di cui sguardi, rivolti in me, godono dello spettacolo della mia estrema miseria (sebbene alcuni di voi, come Pilato, se ne lavino le mani, e affettino di mostrare una pietà esteriore), voi siete giudici iniqui che mi avete schiacciato sotto la mia dolorosa croce: siete macchiati di colpe, di cui nessun’acqua potrà mai detergervi.
''Nort''. Milord, affrettatevi; leggete queste accuse.
''Ricc''. I miei occhi sono pieni di lagrime; non ponno vedere: e nondimeno il pianto non mi accieca così da non discernere la frotta di traditori che mi circonda. Ma se rivolgo gli sguardi in me stesso, anche in me veggo un traditore; perocchè io diedi il consentimento della mia volontà per ispogliare la mia persona della regal pompa, cangiare la grandezza in viltà, il sovrano in ischiavo, la maestà in servitù, un monarca in un plebeo oscuro.
''Nort''. Mio signore.....
''Ricc''. Nol sono più, uomo altero, nè il sono d’alcun altro; io non ho più nome, nè titolo, non quello pure che mi fu dato sui fonti battesimali... tutto venne usurpato. — Oh sciagurato giorno, in cui non pure un nome mi resta! Così foss’io un re di neve esposto al sole di Bolingbroke, per fondermi goccia a goccia! — Buon re..... gran re..... (e nondimeno non grandemente buono) se la mia parola serba ancora qualche valore in Inghilterra, fa che mi si rechi uno specchio, ond’io vegga qual è il mio volto, dopo che ha perduto la maestà sovrana.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|atto quarto}}|125}}</noinclude>
''Boling''. Vada qualcuno di voi a prenderlo. (''esce uno del seguito'')
''Nort''. Intanto leggete questo scritto.
''Ricc''. Demonio, tu mi cruci anzichè io venga all’inferno.
''Boling''. Non lo eccitate di più, signore di Northumberland.
''Nort''. Senza tal formola i Comuni non saranno paghi.
''Ricc''. Lo saranno. Leggerò abbastanza allorchè vedrò il libro vivo, in cui stanno scritti tutti i miei peccati. Tal libro sono io stesso: (''rientra l’uomo del seguito collo specchio'') datemi quel cristallo, in cui scernerò bene. — (''si guarda'') Oh! queste rughe non si sono di più profondate? Il dolore che ha confitti tanti colpi su questo volto, non vi ha lasciate orme più più visibili? Oh specchio, tu mi aduli, come mi adulavano i miei cortigiani nei giorni della mia prosperità; tu mi inganni! — È questa quella fronte la di cui maestà teneva ogni giorno, sotto i dorati tetti dei suoi palagi, più di diecimila soggetti, attenti a’ suoi ordini; e che, come sole, feriva del suo splendore la vista di coloro che la contemplavano? È questo il volto che si è prestato a tante follie e che è stato alfine ecclissato dalla stella di Bolingbroke? Quanto fragile è la gloria che ride su questo volto; (''getta in terra lo specchio'') e fragile come la sua gloria è il volto stesso che andò in mille brani. Nota, re, che ti stai silenzioso, la moralità di questo atto. — Con qual rapidità il mio dolore ha distrutto il mio volto!
''Boling''. L’ombra del vostro dolore ha distrutta l’ombra del vostro volto.
''Ricc''. Ditelo di nuovo. L’ombra del mio dolore? Vediamo. — Sì, è vero, il mio dolore è anche intero al di dentro di me; e queste esterne mostre non sono che imagini di mali invisibili che cruciano in silenzio la mia anima. In essa siede veracemente il dolore, e della tua somma bontà, o re, ti ringrazio, perocchè non solo mi dai motivo di gemere, ma mi insegni anche il modo con cui debbo rammaricarmi. Io non vi chiederò più che una grazia, e poscia me ne andrò. L’otterrò io?
''Boling''. Chiedetela, gentil cugino.
''Ricc''. Gentil cugino? Ah, ora son maggiore dei re: perocchè quand’ero re i miei adulatori non erano che sudditi; ora che son suddito ho per adulatore un sovrano. Essendo quindi sì grande, non ho bisogno di chiedere.
''Boling''. Nondimeno chiedete.
''Ricc''. Ed otterrò?
''Boling''. Otterrete.
''Ricc''. Allora datemi la licenza di andarmene.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|126|{{Sc|vita e morte del re riccardo ii}}|}}</noinclude>
''Boling''. Dove?
''Ricc''. Dovunque vorrete, purchè sia lungi dalla vostra presenza.
''Boling''. Ite; qualcuno di voi lo conduca alla Torre.
''Ricc''. Bene sta! Lo conduca! — Siete tutti giullari voi che vi inalzate sì alacri alla caduta di un legittimo re. (''esce con alcuni lôrdi e le guardie'')
''Boling''. Al prossimo mercoledì fermiamo il solenne nostro incoronamento. A ciò, o lôrdi, apparecchiatevi. (''escono tutti, tranne l’Abate, il vescovo di Carlisle e Aumerle'')
''Ab''. Noi assistemmo a una scena di sventura.
''Vesc''. Le sventure accadranno dopo. I fanciulli, che non sono ancor nati, espieranno questo dì con crudeli dolori.
''Aum''. Ministri dei sacri altari, non v’ha egli mezzo per salvare il regno da tanta ignominia?
''Ab''. Prima ch’io favelli, esigo da voi il giuramento di seppellire in fondo al vostro cuore i miei disegni, e di compiere tutte ciò che potessi divisare. — Veggo che i vostri visi sono pieni di cruccio, i vostri cuori di dolore, e i vostri occhi di lagrime. Venite da me stasera a dividere il mio desco, e vi porrò a parte di un’opera che ci empirà tutti di gioia. (''escono'')
{{rule|4em}}<noinclude><references/></noinclude>
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Pagina:De Sanctis, Francesco – Storia della letteratura italiana, Vol. I, 1912 – BEIC 1806199.djvu/362
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|356|{{Sc|storia della letteratura italiana}}|}}</noinclude>
Questi fenomeni sono cosí bene scelti, legati con tanto accordo di pause e di tono, armonizzati con suoni cosí freschi e soavi, che sembrano le voci di un solo motivo, e te ne viene non all’occhio ma all’anima l’insieme; ed è quel senso d’intima soddisfazione, che ti dá la primavera, la voluttá della natura. In Dante non ci è voluttá, ma ebbrezza: cosí è trascendente. Nel Boccaccio non ci è voluttá, ma sensualitá. La voluttá è la musa della nuova letteratura, è l’ideale della carne o del senso, è il senso trasportato nell’immaginazione e raffinato, divenuto sentimento. Qui è una voluttá tutta idillica, un godimento della natura senz’altro fine che il godimento, con perfetta obblivione di tutto l’altro: senti le prime e fresche aure di questo mondo della natura, assaporato da un’anima il cui universo era la villetta di Fiesole illuminata e abbellita da Teocrito e da Virgilio. Da questa doppia ispirazione, un intimo godimento della natura accompagnato con un sentimento puro e delicato della forma e della bellezza, sviluppato ed educato da’ classici, è uscito il nuovo ideale della letteratura, l’ideale delle ''Stanze'': una tranquillitá e soddisfazione interiore, piena di grazia e di delicatezza nella maggior pulitezza ed eleganza della forma; ciò che possiamo chiamare in due parole «voluttá idillica». Il contenuto di questo ideale è l’etá dell’oro e la vita campestre, con tutto il corteggio della mitologia: ninfe, pastori, fauni, satiri, driadi, divinitá celesti e campestri, in una scala che dal piú puro e piú delicato va sino al lascivo e al licenzioso. La forma è il descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musicali, quale apparisce nell’''Orfeo'' e nelle ''Stanze''; i due modelli di questa letteratura, che, iniziata nel Boccaccio, andrá fino al {{AutoreCitato|Pietro Metastasio|Metastasio}}.
La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio del gabinetto, ma è lo spirito stesso della societá, come si andava atteggiando, còlto nelle costumanze e feste pubbliche. Centro di questo movimento è {{AutoreCitato|Lorenzo de' Medici|Lorenzo de’ Medici}}, col suo coro di dotti e di letterati: il {{AutoreCitato|Marsilio Ficino|Ficino}}, il {{AutoreCitato|Giovanni Pico della Mirandola|Pico}}, i fratelli Pulci, il {{AutoreCitato|Angelo Poliziano|Poliziano}}, il {{AutoreCitato|Bernardo Rucellai|Rucellai}}, il {{AutoreCitato|Girolamo Benivieni|Benivieni}} e tutti gli accademici. La letteratura vien fuori tra danze e feste e conviti.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|xi - le «stanze»}}|357}}</noinclude>
Lorenzo non avea la coltura e l’idealitá del Poliziano. Avea molto spirito e molta immaginazione, le due qualitá della colta borghesia italiana. Era il piú fiorentino tra’ fiorentini, non della vecchia stampa, s’intende. Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtá epicureo e indifferente, sotto abito signorile popolano e mercante da’ motti arguti e dalle salse facezie, allegro, compagnevole, mezzo tra’ piaceri dello spirito e del corpo, usando a chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, alternando orgie notturne e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore. Era classico di coltura, toscano di genio, invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto. Maneggiava il dialetto con quella facilitá che governava il popolo, lasciatosi menare da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue tendenze. Chi comprende l’uomo è padrone dell’uomo. Portò a grande perfezione la nuova arte dello Stato, quale si richiedeva a quella societá, divenute le feste e la stessa letteratura mezzi di governo. Alla violenza succedeva la malizia, piú efficace: il pugnale del Bandini uccise un principe, non il principato; la corruzione medicea uccise il popolo, o, per dire piú giusto, Lorenzo non era che lo stesso popolo, studiato, compreso e realizzato, l’uno degno dell’altro. Tal popolo, tal principe. Quella corruzione era ancora piú pericolosa, perché si chiamava «civiltá» ed era vestita con tutte le grazie e le veneri della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il Landino e il Ficino, dantesco, petrarchesco, platonico, con reminiscenze e immagini classiche, entra nella folla de’ rimatori, i quali continuavano il mondo tradizionale de’ sonetti e delle canzoni. Ce n’erano a dozzina e in tutte le parti d’Italia: l’uomo colto esordiva col sonetto; uso giunto fino a’ tempi nostri. Molti canzonieri uscirono in questo secolo: appena è se oggi si ricordi {{AutoreCitato|Giusto de' Conti|Giusto dei Conti}} e il Benivieni. Continuare il Petrarca dovea significare realizzarlo, sviluppare quell’elemento sensuale, idillico, elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico e che è l’elemento nuovo. Ma il povero Petrarca era malato, e i sonettisti esalano sospiri poetici dall’anima vuota e<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|358|{{Sc|storia della letteratura italiana}}|}}</noinclude>indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria, senza base. Non c’è piú un mondo organico, ma un accozzamento fortuito e monotono di forme divenute convenzionali. Manca l’immaginazione e la malinconia e l’estasi, i veri fattori del mondo petrarchesco: restano le astrattezze platoniche e le acutezze dello spirito, congiunta l’insipidezza con le vuote sottigliezze, come nelle rime tanto celebrate del {{AutoreIgnoto|Ceo}}, del {{AutoreIgnoto|Notturno}}, del {{AutoreCitato|Serafino de' Cimminelli|Serafino}}, del {{AutoreIgnoto|Sasso}}, del {{AutoreCitato|Antonio Cornazzano|Cornazzano}}, del {{AutoreIgnoto|Tibaldeo}}. Lorenzo comincia lui pure con qualche cosa come la ''{{TestoCitato|Vita nuova}}'', e narra il suo innamoramento, con le occasioni e le spiegazioni de’ suoi sonetti, in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur disinvolta e franca. Anche nel suo ''{{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/III. Rime|Canzoniere}}'' appariscono forme e idee convenzionali; anche vi domina lo spirito, di cui avea sí gran dovizia. Ma c’è lí una sua impronta: ci è un sentimento idillico e una vivacitá d’immaginazione che alcuna volta ti rinfresca e ti fa andare avanti con pazienza. Non ci è sonetto o canzone che si possa dire una perfezione; ma c’è versi assai belli e, qua e lá, paragoni, immagini, concetti che ti fermano.
Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e inalterabili, dove nessuno osa mettere una mano profana. Rimangono perciò immobili, senza sviluppo. Il nuovo spirito si fa via nella nuova forma: l’ottava rima o la stanza. Vi apparisce l’amore idillico-elegiaco, proprio del tempo; la forma condensata del Petrarca si scioglie e si effonde ne’ magnifici giri dell’ottava; non piú concetti e sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni. Anche dove il concetto è dantesco, come nelle stanze del Benivieni, che, lasciato il primo casto amore e corso appresso alla sirena, si sente trasformato in lonza, la forma è lussureggiante e vezzosa e piú simile a sirena che a casta donna. Modello di questo genere è la ''{{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/IV. Selve d'Amore|Selva d’Amore}}'' di Lorenzo, composizione a stanze d’un fare largo e abbondante, alquanto sazievole, il cui difetto è appunto il soverchio naturalismo, una realtá minuta, osservata e riprodotta esattamente ne’ suoi caratteri esterni, non fatta dall’arte mobile e leggiera, non<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|xi - le «stanze»}}|359}}</noinclude>idealizzata. Tra le sue piú ammirate descrizioni è quella dell’etá dell’oro, dove è patente questo difetto. Vedi l’uomo in villa che tutto osserva, e anima con l’immaginazione la natura senza averne il sentimento. Ci è l’osservatore, manca l’artista.
Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi della sua donna producono sulla natura. La soverchia esattezza nuoce all’illusione e addormenta l’immaginazione. Veggasi questa ottava:
{{blocco centrato|style=font-size:90%|<poem>
{{spazi|5}}{{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/IV. Selve d'Amore/Selva seconda|Siccome il cacciator ch’i cari figli}}
astutamente al fero tigre fura;
e benché innanzi assai campo gli pigli,
la fera, piú veloce di natura,
quasi giá il giunge e insanguina gli artigli;
ma, veggendo la sua propria figura
nello specchio che trova su la rena,
crede sia ’l figlio e ’l corso suo raffrena.
</poem>}}
Ci si vede un uomo che in un fatto cosí pieno di concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e osserva e spiega il fenomeno e Io rende con evidenza, ma non ne riproduce il sentimento: c’è l’esattezza, manca il calore e l’armonia. Veggasi ora l’artista, il Poliziano:
{{blocco centrato|style=font-size:90%|<poem>
{{spazi|5}}{{TestoCitato|Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici/Libro I|Qual tigre, a cui dalla pietrosa tana}}
ha tolto il cacciator gli suoi car figli,
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli:
poi resta d’uno specchio all’ombra vana,
all’ombra ch’e’ suo’ nati par somigli;
e mentre di tal vista s’innamora
la sciocca, el predator la via divora.
</poem>}}
Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano; ma si paragoni. Ciò, che in Lorenzo è naturalismo, è idealitá nel Poliziano, Nell’uno è il di fuori abbellito dall’immaginazione; l’altro nel di fuori ti fa sentire il di dentro. Lorenzo dice:
{{blocco centrato|style=font-size:90%}}<poem>
{{spazi|5}}{{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/VI. Egloghe/I. Corinto|Eranvi rose candide e vermiglie:}}
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s’apra e scompiglie:
</poem><noinclude>{{fine blocco}}</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|xi - le «stanze»}}|359}}</noinclude>idealizzata. Tra le sue piú ammirate descrizioni è quella dell’etá dell’oro, dove è patente questo difetto. Vedi l’uomo in villa che tutto osserva, e anima con l’immaginazione la natura senza averne il sentimento. Ci è l’osservatore, manca l’artista.
Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi della sua donna producono sulla natura. La soverchia esattezza nuoce all’illusione e addormenta l’immaginazione. Veggasi questa ottava:
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{{spazi|5}}{{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/IV. Selve d'Amore/Selva seconda|Siccome il cacciator ch’i cari figli}}
astutamente al fero tigre fura;
e benché innanzi assai campo gli pigli,
la fera, piú veloce di natura,
quasi giá il giunge e insanguina gli artigli;
ma, veggendo la sua propria figura
nello specchio che trova su la rena,
crede sia ’l figlio e ’l corso suo raffrena.
</poem>}}
Ci si vede un uomo che in un fatto cosí pieno di concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e osserva e spiega il fenomeno e lo rende con evidenza, ma non ne riproduce il sentimento: c’è l’esattezza, manca il calore e l’armonia. Veggasi ora l’artista, il Poliziano:
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{{spazi|5}}{{TestoCitato|Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici/Libro I|Qual tigre, a cui dalla pietrosa tana}}
ha tolto il cacciator gli suoi car figli,
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli:
poi resta d’uno specchio all’ombra vana,
all’ombra ch’e’ suo’ nati par somigli;
e mentre di tal vista s’innamora
la sciocca, el predator la via divora.
</poem>}}
Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano; ma si paragoni. Ciò, che in Lorenzo è naturalismo, è idealitá nel Poliziano, Nell’uno è il di fuori abbellito dall’immaginazione; l’altro nel di fuori ti fa sentire il di dentro. Lorenzo dice:
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alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|360|{{Sc|storia della letteratura italiana}}|}}
{{blocco centrato|style=font-size:90%}}</noinclude><poem>
{{spazi|5}}altra piú giovinetta si dislega
appena dalla boccia: eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all’aer niega:
{{spazi|5}}altra cadendo a piè il terreno infiora.</poem>
{{fine blocco}}
{{no rientro}}Minuta analisi, con perfetta esattezza di osservazione e con proprietá rara di vocaboli. Vedete ora nel Poliziano queste rose animarsi come persone vive: ne sentite la fragranza, la grazia, la freschezza:
{{blocco centrato|style=font-size:90%|<poem>
{{spazi|5}}{{TestoCitato|Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici/Libro I|Questa di verde gemma s’incappella;}}
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l’altra, che ’n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
</poem>}}
In questo genere narrativo e descrittivo, di cui il Boccaccio nel {{TestoCitato|Ninfale fiesolano|''Ninfale''}} dava l’esempio, il poeta non è obbligato a platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme per tutta una vita. Finge amori altrui e, in luogo di chiudersi nella natura e ne’ fenomeni dell’amore fino alle piú raffinate acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla qualitá degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei personaggi che introduce sulla scena. La donna cala dalle nubi e acquista una storia umana. Come son care queste ricordanze di donna amata, che torna a casa e non vi trova il suo amore!
{{blocco centrato|style=font-size:90%|<poem>
{{spazi|5}}{{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/IV. Selve d'Amore/Selva seconda|Qui l’aspettai, e quinci pria lo scòrsi,}}
quinci sentii l’andar de’ leggier piedi,
e quivi la man timida li porsi,
qui con tremante voce dissi: — Or siedi, —
qui volle allato a me soletto porsi,
e quivi interamente me li diedi...
O sospirar che d’ambo i petti uscia!
o mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lascionnni piena di disio,
quando giá presso al giorno disse: — Addio. —
</poem>}}
L’{{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/V. Ambra|''Ambra''}}, il {{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/VI. Egloghe/I. Corinto|''Corinto''}}, {{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/VIII. Amori di Venere e Marte|''Venere e Marte''}}, la {{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/XIII. La Nencia di Barberino|''Nencia''}} sono poemetti di questo genere. Soprastá per calore ed evidenza di rappre-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Tuvok1968" />{{RigaIntestazione||{{Sc|xi - le «stanze»}}|361}}</noinclude>sentazione l’{{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/V. Ambra|''Ambra''}}, graziosa invenzione ispirata da {{AutoreCitato|Publio Ovidio Nasone|Ovidio}} e dal {{AutoreCitato|Giovanni Boccaccio|Boccaccio}}. Ma il capolavoro è la {{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/XIII. La Nencia di Barberino|''Nencia''}}, che pare una pagina del {{TestoCitato|Decameron|''Decamerone''}}. Qui {{AutoreCitato|Lorenzo de' Medici|Lorenzo}} lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della societá, rappresentando gli amori di Vallerá e Nencia, due contadini, con un tono equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe. Tutta Firenze fu piena della Nencia: era la cittá che metteva in caricatura il contado. L’idillio vi si accompagna con quel sale comico, che si sente nel prete di Varlungo e monna Belcolore, e che è la vera genialitá di Lorenzo: basta ricordare i {{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/XIV. Simposio ovvero i beoni|''Beoni''}}. Chi ama i paragoni ragguagli la Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di contadine. Nella Beca del {{AutoreCitato|Luigi Pulci|Pulci}} senti il puzzo del contado: la caricatura è sfacciatamente volgare e licenziosa. Nella Nencia hai l’idealitá comica: una caricatura fatta con brio e con grazia, con un’aria perfetta di bonomia e di sinceritá. Nella Brunettina del {{AutoreCitato|Angelo Poliziano|Poliziano}} hai il ritratto ideale della contadina, rimossa ogni intenzione comica. È la Venere del contado con morbidezza di tinte assai ben fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior correzione ed eleganza del disegno. Notabile è soprattutto la veritá del colorito e la perfetta realtá.
Tra le feste si ravviva la poesia popolare. Vedevi Lorenzo andar per le vie, come re Manfredi, sonando e cantando tra’ suoi letterati. Il poeta della ''Nencia'' qui è nel suo vero terreno, divenuto la voce di quella societá licenziosa e burlevole. La trasformazione è compiuta: giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione. I ''Beoni'' o il ''Simposio'' è una parodia della {{TestoCitato|Divina Commedia|''Divina commedia''}} e dei {{TestoCitato|Trionfi|''Trionfi''}}, non pur nel disegno ma nelle frasi: le sacre immagini dell’Alighieri sono torte a significare le sconcezze e turpitudini dell’ebbrezza. Tra questi passatempi poetici è da porre la {{TestoCitato|Opere (Lorenzo de' Medici)/IX. La caccia col falcone|Caccia col falcone}}, fatti frivoli e insignificanti, ma raccontati con lepore e con grazia in stanze sveltissime, con tutt’i sali e le vivezze del dialetto. Cosi si passava allegramente il tempo:
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|{{spazi|25}}||{{smaller|{{spazi|5}}E cosi passo, compar, lieto il tempo,<br>con mille rime in zucchero ed a tempo.}}||{{spazi|5}}
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<noinclude><pagequality level="4" user="Cruccone" />{{RigaIntestazione|144|''Mitologia comparata.''|riga=si}}</noinclude>{{Pt|done|cordone}} umbilicale, dopo di che l’''ondendu'' gli vien dato a mangiare. Quando una donna ha partorito, si costruisce subito in fretta per lei e pel fanciullo una capannuccia, dove la madre e il fanciullo devono rimanere, fin che il cordone umbilicale non si stacca dal fanciullo. Appena questo avviene, la madre reca il fanciullo al luogo del fuoco sacro (''okuruo''), lo presenta all’''Omukuro'' (avo divino, specie di nume domestico), affinchè la madre ed il fanciullo possano essere ricevuti nuovamente in casa. In tale occasione il padre impone al fanciullo un nome, prendendolo fra le sue braccia, e dicendo agli astanti il nome con cui devono salutarlo. Segue la circoncisione, ch’è in uso presso tutti gli Ovaherero, come presso la maggior parte dei popoli Bântu. Tutti i maschi sono generalmente circoncisi dal quarto al settimo anno della loro età, scegliendosi, se si può, come occasione particolarmente propizia, il tempo della morte del capo della città o del villaggio. La circoncisione è operata con una punta di saetta, in un luogo apposito, tenuto come sacro, ove il fanciullo rimane fin che le piaghe ricevute non siano intieramente saldate. In tal occasione si sacrificano animali; una parte dell’animale (''ehango'', la coscia sinistra; tenuta come sacra, perchè da quella parte si mungono le vacche) è serbata per il capo del villaggio, che alla sua volta, la destina alle grandi occasioni e per i ricevimenti più solenni. ''Nib sul sole novi''. Quando lo scià di Persia fu a Torino, si narra che, assistendo egli a quel teatro regio nel palco reale ad una rappresentazione, in un intermezzo furono recati de’ gelati; lo scià<noinclude></noinclude>
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== Piccola modifica della classe references ==
{{ping|Candalua}} Vedi riga 157, ho aggiunto un <code>line-height:1.4;</code>. Non mi offendo se ritieni di rollbackare, naturalmente. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 22:20, 8 gen 2021 (CET)
== Sfondo incompatibile con la modalità scura ==
{{Ping|Candalua}} Le righe da [[Mediawiki:Common.css#L-470|470]] a 567 interferiscono e rendono inutilizzabile la modalità scura (provare per credere).
Credo che i blocchetti di regole che settano il colore bianco si possano rimuovere (è quello di default).
Sulla sorella maggiore it.wiki il codice da {{w|Mediawiki:Common.css}} è stato spostato su {{w|Mediawiki:Vector.css}}, mentre è stato creato un gadget apposta per Vector-2022: {{w|Mediawiki:Gadget-NamespaceColorati}}/{{w|Mediawiki:Gadget-NamespaceColorati.css}}.
Quindi credo che (1) quel codice vada spostato su [[Mediawiki:Vector.css]] e (2) vada creato un nuovo gadget NamespaceColorati equipollente a quello su it.wiki. --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 13:39, 3 nov 2024 (CET)
::{{fc}} e aggiunto il nuovo gadget alle [[Mediawiki:Gadgets-definition|definizioni]] (v. [[w:it:Discussioni utente:Valcio#c-Valcio-20241104143500-ZandDev-20241104142900|commento di Valcio]]) --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 21:39, 5 nov 2024 (CET)
:{{Ping|Candalua}} Adesso anche meglio visto che io e {{Ping|Valcio}} abbiamo aggiornato il codice su Wikipedia. Si tratterebbe di importarlo (e ridurre di un po' il codice in questa pagina, ancora troppo pesante: <code>27kB</code>). --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 15:29, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:ZandDev|ZandDev]]: per questa modifica, se ti senti confidente puoi anche chiedere il flag temporaneo per farla tu stesso, così la puoi affinare con comodo. Basta che fai domanda sul Bar e posso darti subito il flag per una settimana. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 16:52, 4 nov 2024 (CET)
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ZandDev
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== Piccola modifica della classe references ==
{{ping|Candalua}} Vedi riga 157, ho aggiunto un <code>line-height:1.4;</code>. Non mi offendo se ritieni di rollbackare, naturalmente. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 22:20, 8 gen 2021 (CET)
== Sfondo incompatibile con la modalità scura ==
{{Ping|Candalua}} Le righe da [[Mediawiki:Common.css#L-470|470]] a 567 interferiscono e rendono inutilizzabile la modalità scura (provare per credere).
Credo che i blocchetti di regole che settano il colore bianco si possano rimuovere (è quello di default).
Sulla sorella maggiore it.wiki il codice da {{w|Mediawiki:Common.css}} è stato spostato su {{w|Mediawiki:Vector.css}}, mentre è stato creato un gadget apposta per Vector-2022: {{w|Mediawiki:Gadget-NamespaceColorati}}/{{w|Mediawiki:Gadget-NamespaceColorati.css}}.
Quindi credo che (1) quel codice vada spostato su [[Mediawiki:Vector.css]] e (2) vada creato un nuovo gadget NamespaceColorati equipollente a quello su it.wiki. --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 13:39, 3 nov 2024 (CET)
::{{fc}} e aggiunto il nuovo gadget alle [[Mediawiki:Gadgets-definition|definizioni]] (v. [[w:it:Discussioni utente:Valcio#c-Valcio-20241104143500-ZandDev-20241104142900|commento di Valcio]]) --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 21:39, 5 nov 2024 (CET)
:{{Ping|Candalua}} Adesso anche meglio visto che io e {{Ping|Valcio}} abbiamo aggiornato il codice su Wikipedia. Si tratterebbe di importarlo (e ridurre di un po' il codice in questa pagina, ancora troppo pesante: <code>27kB</code>). --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 15:29, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:ZandDev|ZandDev]]: per questa modifica, se ti senti confidente puoi anche chiedere il flag temporaneo per farla tu stesso, così la puoi affinare con comodo. Basta che fai domanda sul Bar e posso darti subito il flag per una settimana. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 16:52, 4 nov 2024 (CET)
:::{{Ping|Candalua}} Grazie per la fiducia, lo farò. --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 21:42, 5 nov 2024 (CET)
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== Piccola modifica della classe references ==
{{ping|Candalua}} Vedi riga 157, ho aggiunto un <code>line-height:1.4;</code>. Non mi offendo se ritieni di rollbackare, naturalmente. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 22:20, 8 gen 2021 (CET)
== Sfondo incompatibile con la modalità scura ==
{{Ping|Candalua}} Le righe da [[Mediawiki:Common.css#L-470|470]] a 567 interferiscono e rendono inutilizzabile la modalità scura (provare per credere).
Credo che i blocchetti di regole che settano il colore bianco si possano rimuovere (è quello di default).
Sulla sorella maggiore it.wiki il codice da {{w|Mediawiki:Common.css}} è stato spostato su {{w|Mediawiki:Vector.css}}, mentre è stato creato un gadget apposta per Vector-2022: {{w|Mediawiki:Gadget-NamespaceColorati}}/{{w|Mediawiki:Gadget-NamespaceColorati.css}}.
Quindi credo che (1) quel codice vada spostato su [[Mediawiki:Vector.css]] e (2) vada creato un nuovo gadget NamespaceColorati equipollente a quello su it.wiki. --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 13:39, 3 nov 2024 (CET)
::{{fc}} e aggiunto il nuovo gadget alle [[Mediawiki:Gadgets-definition|definizioni]] (v. [[w:it:Discussioni utente:Valcio#c-Valcio-20241104143500-ZandDev-20241104142900|commento di Valcio]]) --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 21:39, 5 nov 2024 (CET)
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::@[[Utente:ZandDev|ZandDev]]: per questa modifica, se ti senti confidente puoi anche chiedere il flag temporaneo per farla tu stesso, così la puoi affinare con comodo. Basta che fai domanda sul Bar e posso darti subito il flag per una settimana. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 16:52, 4 nov 2024 (CET)
:::{{Ping|Candalua}} Grazie per la fiducia, lo farò senz'altro. --[[User:ZandDev|ZandDev]] ([[User talk:ZandDev|disc.]]) 21:42, 5 nov 2024 (CET)
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{{Ct|f=120%|t=2|v=2|CAPITOLO I.}}
{{smaller block|c=is|Origine della spedizione. — Partenza. — A bordo. — Alessandria e Cairo. — Ziber pacha. — A Suez. — Nel Mar Rosso. — Sualin. — Sul postale egiziano. — Arrivo a Massaua.}}
Fu nel settembre del 1878 che per la prima volta vidi
farsi concreta la speranza di un viaggio in quell’interessante e
misterioso paese che per doppia ragione fu detto Continente
Nero.
Era un coraggioso industriale nostro, il comm. {{W|Carlo Erba (farmacista)|Carlo Erba}},
che aveva ideato di armare una spedizione, che, tenendo la
linea di Kartum, Galabat, Gondar, Goggiam e possibilmente lo
Scioa, scendesse poi al Mar Rosso, esplorando commercialmente
quelle contrade: io l’avrei seguita colla pura veste del dilettante. La cosa doveva farsi se non misteriosamente, almeno tranquillamente,
sperando riportare grate sorprese, e non disillusioni per
coloro che troppo facilmente si lasciano trasportare dagli entusiasmi
che nascono per simili imprese in paesi, nei quali come
da noi, non vi si è abituati. Ma la cosa entrò presto nel dominio
del pubblico, i giornali ne parlarono, si propose una società
per sottoscrizioni. Erba rinunciò generosamente all’interesse
proprio nella speranza di un bene avvenire pel suo paese; fu
costituito un Comitato, alla presidenza del quale fu chiamato a
sedere lo stesso Erba; fu decretata la spedizione che naturalmente
assunse ben maggiori proporzioni. Mi seduceva assai più<noinclude></noinclude>
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Fu nel settembre del 1878 che per la prima volta vidi
farsi concreta la speranza di un viaggio in quell’interessante e
misterioso paese che per doppia ragione fu detto Continente
Nero.
Era un coraggioso industriale nostro, il comm. {{W|Carlo Erba (farmacista)|Carlo Erba}},
che aveva ideato di armare una spedizione, che, tenendo la
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Scioa, scendesse poi al Mar Rosso, esplorando commercialmente
quelle contrade: io l’avrei seguita colla pura veste del dilettante. La cosa doveva farsi se non misteriosamente, almeno tranquillamente,
sperando riportare grate sorprese, e non disillusioni per
coloro che troppo facilmente si lasciano trasportare dagli entusiasmi
che nascono per simili imprese in paesi, nei quali come
da noi, non vi si è abituati. Ma la cosa entrò presto nel dominio
del pubblico, i giornali ne parlarono, si propose una società
per sottoscrizioni. Erba rinunciò generosamente all’interesse
proprio nella speranza di un bene avvenire pel suo paese; fu
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sedere lo stesso Erba; fu decretata la spedizione che naturalmente
assunse ben maggiori proporzioni. Mi seduceva assai più<noinclude></noinclude>
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'''Un’elargizione di L. 12,000.''' — Nella ricorrenza dell’anniversario della morte del padre, a beneficio e per l’arredamento della Poliambulanza di via Arena. Maria Regazzoni ha elargito lire undicimila, e lire mille per la Società italiana per la protezione dei fanciulli.
'''Pei danneggiati dal ciclone.''' — Il Comitato pro Danneggiati dal Ciclone Lombardo, del quale ne è Presidente onorario il conte Febo Borromeo, ed effettivo l’industriale Lino Roncalli, darà verso la fine del corrente mese una grandiosa mattinata di Beneficenza al Teatro Filodrammatici con un’importante lotteria per la quale inviarono ricchissimi doni il sen. marc. Ettore Ponti ed altre cospicue personalità cittadine.
Per chi intendesse inviare qualche altro
dono, per detta lotteria, si rammenta che la
Sede del Comitato è in viale Porta Nuova
n. 16, telefono 42-79, ove si potrà pure telefonare ed il Comitato stesso penserà a mandare apposito incaricando pel ritiro dei doni.
⁂ Pure festeggiamenti speciali si stanno
organizzando a Crescenzago a favore dell’Istituto infantile locale, stato danneggiato dal
ciclone.
'''Per San Carlo Borromeo.''' — In occasione
delle feste a San Carlo Borromeo venne coniata una medaglia commemorativa ufficiale.
L’incarico fu assegnato alla ditta Stefano
Johnson. La medaglia di grandi dimensioni
è riuscita assai bella. Da un lato raffigura
la testa del santo e dall’altra la sua beatificazione.
'''Borse di studio per l’Università di Pavia.'''
— È aperto il concorso a tre Borse di Studio,
due da Lire 500 ed una di Lire 400, istituite
per l’anno scolastico 1910-911 dal Consiglio
Accademico dell’Università di Pavia, a favore di tre studenti della Facoltà di Filosofia
e Lettere.
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A Milano, la nobil donna ''Elena Maria Zanotti''.
— Nella sua villa a Lovaria di Pradamano, la signora ''Emilia Muner'' ved. ''De Giudici'', proprietaria di vaste possessioni, il cui nome è ricordato per le continue e cospicue elargizioni a istituti e a privati e le cui munifiche disposizioni testamentarie coronarono un’esistenza intessuta di opere generose e benefiche. Infatti la signora Muner-De Giudici lasciò per testamento la tenuta di Lovaria — del valore di 3-400 mila lire — {{altraColonna|33%|style=vertical-align:top;}}all’Ospedale di Udine perchè vi collochi le signore appartenenti a famiglie nobili decadute; lire 50 mila per una scuola tecnica, lire 25 mila all’Ospedale, lire 20 mila alla Congregazione di carità e lire 10 mila all’Asilo, tutti in Tolmezzo; lire 12 mila alla vicaria di Casanova; il palazzo in Tolmezzo, abitato dalla defunta, fu lasciato ad un cugino, colla clausola che venendo esso a morte senza discendenza il palazzo — del valore di circa 40 mila lire — debba passare all’Ospedale di Tolmezzo. Infine legò tutto il resto, dedotti i legati sopra indicati, al Duomo di Tolmezzo, perchè completi la sua facciata con un’opera monumentale. Non si sa quanto sia quel resto: chi parla di cento, chi di due ed anche di trecentomila lire.
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{{centrato|{{larger|DIARIO ECCLESIASTICO}}}}
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{{Mlb|'''18 settembre''' — Domenica terza dopo la Decollazione — S. Estorgio I arct4.
'''19, lunedi''' — Ss. Cornelio e Cipriano mm.
'''20, martedi''' — S. Clicerio Landriani arcivesc.
'''21, mercoledi''' — Temp. e digiuno — S. Matteo ap.
'''22, giovedi''' — Ss. Maurizio e Massimo mm.
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'''24, sabato''' — Temp. e dig. — S. Tecla m.}}
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{{Mlb|Continua a S. Calocero
'''19, lunedi''' — Al Santuario di N. S. di Lourdes.
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{{Ct|f=100%|v=1|t=2|ER PADRE SUPRÏORE.}}
<poem>
Tre nnotte fa, un Patrasso francescano
Ariccontava a una su’ grann’amica
Ch’è ppiù mmejjo avé er culo in zu l’ortica
Che de stà in un convento a ffà er guardiano.
Questi dicheno pragras<ref>Plagas.</ref> der zovrano:
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Er zilenzio, er cantà, sso’ affari bbrutti.
La ppiù ppena perantro, er più mmartorio,
Er più ssudore, è aridunalli<ref>Radunarli.</ref> tutti
La matina e la sera ar rifettorio.
</poem><!--fine-->
{{a destra|margine=5em|14 marzo 1834}}<noinclude><references/></noinclude>
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Dr Zimbu
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<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Sonetti del 1834''|173}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|ER PADRE SUPRÏORE.}}
<poem>
Tre nnotte fa, un Patrasso francescano
Ariccontava a una su’ grann’amica
Ch’è ppiù mmejjo avé er culo in zu l’ortica
Che de stà in un convento a ffà er guardiano.
Questi dicheno pragras<ref>Plagas.</ref> der zovrano:
Quelli so’ ddisperati pe’ la ....:
Onzomma disce lui ch’è una fatica
D’arinegàcce<ref>Rinegarci.</ref> er nome de cristiano.
Disce che ppe’ sti frati farabbutti<ref>''Farabutti'', per “ribaldi.„ [E questo è precisamente il significato più comune che ha anche in Toscana, e, credo, in tutta Italia. Ma i vocabolari dando ''farabutto'' come semplice equivalente di “ingannatore„ o “truffatore,„ il Belli sentì il bisogno di mettere questa nota. Primo il ''Giorgini-Broglio'' ha definito giustamente ''farabbutto'' per “uomo ignobile e tristo.„ V. la nota 7 del sonetto: ''{{TestoCitato|L'età dell'omo|L’età}}'' ecc., 14 marzo 34.]</ref>
Lo stà<ref>Stare.</ref> bboni la notte in dormitorio,
Er zilenzio, er cantà, sso’ affari bbrutti.
La ppiù ppena perantro, er più mmartorio,
Er più ssudore, è aridunalli<ref>Radunarli.</ref> tutti
La matina e la sera ar rifettorio.
</poem><!--fine-->
{{a destra|margine=5em|{{smaller|14 marzo 1834.}}}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|166|''Sonetti del 1834''|}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|LI MARIGGNANI.<ref>''Marignani'': melanzane, o petronciane. Chiamansi così i prelati ''di mantellone'', per distinguerli da quelli ''di mantelletto'', che sono di prim’ordine, e ''Prelati domestici'' del Papa. Il colore della melanzana simile a quello dell’abito prelatizio, ha dato origine al burlesco soprannome.</ref>}}
<poem>
Ve lo diremo noi chi sso’<ref>Chi sono.</ref> sti zzeri,
Che mmarceno<ref>''Marciano'', per semplicemente “camminano, vanno.„</ref> in strozzino<ref>''Strozzino'': capestro. Qui sta per “collarino ecclesiastico.„</ref> pavonazzo,
E in carzettacce<ref>Calzettacce. I Prelati domestici portano calze di color violaceo: i Marignani le hanno nere.</ref> nere de<ref>''De'', per “da.„</ref> strapazzo
Pe’ ffodera a cquer par de cannejjeri.<ref>Candelieri: gambe sottili.</ref>
Quelli so’ ttutti-quanti cammerieri,
Cammerieri segreti de Palazzo;<ref>Comunemente i così detti Marignani hanno il titolo di ''camerier segreto'' di Sua Santità. Sono talora ''Protonotari-apostolici'' ecc. Ma tutto si rimane al titolo, e non fan nulla.</ref>
E a Rroma, grazziaddio, sce n’è uno sguazzo,<ref>Ce n’è un’abbondanza.</ref>
Da ingravidà un mijjon de monisteri.
Ve lo diremo noi chi sso’ ste turbe
A mmezz’abbate e mmezzo monziggnore:
So’ pprelati de titolo ''estra-urbe''.<ref>Son detti anche prelati ''extra-urbem''.</ref>
Ch’oggni tantino, pe’ mmutà er colore
De le carzette, da ggentacce furbe
Vanno a la viggna e llì sse fanno onore.<ref>Pel privilegio ''extra-urbem'', usciti dalle porte di Roma possono assumere calze violacee, ciò che non mancan di fare il più spesso che sanno.</ref>
</poem>
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Dr Zimbu
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<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Sonetti del 1834''|167}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|L’INCERTI DE PALAZZO.<ref>[Detto così assolutamente, s’intende sempre quello del Papa.]</ref>}}
<poem>
Ggià cche sséte<ref>Siete.</ref> ar proposito, sor Marco,
De tutte le storzione<ref>Estorsioni.</ref> e mmaggnerie,
Che cqui sse<ref>Si.</ref> fanno in delle sagrestie
A ttitolo de córtra<ref>[Coltre mortuaria.]</ref> e ccatafarco;
Sentitene mo un’antra<ref>Altra.</ref> de le mie.
Jeri un Conte, ch’è pprimo Maniscarco<ref>''Maniscalco'', invece di “scalco.„</ref>
In de la Corte d’un gran Re Mmonarco,
Annò<ref>Andò.</ref> ddar Papa co’ ddu’ bbrutte zzie.
Come v’ho ddetto, sto sor Conte aggnéde,<ref>Andò.</ref>
E llui co’ le su’ zzie sazziorno l’occhi
Addoss’ar Papa, e jje bbasciòrno er piede.
Tornato a ccasa, un scopator zegreto<ref>Gli ''scopatori segreti'' sono i servi del papa.</ref>
Je portò un conto de sei bbelli ggnocchi,<ref>Scudi.</ref>
A ttitolo de lógro<ref>[Logoro]: consumo.</ref> de tappeto.<ref>Questa tariffa esiste realmente fra le propine delle così dette ''Cinque famiglie''. L’attuale pontefice {{Ac|Papa Gregorio XVI|Gregorio XVI}}, dicesi che ne mediti l’abolizione e così dar gratis il Piede SS.<sup>mo</sup> alla divozione de’ baciatori. Le cinque famiglie dianzi nominate sono distinte in: 1.<sup>a</sup> Anticamera e sala pontificia. 2.<sup>a</sup> Sala di M.<sup>r</sup> Maggior duomo. 3.<sup>a</sup> Sala di M.<sup>r</sup> Uditore SS.<sup>mo</sup> 4.<sup>a</sup> Sala di M.<sup>r</sup> Maestro di Camera. 5.<sup>a</sup> Sala del Segretario de’ Brevi. Nell’inverno 1833-1834, le mance delle cinque famiglie superarono gli scudi 15,000. Interessante articolo di romana statistica!</ref>
</poem>
{{a destra|margine=5em|{{smaller|13 marzo 1834.}}}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|168|''Sonetti del 1834''|}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|L’UDIENZE DER PAPA NOVO.<ref>{{AutoreCitato|Papa Gregorio XVI|Gregorio XVI}}, felicemente regnante.</ref>}}
<poem>
Io so’<ref>Sono.</ref> ppalaferniere,<ref>Palafreniere.</ref> e in conseguenza
Credo de stà a Ppalazzo in certo sceto,<ref>Ceto.</ref>
Da èsse<ref>Essere.</ref> ar caso de sapé oggni peto<ref>''Peto'', per “minuzia.„</ref>
De quanto s’ha da fà ppe’ avé l’udienza.
Nun volenno<ref>Volendo.</ref> èsse arimannati arrèto,<ref>Addietro.</ref>
Bbisoggna abbino tutti l’avertenza
De scrive<ref>Scrivere.</ref> a Mmonziggnore<ref>[Monsignore Maestro di Camera.]</ref> in confidenza
Quello ch’er Papa ha da sentì in zegreto.
Dette ch’ha oggnuno le bbudella sua,
Stenne<ref>Stende.</ref> er Mastro-de-Cammera un quinterno
De nomi, e ’r Papa ce ne sscejje dua.
A ttutti l’antri<ref>Altri.</ref> nun je tocca un corno;
Perchè er Papa ggià ssa cche in un governo
Nun ce pònn’èsse che ddu’ affari ar giorno.<ref>[“Ora dirò cosa che nell’anno 1845 parrà enorme, impossibile; chi non conosce Roma, la crederà una calunnia. Il capo dello Stato non ha giorno d’udienza pubblica, come hanno tutti i sovrani assoluti. Ma questo è nulla. Se un suddito dello Stato domanda parlare al Papa, non gli viene concesso se non promette formalmente prima che non gli parlerà d’affari.„ {{sc|{{AutoreCitato|Massimo D'Azeglio|D’Azeglio}}}}, ''Degli ultimi casi di Romagna''. — “Gregorio XVI non dava udienze pubbliche, e quando riceveva a privata udienza è voce che non amasse favellare di negozi temporali.„ {{sc|{{AutoreCitato|Luigi Carlo Farini|Farini}}}}, Op. e vol. cit., pag. 127. — “Quant aux plaintes des peuples, le Pape ne s’en souciat en rien. Lorsque quelqu’un domandait une audience, on exigeait qu’il en indiquât {{pt|d’a-|}} {{nsb|III|178|1}}</ref>
</poem>
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Dr Zimbu
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<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|168|''Sonetti del 1834''|}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|L’UDIENZE DER PAPA NOVO.<ref>{{AutoreCitato|Papa Gregorio XVI|Gregorio XVI}}, felicemente regnante.</ref>}}
<poem>
Io so’<ref>Sono.</ref> ppalaferniere,<ref>Palafreniere.</ref> e in conseguenza
Credo de stà a Ppalazzo in certo sceto,<ref>Ceto.</ref>
Da èsse<ref>Essere.</ref> ar caso de sapé oggni peto<ref>''Peto'', per “minuzia.„</ref>
De quanto s’ha da fà ppe’ avé l’udienza.
Nun volenno<ref>Volendo.</ref> èsse arimannati arrèto,<ref>Addietro.</ref>
Bbisoggna abbino tutti l’avertenza
De scrive<ref>Scrivere.</ref> a Mmonziggnore<ref>[Monsignore Maestro di Camera.]</ref> in confidenza
Quello ch’er Papa ha da sentì in zegreto.
Dette ch’ha oggnuno le bbudella sua,
Stenne<ref>Stende.</ref> er Mastro-de-Cammera un quinterno
De nomi, e ’r Papa ce ne sscejje dua.
A ttutti l’antri<ref>Altri.</ref> nun je tocca un corno;
Perchè er Papa ggià ssa cche in un governo
Nun ce pònn’èsse che ddu’ affari ar giorno.<ref>[“Ora dirò cosa che nell’anno 1845 parrà enorme, impossibile; chi non conosce Roma, la crederà una calunnia. Il capo dello Stato non ha giorno d’udienza pubblica, come hanno tutti i sovrani assoluti. Ma questo è nulla. Se un suddito dello Stato domanda parlare al Papa, non gli viene concesso se non promette formalmente prima che non gli parlerà d’affari.„ {{sc|{{AutoreCitato|Massimo d'Azeglio|D’Azeglio}}}}, ''Degli ultimi casi di Romagna''. — “Gregorio XVI non dava udienze pubbliche, e quando riceveva a privata udienza è voce che non amasse favellare di negozi temporali.„ {{sc|{{AutoreCitato|Luigi Carlo Farini|Farini}}}}, Op. e vol. cit., pag. 127. — “Quant aux plaintes des peuples, le Pape ne s’en souciat en rien. Lorsque quelqu’un domandait une audience, on exigeait qu’il en indiquât {{pt|d’a-|}} {{nsb|III|179|1}}</ref>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Sonetti del 1834''|169}}</noinclude><section begin="1" />{{pt|vance|d’avance}} l’objet, et s’il s’agissait de plaints, elle était refusée. Si, dans une audience, quelqu’un se permettait une observation sur la marche du gouvernement, il l’envoyait au diable en traitant cela d’insolence, pour n’avoit pas déclaré qu’il avait è dire de pareilles choses, et il concluait toujours en disant: ''Le Pape n’est pas fait pour être ennuyé.''„ {{sc|{{AutoreCitato|Luigi Pianciani|Pianciani}}}}, Op. cit., vol. II, pag. 341.]<section end="1" />
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|LI DU’ QUADRI.}}
<poem>
Io e Mmòma,<ref>Girolama.</ref> in du’ artari a la Ritonna,<ref>La Rotonda: il Pantheon.</ref>
Che bbelli quadri avemo visto, tata!<ref>Vocabolo col quale i figli chiamano il padre.</ref>
Uno era Ggesucristo a la colonna,
E ll’antro<ref>L’altro.</ref> la Madonna addolorata.
Tata mia, quela povera Madonna
Che spada ha in de lo stommico infirzata!
E ’r Gesucristo gronna<ref>Gronda.</ref> sangue, gronna,
Che ppare propio una vasca sturata.
Ve dico, tata, ch’io nun ho mmai visto,
Fra cquanti Ggesucristi sce so’<ref>Ci sono.</ref> a Rroma,
Chi ppòzzi<ref>Chi possa.</ref> assuperà<ref>Superare.</ref> cquer Gesucristo.
Ma la Madonna poi!... È vvero, Mòma?
Tiè un par de calamari<ref>Occhiaie. [E anche ''calamai''.]</ref> e un gruggno pisto,<ref>Volto pesto.</ref>
Che sse<ref>Si.</ref> strilla addrittura: “È ''un’ecce-oma''.„<ref>''Ecce homo'' significando qui [cioè, a Roma]: “persona mal ridotta„ (''Egli è un ecce-homo''), alcuni trasportano l’espressione anche al femminile.</ref>
</poem>
{{a destra|margine=5em|{{smaller|13 marzo 1834.}}}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Sonetti del 1834''|169}}</noinclude><section begin="1" />{{pt|vance|d’avance}} l’objet, et s’il s’agissait de plaints, elle était refusée. Si, dans une audience, quelqu’un se permettait une observation sur la marche du gouvernement, il l’envoyait au diable en traitant cela d’insolence, pour n’avoit pas déclaré qu’il avait è dire de pareilles choses, et il concluait toujours en disant: ''Le Pape n’est pas fait pour être ennuyé.''„ {{sc|{{AutoreCitato|Luigi Pianciani|Pianciani}}}}, Op. cit., vol. II, pag. 341.]<section end="1" />
<section begin="s2" />{{Ct|f=100%|v=1|t=2|LI DU’ QUADRI.}}
<poem>
Io e Mmòma,<ref>Girolama.</ref> in du’ artari a la Ritonna,<ref>La Rotonda: il Pantheon.</ref>
Che bbelli quadri avemo visto, tata!<ref>Vocabolo col quale i figli chiamano il padre.</ref>
Uno era Ggesucristo a la colonna,
E ll’antro<ref>L’altro.</ref> la Madonna addolorata.
Tata mia, quela povera Madonna
Che spada ha in de lo stommico infirzata!
E ’r Gesucristo gronna<ref>Gronda.</ref> sangue, gronna,
Che ppare propio una vasca sturata.
Ve dico, tata, ch’io nun ho mmai visto,
Fra cquanti Ggesucristi sce so’<ref>Ci sono.</ref> a Rroma,
Chi ppòzzi<ref>Chi possa.</ref> assuperà<ref>Superare.</ref> cquer Gesucristo.
Ma la Madonna poi!... È vvero, Mòma?
Tiè un par de calamari<ref>Occhiaie. [E anche ''calamai''.]</ref> e un gruggno pisto,<ref>Volto pesto.</ref>
Che sse<ref>Si.</ref> strilla addrittura: “È ''un’ecce-oma''.„<ref>''Ecce homo'' significando qui [cioè, a Roma]: “persona mal ridotta„ (''Egli è un ecce-homo''), alcuni trasportano l’espressione anche al femminile.</ref>
</poem>
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<section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|170|''Sonetti del 1834''|}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|ER MONNO SOTTOSOPRA.}}
<poem>
Dunque, quer che ffascéveno una vorta
Pe’ ffiume<ref>[Detto così assolutamente, s’intende sempre il Tevere.]</ref> un venti e ppiù bbufole in fila,<ref>[Che rimorchiavano contro corrente i barconi carichi.]</ref>
Adesso lo fa er fume d’una pila,<ref>[Pentola.]</ref>
E ll’arte mo dder bufolaro è mmorta.
Disce anzi che la ggente oggi s’è accorta
Che cquer fume, un mill’ommini e un du’ mila,
Co’ un par de rote a uso de trafila,
Pe’ cche<ref>Per quale.</ref> mmare se sia, lui li straporta.
Pegg’è cche mmo ppe’ le carrozze vònno
Nun ce sii ppiù bbisoggno de cavalli,
E ’r fume le strascini in cap’ar monno.
Eppuro un tempo aveveno er costume
Li nostri bboni vecchi, bbuggiaralli,
De dì cch’er ggnente s’assomijja ar fume.
</poem>
{{a destra|margine=5em|14 marzo 1834}}<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|170|''Sonetti del 1834''|}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|ER MONNO SOTTOSOPRA.}}
<poem>
Dunque, quer che ffascéveno una vorta
Pe’ ffiume<ref>[Detto così assolutamente, s’intende sempre il Tevere.]</ref> un venti e ppiù bbufole in fila,<ref>[Che rimorchiavano contro corrente i barconi carichi.]</ref>
Adesso lo fa er fume d’una pila,<ref>[Pentola.]</ref>
E ll’arte mo dder bufolaro è mmorta.
Disce anzi che la ggente oggi s’è accorta
Che cquer fume, un mill’ommini e un du’ mila,
Co’ un par de rote a uso de trafila,
Pe’ cche<ref>Per quale.</ref> mmare se sia, lui li straporta.
Pegg’è cche mmo ppe’ le carrozze vònno
Nun ce sii ppiù bbisoggno de cavalli,
E ’r fume le strascini in cap’ar monno.
Eppuro un tempo aveveno er costume
Li nostri bboni vecchi, bbuggiaralli,
De dì cch’er ggnente s’assomijja ar fume.
</poem>
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Dr Zimbu
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Sonetti del 1834''|171}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|ER GINOCCHIATTERRA.}}
<poem>
È ggiusto, dichi tu? ggiusto la luna!<ref>Giusto niente affatto.</ref>
Ma ccome! ar Papa tre ggenufressione,
E ar Zagramento poi, ch’è er zu’ padrone,
Su l’artâre sì e nno jje ne fann’una!
Sai tu er Papa qual è la su’ furtuna?
Ch’a sto monno io so’ un povero cojjone;
Ché stassi<ref>Stasse.</ref> a mmé a ddà er zanto<ref>Dare il santo: ''le mot d’ordre''.</ref> a le perzone,
Lui de le tre nnun n’averìa ggnisuna.
Disce: “Nun è ppe’ mmé, mma pp’er carattere.„
Ah, ll’antr’ommini dunque e ll’antre donne
So’ ttutti, appett’a llui, sguatteri e sguattere?
Quanno porta sta scusa bbuggiarossa,<ref>''Buggiarona'' (con perdono): ridicola.</ref>
Fórzi nun za cche jje se pò arisponne<ref>Forse non sa che gli si può rispondere.</ref>
Che un Papa è ccom’e nnoi de carn’e dd’ossa.
</poem>
{{a destra|margine=5em|14 marzo 1834}}<noinclude></noinclude>
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2024-11-06T10:13:08Z
Dr Zimbu
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''Sonetti del 1834''|171}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|ER GINOCCHIATTERRA.}}
<poem>
È ggiusto, dichi tu? ggiusto la luna!<ref>Giusto niente affatto.</ref>
Ma ccome! ar Papa tre ggenufressione,
E ar Zagramento poi, ch’è er zu’ padrone,
Su l’artâre sì e nno jje ne fann’una!
Sai tu er Papa qual è la su’ furtuna?
Ch’a sto monno io so’ un povero cojjone;
Ché stassi<ref>Stasse.</ref> a mmé a ddà er zanto<ref>Dare il santo: ''le mot d’ordre''.</ref> a le perzone,
Lui de le tre nnun n’averìa ggnisuna.
Disce: “Nun è ppe’ mmé, mma pp’er carattere.„
Ah, ll’antr’ommini dunque e ll’antre donne
So’ ttutti, appett’a llui, sguatteri e sguattere?
Quanno porta sta scusa bbuggiarossa,<ref>''Buggiarona'' (con perdono): ridicola.</ref>
Fórzi nun za cche jje se pò arisponne<ref>Forse non sa che gli si può rispondere.</ref>
Che un Papa è ccom’e nnoi de carn’e dd’ossa.
</poem>
{{a destra|margine=5em|{{smaller|14 marzo 1834.}}}}<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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/* Riletta */
3419988
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|172|''Sonetti del 1834''|}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|LE VARIAZZION DE TEMPI.}}
<poem>
Ohé Ggiachimantonio!<ref>[Giacomo-Antonio.]</ref> oh scicoriaro!<ref>[''Cicoriaro'': venditor di cicoria. Ma qui forse è detto per ischerzo{{Ec||, nel senso di “stizzoso, permaloso,„ come nel sonetto: ''{{TestoCitato|Girolimo ar cirusico de la Conzolazzione|Girolimo}}'' ecc., 1 ott. 31.|Sonetti romaneschi/Correzioni e Aggiunte}}]</ref>
Come te tratta marzo?... Nu’ lo senti
Si cche rrazza de buggera de venti?
Sémo tornati ar mese de ggennaro.
Come potémo<ref>Possiamo.</ref> poi èsse<ref>Essere.</ref> contenti?
Stam’<ref>Stiamo.</ref> alegri, ch’è ppropio un gusto raro!
Un giorno bbulli<ref>Bolli.</ref> che ppari un callaro:<ref>Caldaio.</ref>
L’antro<ref>Altro.</ref> ggiorno che vviè sbatti li denti.
Ha rraggione er Ziggnore ch’è ppeccato
De dì a llui, ch’è er padrone, ''bbuggiarallo'';
Ché ssi nno<ref>Chè altrimenti.</ref> ggià cce l’averìa<ref>Avrei.</ref> mannato.<ref>Mandato [''a farsi'' ecc.].</ref>
Quanno er monno voleva frabbicallo,<ref>Fabbricarlo.</ref>
Nun era mejjo avéllo<ref>Averlo.</ref> frabbricato
Da fàcce<ref>[In modo da] farci. [Cioè: “che ci facesse.„]</ref> o ssempre freddo o ssempre callo?<ref>Caldo.</ref>
</poem>
{{a destra|margine=5em|14 marzo 1834}}<noinclude></noinclude>
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2024-11-06T10:13:11Z
Dr Zimbu
1553
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proofread-page
text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|172|''Sonetti del 1834''|}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|LE VARIAZZION DE TEMPI.}}
<poem>
Ohé Ggiachimantonio!<ref>[Giacomo-Antonio.]</ref> oh scicoriaro!<ref>[''Cicoriaro'': venditor di cicoria. Ma qui forse è detto per ischerzo{{Ec||, nel senso di “stizzoso, permaloso,„ come nel sonetto: ''{{TestoCitato|Girolimo ar cirusico de la Conzolazzione|Girolimo}}'' ecc., 1 ott. 31.|Sonetti romaneschi/Correzioni e Aggiunte}}]</ref>
Come te tratta marzo?... Nu’ lo senti
Si cche rrazza de buggera de venti?
Sémo tornati ar mese de ggennaro.
Come potémo<ref>Possiamo.</ref> poi èsse<ref>Essere.</ref> contenti?
Stam’<ref>Stiamo.</ref> alegri, ch’è ppropio un gusto raro!
Un giorno bbulli<ref>Bolli.</ref> che ppari un callaro:<ref>Caldaio.</ref>
L’antro<ref>Altro.</ref> ggiorno che vviè sbatti li denti.
Ha rraggione er Ziggnore ch’è ppeccato
De dì a llui, ch’è er padrone, ''bbuggiarallo'';
Ché ssi nno<ref>Chè altrimenti.</ref> ggià cce l’averìa<ref>Avrei.</ref> mannato.<ref>Mandato [''a farsi'' ecc.].</ref>
Quanno er monno voleva frabbicallo,<ref>Fabbricarlo.</ref>
Nun era mejjo avéllo<ref>Averlo.</ref> frabbricato
Da fàcce<ref>[In modo da] farci. [Cioè: “che ci facesse.„]</ref> o ssempre freddo o ssempre callo?<ref>Caldo.</ref>
</poem>
{{a destra|margine=5em|{{smaller|14 marzo 1834.}}}}<noinclude></noinclude>
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MediaWiki:Gadget-ErroriOrtografici.js
8
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2024-11-05T13:51:07Z
Candalua
1675
3419540
javascript
text/javascript
/** Vedi la guida alla pagina Aiuto:Gadget ErroriOrtografici
* Di seguito sono elencate le regole per individuare gli errori ortografici.
* Si possono suggerire nuove regole o proporre modifiche nella pagina di discussione.
* È possibile aggiungere le proprie regex personali creando una pagina Utente:nome_utente/customRegex.js
* Per provare le regex: https://regex101.com
* Formato: [ /regex/, "descrizione", [ "eccezione1", "eccezione2"] ] (le eccezioni non sono obbligatorie)
*/
var regex = [
[ /cb[eièì\'’]/g, "OCR: cbe, cbi, cb' per che, chi, ch'", [ "Macbeth"] ],
[ /l\*[eè]/g, "OCR: asterisco in luogo dell'apostrofo" ],
[ /[a-zA-ZàèìòùÀÈÌÒÙ]{2,}[\.:;,^!\?][abcdefghijklnopqrstuvwxyzA-ZàèìòùÀÈÌÒÙ]/g, "punteggiatura non seguita da spazio (tranne dev.mo e simili)", [ "www", "align:"] ],
[ /[a-zàèìòùáéíóú]([abdefghjklmnopqrstuvwyz])\1{2,}/g, "stessa lettera ripetuta 3 volte (tranne numeri romani)" ],
[ /[a-zàèìòùáéíóúA-ZÀÈÌÒÙÁÉÍÓÚ]+[0-9]+[a-zàèìòùáéíóúA-ZÀÈÌÒÙÁÉÍÓÚ]+/g, "numeri in mezzo alle parole" ],
[ /\s([abdefghjklmnopqrstuvwyzàèìòù])\1{1,}[a-zàèìòùáéíóúA-ZÀÈÌÒÙÁÉÍÓÚ]+/gi, "stessa lettera ripetuta a inizio parola, tranne numeri romani i, x, c", [ "lloyd", "mms.", "www", "Aaron"] ],
[ /\s([abdefghjklmnopqrstuvwyzàèìòù])\1{1,}\s/g, "parola costituita interamente dalla stessa lettera ripetuta 2 o più volte tranne numeri romani i, x, c" ],
[ /(?<![?!])(?![?!])(?!\.{1,})([.:;,!\?]){2,}/g, "più segni di punteggiatura consecutivi (tranne i puntini)" ],
[ /(?<!\.|!|\?)\.{2}(?!\.)/g, "2 punti fermi consecutivi (ma non 3), tranne dopo ! e ?" ],
[ /[DdFfNnSsUu][EeAa]['’][abcdefghijklmnopqrtuvwxyzàèìòùáéíóúA-ZÀÈÌÒÙÁÉÍÓÚ]/g, "de’, fe’, ne’, que’ non seguiti da spazio (tranne ’s)"],
[ /([hljmnqrswz])\1[bcdfghklmnpqrstvwxz]/g, "Doppia H, L, J, M, N, Q, R, S, W, Z seguita da consonante", [ "grizzly", "tyrrhen" ] ],
[ /([bdfkptv])\1[bcdfghkmnpqstvwxz]/g, "Doppia B, D, F, K, P, T, V seguita da consonante (tranne L o R", [ "Buddha", "http", "www" ] ],
[ /([cg])\1[bcdfgkmnpqstvwxz]/g, "Doppia C o G seguita da consonante (tranne H, L o R", [ "mdccx"] ],
[ /[a-zàèìòùáéíóú][A-ZÀÈÌÒÙÁÉÍÓÚ]/g, "minuscola seguita da maiuscola" ],
[ /[àìòùáíóú][a-z]*[àìòùáíóú]/g, "due accenti nella stessa parola (tranne è é, presenti in parole francesi)" ],
[ /\s[a-zàèìòùáéíóú]*gh[aou]/g, "gha, gho, ghu", [ "brougham", "afghan"] ],
[ /\s([aeouàèìòù])\1{1,}\s/g, "parola costituita interamente dalla stessa vocale ripetuta 2 o più volte" ],
[ /\s[bcdfghjklmnpqrstvwz]{2,}[\s:;,!\?]/g, "parola costituita interamente da 2 o più consonanti", [ "km", "cm", "http" ] ],
[ /po['’][a-zA-ZàèìòùÀÈÌÒÙ]+/g, "po' senza spazio dopo" ],
[ /l['’][bcdfgklmnpqrstvwxz]/g, "l' seguito da consonante" ],
[ /([bcdfgjklmnpqrstvwxz]){5,}/g, "5 o più consonanti consecutive", [ "mdc", "mcmx", "xxx", "clxx", "mccx", "postscriptum", "Innsbruck", "Innspruck", "Armstrong" ] ],
[ /[a-zA-ZàèìòùÀÈÌÒÙ]\s[\.:;,!\?]/g, "punteggiatura preceduta da spazio", [ ". . ."] ],
[ /\sdell[oaei][\.:;,!\?]/g, "dello, della e simili seguite da punteggiatura"],
[ /([aeiouàèìòù]){5,}/g, "5 o più vocali consecutive", [ "cuoiaio", "merciaiuol", "acquaiuol" ] ],
[ /\bim[oa]?[\s\.:;,!\?]\b/g, "OCR: im, imo, ima per un, uno, una" ],
[ /\s[aeiouàèìòù]{2,}[\s:;,!\?]/g, "parola costituita interamente da 2 o più vocali", [ "ii", "iii", "io","ai","ei","ài", "aia", "aie", "au", "ou", "où", "eau", "ea", "eo", "eu" ] ],
[ /(\.\s+|\s[a-zàèìòù]+\s+)II [a-zàèìòù]/g, "II per Il", [ "l II" ] ],
[ /[a-zàèìòùáéíóú]{4,}\. [a-zàèìòùáéíóú]/g, "Punto fermo seguito da minuscola (tranne abbreviazioni brevi)", [ "ecc.", "sig.", "prof.", "seg.", "segg.", "ediz.", "autogr.", "cent.", "lat.", "long.", "pag.", "pagg." ] ],
[ /[a-zàèìòùáéíóúA-ZÀÈÌÒÙ]\*[\s'’]/g, "Asterischi attaccati al testo"],
[ /\b[Pp]erche\b/g, "perchè senza accento" ],
[ /\b[Pp]oiche\b/g, "poichè senza accento" ],
[ /[Pp]iu\b/g, "più senza accento" ],
[ /\s[Cc]osi\b/g, "così senza accento" ],
[ /\s[SsLl]i[\.!\?;,:]/g, "sì, lì senza accento" ],
[ /[Qq]uesl/g, "OCR: queslo, quesla per questo, questa" ],
[ /(ì|\D1)['’]/g, "OCR per l'" ],
[ /\s[Dd][ae]li[oa]\s/g, "OCR: delia, delio per della, dello e simili" ],
[ /\s[Dd]eir\b/g, "OCR: deir per dell'" ],
[ /\s[Dd]ell\s/g, "OCR: dell senza apostrofo" ],
[ /\s[Aa]ir\b/g, "OCR: air per all'" ],
[ /\s[Nn]eir\b/g, "OCR: neir per nell'" ],
[ /\s[Cc]oir\b/g, "OCR: coir per coll'" ],
[ /\s[Pp]iti\b/g, "OCR: piti per più", [ "pitié" ] ],
[ /\s[iu]h\s/g, "OCR: ih, uh per in, un" ],
[ /eh['’]/g, "OCR: eh' per ch'" ],
[ /ch[cn]/g, "OCR: chc, chn per che" ],
[ /\sohe[\s\.:;,!\?]/g, "OCR: ohe per che" ],
[ /\bV?ili\b/g, "OCR: Vili per VIII, ili per III", [ "Vili!"] ],
[ /\sgii\s/g, "OCR: gii per gli" ],
[ /\sglì?\s/g, "glì, gl per gli" ],
[ /\s[Ee] stat[oa]\b/g, "è stato senza accento" ],
[ /\s[Cc]h?['’]e[\s\.:;,!\?]/g, "c'è, ch'è senza accento" ],
[ /\s[VvNnSs]['’]e[\s\.:;,!\?]/g, "v'è, s'è, n'è senza accento" ],
[ /\s[Dd]?[Oo]v['’]e[\s\.:;,!\?]/g, "dov'è senza accento" ],
[ /\s[Cc]o[ms]['’]e[\s\.:;,!\?]/g, "com'è, cos'è senza accento" ],
[ /\s[Qq]ual[\s'’]e[\s\.:;,!\?]/g, "qual è, qual'è senza accento" ],
[ /\s[Tt]al\se[\s\.:;,!\?]/g, "tal è senza accento" ],
[ /\s[Nn]on\se[\s\.:;,!\?]/g, "non è senza accento" ],
[ /\s[Éé][\s\.:;,!\?]/g, "è (voce verbale) con accento acuto" ],
[ /[ai]l del[\s\.:;,!\?]/g, "OCR: al del, il del invece di: al ciel, il ciel" ],
[ /o del[\.:;,!\?]/g, "OCR: o del invece di: o ciel" ],
[ /[Ii'’]ntomo/g, "OCR: intomo per intorno", [ "sintomo"] ],
[ /[gq]uau/g, "Quaudo per quando e simili" ],
[ /[•¬flfi]/g, "Simboli insoliti" ],
[ /\{\{|\}\}|\[\[|\]\]/g, "Parentesi quadre o grafe di Mediawiki non chiuse bene"],
[ /\S-\s/g, "Trattini di sillabazione seguiti da spazio" ],
[ /\s—[A-ZÀÈÌÒÙ]/g, "Trattino di discorso diretto non seguito da spazio"],
[ /[—-]{2,}/g, "Due o più trattini attaccati"],
[ /I['’][aeiouàèìòù]/g, "I’ per l’"],
];
customRegex = [];
operaExceptions = [];
var regexList = regex.concat(customRegex);
var pagesToLoad = 50;
var maxIndexPages = 20;
var singlePageText, singleIndexWithoutNs;
$(function() {
var api = new mw.Api();
// highlight mispelled word on the page
if (mw.config.get('wgCanonicalNamespace') == 'Page') {
params = new URLSearchParams(window.location.search);
var word = params.get('highlight-word');
if (word) {
if (mw.config.get('wgAction') == 'view') {
var regEx = new RegExp("(" + word.replaceAll(".", "\\.") + ")(?!([^<]+)?>)", "g");
$('#mw-content-text').html($('#mw-content-text').html().replaceAll(regEx, '<span class="highlight-word">' + word + '</span>'));
$('#ca-edit a').attr('href', $('#ca-edit a').attr('href') + "&highlight-word=" + word);
} else {
$('#wpSummary').val("Gadget [[Aiuto:Gadget ErroriOrtografici|ErroriOrtografici]]");
}
}
}
if (mw.config.get('wgAction') != 'view')
return;
openBox = function() {
$('#mw-content-text').prepend('<div class="box errori-ortografici-box">' +
'<div class="box-title">Cerca errori ortografici</a>' +
'<span class="icon-close"></span></div>' +
'<div class="box-main errori-ortografici-box-main"></div></div>');
$('.errori-ortografici-box-main').html('<a id="errori-ortografici-help" href="/wiki/Aiuto:Gadget_ErroriOrtografici" class="blue btn" target="_new" title="Consulta la pagina di aiuto su questo strumento (si apre in una nuova scheda)">Guida</a>' +
'<span id="loading-errori-ortografici">Caricamento in corso...</span><ol id="errori-ortografici-list"></ol>');
$('.errori-ortografici-box').draggable({
create: function( event, ui ) {
$(this).css({
right: "auto",
top: $(this).position().top,
left: $(this).position().left
});
}
});
$('.errori-ortografici-box').draggable('option', 'cancel', '.errori-ortografici-box-main');
$('.errori-ortografici-box .icon-close').click(function() {
$('.errori-ortografici-box').remove();
});
};
getPureText = function(m, indexPage) {
puretext = '';
mode = m;
singlePage = (indexPage === undefined);
if (singlePage)
indexPage = mw.config.get('wgPageName');
$.ajax({
url: "/w/index.php?&title=" + indexPage.replaceAll("&", "%26").replaceAll("?", "%3F")
}).done(function(indexResponse) {
var firstPageHref = $('.prp-index-pagelist-page:not(.quality0):first', indexResponse).attr('href');
if (firstPageHref == null) {
console.log("Errore nel caricamento del pagelist per " + indexWithoutNs + " pages " + fromPageNum + "-" + toPageNum);
return;
}
var firstPage = firstPageHref.replace('/wiki/', '').replace('/w/index.php?title=', '').replace('&action=edit&redlink=1', '');
var lastPage = $('.prp-index-pagelist-page:not(.quality0):last', indexResponse).attr('href').replace('/wiki/', '').replace('/w/index.php?title=', '').replace('&action=edit&redlink=1', '');
var firstPageNum = parseInt(firstPage.substring(firstPage.lastIndexOf('/') + 1));
lastPageNum = parseInt(lastPage.substring(lastPage.lastIndexOf('/') + 1));
indexWithoutNs = indexPage.substring(indexPage.indexOf(':') + 1);
fromPageNum = firstPageNum;
var q0 = [];
$('.prp-index-pagelist .quality0', indexResponse).each(function() {
var thisPage = $(this).attr('href').replace('/wiki/', '').replace('/w/index.php?title=', '').replace('&action=edit&redlink=1', '');
var thisPageNum = thisPage.substring(thisPage.lastIndexOf('/') + 1);
q0.push(thisPageNum);
});
q0List = q0.join(',');
startTime = Date.now();
parsePages(lastPageNum, fromPageNum, mode, indexWithoutNs, q0List, puretext, startTime, singlePage);
});
};
isException = function(thisRegex, word) {
var exceptions = operaExceptions;
if (thisRegex.length > 2)
exceptions = exceptions.concat(thisRegex[2]);
for (var i = 0; i < exceptions.length; i++) {
var ex = exceptions[i].toLowerCase();
var w = word.toLowerCase();
if (ex.indexOf(w) > -1 || w.indexOf(ex) > -1) {
return true;
}
}
return false;
};
checkForErrors = function(text, thisRegex, indexWithoutNs, isSingleRegex) {
text = text.replace(/\r?\n/g, ' ');
var re = thisRegex[0];
var comment = thisRegex[1];
var result;
var resultsCount = (text.match(re) || []).length;
//console.log("Found " + resultsCount + " results for " + re);
if (isSingleRegex) {
if (resultsCount == 0) {
$('#searchRegexResults').html('Nessun risultato trovato.');
} else if (resultsCount > 1000) {
$('#searchRegexResults').html('Trovati ' + resultsCount + ' risultati, si suggerisce di cercare un testo più specifico.');
console.log("Too many results: " + resultsCount);
return;
} else {
$('#searchRegexResults').html('Trovati ' + resultsCount + ' risultati:');
}
}
while ((result = re.exec(text)) !== null) {
var start = result.index;
var end = start + result['0'].length;
var wordStart = text.lastIndexOf(' ', start);
var wordEnd = text.indexOf(' ', end);
var piece = text.substring(start, end);
var pieceBefore = text.substring(wordStart, start);
var pieceAfter = text.substring(end, wordEnd);
var word = pieceBefore + piece + pieceAfter;
//console.log("piece: " + piece + "_");
//console.log("word: " + word + "_");
if (isException(thisRegex, piece.trim()) || isException(thisRegex, word.trim())) {
continue;
}
var previousWordStart = text.lastIndexOf(' ', wordStart - 1);
var nextWordEnd = text.indexOf(' ', wordEnd + 1);
var wordBefore = text.substring(previousWordStart, wordStart);
var wordAfter = text.substring(wordEnd, nextWordEnd);
var pagenumMatches = text.substring(0, start).match(/\[p\.\s(\d+)\]/g);
if (pagenumMatches != null) {
var pagenum = pagenumMatches[pagenumMatches.length - 1].replace(/\[p\.\s(\d+)\]/, '$1');
var pageLink = '<a href="/wiki/Page:' + indexWithoutNs.replaceAll("&", "%26").replaceAll("?", "%3F") + '/' + pagenum + '?highlight-word=' + word.trim() + '" target="_new">'
+ (singlePage ? 'pag. ' + pagenum : indexWithoutNs + '/' + pagenum) + '</a>';
if ($('#errori-ortografici-list li').length < 1000) {
$('#errori-ortografici-list').append('<li title="' + comment +
'" data-indice="' + indexWithoutNs + '" data-pagenum="' + pagenum + '">' +
pageLink + ': ' + wordBefore + pieceBefore + '<b>' + piece + '</b>' + pieceAfter + wordAfter + '</li>');
$("#errori-ortografici-list li").sort(function(a, b) {
return ($(b).data('indice')) != ($(a).data('indice')) ?
($(b).data('indice')) < ($(a).data('indice')) ? 1 : -1 :
($(b).data('pagenum')) < ($(a).data('pagenum')) ? 1 : -1;
}).appendTo('#errori-ortografici-list');
} else {
$('#loading-errori-ortografici').html('Trovati 1000 possibili errori in ' + maxIndexPages + ' indici, ricerca interrotta per troppi risultati:');
}
} else {
console.log("Nessun pagenum trovato");
// console.log("Nessun pagenum trovato in " + indexWithoutNs + " pagine " + fromPageNum + "-" + toPageNum);
}
}
};
parsePages = function(lastPageNum, fromPageNum, mode, indexWithoutNs, q0List, puretext, startTime, singlePage) {
var isLast = true;
var toPageNum = lastPageNum;
if (toPageNum - fromPageNum >= pagesToLoad) {
toPageNum = fromPageNum + pagesToLoad - 1;
isLast = false;
}
console.log("Load pure text from " + indexWithoutNs + " pages " + fromPageNum + "-" + toPageNum);
var wtext = '<' + 'pages index="' + indexWithoutNs + '" from="' + fromPageNum + '" to="' + toPageNum + '" exclude="' + q0List + '"/>';
if (mode == 'spelling') {
wtext = "";
for (p = fromPageNum; p <= toPageNum; p++) {
wtext += '<' + 'pages index="' + indexWithoutNs + '" from="' + p + '" to="' + p + '" exclude="' + q0List + '"/><references/>';
}
}
api.post({
action: 'parse',
text: wtext,
prop: 'text',
contentmodel: 'wikitext',
disablelimitreport: 1,
format: 'json',
}).done(function (data, textStatus, jqXHR) {
if (data.parse === undefined || data.parse.text['*'] === undefined) {
$('.errori-ortografici-box-main').html('Errore nella ricerca');
return;
}
var html = data.parse.text['*'];
var div = document.createElement("div");
// ripuliamo l'html da tutti gli elementi "estranei" al testo
div.innerHTML = html.replaceAll("<br />", " ")
.replaceAll("<sup>", " ^ <sup>") // marcatore temporaneo per il testo in apice
.replaceAll(" ", " ") // tab
.replaceAll(" ", " ").replaceAll(" ", " "); // spazi ripetuti
$(div).find('style, .eco, .linkModifica, .imgCaption, .numeroriga, a.new[title^=Pagina], .mwe-math-element').remove();
// in spelling mode, show page numbers from the file
if (mode == 'spelling') {
$(div).find('.numeropagina').each(function(ind) {
$(this).html('[p. ' + $(this).data('pagenum') + ']');
});
}
$(div).find('.reference').each(function(ind) {
$(this).html(' (' + $(this).text() + ')');
});
$(div).find('[style="font-variant:small-caps"]').each(function(ind) {
$(this).text($(this).text().toUpperCase());
});
// this removes any remaining html tags
text = div.textContent || div.innerText || "";
puretext += text;
if (mode == 'spelling') {
for (i = 0; i < regexList.length; i++) {
checkForErrors(text, regexList[i], indexWithoutNs, false);
}
}
if (!isLast) {
fromPageNum += pagesToLoad;
parsePages(lastPageNum, fromPageNum, mode, indexWithoutNs, q0List, puretext, startTime, singlePage);
} else {
duration = (Date.now() - startTime) / 1000;
console.log("Pure text loaded from all pages in " + duration + " seconds");
var noteNumber = 0;
puretext = puretext.replace(/↑/g, function() {
noteNumber++;
return noteNumber + ".";
});
puretext = puretext.replaceAll(" ^ ", "");
if (mode == 'download') {
puretext = puretext.replace(/\n +\[/g, '\n[').replace(/ +\[/g, ' [');
var j = document.createElement("a");
j.download = indexWithoutNs.replace(/djvu|pdf/, 'txt');
j.href = URL.createObjectURL(new Blob([puretext]));
j.click();
} else if (mode == 'spelling') {
var total = $('#errori-ortografici-list li').length;
if (singlePage) {
singlePageText = puretext;
singleIndexWithoutNs = indexWithoutNs;
var link = document.createElement("a");
link.id = 'downloadTextForSpelling';
link.classList.add("blue");
link.download = indexWithoutNs.replace(/djvu|pdf/, 'txt');
link.href = URL.createObjectURL(new Blob([puretext]));
link.title = "Scarica il puro testo usato per la ricerca degli errori";
link.appendChild(document.createTextNode("Scarica il testo puro"));
$('#errori-ortografici-help').after(link);
$('#downloadTextForSpelling').after('<button class="btn blue" id="openSearchRegex">Cerca...</button>');
$('#openSearchRegex').click(function() {
$('#errori-ortografici-list').empty();
$('#loading-errori-ortografici').hide();
$('#errori-ortografici-list').before('<div id="searchRegexBox"><label>Testo o regex: </label>' +
'<input type="text" id="freeSearch"></div><span id="searchRegexResults"></span>');
$('#freeSearch').focus();
$('#openSearchRegex').attr('disabled', 'true');
$('#freeSearch').keyup(function(e) {
$('#invalidRegexMsg').remove();
$('#searchRegexResults').empty();
var reg = $(this).val();
var flags = 'g';
var regFlags = reg.match(/\/([gim]*)$/);
if (regFlags != undefined && regFlags.length > 1)
flags = regFlags[1];
reg = reg.replace(/^\//, '').replace(/\/g?i?$/, '');
if (reg.length > 0) {
try {
var custRegex = [ new RegExp(reg, flags), '' ];
$('#errori-ortografici-list').empty();
checkForErrors(singlePageText, custRegex, singleIndexWithoutNs, true);
} catch (e) {
$('#searchRegexBox').after('<span id="invalidRegexMsg" class="alert">Regex non valida</span>');
}
}
});
});
if (total == 0) {
$('#loading-errori-ortografici').html('Caricamento terminato. Nessun errore trovato.');
} else if (total == 1) {
$('#loading-errori-ortografici').html('Caricamento terminato. Trovato un possibile errore:');
} else {
$('#loading-errori-ortografici').html('Caricamento terminato. Trovati ' + total + ' possibili errori:');
}
} else {
$('#loading-errori-ortografici').html('Trovati ' + total + ' possibili errori in ' + maxIndexPages + ' indici:');
}
}
}
});
};
mw.util.addPortletLink(
'p-tb',
'#',
'Cerca errori ortografici',
't-erroriOrtograficiRiletti',
"Cerca errori ortografici negli indici di una data categoria"
);
startSearch = function(cat) {
api.get({
action: 'query',
format: 'json',
list: 'categorymembers',
cmtype: 'page',
cmlimit: 5000,
cmnamespace: "0|110",
cmtitle: 'Categoria:' + cat
}).done(function (data) {
if (data.query) {
var members = data.query.categorymembers;
if (members.length === 0) {
$('#loading-errori-ortografici').html('Nessun indice trovato');
} else {
var titles = [];
for (i = 0; i < members.length; i++) {
titles.push(members[i].title);
}
titles.sort(function (a, b) {
return Math.random() - 0.5;
});
if (maxIndexPages > titles.length)
maxIndexPages = titles.length;
titles = titles.slice(0, maxIndexPages);
titles.sort();
for (j = 0; j < titles.length; j++) {
if (!titles[j].startsWith("Indice:")) {
api.get({
action: 'query',
format: 'json',
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bltitle: titles[j],
blnamespace: 110,
bllimit: 500
}).done(function (data) {
if (data.query) {
var members = data.query.backlinks;
for (k = 0; k < members.length; k++) {
getPureText('spelling', members[k].title);
}
}
});
} else {
console.log("Cerca errori ortografici in " + titles[j]);
getPureText('spelling', titles[j]);
}
}
}
}
});
};
$('#t-erroriOrtograficiRiletti').click(function(e) {
e.preventDefault();
$('.errori-ortografici-box').remove();
openBox();
$('#loading-errori-ortografici').hide();
$('#loading-errori-ortografici').before('<div id="errori-ortografici-params"></div>');
$('#errori-ortografici-params').append('<div>Cerca errori ortografici in un numero massimo di indici presi a caso nella categoria indicata');
$('#errori-ortografici-params').append('<div><label>Categoria: </label><input type="text" id="errori-ortografici-cat" value="Pagine indice SAL 100%"/></div>');
$('#errori-ortografici-params').append('<div><label>Numero di indici: </label><input type="number" id="errori-ortografici-max" value="20" style="text-align: right"/></div>');
$('#errori-ortografici-params').append('<div><button id="errori-ortografici-search" class="btn blue">Cerca</button></div>');
$('#errori-ortografici-params').append('<div class="small-label">La categoria deve contenere pagine indice o ns0, es.: Romanzi, Libri di Dante Alighieri, Pagine indice SAL 75%</div>');
$('#errori-ortografici-search').click(function(e) {
var cat = $('#errori-ortografici-cat').val().replace(/[Cc]ategor(ia|y):/, '');
cat = cat.charAt(0).toUpperCase() + cat.slice(1);
maxIndexPages = $('#errori-ortografici-max').val();
$('#loading-errori-ortografici').text('Caricamento in corso...').show();
$('#errori-ortografici-list').empty();
startSearch(cat);
});
});
loadIndexButtons = function() {
$('#downloadPureText, #cercaErroriOrtografici, .errori-ortografici-box').remove();
$('.exportLinkContainer').append('<div class="exportLink"><a id="downloadPureText" class="external text" ' +
'title="Scarica il solo testo di tutte le pagine, senza copertina e senza nessuna formattazione"><span>' +
'<img src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/36/16x16-icon-w-txt.png"></span>Testo puro</a></div>');
$('#downloadPureText').click(function() {
getPureText('download');
});
$('#indiceHeader').prepend('<a id="cercaErroriOrtografici" class="blue" title="Cerca errori ortografici in questo indice">Cerca errori ortografici</a>');
$('#cercaErroriOrtografici').click(function() {
$('.errori-ortografici-box').remove();
// aggiungo alla lista regex le eventuali regex utente
mw.loader.getScript('https://it.wikisource.org/w/index.php?title=Utente:' + mw.config.get("wgUserName") + '/customRegex.js&action=raw&ctype=text/javascript')
.then(function () {
regexList = regex.concat(customRegex);
openBox();
getPureText('spelling');
}, function (e) {
openBox();
getPureText('spelling');
});
});
};
if (mw.config.get('wgCanonicalNamespace') == 'Index') {
// carica regex dalla pagina di discussione dell'indice
var talkPage = 'Index_talk:' + mw.config.get('wgPageName').replace('Indice:', '');
api.get({
action: 'parse',
format: 'json',
page: talkPage,
prop: 'sections'
}).always(function (data) {
var found = false;
if (data.parse && data.parse.sections) {
var sections = data.parse.sections;
for (var i = 0; i < sections.length; i++) {
if (sections[i].line == 'ErroriOrtografici') {
found = true;
api.get({
action: 'query',
prop: 'revisions',
titles: talkPage,
rvsection: sections[i].index,
rvprop: 'content',
rvslots: 'main',
format: 'json',
}).done(function (data) {
$.each(data.query.pages, function(k, v) {
var sectionText = (v.revisions['0'].slots.main['*']).replace(/==.*?==/g, '');
//console.log(sectionText);
// remove html tags from section text
var div = document.createElement("div");
div.innerHTML = sectionText;
jsonText = div.textContent || div.innerText || "";
var sectionObj = JSON.parse(jsonText);
operaExceptions = sectionObj.eccezioni;
console.log('Eccezioni opera-specifiche caricate dalla sezione ErroriOrtografici nella pagina di discussione: ' + operaExceptions);
loadIndexButtons();
});
});
}
}
}
if (!found) {
console.log('Non è presente una sezione ErroriOrtografici nella pagina di discussione');
loadIndexButtons();
}
});
}
});
8eudnhc8n3j745poqm5gmbdfdpu4rcn
Pagina:Mantegazza - Elogio della vecchiaia.djvu/205
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Cruccone
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/* Pagine SAL 100% */
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proofread-page
text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Cruccone" />{{RigaIntestazione||''La paura della morte''|181|riga=si}}</noinclude><nowiki />
''L’uomo è l’animale brontolone per eccellenza.''
{{asterism}}
Se non che questo brontolamento non è sincero e non è che una pura, una abilissima civetteria della vita; un artifizio ingegnoso per farsi compassionare e attirare a sè la pietà degli altri e anche di sè stessi.
E ve lo provo subito e facilmente.
Sì, la terra è la valle delle lagrime; sì, l’ideale umano è il ''nirvana''; sì, ''l’homo natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis''. Sì, ogni terra e ogni secolo ha i suoi {{AutoreCitato|Arthur Schopenhauer|Schopenhauer}} e i suoi {{Ac|Giacomo Leopardi|Leopardi}}. Sì, la vita non è che il sogno d’un ombra; ma tutti questi bipedi brontoloni, che bestemmiano contro la vita dall’alba alla sera, temon la morte, e per quanto il suicidio cresca con la civiltà, pure è sempre rarissima eccezione.
Non solo l’uomo teme la morte, ma ancora la ritiene il massimo dei mali e l’ha in tale orrore, che ne ha fatto in ogni tempo la massima delle pene.<noinclude></noinclude>
kwa0876qhw0why4m11d347q5q55azjf
Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano VII.djvu/380
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Cruccone
53
/* Pagine SAL 75% */
3419915
proofread-page
text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Cruccone" />{{RigaIntestazione|374|{{Sc|storia della decadenza}}|}}</noinclude>Metona, e liberamente manifestò il suo giusto ed umano risentimento, rimediò alla loro salute: l’Imperatore ascoltò i suoi lamenti; fu lodato il Generale; ma il Ministro non fu punito. Dal porto di Metona i Piloti fecero vela lungo la costa occidentale del Peloponneso fino all’Isola di Zacinto o del Zante, prima d’intraprendere il viaggio (a’ loro occhi
difficilissimo) di cento leghe sul mare Ionio. Poichè la flotta fu sorpresa da una calma, si consumarono sessanta giorni in quella lenta navigazione; ed anche l’istesso Generale avrebbe sofferto l’intollerabile ardor della sete, se l’ingegno d’Antonina non avesse conservato dell’acqua in boccie di vetro, ch’essa nascose profondamente nella sabbia in una parte della nave dove non potevano arrivare i raggi solari. Finalmente il porto di Caucana<ref>Caucana, vicino a Camarina, è distante almeno 50 miglia (350 o 400 Stadi) da Siracusa ({{AutoreCitato|Filippo Cluverio|Claver.}} ''Sicil. antiq''. ''p''. 191).</ref> nella parte meridionale di Sicilia diede loro un sicuro ed ospitale rifugio. Gli Ufiziali Goti, che governavano l’Isola in nome della Figlia e del Nipote di Teodorico, ubbidirono agl’imprudenti loro ordini di ricever le truppe di Giustiniano come amiche ed alleate: furono loro generosamente date delle provvisioni, fu rimontata la cavalleria<ref>Procopio ''Gothic''. ''l''. I ''c''. 3. ''Tibi tollit hinnitum apta quadrigis equa'', ne’ pascoli Siciliani di Grosfo ({{AutoreCitato|Quinto Orazio Flacco|Horat.}} ''Carm''. II, 16) ''Acragas.... magnanimum quondam generator equorum'' ({{AutoreCitato|Publio Virgilio Marone|Virgil.}} ''Aeneid''. III, 704). I Cavalli di Ierone, di cui {{AutoreCitato|Pindaro|Pindaro}} fece le vittorie immortali, furon nutriti in questo Paese.</ref>, e Procopio presto tornò da Siracusa con un’esatta informazione dello stato e dei disegni de’ Vandali. Queste notizie determinarono Be-<noinclude></noinclude>
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Wikisource:Bar/Archivio/2024.11
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Alex brollo
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/* Novelle per un anno */ Risposta
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wikitext
text/x-wiki
{{bar}}
== Problemi di creazione della pagina ==
Tentando di creare questa pagina per il bar di novembre, ho ricavato un messaggio di errore: <code>La pagina che si è tentato di pubblicare è stata bloccata dal filtro anti-spam. Ciò è probabilmente dovuto alla presenza di un collegamento a un sito esterno proibito. Il filtro anti-spam è stato attivato dal seguente testo: forms.gle</code>. Incomprensibile. Per creare la pagina ho dovuto crearla in un altro namespace, e poi spostarla qui. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:41, 1 nov 2024 (CET)
== Di nuovo il bug Ctrl+i e Ctrl+b ==
Il bug che devastava Ctrl+i (applicazione del codice doppio asterisco = testo corsivo) e Ctrl+b (triplo asterisco = grassetto) improvvisamente si ripresenta. Il risultato di Ctrl+i in nsPagina e ns0 è <nowiki>''testo in corsivo''''''</nowiki> e quello di Ctrl+b è, sempre in nsPagina e ns0, <nowiki>'''testo in grassetto'''''''''</nowiki>. La cosa è estremamente fastidiosa. @[[Utente:Candalua|Candalua]], aiuto! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 17:32, 1 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]: questi sono shortcut di sistema, non dovrebbe essere necessario attivarli [https://it.wikisource.org/w/index.php?title=MediaWiki:Gadget-RegexMenuFramework.js&diff=prev&oldid=3410801 qui]. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 10:56, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] Aimè, l'età... ricordo di averli disabilitati, ma non ricordo affatto di averli riabilitati, nè perchè. Mi scuso, e grazie. :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:45, 4 nov 2024 (CET)
== Proposte e pagine autore: riforma alla tedesca ==
Cari amici,
con l'inizio del mese resterà in evidenza la seguente proposta emersa all'ItWikiCon e finora colpevolmente non divulgata:
La pagina [[Wikisource:Proposte]] è molto utile ma poco frequentata. Ho notato che in alcune pagine autore è già attuata una politica già presente nella Wikisource in tedesco: ''le proposte di testi <u>dotate di fonte</u> sono poste <u>nelle pagine degli autori</u>''.
Mi piacerebbe sistematizzare questo processo: tutte le proposte con la fonte indicata vengano spostate nelle pagine del loro autore, che se non è presente può essere creato.
Come conseguenza:
*rimarrebbero nella pagina delle proposte solo testi anonimi o collettivi
*eliminiamo le proposte senza fonte facendo una pulizia che attende da tempo di essere compiuta.
Obiezioni? '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 10:20, 3 nov 2024 (CET)
:Ciao! Nessuna obiezione. Anzi nei giorni scorsi ho copiato alcuni testi proposti nelle rispettive pagine autore, segnalando (per ora) la cosa in Wikisource:Proposte. --[[User:Paperoastro|Paperoastro]] ([[User talk:Paperoastro|disc.]]) 11:32, 3 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Alle volte ho scorso la pagina, ma con delusione: molte proposte non tengono conto del copyright. Quindi preciserei: opere dotate di ''fonte digitale'', dai cui metadati si desuma lo stato PD in atto o imminente.
::Invece che cancellare le proposte, proporrei di suddividerle in due liste, una con con stato PD accertato (o, ma sono casi rarissimi, con licenza CC valida compatibile) e una con tutte le altre.
::Le licenze riportate su Internet Archive non sono minimamente affidabili, per abuso di rilasci impropri sotto una licenza CC, assegnata da chi non ne ha diritto (utente che ha caricato il testo). Anch'io ho fatto questo errore innumerevoli volte, senza che Internet Archive reagisse in alcun modo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:41, 4 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Io semplicemente prima accerterei quali sono le opere in PD, le copierei nelle pagine degli autori e poi provvederei a cancellare tutte le proposte. Non ho ben capito cosa intendi per "Licenze riportate su Internet Archive". Ricordo che Internet Archive è un server in territorio USA, dunque presuppone le leggi del copyright USA che non sono identiche a quello italiano, per questo ad esempio alcune opere di Luigi Einaudi o di Sibilla Aleramo, morti meno di 70 anni fa, sono presenti su IA, per il semplice fatto che alcune loro opere sono state pubblicate più di 95 anni fa. Poi ci sono i casi di autori che rilasciano le loro opere in licenza CC, ad esempio il romanzo "Q" di Luther Blissett, ma appunto queste licenze sono scritte chiaramente nel frontespizio del testo. Mi pare strano che un utente per divertimento modifichi un file pdf che contiene, che ne so, "Il Nome della Rosa" di Umberto Eco per scrivere dentro il PDF che i detentori dei diritti (editori o eredi dell'autore) rilasciano il romanzo sotto licenza CC. Il problema comunque per noi di Wikisource non si pone perché per i testi sotto licenza CC ci occorre l'autorizzazione VRT dal detentore dei diritti a pubblicare il testo con licenza libera. [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:25, 4 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Attenzione, da sostituire nella tua risposta "le opere in PD" con "le edizioni in PD". Per rientrare nel PD USA conta l'anno di pubblicazione dell'edizione. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:37, 4 nov 2024 (CET)
== spostamento avviso licenza ==
Su segnalazione di un utente, ho spostato il messaggio di avviso che compare ad ogni salvataggio, riguardante la licenza con cui si rilasciano i propri contributi su Wikisource, rimettendolo "nel posto giusto", cioè in [[MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning]]. In precedenza era stato spostato più in basso con una modalità non proprio ineccepibile, che comportava il rischio che in certe circostanze (es. utilizzo dell'editor visuale) questo messaggio non venisse visualizzato. Siccome era parecchio lungo e portava via molto spazio, facendo precipitare molto più in basso il bottone "Pubblica le modifiche", l'ho rimpicciolito e accorciato, mantenendo però la parte sostanziale. Se volete possiamo accorciarlo ulteriormente: considerate che [https://translatewiki.net/wiki/MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning/it il messaggio predefinito] è molto più corto, e anche scrivendo al Bar con "Aggiungi argomento" compare un messaggio di una sola riga. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 09:32, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] Intanto '''grazie'''! Adesso mi precipito a vedere il risultato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:38, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] MI pare benissimo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:16, 4 nov 2024 (CET)
== Categorizzazione libri e immagini su Commons ==
@[[Utente:ZandDev|ZandDev]] Stimolato da un'osservazione di ZandDev, ho rivisto un po' di categorizzazioni di libri e immagini estratte su Commons, trovando, naturalmente, un bel po' di confusione. :-(
Per ora mi sono limitato a spostare le immagini ritagliate in alcune categorie "Illustrations..." elimnandole dalle categorie riservate ai libri. Ma la cetegorizzazione di libri di itwikisource e relative immagini andrebbe sistemata; noto però che in [[Aiuto:Procedure operative]] manca una voce "Caricamento di libri su Commons" (potrei aver cercato male, ma di certo un utente principiante trova la stessa difficoltà che ho trovato io). Insomma, un altro "lavoro sporco" da fare :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:48, 4 nov 2024 (CET)
== <span lang="en" dir="ltr">Tech News: 2024-45</span> ==
<div lang="en" dir="ltr">
<section begin="technews-2024-W45"/><div class="plainlinks">
Latest '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|tech news]]''' from the Wikimedia technical community. Please tell other users about these changes. Not all changes will affect you. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translations]] are available.
'''Updates for editors'''
* Stewards can now make [[m:Special:MyLanguage/Global blocks|global account blocks]] cause global [[mw:Special:MyLanguage/Autoblock|autoblocks]]. This will assist stewards in preventing abuse from users who have been globally blocked. This includes preventing globally blocked temporary accounts from exiting their session or switching browsers to make subsequent edits for 24 hours. Previously, temporary accounts could exit their current session or switch browsers to continue editing. This is an anti-abuse tool improvement for the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|Temporary Accounts]] project. You can read more about the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts/Updates|progress on key features for temporary accounts]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T368949]
* Wikis that have the [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status|CampaignEvents extension enabled]] can now use the [[m:Special:MyLanguage/Campaigns/Foundation Product Team/Event list#October 29, 2024: Collaboration List launched|Collaboration List]] feature. This list provides a new, easy way for contributors to learn about WikiProjects on their wikis. Thanks to the Campaign team for this work that is part of [[m:Special:MyLanguage/Wikimedia Foundation Annual Plan/2024-2025/Product %26 Technology OKRs#WE KRs|the 2024/25 annual plan]]. If you are interested in bringing the CampaignEvents extension to your wiki, you can [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status#How to Request the CampaignEvents Extension for your wiki|follow these steps]] or you can reach out to User:Udehb-WMF for help.
* The text color for red links will be slightly changed later this week to improve their contrast in light mode. [https://phabricator.wikimedia.org/T370446]
* View all {{formatnum:32}} community-submitted {{PLURAL:32|task|tasks}} that were [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Recently resolved community tasks|resolved last week]]. For example, on multilingual wikis, users [[phab:T216368|can now]] hide translations from the WhatLinksHere special page.
'''Updates for technical contributors'''
* XML [[m:Special:MyLanguage/Data dumps|data dumps]] have been temporarily paused whilst a bug is investigated. [https://lists.wikimedia.org/hyperkitty/list/xmldatadumps-l@lists.wikimedia.org/message/BXWJDPO5QI2QMBCY7HO36ELDCRO6HRM4/]
'''In depth'''
* Temporary Accounts have been deployed to six wikis; thanks to the Trust and Safety Product team for [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|this work]], you can read about [[phab:T340001|the deployment plans]]. Beginning next week, Temporary Accounts will also be enabled on [[phab:T378336|seven other projects]]. If you are active on these wikis and need help migrating your tools, please reach out to [[m:User:Udehb-WMF|User:Udehb-WMF]] for assistance.
* The latest quarterly [[mw:Special:MyLanguage/Wikimedia Language and Product Localization/Newsletter/2024/October|Language and Internationalization newsletter]] is available. It includes: New languages supported in translatewiki or in MediaWiki; New keyboard input methods for some languages; details about recent and upcoming meetings, and more.
'''Meetings and events'''
* [[mw:Special:MyLanguage/MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024|MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024]] is happening in Vienna, Austria and online from 4 to 6 November 2024. The conference will feature discussions around the usage of MediaWiki software by and within companies in different industries and will inspire and onboard new users.
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' prepared by [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|Tech News writers]] and posted by [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribute]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translate]] • [[m:Tech|Get help]] • [[m:Talk:Tech/News|Give feedback]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Subscribe or unsubscribe]].''
</div><section end="technews-2024-W45"/>
</div>
<bdi lang="en" dir="ltr">[[User:MediaWiki message delivery|MediaWiki message delivery]]</bdi> 21:50, 4 nov 2024 (CET)
<!-- Messaggio inviato da User:UOzurumba (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=Global_message_delivery/Targets/Tech_ambassadors&oldid=27693917 -->
== Novelle per un anno ==
Carissimi, dopo lunghe ricerche e decine di richieste di sblocco a Google, sono finalmente riuscito a scovare tutti i 15 volumi delle ''Novelle per un anno'' di Pirandello, opera fondamentale della novellistica italiana!
Ora vorrei caricarle e iniziare la trascrizione. Pensavo di caricare ogni volume per conto suo e ogni novella come opera per conto suo come pagine ns0 indipendenti, come fatto per le commedie del Goldoni, dato che per la maggior parte sono state pubblicate prima individualmente e solo poi raccolte in volume.
Ho riassunto qui la situazione: [[Progetto:Letteratura/Luigi Pirandello/Novelle per un anno]]. Come vedete c'è una certa eterogeneità nelle edizioni disponibili, perché a volte ho trovato la prima edizione Bemporad, altre volte una Mondadori di prima o dopo la guerra, e in una buona metà dei casi ne ho trovata più di una. Posto che sarà inevitabile una certa mescolanza, che in parte è intrinseca dato che la pubblicazione è avvenuta nel corso di vari anni e cambiando editore, vorrei il vostro aiuto per capire quale edizione è preferibile. Aggiungete magari le vostre note a fianco, come ho fatto per la XII.
Si potrebbe poi anche pensare di precaricare il testo usando quello di LiberLiber (pane per i denti di {{@|Alex brollo}}), facendo però attenzione perché alcuni volumi sono stati riveduti dall'autore e presentano molte varianti rispetto alle edizioni più vecchie.
A voi i commenti! [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 23:43, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] '''Bello!''' Che lavorone! Quanto al precaricamento del testo LiberLiber, dipende dalla qualità dell'OCR. Se l'OCR è buono/ottimo, non ne vale la pena. Se l'OCR è così così, ma le immagini sono buone, non ne vale la pena: il sistema OCR di mediawiki fa miracoli. Se l'OCR fa schifo, e le immagini anche, allora conviene. Quindi, la mia proposta è di caricare, poi vedere com'è l'OCR e come viene, eventualmente, l'OCR mediawiki.
:Quanto alla struttura ns0, non abbiamo mai (che io sappia) "indipendizzato" le novelle di una raccolta, ma ci si può pensare; intanto carichiamo rapidamente su Commons, per salvare il salvabile (non si sa mai su eventuali ripensamenti). Aggiungerei anche alla pagina Progetto uno schema standard di template Book (con la migliore categorizzazione possibile), non tanto per te, ma come modello per altri. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:27, 5 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] io continuo a sostenere la grande importanza in questi casi di edizioni diverse delle stesse opere di avere una utility "diff" che evidenzia le differenze tra due testi, che come dicevo velocizzerebero la digitalizzazione di edizioni diverse dello stesso testo. Ho già citato il software Kdiff3 scaricabile qui https://kdiff3.sourceforge.net/ e utility da usare direttamente online come la seguente: https://www.diffchecker.com/ mentre su LibreOffice Writer c'è la funzione Modifica/Revisioni/Confronta documento che dovrebbe segnalare anche differenze di formattazione. Su Wikisource non c'è una utility diff simile per confrontare due testi, anche limitandoci a txt semplici di OCR grezzo senza formattazioni? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:22, 5 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] No, che io sappia, non c'è; l'idea è suggestiva e merita una riflessione più profonda del poco che ho fatto io. Riferendomi alla tua proposta precedente, se ci fosse non la utilizzarei per il confronto fra gli OCR ma per il confronto fra trascrizioni validate, per non perdersi in un terribile intrico di ''diff''. Ci ho pensato un po', ma mi spaventa il fatto che poi, diff per diff, toccherebbe andare in nsPagina per verificare; non riesco a immaginare un modo per farlo in maniera rapida ed efficente. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:34, 5 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] PS: l'idea di caricare edizioni multiple è buona anche lei, ma.... darei la precedenza alle centinaia di incompiute che attendono trascrittori o rilettori volenterosi. Fra le incompiute, segnalo in particolare quelle elencate in [[Progetto:Trascrizioni/Match and split]], e in particolare i due elenchi di libri in cui il M & S è completato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:40, 5 nov 2024 (CET)
:::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] A dire il vero abbiamo già molte edizioni multiple già caricate e parzialmente trascritte o parzialmente rilette: due edizioni della Divina Commedia di Dante non commentate, edizioni doppie di quattro opere di Galileo (Le Meccaniche, Il Saggiatore, Le operazione del compasso geometrico e militare, Discorsi e dimostrazioni), ben tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis, ben tre edizioni delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, due edizioni dell'Aminta di Torquato Tasso, due edizioni sia dell'Orlando Furioso che delle Satire di Ariosto, due edizioni sia della Secchia Rapita che de L'Oceano di Alessandro Tassoni... Dunque di lavori da fare con il diff ce ne sarebbero pronti già adesso... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:58, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Hai provato offline con gli strumenti che hai citato? Ti segnalo anche che ogni anno c'è una "raccolta di proposte" per sottoporre qualsiasi progetto ai "piani alti". [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:48, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Ho provato con Diffchecker a confrontare le tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di De Sanctis. Riesce a trovare differenze minime: ad esempio tra la versione del 1890 e quella del 1912 cambiano accenti gravi al posto che acuti (perché, più, già e simili) uso di apostrofi (ne' al posto di nei), uso in più di virgole ("E, studiando in quella forma" invece di "E studiando in quella forma" ...) e anche maiuscole al posto di minuscole (nazione invece che Nazione). Il confronto tra la versione del 1912 e quella del 1962, quest'ultima ancora da trascrivere completamente, invece mostra quasi soltanto errori OCR (spaziature mancanti o in più, accenti mancanti o invertiti...). Dimmi pure dove posso sottoporre questa proposta di una utility diff ai "piani alti". [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:19, 5 nov 2024 (CET)
::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] [https://github.com/wikimedia/mediawiki-gadgets-ConvenientDiscussions/pulls Qui] una possibilità; ma ogni anno c'è un'iniziativa apposita, con votazione delle proposte, che al momento non trovo :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:32, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Intendi dire questa iniziativa [https://meta.wikimedia.org/wiki/Community_Wishlist/it qui]? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:40, 5 nov 2024 (CET)
::::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Sì. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:49, 5 nov 2024 (CET)
gullwqd31li83kdkahdyp1br7g4p10p
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2024-11-05T13:15:29Z
Accolturato
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/* Novelle per un anno */ Risposta
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wikitext
text/x-wiki
{{bar}}
== Problemi di creazione della pagina ==
Tentando di creare questa pagina per il bar di novembre, ho ricavato un messaggio di errore: <code>La pagina che si è tentato di pubblicare è stata bloccata dal filtro anti-spam. Ciò è probabilmente dovuto alla presenza di un collegamento a un sito esterno proibito. Il filtro anti-spam è stato attivato dal seguente testo: forms.gle</code>. Incomprensibile. Per creare la pagina ho dovuto crearla in un altro namespace, e poi spostarla qui. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:41, 1 nov 2024 (CET)
== Di nuovo il bug Ctrl+i e Ctrl+b ==
Il bug che devastava Ctrl+i (applicazione del codice doppio asterisco = testo corsivo) e Ctrl+b (triplo asterisco = grassetto) improvvisamente si ripresenta. Il risultato di Ctrl+i in nsPagina e ns0 è <nowiki>''testo in corsivo''''''</nowiki> e quello di Ctrl+b è, sempre in nsPagina e ns0, <nowiki>'''testo in grassetto'''''''''</nowiki>. La cosa è estremamente fastidiosa. @[[Utente:Candalua|Candalua]], aiuto! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 17:32, 1 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]: questi sono shortcut di sistema, non dovrebbe essere necessario attivarli [https://it.wikisource.org/w/index.php?title=MediaWiki:Gadget-RegexMenuFramework.js&diff=prev&oldid=3410801 qui]. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 10:56, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] Aimè, l'età... ricordo di averli disabilitati, ma non ricordo affatto di averli riabilitati, nè perchè. Mi scuso, e grazie. :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:45, 4 nov 2024 (CET)
== Proposte e pagine autore: riforma alla tedesca ==
Cari amici,
con l'inizio del mese resterà in evidenza la seguente proposta emersa all'ItWikiCon e finora colpevolmente non divulgata:
La pagina [[Wikisource:Proposte]] è molto utile ma poco frequentata. Ho notato che in alcune pagine autore è già attuata una politica già presente nella Wikisource in tedesco: ''le proposte di testi <u>dotate di fonte</u> sono poste <u>nelle pagine degli autori</u>''.
Mi piacerebbe sistematizzare questo processo: tutte le proposte con la fonte indicata vengano spostate nelle pagine del loro autore, che se non è presente può essere creato.
Come conseguenza:
*rimarrebbero nella pagina delle proposte solo testi anonimi o collettivi
*eliminiamo le proposte senza fonte facendo una pulizia che attende da tempo di essere compiuta.
Obiezioni? '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 10:20, 3 nov 2024 (CET)
:Ciao! Nessuna obiezione. Anzi nei giorni scorsi ho copiato alcuni testi proposti nelle rispettive pagine autore, segnalando (per ora) la cosa in Wikisource:Proposte. --[[User:Paperoastro|Paperoastro]] ([[User talk:Paperoastro|disc.]]) 11:32, 3 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Alle volte ho scorso la pagina, ma con delusione: molte proposte non tengono conto del copyright. Quindi preciserei: opere dotate di ''fonte digitale'', dai cui metadati si desuma lo stato PD in atto o imminente.
::Invece che cancellare le proposte, proporrei di suddividerle in due liste, una con con stato PD accertato (o, ma sono casi rarissimi, con licenza CC valida compatibile) e una con tutte le altre.
::Le licenze riportate su Internet Archive non sono minimamente affidabili, per abuso di rilasci impropri sotto una licenza CC, assegnata da chi non ne ha diritto (utente che ha caricato il testo). Anch'io ho fatto questo errore innumerevoli volte, senza che Internet Archive reagisse in alcun modo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:41, 4 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Io semplicemente prima accerterei quali sono le opere in PD, le copierei nelle pagine degli autori e poi provvederei a cancellare tutte le proposte. Non ho ben capito cosa intendi per "Licenze riportate su Internet Archive". Ricordo che Internet Archive è un server in territorio USA, dunque presuppone le leggi del copyright USA che non sono identiche a quello italiano, per questo ad esempio alcune opere di Luigi Einaudi o di Sibilla Aleramo, morti meno di 70 anni fa, sono presenti su IA, per il semplice fatto che alcune loro opere sono state pubblicate più di 95 anni fa. Poi ci sono i casi di autori che rilasciano le loro opere in licenza CC, ad esempio il romanzo "Q" di Luther Blissett, ma appunto queste licenze sono scritte chiaramente nel frontespizio del testo. Mi pare strano che un utente per divertimento modifichi un file pdf che contiene, che ne so, "Il Nome della Rosa" di Umberto Eco per scrivere dentro il PDF che i detentori dei diritti (editori o eredi dell'autore) rilasciano il romanzo sotto licenza CC. Il problema comunque per noi di Wikisource non si pone perché per i testi sotto licenza CC ci occorre l'autorizzazione VRT dal detentore dei diritti a pubblicare il testo con licenza libera. [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:25, 4 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Attenzione, da sostituire nella tua risposta "le opere in PD" con "le edizioni in PD". Per rientrare nel PD USA conta l'anno di pubblicazione dell'edizione. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:37, 4 nov 2024 (CET)
== spostamento avviso licenza ==
Su segnalazione di un utente, ho spostato il messaggio di avviso che compare ad ogni salvataggio, riguardante la licenza con cui si rilasciano i propri contributi su Wikisource, rimettendolo "nel posto giusto", cioè in [[MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning]]. In precedenza era stato spostato più in basso con una modalità non proprio ineccepibile, che comportava il rischio che in certe circostanze (es. utilizzo dell'editor visuale) questo messaggio non venisse visualizzato. Siccome era parecchio lungo e portava via molto spazio, facendo precipitare molto più in basso il bottone "Pubblica le modifiche", l'ho rimpicciolito e accorciato, mantenendo però la parte sostanziale. Se volete possiamo accorciarlo ulteriormente: considerate che [https://translatewiki.net/wiki/MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning/it il messaggio predefinito] è molto più corto, e anche scrivendo al Bar con "Aggiungi argomento" compare un messaggio di una sola riga. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 09:32, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] Intanto '''grazie'''! Adesso mi precipito a vedere il risultato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:38, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] MI pare benissimo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:16, 4 nov 2024 (CET)
== Categorizzazione libri e immagini su Commons ==
@[[Utente:ZandDev|ZandDev]] Stimolato da un'osservazione di ZandDev, ho rivisto un po' di categorizzazioni di libri e immagini estratte su Commons, trovando, naturalmente, un bel po' di confusione. :-(
Per ora mi sono limitato a spostare le immagini ritagliate in alcune categorie "Illustrations..." elimnandole dalle categorie riservate ai libri. Ma la cetegorizzazione di libri di itwikisource e relative immagini andrebbe sistemata; noto però che in [[Aiuto:Procedure operative]] manca una voce "Caricamento di libri su Commons" (potrei aver cercato male, ma di certo un utente principiante trova la stessa difficoltà che ho trovato io). Insomma, un altro "lavoro sporco" da fare :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:48, 4 nov 2024 (CET)
== <span lang="en" dir="ltr">Tech News: 2024-45</span> ==
<div lang="en" dir="ltr">
<section begin="technews-2024-W45"/><div class="plainlinks">
Latest '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|tech news]]''' from the Wikimedia technical community. Please tell other users about these changes. Not all changes will affect you. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translations]] are available.
'''Updates for editors'''
* Stewards can now make [[m:Special:MyLanguage/Global blocks|global account blocks]] cause global [[mw:Special:MyLanguage/Autoblock|autoblocks]]. This will assist stewards in preventing abuse from users who have been globally blocked. This includes preventing globally blocked temporary accounts from exiting their session or switching browsers to make subsequent edits for 24 hours. Previously, temporary accounts could exit their current session or switch browsers to continue editing. This is an anti-abuse tool improvement for the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|Temporary Accounts]] project. You can read more about the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts/Updates|progress on key features for temporary accounts]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T368949]
* Wikis that have the [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status|CampaignEvents extension enabled]] can now use the [[m:Special:MyLanguage/Campaigns/Foundation Product Team/Event list#October 29, 2024: Collaboration List launched|Collaboration List]] feature. This list provides a new, easy way for contributors to learn about WikiProjects on their wikis. Thanks to the Campaign team for this work that is part of [[m:Special:MyLanguage/Wikimedia Foundation Annual Plan/2024-2025/Product %26 Technology OKRs#WE KRs|the 2024/25 annual plan]]. If you are interested in bringing the CampaignEvents extension to your wiki, you can [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status#How to Request the CampaignEvents Extension for your wiki|follow these steps]] or you can reach out to User:Udehb-WMF for help.
* The text color for red links will be slightly changed later this week to improve their contrast in light mode. [https://phabricator.wikimedia.org/T370446]
* View all {{formatnum:32}} community-submitted {{PLURAL:32|task|tasks}} that were [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Recently resolved community tasks|resolved last week]]. For example, on multilingual wikis, users [[phab:T216368|can now]] hide translations from the WhatLinksHere special page.
'''Updates for technical contributors'''
* XML [[m:Special:MyLanguage/Data dumps|data dumps]] have been temporarily paused whilst a bug is investigated. [https://lists.wikimedia.org/hyperkitty/list/xmldatadumps-l@lists.wikimedia.org/message/BXWJDPO5QI2QMBCY7HO36ELDCRO6HRM4/]
'''In depth'''
* Temporary Accounts have been deployed to six wikis; thanks to the Trust and Safety Product team for [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|this work]], you can read about [[phab:T340001|the deployment plans]]. Beginning next week, Temporary Accounts will also be enabled on [[phab:T378336|seven other projects]]. If you are active on these wikis and need help migrating your tools, please reach out to [[m:User:Udehb-WMF|User:Udehb-WMF]] for assistance.
* The latest quarterly [[mw:Special:MyLanguage/Wikimedia Language and Product Localization/Newsletter/2024/October|Language and Internationalization newsletter]] is available. It includes: New languages supported in translatewiki or in MediaWiki; New keyboard input methods for some languages; details about recent and upcoming meetings, and more.
'''Meetings and events'''
* [[mw:Special:MyLanguage/MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024|MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024]] is happening in Vienna, Austria and online from 4 to 6 November 2024. The conference will feature discussions around the usage of MediaWiki software by and within companies in different industries and will inspire and onboard new users.
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' prepared by [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|Tech News writers]] and posted by [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribute]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translate]] • [[m:Tech|Get help]] • [[m:Talk:Tech/News|Give feedback]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Subscribe or unsubscribe]].''
</div><section end="technews-2024-W45"/>
</div>
<bdi lang="en" dir="ltr">[[User:MediaWiki message delivery|MediaWiki message delivery]]</bdi> 21:50, 4 nov 2024 (CET)
<!-- Messaggio inviato da User:UOzurumba (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=Global_message_delivery/Targets/Tech_ambassadors&oldid=27693917 -->
== Novelle per un anno ==
Carissimi, dopo lunghe ricerche e decine di richieste di sblocco a Google, sono finalmente riuscito a scovare tutti i 15 volumi delle ''Novelle per un anno'' di Pirandello, opera fondamentale della novellistica italiana!
Ora vorrei caricarle e iniziare la trascrizione. Pensavo di caricare ogni volume per conto suo e ogni novella come opera per conto suo come pagine ns0 indipendenti, come fatto per le commedie del Goldoni, dato che per la maggior parte sono state pubblicate prima individualmente e solo poi raccolte in volume.
Ho riassunto qui la situazione: [[Progetto:Letteratura/Luigi Pirandello/Novelle per un anno]]. Come vedete c'è una certa eterogeneità nelle edizioni disponibili, perché a volte ho trovato la prima edizione Bemporad, altre volte una Mondadori di prima o dopo la guerra, e in una buona metà dei casi ne ho trovata più di una. Posto che sarà inevitabile una certa mescolanza, che in parte è intrinseca dato che la pubblicazione è avvenuta nel corso di vari anni e cambiando editore, vorrei il vostro aiuto per capire quale edizione è preferibile. Aggiungete magari le vostre note a fianco, come ho fatto per la XII.
Si potrebbe poi anche pensare di precaricare il testo usando quello di LiberLiber (pane per i denti di {{@|Alex brollo}}), facendo però attenzione perché alcuni volumi sono stati riveduti dall'autore e presentano molte varianti rispetto alle edizioni più vecchie.
A voi i commenti! [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 23:43, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] '''Bello!''' Che lavorone! Quanto al precaricamento del testo LiberLiber, dipende dalla qualità dell'OCR. Se l'OCR è buono/ottimo, non ne vale la pena. Se l'OCR è così così, ma le immagini sono buone, non ne vale la pena: il sistema OCR di mediawiki fa miracoli. Se l'OCR fa schifo, e le immagini anche, allora conviene. Quindi, la mia proposta è di caricare, poi vedere com'è l'OCR e come viene, eventualmente, l'OCR mediawiki.
:Quanto alla struttura ns0, non abbiamo mai (che io sappia) "indipendizzato" le novelle di una raccolta, ma ci si può pensare; intanto carichiamo rapidamente su Commons, per salvare il salvabile (non si sa mai su eventuali ripensamenti). Aggiungerei anche alla pagina Progetto uno schema standard di template Book (con la migliore categorizzazione possibile), non tanto per te, ma come modello per altri. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:27, 5 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] io continuo a sostenere la grande importanza in questi casi di edizioni diverse delle stesse opere di avere una utility "diff" che evidenzia le differenze tra due testi, che come dicevo velocizzerebero la digitalizzazione di edizioni diverse dello stesso testo. Ho già citato il software Kdiff3 scaricabile qui https://kdiff3.sourceforge.net/ e utility da usare direttamente online come la seguente: https://www.diffchecker.com/ mentre su LibreOffice Writer c'è la funzione Modifica/Revisioni/Confronta documento che dovrebbe segnalare anche differenze di formattazione. Su Wikisource non c'è una utility diff simile per confrontare due testi, anche limitandoci a txt semplici di OCR grezzo senza formattazioni? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:22, 5 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] No, che io sappia, non c'è; l'idea è suggestiva e merita una riflessione più profonda del poco che ho fatto io. Riferendomi alla tua proposta precedente, se ci fosse non la utilizzarei per il confronto fra gli OCR ma per il confronto fra trascrizioni validate, per non perdersi in un terribile intrico di ''diff''. Ci ho pensato un po', ma mi spaventa il fatto che poi, diff per diff, toccherebbe andare in nsPagina per verificare; non riesco a immaginare un modo per farlo in maniera rapida ed efficente. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:34, 5 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] PS: l'idea di caricare edizioni multiple è buona anche lei, ma.... darei la precedenza alle centinaia di incompiute che attendono trascrittori o rilettori volenterosi. Fra le incompiute, segnalo in particolare quelle elencate in [[Progetto:Trascrizioni/Match and split]], e in particolare i due elenchi di libri in cui il M & S è completato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:40, 5 nov 2024 (CET)
:::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] A dire il vero abbiamo già molte edizioni multiple già caricate e parzialmente trascritte o parzialmente rilette: due edizioni della Divina Commedia di Dante non commentate, edizioni doppie di quattro opere di Galileo (Le Meccaniche, Il Saggiatore, Le operazione del compasso geometrico e militare, Discorsi e dimostrazioni), ben tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis, ben tre edizioni delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, due edizioni dell'Aminta di Torquato Tasso, due edizioni sia dell'Orlando Furioso che delle Satire di Ariosto, due edizioni sia della Secchia Rapita che de L'Oceano di Alessandro Tassoni... Dunque di lavori da fare con il diff ce ne sarebbero pronti già adesso... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:58, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Hai provato offline con gli strumenti che hai citato? Ti segnalo anche che ogni anno c'è una "raccolta di proposte" per sottoporre qualsiasi progetto ai "piani alti". [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:48, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Ho provato con Diffchecker a confrontare le tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di De Sanctis. Riesce a trovare differenze minime: ad esempio tra la versione del 1890 e quella del 1912 cambiano accenti gravi al posto che acuti (perché, più, già e simili) uso di apostrofi (ne' al posto di nei), uso in più di virgole ("E, studiando in quella forma" invece di "E studiando in quella forma" ...) e anche maiuscole al posto di minuscole (nazione invece che Nazione). Il confronto tra la versione del 1912 e quella del 1962, quest'ultima ancora da trascrivere completamente, invece mostra quasi soltanto errori OCR (spaziature mancanti o in più, accenti mancanti o invertiti...). Dimmi pure dove posso sottoporre questa proposta di una utility diff ai "piani alti". [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:19, 5 nov 2024 (CET)
::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] [https://github.com/wikimedia/mediawiki-gadgets-ConvenientDiscussions/pulls Qui] una possibilità; ma ogni anno c'è un'iniziativa apposita, con votazione delle proposte, che al momento non trovo :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:32, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Intendi dire questa iniziativa [https://meta.wikimedia.org/wiki/Community_Wishlist/it qui]? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:40, 5 nov 2024 (CET)
::::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Sì. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:49, 5 nov 2024 (CET)
:::::eh anch'io preferisco dare la precedenza a opere non ancora "liberate", piuttosto che a versioni ulteriori.
:::::Una domanda dal link che hai messo sono risalito a questo
:::::https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Canestrini_-_Antropologia.djvu
:::::ma mi sembra incompleta?
:::::è ''solo'' da trascrivere o c'è da fare anche altre operazioni più complesse? [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 14:15, 5 nov 2024 (CET)
lek0u3itk1hkwo0txdulawbbx3vyal4
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2024-11-05T15:08:03Z
Myron Aub
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/* Novelle per un anno */ Risposta
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wikitext
text/x-wiki
{{bar}}
== Problemi di creazione della pagina ==
Tentando di creare questa pagina per il bar di novembre, ho ricavato un messaggio di errore: <code>La pagina che si è tentato di pubblicare è stata bloccata dal filtro anti-spam. Ciò è probabilmente dovuto alla presenza di un collegamento a un sito esterno proibito. Il filtro anti-spam è stato attivato dal seguente testo: forms.gle</code>. Incomprensibile. Per creare la pagina ho dovuto crearla in un altro namespace, e poi spostarla qui. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:41, 1 nov 2024 (CET)
== Di nuovo il bug Ctrl+i e Ctrl+b ==
Il bug che devastava Ctrl+i (applicazione del codice doppio asterisco = testo corsivo) e Ctrl+b (triplo asterisco = grassetto) improvvisamente si ripresenta. Il risultato di Ctrl+i in nsPagina e ns0 è <nowiki>''testo in corsivo''''''</nowiki> e quello di Ctrl+b è, sempre in nsPagina e ns0, <nowiki>'''testo in grassetto'''''''''</nowiki>. La cosa è estremamente fastidiosa. @[[Utente:Candalua|Candalua]], aiuto! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 17:32, 1 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]: questi sono shortcut di sistema, non dovrebbe essere necessario attivarli [https://it.wikisource.org/w/index.php?title=MediaWiki:Gadget-RegexMenuFramework.js&diff=prev&oldid=3410801 qui]. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 10:56, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] Aimè, l'età... ricordo di averli disabilitati, ma non ricordo affatto di averli riabilitati, nè perchè. Mi scuso, e grazie. :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:45, 4 nov 2024 (CET)
== Proposte e pagine autore: riforma alla tedesca ==
Cari amici,
con l'inizio del mese resterà in evidenza la seguente proposta emersa all'ItWikiCon e finora colpevolmente non divulgata:
La pagina [[Wikisource:Proposte]] è molto utile ma poco frequentata. Ho notato che in alcune pagine autore è già attuata una politica già presente nella Wikisource in tedesco: ''le proposte di testi <u>dotate di fonte</u> sono poste <u>nelle pagine degli autori</u>''.
Mi piacerebbe sistematizzare questo processo: tutte le proposte con la fonte indicata vengano spostate nelle pagine del loro autore, che se non è presente può essere creato.
Come conseguenza:
*rimarrebbero nella pagina delle proposte solo testi anonimi o collettivi
*eliminiamo le proposte senza fonte facendo una pulizia che attende da tempo di essere compiuta.
Obiezioni? '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 10:20, 3 nov 2024 (CET)
:Ciao! Nessuna obiezione. Anzi nei giorni scorsi ho copiato alcuni testi proposti nelle rispettive pagine autore, segnalando (per ora) la cosa in Wikisource:Proposte. --[[User:Paperoastro|Paperoastro]] ([[User talk:Paperoastro|disc.]]) 11:32, 3 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Alle volte ho scorso la pagina, ma con delusione: molte proposte non tengono conto del copyright. Quindi preciserei: opere dotate di ''fonte digitale'', dai cui metadati si desuma lo stato PD in atto o imminente.
::Invece che cancellare le proposte, proporrei di suddividerle in due liste, una con con stato PD accertato (o, ma sono casi rarissimi, con licenza CC valida compatibile) e una con tutte le altre.
::Le licenze riportate su Internet Archive non sono minimamente affidabili, per abuso di rilasci impropri sotto una licenza CC, assegnata da chi non ne ha diritto (utente che ha caricato il testo). Anch'io ho fatto questo errore innumerevoli volte, senza che Internet Archive reagisse in alcun modo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:41, 4 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Io semplicemente prima accerterei quali sono le opere in PD, le copierei nelle pagine degli autori e poi provvederei a cancellare tutte le proposte. Non ho ben capito cosa intendi per "Licenze riportate su Internet Archive". Ricordo che Internet Archive è un server in territorio USA, dunque presuppone le leggi del copyright USA che non sono identiche a quello italiano, per questo ad esempio alcune opere di Luigi Einaudi o di Sibilla Aleramo, morti meno di 70 anni fa, sono presenti su IA, per il semplice fatto che alcune loro opere sono state pubblicate più di 95 anni fa. Poi ci sono i casi di autori che rilasciano le loro opere in licenza CC, ad esempio il romanzo "Q" di Luther Blissett, ma appunto queste licenze sono scritte chiaramente nel frontespizio del testo. Mi pare strano che un utente per divertimento modifichi un file pdf che contiene, che ne so, "Il Nome della Rosa" di Umberto Eco per scrivere dentro il PDF che i detentori dei diritti (editori o eredi dell'autore) rilasciano il romanzo sotto licenza CC. Il problema comunque per noi di Wikisource non si pone perché per i testi sotto licenza CC ci occorre l'autorizzazione VRT dal detentore dei diritti a pubblicare il testo con licenza libera. [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:25, 4 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Attenzione, da sostituire nella tua risposta "le opere in PD" con "le edizioni in PD". Per rientrare nel PD USA conta l'anno di pubblicazione dell'edizione. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:37, 4 nov 2024 (CET)
== spostamento avviso licenza ==
Su segnalazione di un utente, ho spostato il messaggio di avviso che compare ad ogni salvataggio, riguardante la licenza con cui si rilasciano i propri contributi su Wikisource, rimettendolo "nel posto giusto", cioè in [[MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning]]. In precedenza era stato spostato più in basso con una modalità non proprio ineccepibile, che comportava il rischio che in certe circostanze (es. utilizzo dell'editor visuale) questo messaggio non venisse visualizzato. Siccome era parecchio lungo e portava via molto spazio, facendo precipitare molto più in basso il bottone "Pubblica le modifiche", l'ho rimpicciolito e accorciato, mantenendo però la parte sostanziale. Se volete possiamo accorciarlo ulteriormente: considerate che [https://translatewiki.net/wiki/MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning/it il messaggio predefinito] è molto più corto, e anche scrivendo al Bar con "Aggiungi argomento" compare un messaggio di una sola riga. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 09:32, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] Intanto '''grazie'''! Adesso mi precipito a vedere il risultato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:38, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] MI pare benissimo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:16, 4 nov 2024 (CET)
== Categorizzazione libri e immagini su Commons ==
@[[Utente:ZandDev|ZandDev]] Stimolato da un'osservazione di ZandDev, ho rivisto un po' di categorizzazioni di libri e immagini estratte su Commons, trovando, naturalmente, un bel po' di confusione. :-(
Per ora mi sono limitato a spostare le immagini ritagliate in alcune categorie "Illustrations..." elimnandole dalle categorie riservate ai libri. Ma la cetegorizzazione di libri di itwikisource e relative immagini andrebbe sistemata; noto però che in [[Aiuto:Procedure operative]] manca una voce "Caricamento di libri su Commons" (potrei aver cercato male, ma di certo un utente principiante trova la stessa difficoltà che ho trovato io). Insomma, un altro "lavoro sporco" da fare :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:48, 4 nov 2024 (CET)
== <span lang="en" dir="ltr">Tech News: 2024-45</span> ==
<div lang="en" dir="ltr">
<section begin="technews-2024-W45"/><div class="plainlinks">
Latest '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|tech news]]''' from the Wikimedia technical community. Please tell other users about these changes. Not all changes will affect you. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translations]] are available.
'''Updates for editors'''
* Stewards can now make [[m:Special:MyLanguage/Global blocks|global account blocks]] cause global [[mw:Special:MyLanguage/Autoblock|autoblocks]]. This will assist stewards in preventing abuse from users who have been globally blocked. This includes preventing globally blocked temporary accounts from exiting their session or switching browsers to make subsequent edits for 24 hours. Previously, temporary accounts could exit their current session or switch browsers to continue editing. This is an anti-abuse tool improvement for the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|Temporary Accounts]] project. You can read more about the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts/Updates|progress on key features for temporary accounts]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T368949]
* Wikis that have the [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status|CampaignEvents extension enabled]] can now use the [[m:Special:MyLanguage/Campaigns/Foundation Product Team/Event list#October 29, 2024: Collaboration List launched|Collaboration List]] feature. This list provides a new, easy way for contributors to learn about WikiProjects on their wikis. Thanks to the Campaign team for this work that is part of [[m:Special:MyLanguage/Wikimedia Foundation Annual Plan/2024-2025/Product %26 Technology OKRs#WE KRs|the 2024/25 annual plan]]. If you are interested in bringing the CampaignEvents extension to your wiki, you can [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status#How to Request the CampaignEvents Extension for your wiki|follow these steps]] or you can reach out to User:Udehb-WMF for help.
* The text color for red links will be slightly changed later this week to improve their contrast in light mode. [https://phabricator.wikimedia.org/T370446]
* View all {{formatnum:32}} community-submitted {{PLURAL:32|task|tasks}} that were [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Recently resolved community tasks|resolved last week]]. For example, on multilingual wikis, users [[phab:T216368|can now]] hide translations from the WhatLinksHere special page.
'''Updates for technical contributors'''
* XML [[m:Special:MyLanguage/Data dumps|data dumps]] have been temporarily paused whilst a bug is investigated. [https://lists.wikimedia.org/hyperkitty/list/xmldatadumps-l@lists.wikimedia.org/message/BXWJDPO5QI2QMBCY7HO36ELDCRO6HRM4/]
'''In depth'''
* Temporary Accounts have been deployed to six wikis; thanks to the Trust and Safety Product team for [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|this work]], you can read about [[phab:T340001|the deployment plans]]. Beginning next week, Temporary Accounts will also be enabled on [[phab:T378336|seven other projects]]. If you are active on these wikis and need help migrating your tools, please reach out to [[m:User:Udehb-WMF|User:Udehb-WMF]] for assistance.
* The latest quarterly [[mw:Special:MyLanguage/Wikimedia Language and Product Localization/Newsletter/2024/October|Language and Internationalization newsletter]] is available. It includes: New languages supported in translatewiki or in MediaWiki; New keyboard input methods for some languages; details about recent and upcoming meetings, and more.
'''Meetings and events'''
* [[mw:Special:MyLanguage/MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024|MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024]] is happening in Vienna, Austria and online from 4 to 6 November 2024. The conference will feature discussions around the usage of MediaWiki software by and within companies in different industries and will inspire and onboard new users.
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' prepared by [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|Tech News writers]] and posted by [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribute]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translate]] • [[m:Tech|Get help]] • [[m:Talk:Tech/News|Give feedback]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Subscribe or unsubscribe]].''
</div><section end="technews-2024-W45"/>
</div>
<bdi lang="en" dir="ltr">[[User:MediaWiki message delivery|MediaWiki message delivery]]</bdi> 21:50, 4 nov 2024 (CET)
<!-- Messaggio inviato da User:UOzurumba (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=Global_message_delivery/Targets/Tech_ambassadors&oldid=27693917 -->
== Novelle per un anno ==
Carissimi, dopo lunghe ricerche e decine di richieste di sblocco a Google, sono finalmente riuscito a scovare tutti i 15 volumi delle ''Novelle per un anno'' di Pirandello, opera fondamentale della novellistica italiana!
Ora vorrei caricarle e iniziare la trascrizione. Pensavo di caricare ogni volume per conto suo e ogni novella come opera per conto suo come pagine ns0 indipendenti, come fatto per le commedie del Goldoni, dato che per la maggior parte sono state pubblicate prima individualmente e solo poi raccolte in volume.
Ho riassunto qui la situazione: [[Progetto:Letteratura/Luigi Pirandello/Novelle per un anno]]. Come vedete c'è una certa eterogeneità nelle edizioni disponibili, perché a volte ho trovato la prima edizione Bemporad, altre volte una Mondadori di prima o dopo la guerra, e in una buona metà dei casi ne ho trovata più di una. Posto che sarà inevitabile una certa mescolanza, che in parte è intrinseca dato che la pubblicazione è avvenuta nel corso di vari anni e cambiando editore, vorrei il vostro aiuto per capire quale edizione è preferibile. Aggiungete magari le vostre note a fianco, come ho fatto per la XII.
Si potrebbe poi anche pensare di precaricare il testo usando quello di LiberLiber (pane per i denti di {{@|Alex brollo}}), facendo però attenzione perché alcuni volumi sono stati riveduti dall'autore e presentano molte varianti rispetto alle edizioni più vecchie.
A voi i commenti! [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 23:43, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] '''Bello!''' Che lavorone! Quanto al precaricamento del testo LiberLiber, dipende dalla qualità dell'OCR. Se l'OCR è buono/ottimo, non ne vale la pena. Se l'OCR è così così, ma le immagini sono buone, non ne vale la pena: il sistema OCR di mediawiki fa miracoli. Se l'OCR fa schifo, e le immagini anche, allora conviene. Quindi, la mia proposta è di caricare, poi vedere com'è l'OCR e come viene, eventualmente, l'OCR mediawiki.
:Quanto alla struttura ns0, non abbiamo mai (che io sappia) "indipendizzato" le novelle di una raccolta, ma ci si può pensare; intanto carichiamo rapidamente su Commons, per salvare il salvabile (non si sa mai su eventuali ripensamenti). Aggiungerei anche alla pagina Progetto uno schema standard di template Book (con la migliore categorizzazione possibile), non tanto per te, ma come modello per altri. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:27, 5 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] io continuo a sostenere la grande importanza in questi casi di edizioni diverse delle stesse opere di avere una utility "diff" che evidenzia le differenze tra due testi, che come dicevo velocizzerebero la digitalizzazione di edizioni diverse dello stesso testo. Ho già citato il software Kdiff3 scaricabile qui https://kdiff3.sourceforge.net/ e utility da usare direttamente online come la seguente: https://www.diffchecker.com/ mentre su LibreOffice Writer c'è la funzione Modifica/Revisioni/Confronta documento che dovrebbe segnalare anche differenze di formattazione. Su Wikisource non c'è una utility diff simile per confrontare due testi, anche limitandoci a txt semplici di OCR grezzo senza formattazioni? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:22, 5 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] No, che io sappia, non c'è; l'idea è suggestiva e merita una riflessione più profonda del poco che ho fatto io. Riferendomi alla tua proposta precedente, se ci fosse non la utilizzarei per il confronto fra gli OCR ma per il confronto fra trascrizioni validate, per non perdersi in un terribile intrico di ''diff''. Ci ho pensato un po', ma mi spaventa il fatto che poi, diff per diff, toccherebbe andare in nsPagina per verificare; non riesco a immaginare un modo per farlo in maniera rapida ed efficente. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:34, 5 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] PS: l'idea di caricare edizioni multiple è buona anche lei, ma.... darei la precedenza alle centinaia di incompiute che attendono trascrittori o rilettori volenterosi. Fra le incompiute, segnalo in particolare quelle elencate in [[Progetto:Trascrizioni/Match and split]], e in particolare i due elenchi di libri in cui il M & S è completato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:40, 5 nov 2024 (CET)
:::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] A dire il vero abbiamo già molte edizioni multiple già caricate e parzialmente trascritte o parzialmente rilette: due edizioni della Divina Commedia di Dante non commentate, edizioni doppie di quattro opere di Galileo (Le Meccaniche, Il Saggiatore, Le operazione del compasso geometrico e militare, Discorsi e dimostrazioni), ben tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis, ben tre edizioni delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, due edizioni dell'Aminta di Torquato Tasso, due edizioni sia dell'Orlando Furioso che delle Satire di Ariosto, due edizioni sia della Secchia Rapita che de L'Oceano di Alessandro Tassoni... Dunque di lavori da fare con il diff ce ne sarebbero pronti già adesso... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:58, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Hai provato offline con gli strumenti che hai citato? Ti segnalo anche che ogni anno c'è una "raccolta di proposte" per sottoporre qualsiasi progetto ai "piani alti". [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:48, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Ho provato con Diffchecker a confrontare le tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di De Sanctis. Riesce a trovare differenze minime: ad esempio tra la versione del 1890 e quella del 1912 cambiano accenti gravi al posto che acuti (perché, più, già e simili) uso di apostrofi (ne' al posto di nei), uso in più di virgole ("E, studiando in quella forma" invece di "E studiando in quella forma" ...) e anche maiuscole al posto di minuscole (nazione invece che Nazione). Il confronto tra la versione del 1912 e quella del 1962, quest'ultima ancora da trascrivere completamente, invece mostra quasi soltanto errori OCR (spaziature mancanti o in più, accenti mancanti o invertiti...). Dimmi pure dove posso sottoporre questa proposta di una utility diff ai "piani alti". [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:19, 5 nov 2024 (CET)
::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] [https://github.com/wikimedia/mediawiki-gadgets-ConvenientDiscussions/pulls Qui] una possibilità; ma ogni anno c'è un'iniziativa apposita, con votazione delle proposte, che al momento non trovo :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:32, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Intendi dire questa iniziativa [https://meta.wikimedia.org/wiki/Community_Wishlist/it qui]? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:40, 5 nov 2024 (CET)
::::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Sì. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:49, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::::Ho appena scritto una richiesta in inglese. Sono stato breve e generico usando il titolo "Diff utility to compare texts of different editions of the same literary work" e la richiesta estesa "It would be very useful to have a diff utility within Wikisource that allows you to compare the texts of two different editions of the same scanned and OCR-edited literary work in order to find the differences and speed up the digitisation of the texts." Vediamo cosa diranno i "piani alti"... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 16:08, 5 nov 2024 (CET)
:::::eh anch'io preferisco dare la precedenza a opere non ancora "liberate", piuttosto che a versioni ulteriori.
:::::Una domanda dal link che hai messo sono risalito a questo
:::::https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Canestrini_-_Antropologia.djvu
:::::ma mi sembra incompleta?
:::::è ''solo'' da trascrivere o c'è da fare anche altre operazioni più complesse? [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 14:15, 5 nov 2024 (CET)
ecgo45ccew6jq4jhbja0d4ym5ftz09m
3419596
3419584
2024-11-05T16:17:26Z
OrbiliusMagister
129
/* Novelle per un anno */ Risposta
3419596
wikitext
text/x-wiki
{{bar}}
== Problemi di creazione della pagina ==
Tentando di creare questa pagina per il bar di novembre, ho ricavato un messaggio di errore: <code>La pagina che si è tentato di pubblicare è stata bloccata dal filtro anti-spam. Ciò è probabilmente dovuto alla presenza di un collegamento a un sito esterno proibito. Il filtro anti-spam è stato attivato dal seguente testo: forms.gle</code>. Incomprensibile. Per creare la pagina ho dovuto crearla in un altro namespace, e poi spostarla qui. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:41, 1 nov 2024 (CET)
== Di nuovo il bug Ctrl+i e Ctrl+b ==
Il bug che devastava Ctrl+i (applicazione del codice doppio asterisco = testo corsivo) e Ctrl+b (triplo asterisco = grassetto) improvvisamente si ripresenta. Il risultato di Ctrl+i in nsPagina e ns0 è <nowiki>''testo in corsivo''''''</nowiki> e quello di Ctrl+b è, sempre in nsPagina e ns0, <nowiki>'''testo in grassetto'''''''''</nowiki>. La cosa è estremamente fastidiosa. @[[Utente:Candalua|Candalua]], aiuto! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 17:32, 1 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]: questi sono shortcut di sistema, non dovrebbe essere necessario attivarli [https://it.wikisource.org/w/index.php?title=MediaWiki:Gadget-RegexMenuFramework.js&diff=prev&oldid=3410801 qui]. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 10:56, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] Aimè, l'età... ricordo di averli disabilitati, ma non ricordo affatto di averli riabilitati, nè perchè. Mi scuso, e grazie. :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:45, 4 nov 2024 (CET)
== Proposte e pagine autore: riforma alla tedesca ==
Cari amici,
con l'inizio del mese resterà in evidenza la seguente proposta emersa all'ItWikiCon e finora colpevolmente non divulgata:
La pagina [[Wikisource:Proposte]] è molto utile ma poco frequentata. Ho notato che in alcune pagine autore è già attuata una politica già presente nella Wikisource in tedesco: ''le proposte di testi <u>dotate di fonte</u> sono poste <u>nelle pagine degli autori</u>''.
Mi piacerebbe sistematizzare questo processo: tutte le proposte con la fonte indicata vengano spostate nelle pagine del loro autore, che se non è presente può essere creato.
Come conseguenza:
*rimarrebbero nella pagina delle proposte solo testi anonimi o collettivi
*eliminiamo le proposte senza fonte facendo una pulizia che attende da tempo di essere compiuta.
Obiezioni? '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 10:20, 3 nov 2024 (CET)
:Ciao! Nessuna obiezione. Anzi nei giorni scorsi ho copiato alcuni testi proposti nelle rispettive pagine autore, segnalando (per ora) la cosa in Wikisource:Proposte. --[[User:Paperoastro|Paperoastro]] ([[User talk:Paperoastro|disc.]]) 11:32, 3 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Alle volte ho scorso la pagina, ma con delusione: molte proposte non tengono conto del copyright. Quindi preciserei: opere dotate di ''fonte digitale'', dai cui metadati si desuma lo stato PD in atto o imminente.
::Invece che cancellare le proposte, proporrei di suddividerle in due liste, una con con stato PD accertato (o, ma sono casi rarissimi, con licenza CC valida compatibile) e una con tutte le altre.
::Le licenze riportate su Internet Archive non sono minimamente affidabili, per abuso di rilasci impropri sotto una licenza CC, assegnata da chi non ne ha diritto (utente che ha caricato il testo). Anch'io ho fatto questo errore innumerevoli volte, senza che Internet Archive reagisse in alcun modo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:41, 4 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Io semplicemente prima accerterei quali sono le opere in PD, le copierei nelle pagine degli autori e poi provvederei a cancellare tutte le proposte. Non ho ben capito cosa intendi per "Licenze riportate su Internet Archive". Ricordo che Internet Archive è un server in territorio USA, dunque presuppone le leggi del copyright USA che non sono identiche a quello italiano, per questo ad esempio alcune opere di Luigi Einaudi o di Sibilla Aleramo, morti meno di 70 anni fa, sono presenti su IA, per il semplice fatto che alcune loro opere sono state pubblicate più di 95 anni fa. Poi ci sono i casi di autori che rilasciano le loro opere in licenza CC, ad esempio il romanzo "Q" di Luther Blissett, ma appunto queste licenze sono scritte chiaramente nel frontespizio del testo. Mi pare strano che un utente per divertimento modifichi un file pdf che contiene, che ne so, "Il Nome della Rosa" di Umberto Eco per scrivere dentro il PDF che i detentori dei diritti (editori o eredi dell'autore) rilasciano il romanzo sotto licenza CC. Il problema comunque per noi di Wikisource non si pone perché per i testi sotto licenza CC ci occorre l'autorizzazione VRT dal detentore dei diritti a pubblicare il testo con licenza libera. [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:25, 4 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Attenzione, da sostituire nella tua risposta "le opere in PD" con "le edizioni in PD". Per rientrare nel PD USA conta l'anno di pubblicazione dell'edizione. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:37, 4 nov 2024 (CET)
== spostamento avviso licenza ==
Su segnalazione di un utente, ho spostato il messaggio di avviso che compare ad ogni salvataggio, riguardante la licenza con cui si rilasciano i propri contributi su Wikisource, rimettendolo "nel posto giusto", cioè in [[MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning]]. In precedenza era stato spostato più in basso con una modalità non proprio ineccepibile, che comportava il rischio che in certe circostanze (es. utilizzo dell'editor visuale) questo messaggio non venisse visualizzato. Siccome era parecchio lungo e portava via molto spazio, facendo precipitare molto più in basso il bottone "Pubblica le modifiche", l'ho rimpicciolito e accorciato, mantenendo però la parte sostanziale. Se volete possiamo accorciarlo ulteriormente: considerate che [https://translatewiki.net/wiki/MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning/it il messaggio predefinito] è molto più corto, e anche scrivendo al Bar con "Aggiungi argomento" compare un messaggio di una sola riga. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 09:32, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] Intanto '''grazie'''! Adesso mi precipito a vedere il risultato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:38, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] MI pare benissimo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:16, 4 nov 2024 (CET)
== Categorizzazione libri e immagini su Commons ==
@[[Utente:ZandDev|ZandDev]] Stimolato da un'osservazione di ZandDev, ho rivisto un po' di categorizzazioni di libri e immagini estratte su Commons, trovando, naturalmente, un bel po' di confusione. :-(
Per ora mi sono limitato a spostare le immagini ritagliate in alcune categorie "Illustrations..." elimnandole dalle categorie riservate ai libri. Ma la cetegorizzazione di libri di itwikisource e relative immagini andrebbe sistemata; noto però che in [[Aiuto:Procedure operative]] manca una voce "Caricamento di libri su Commons" (potrei aver cercato male, ma di certo un utente principiante trova la stessa difficoltà che ho trovato io). Insomma, un altro "lavoro sporco" da fare :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:48, 4 nov 2024 (CET)
== <span lang="en" dir="ltr">Tech News: 2024-45</span> ==
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Latest '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|tech news]]''' from the Wikimedia technical community. Please tell other users about these changes. Not all changes will affect you. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translations]] are available.
'''Updates for editors'''
* Stewards can now make [[m:Special:MyLanguage/Global blocks|global account blocks]] cause global [[mw:Special:MyLanguage/Autoblock|autoblocks]]. This will assist stewards in preventing abuse from users who have been globally blocked. This includes preventing globally blocked temporary accounts from exiting their session or switching browsers to make subsequent edits for 24 hours. Previously, temporary accounts could exit their current session or switch browsers to continue editing. This is an anti-abuse tool improvement for the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|Temporary Accounts]] project. You can read more about the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts/Updates|progress on key features for temporary accounts]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T368949]
* Wikis that have the [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status|CampaignEvents extension enabled]] can now use the [[m:Special:MyLanguage/Campaigns/Foundation Product Team/Event list#October 29, 2024: Collaboration List launched|Collaboration List]] feature. This list provides a new, easy way for contributors to learn about WikiProjects on their wikis. Thanks to the Campaign team for this work that is part of [[m:Special:MyLanguage/Wikimedia Foundation Annual Plan/2024-2025/Product %26 Technology OKRs#WE KRs|the 2024/25 annual plan]]. If you are interested in bringing the CampaignEvents extension to your wiki, you can [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status#How to Request the CampaignEvents Extension for your wiki|follow these steps]] or you can reach out to User:Udehb-WMF for help.
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'''Updates for technical contributors'''
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'''In depth'''
* Temporary Accounts have been deployed to six wikis; thanks to the Trust and Safety Product team for [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|this work]], you can read about [[phab:T340001|the deployment plans]]. Beginning next week, Temporary Accounts will also be enabled on [[phab:T378336|seven other projects]]. If you are active on these wikis and need help migrating your tools, please reach out to [[m:User:Udehb-WMF|User:Udehb-WMF]] for assistance.
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'''Meetings and events'''
* [[mw:Special:MyLanguage/MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024|MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024]] is happening in Vienna, Austria and online from 4 to 6 November 2024. The conference will feature discussions around the usage of MediaWiki software by and within companies in different industries and will inspire and onboard new users.
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' prepared by [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|Tech News writers]] and posted by [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribute]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translate]] • [[m:Tech|Get help]] • [[m:Talk:Tech/News|Give feedback]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Subscribe or unsubscribe]].''
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== Novelle per un anno ==
Carissimi, dopo lunghe ricerche e decine di richieste di sblocco a Google, sono finalmente riuscito a scovare tutti i 15 volumi delle ''Novelle per un anno'' di Pirandello, opera fondamentale della novellistica italiana!
Ora vorrei caricarle e iniziare la trascrizione. Pensavo di caricare ogni volume per conto suo e ogni novella come opera per conto suo come pagine ns0 indipendenti, come fatto per le commedie del Goldoni, dato che per la maggior parte sono state pubblicate prima individualmente e solo poi raccolte in volume.
Ho riassunto qui la situazione: [[Progetto:Letteratura/Luigi Pirandello/Novelle per un anno]]. Come vedete c'è una certa eterogeneità nelle edizioni disponibili, perché a volte ho trovato la prima edizione Bemporad, altre volte una Mondadori di prima o dopo la guerra, e in una buona metà dei casi ne ho trovata più di una. Posto che sarà inevitabile una certa mescolanza, che in parte è intrinseca dato che la pubblicazione è avvenuta nel corso di vari anni e cambiando editore, vorrei il vostro aiuto per capire quale edizione è preferibile. Aggiungete magari le vostre note a fianco, come ho fatto per la XII.
Si potrebbe poi anche pensare di precaricare il testo usando quello di LiberLiber (pane per i denti di {{@|Alex brollo}}), facendo però attenzione perché alcuni volumi sono stati riveduti dall'autore e presentano molte varianti rispetto alle edizioni più vecchie.
A voi i commenti! [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 23:43, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] '''Bello!''' Che lavorone! Quanto al precaricamento del testo LiberLiber, dipende dalla qualità dell'OCR. Se l'OCR è buono/ottimo, non ne vale la pena. Se l'OCR è così così, ma le immagini sono buone, non ne vale la pena: il sistema OCR di mediawiki fa miracoli. Se l'OCR fa schifo, e le immagini anche, allora conviene. Quindi, la mia proposta è di caricare, poi vedere com'è l'OCR e come viene, eventualmente, l'OCR mediawiki.
:Quanto alla struttura ns0, non abbiamo mai (che io sappia) "indipendizzato" le novelle di una raccolta, ma ci si può pensare; intanto carichiamo rapidamente su Commons, per salvare il salvabile (non si sa mai su eventuali ripensamenti). Aggiungerei anche alla pagina Progetto uno schema standard di template Book (con la migliore categorizzazione possibile), non tanto per te, ma come modello per altri. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:27, 5 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] io continuo a sostenere la grande importanza in questi casi di edizioni diverse delle stesse opere di avere una utility "diff" che evidenzia le differenze tra due testi, che come dicevo velocizzerebero la digitalizzazione di edizioni diverse dello stesso testo. Ho già citato il software Kdiff3 scaricabile qui https://kdiff3.sourceforge.net/ e utility da usare direttamente online come la seguente: https://www.diffchecker.com/ mentre su LibreOffice Writer c'è la funzione Modifica/Revisioni/Confronta documento che dovrebbe segnalare anche differenze di formattazione. Su Wikisource non c'è una utility diff simile per confrontare due testi, anche limitandoci a txt semplici di OCR grezzo senza formattazioni? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:22, 5 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] No, che io sappia, non c'è; l'idea è suggestiva e merita una riflessione più profonda del poco che ho fatto io. Riferendomi alla tua proposta precedente, se ci fosse non la utilizzarei per il confronto fra gli OCR ma per il confronto fra trascrizioni validate, per non perdersi in un terribile intrico di ''diff''. Ci ho pensato un po', ma mi spaventa il fatto che poi, diff per diff, toccherebbe andare in nsPagina per verificare; non riesco a immaginare un modo per farlo in maniera rapida ed efficente. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:34, 5 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] PS: l'idea di caricare edizioni multiple è buona anche lei, ma.... darei la precedenza alle centinaia di incompiute che attendono trascrittori o rilettori volenterosi. Fra le incompiute, segnalo in particolare quelle elencate in [[Progetto:Trascrizioni/Match and split]], e in particolare i due elenchi di libri in cui il M & S è completato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:40, 5 nov 2024 (CET)
:::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] A dire il vero abbiamo già molte edizioni multiple già caricate e parzialmente trascritte o parzialmente rilette: due edizioni della Divina Commedia di Dante non commentate, edizioni doppie di quattro opere di Galileo (Le Meccaniche, Il Saggiatore, Le operazione del compasso geometrico e militare, Discorsi e dimostrazioni), ben tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis, ben tre edizioni delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, due edizioni dell'Aminta di Torquato Tasso, due edizioni sia dell'Orlando Furioso che delle Satire di Ariosto, due edizioni sia della Secchia Rapita che de L'Oceano di Alessandro Tassoni... Dunque di lavori da fare con il diff ce ne sarebbero pronti già adesso... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:58, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Hai provato offline con gli strumenti che hai citato? Ti segnalo anche che ogni anno c'è una "raccolta di proposte" per sottoporre qualsiasi progetto ai "piani alti". [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:48, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Ho provato con Diffchecker a confrontare le tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di De Sanctis. Riesce a trovare differenze minime: ad esempio tra la versione del 1890 e quella del 1912 cambiano accenti gravi al posto che acuti (perché, più, già e simili) uso di apostrofi (ne' al posto di nei), uso in più di virgole ("E, studiando in quella forma" invece di "E studiando in quella forma" ...) e anche maiuscole al posto di minuscole (nazione invece che Nazione). Il confronto tra la versione del 1912 e quella del 1962, quest'ultima ancora da trascrivere completamente, invece mostra quasi soltanto errori OCR (spaziature mancanti o in più, accenti mancanti o invertiti...). Dimmi pure dove posso sottoporre questa proposta di una utility diff ai "piani alti". [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:19, 5 nov 2024 (CET)
::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] [https://github.com/wikimedia/mediawiki-gadgets-ConvenientDiscussions/pulls Qui] una possibilità; ma ogni anno c'è un'iniziativa apposita, con votazione delle proposte, che al momento non trovo :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:32, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Intendi dire questa iniziativa [https://meta.wikimedia.org/wiki/Community_Wishlist/it qui]? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:40, 5 nov 2024 (CET)
::::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Sì. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:49, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::::Ho appena scritto una richiesta in inglese. Sono stato breve e generico usando il titolo "Diff utility to compare texts of different editions of the same literary work" e la richiesta estesa "It would be very useful to have a diff utility within Wikisource that allows you to compare the texts of two different editions of the same scanned and OCR-edited literary work in order to find the differences and speed up the digitisation of the texts." Vediamo cosa diranno i "piani alti"... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 16:08, 5 nov 2024 (CET)
:::::eh anch'io preferisco dare la precedenza a opere non ancora "liberate", piuttosto che a versioni ulteriori.
:::::Una domanda dal link che hai messo sono risalito a questo
:::::https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Canestrini_-_Antropologia.djvu
:::::ma mi sembra incompleta?
:::::è ''solo'' da trascrivere o c'è da fare anche altre operazioni più complesse? [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 14:15, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Accolturato|Accolturato]] Il Match&Split è stato effettuato, ma occorre passare pagina per pagina
::::::* ad aggiungere intestazione,
::::::*controllare i cambi di pagina
::::::**all'inizio per eventuali inizi di paragrafo,
::::::*inizio e fine per vedere se ci sono parole spezzate da sistemare;
::::::*i titoli di capitoli e paragrafi sono da formattare.
::::::Fatto questo resta la parte di correzione del testo che in teoria potremmo lasciare anche a un altro rilettore; ma almeno la verifica di accenti gravi/acuti o regolarità di punteggiatura può essere verificata velocemente; in caso di correzioni ricorrenti possono venire in aiuto gli automatismi delle [[Aiuto:MemoRegex|MemoRegex]] '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 17:17, 5 nov 2024 (CET)
93u8h5r6x2uk00myug16xb1aqggj7yy
3419743
3419596
2024-11-05T23:57:12Z
Alex brollo
1615
/* Novelle per un anno */ Risposta
3419743
wikitext
text/x-wiki
{{bar}}
== Problemi di creazione della pagina ==
Tentando di creare questa pagina per il bar di novembre, ho ricavato un messaggio di errore: <code>La pagina che si è tentato di pubblicare è stata bloccata dal filtro anti-spam. Ciò è probabilmente dovuto alla presenza di un collegamento a un sito esterno proibito. Il filtro anti-spam è stato attivato dal seguente testo: forms.gle</code>. Incomprensibile. Per creare la pagina ho dovuto crearla in un altro namespace, e poi spostarla qui. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:41, 1 nov 2024 (CET)
== Di nuovo il bug Ctrl+i e Ctrl+b ==
Il bug che devastava Ctrl+i (applicazione del codice doppio asterisco = testo corsivo) e Ctrl+b (triplo asterisco = grassetto) improvvisamente si ripresenta. Il risultato di Ctrl+i in nsPagina e ns0 è <nowiki>''testo in corsivo''''''</nowiki> e quello di Ctrl+b è, sempre in nsPagina e ns0, <nowiki>'''testo in grassetto'''''''''</nowiki>. La cosa è estremamente fastidiosa. @[[Utente:Candalua|Candalua]], aiuto! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 17:32, 1 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]: questi sono shortcut di sistema, non dovrebbe essere necessario attivarli [https://it.wikisource.org/w/index.php?title=MediaWiki:Gadget-RegexMenuFramework.js&diff=prev&oldid=3410801 qui]. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 10:56, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] Aimè, l'età... ricordo di averli disabilitati, ma non ricordo affatto di averli riabilitati, nè perchè. Mi scuso, e grazie. :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:45, 4 nov 2024 (CET)
== Proposte e pagine autore: riforma alla tedesca ==
Cari amici,
con l'inizio del mese resterà in evidenza la seguente proposta emersa all'ItWikiCon e finora colpevolmente non divulgata:
La pagina [[Wikisource:Proposte]] è molto utile ma poco frequentata. Ho notato che in alcune pagine autore è già attuata una politica già presente nella Wikisource in tedesco: ''le proposte di testi <u>dotate di fonte</u> sono poste <u>nelle pagine degli autori</u>''.
Mi piacerebbe sistematizzare questo processo: tutte le proposte con la fonte indicata vengano spostate nelle pagine del loro autore, che se non è presente può essere creato.
Come conseguenza:
*rimarrebbero nella pagina delle proposte solo testi anonimi o collettivi
*eliminiamo le proposte senza fonte facendo una pulizia che attende da tempo di essere compiuta.
Obiezioni? '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 10:20, 3 nov 2024 (CET)
:Ciao! Nessuna obiezione. Anzi nei giorni scorsi ho copiato alcuni testi proposti nelle rispettive pagine autore, segnalando (per ora) la cosa in Wikisource:Proposte. --[[User:Paperoastro|Paperoastro]] ([[User talk:Paperoastro|disc.]]) 11:32, 3 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Alle volte ho scorso la pagina, ma con delusione: molte proposte non tengono conto del copyright. Quindi preciserei: opere dotate di ''fonte digitale'', dai cui metadati si desuma lo stato PD in atto o imminente.
::Invece che cancellare le proposte, proporrei di suddividerle in due liste, una con con stato PD accertato (o, ma sono casi rarissimi, con licenza CC valida compatibile) e una con tutte le altre.
::Le licenze riportate su Internet Archive non sono minimamente affidabili, per abuso di rilasci impropri sotto una licenza CC, assegnata da chi non ne ha diritto (utente che ha caricato il testo). Anch'io ho fatto questo errore innumerevoli volte, senza che Internet Archive reagisse in alcun modo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:41, 4 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Io semplicemente prima accerterei quali sono le opere in PD, le copierei nelle pagine degli autori e poi provvederei a cancellare tutte le proposte. Non ho ben capito cosa intendi per "Licenze riportate su Internet Archive". Ricordo che Internet Archive è un server in territorio USA, dunque presuppone le leggi del copyright USA che non sono identiche a quello italiano, per questo ad esempio alcune opere di Luigi Einaudi o di Sibilla Aleramo, morti meno di 70 anni fa, sono presenti su IA, per il semplice fatto che alcune loro opere sono state pubblicate più di 95 anni fa. Poi ci sono i casi di autori che rilasciano le loro opere in licenza CC, ad esempio il romanzo "Q" di Luther Blissett, ma appunto queste licenze sono scritte chiaramente nel frontespizio del testo. Mi pare strano che un utente per divertimento modifichi un file pdf che contiene, che ne so, "Il Nome della Rosa" di Umberto Eco per scrivere dentro il PDF che i detentori dei diritti (editori o eredi dell'autore) rilasciano il romanzo sotto licenza CC. Il problema comunque per noi di Wikisource non si pone perché per i testi sotto licenza CC ci occorre l'autorizzazione VRT dal detentore dei diritti a pubblicare il testo con licenza libera. [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:25, 4 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Attenzione, da sostituire nella tua risposta "le opere in PD" con "le edizioni in PD". Per rientrare nel PD USA conta l'anno di pubblicazione dell'edizione. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:37, 4 nov 2024 (CET)
== spostamento avviso licenza ==
Su segnalazione di un utente, ho spostato il messaggio di avviso che compare ad ogni salvataggio, riguardante la licenza con cui si rilasciano i propri contributi su Wikisource, rimettendolo "nel posto giusto", cioè in [[MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning]]. In precedenza era stato spostato più in basso con una modalità non proprio ineccepibile, che comportava il rischio che in certe circostanze (es. utilizzo dell'editor visuale) questo messaggio non venisse visualizzato. Siccome era parecchio lungo e portava via molto spazio, facendo precipitare molto più in basso il bottone "Pubblica le modifiche", l'ho rimpicciolito e accorciato, mantenendo però la parte sostanziale. Se volete possiamo accorciarlo ulteriormente: considerate che [https://translatewiki.net/wiki/MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning/it il messaggio predefinito] è molto più corto, e anche scrivendo al Bar con "Aggiungi argomento" compare un messaggio di una sola riga. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 09:32, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] Intanto '''grazie'''! Adesso mi precipito a vedere il risultato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:38, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] MI pare benissimo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:16, 4 nov 2024 (CET)
== Categorizzazione libri e immagini su Commons ==
@[[Utente:ZandDev|ZandDev]] Stimolato da un'osservazione di ZandDev, ho rivisto un po' di categorizzazioni di libri e immagini estratte su Commons, trovando, naturalmente, un bel po' di confusione. :-(
Per ora mi sono limitato a spostare le immagini ritagliate in alcune categorie "Illustrations..." elimnandole dalle categorie riservate ai libri. Ma la cetegorizzazione di libri di itwikisource e relative immagini andrebbe sistemata; noto però che in [[Aiuto:Procedure operative]] manca una voce "Caricamento di libri su Commons" (potrei aver cercato male, ma di certo un utente principiante trova la stessa difficoltà che ho trovato io). Insomma, un altro "lavoro sporco" da fare :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:48, 4 nov 2024 (CET)
== <span lang="en" dir="ltr">Tech News: 2024-45</span> ==
<div lang="en" dir="ltr">
<section begin="technews-2024-W45"/><div class="plainlinks">
Latest '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|tech news]]''' from the Wikimedia technical community. Please tell other users about these changes. Not all changes will affect you. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translations]] are available.
'''Updates for editors'''
* Stewards can now make [[m:Special:MyLanguage/Global blocks|global account blocks]] cause global [[mw:Special:MyLanguage/Autoblock|autoblocks]]. This will assist stewards in preventing abuse from users who have been globally blocked. This includes preventing globally blocked temporary accounts from exiting their session or switching browsers to make subsequent edits for 24 hours. Previously, temporary accounts could exit their current session or switch browsers to continue editing. This is an anti-abuse tool improvement for the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|Temporary Accounts]] project. You can read more about the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts/Updates|progress on key features for temporary accounts]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T368949]
* Wikis that have the [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status|CampaignEvents extension enabled]] can now use the [[m:Special:MyLanguage/Campaigns/Foundation Product Team/Event list#October 29, 2024: Collaboration List launched|Collaboration List]] feature. This list provides a new, easy way for contributors to learn about WikiProjects on their wikis. Thanks to the Campaign team for this work that is part of [[m:Special:MyLanguage/Wikimedia Foundation Annual Plan/2024-2025/Product %26 Technology OKRs#WE KRs|the 2024/25 annual plan]]. If you are interested in bringing the CampaignEvents extension to your wiki, you can [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status#How to Request the CampaignEvents Extension for your wiki|follow these steps]] or you can reach out to User:Udehb-WMF for help.
* The text color for red links will be slightly changed later this week to improve their contrast in light mode. [https://phabricator.wikimedia.org/T370446]
* View all {{formatnum:32}} community-submitted {{PLURAL:32|task|tasks}} that were [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Recently resolved community tasks|resolved last week]]. For example, on multilingual wikis, users [[phab:T216368|can now]] hide translations from the WhatLinksHere special page.
'''Updates for technical contributors'''
* XML [[m:Special:MyLanguage/Data dumps|data dumps]] have been temporarily paused whilst a bug is investigated. [https://lists.wikimedia.org/hyperkitty/list/xmldatadumps-l@lists.wikimedia.org/message/BXWJDPO5QI2QMBCY7HO36ELDCRO6HRM4/]
'''In depth'''
* Temporary Accounts have been deployed to six wikis; thanks to the Trust and Safety Product team for [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|this work]], you can read about [[phab:T340001|the deployment plans]]. Beginning next week, Temporary Accounts will also be enabled on [[phab:T378336|seven other projects]]. If you are active on these wikis and need help migrating your tools, please reach out to [[m:User:Udehb-WMF|User:Udehb-WMF]] for assistance.
* The latest quarterly [[mw:Special:MyLanguage/Wikimedia Language and Product Localization/Newsletter/2024/October|Language and Internationalization newsletter]] is available. It includes: New languages supported in translatewiki or in MediaWiki; New keyboard input methods for some languages; details about recent and upcoming meetings, and more.
'''Meetings and events'''
* [[mw:Special:MyLanguage/MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024|MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024]] is happening in Vienna, Austria and online from 4 to 6 November 2024. The conference will feature discussions around the usage of MediaWiki software by and within companies in different industries and will inspire and onboard new users.
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' prepared by [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|Tech News writers]] and posted by [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribute]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translate]] • [[m:Tech|Get help]] • [[m:Talk:Tech/News|Give feedback]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Subscribe or unsubscribe]].''
</div><section end="technews-2024-W45"/>
</div>
<bdi lang="en" dir="ltr">[[User:MediaWiki message delivery|MediaWiki message delivery]]</bdi> 21:50, 4 nov 2024 (CET)
<!-- Messaggio inviato da User:UOzurumba (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=Global_message_delivery/Targets/Tech_ambassadors&oldid=27693917 -->
== Novelle per un anno ==
Carissimi, dopo lunghe ricerche e decine di richieste di sblocco a Google, sono finalmente riuscito a scovare tutti i 15 volumi delle ''Novelle per un anno'' di Pirandello, opera fondamentale della novellistica italiana!
Ora vorrei caricarle e iniziare la trascrizione. Pensavo di caricare ogni volume per conto suo e ogni novella come opera per conto suo come pagine ns0 indipendenti, come fatto per le commedie del Goldoni, dato che per la maggior parte sono state pubblicate prima individualmente e solo poi raccolte in volume.
Ho riassunto qui la situazione: [[Progetto:Letteratura/Luigi Pirandello/Novelle per un anno]]. Come vedete c'è una certa eterogeneità nelle edizioni disponibili, perché a volte ho trovato la prima edizione Bemporad, altre volte una Mondadori di prima o dopo la guerra, e in una buona metà dei casi ne ho trovata più di una. Posto che sarà inevitabile una certa mescolanza, che in parte è intrinseca dato che la pubblicazione è avvenuta nel corso di vari anni e cambiando editore, vorrei il vostro aiuto per capire quale edizione è preferibile. Aggiungete magari le vostre note a fianco, come ho fatto per la XII.
Si potrebbe poi anche pensare di precaricare il testo usando quello di LiberLiber (pane per i denti di {{@|Alex brollo}}), facendo però attenzione perché alcuni volumi sono stati riveduti dall'autore e presentano molte varianti rispetto alle edizioni più vecchie.
A voi i commenti! [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 23:43, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] '''Bello!''' Che lavorone! Quanto al precaricamento del testo LiberLiber, dipende dalla qualità dell'OCR. Se l'OCR è buono/ottimo, non ne vale la pena. Se l'OCR è così così, ma le immagini sono buone, non ne vale la pena: il sistema OCR di mediawiki fa miracoli. Se l'OCR fa schifo, e le immagini anche, allora conviene. Quindi, la mia proposta è di caricare, poi vedere com'è l'OCR e come viene, eventualmente, l'OCR mediawiki.
:Quanto alla struttura ns0, non abbiamo mai (che io sappia) "indipendizzato" le novelle di una raccolta, ma ci si può pensare; intanto carichiamo rapidamente su Commons, per salvare il salvabile (non si sa mai su eventuali ripensamenti). Aggiungerei anche alla pagina Progetto uno schema standard di template Book (con la migliore categorizzazione possibile), non tanto per te, ma come modello per altri. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:27, 5 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] io continuo a sostenere la grande importanza in questi casi di edizioni diverse delle stesse opere di avere una utility "diff" che evidenzia le differenze tra due testi, che come dicevo velocizzerebero la digitalizzazione di edizioni diverse dello stesso testo. Ho già citato il software Kdiff3 scaricabile qui https://kdiff3.sourceforge.net/ e utility da usare direttamente online come la seguente: https://www.diffchecker.com/ mentre su LibreOffice Writer c'è la funzione Modifica/Revisioni/Confronta documento che dovrebbe segnalare anche differenze di formattazione. Su Wikisource non c'è una utility diff simile per confrontare due testi, anche limitandoci a txt semplici di OCR grezzo senza formattazioni? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:22, 5 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] No, che io sappia, non c'è; l'idea è suggestiva e merita una riflessione più profonda del poco che ho fatto io. Riferendomi alla tua proposta precedente, se ci fosse non la utilizzarei per il confronto fra gli OCR ma per il confronto fra trascrizioni validate, per non perdersi in un terribile intrico di ''diff''. Ci ho pensato un po', ma mi spaventa il fatto che poi, diff per diff, toccherebbe andare in nsPagina per verificare; non riesco a immaginare un modo per farlo in maniera rapida ed efficente. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:34, 5 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] PS: l'idea di caricare edizioni multiple è buona anche lei, ma.... darei la precedenza alle centinaia di incompiute che attendono trascrittori o rilettori volenterosi. Fra le incompiute, segnalo in particolare quelle elencate in [[Progetto:Trascrizioni/Match and split]], e in particolare i due elenchi di libri in cui il M & S è completato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:40, 5 nov 2024 (CET)
:::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] A dire il vero abbiamo già molte edizioni multiple già caricate e parzialmente trascritte o parzialmente rilette: due edizioni della Divina Commedia di Dante non commentate, edizioni doppie di quattro opere di Galileo (Le Meccaniche, Il Saggiatore, Le operazione del compasso geometrico e militare, Discorsi e dimostrazioni), ben tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis, ben tre edizioni delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, due edizioni dell'Aminta di Torquato Tasso, due edizioni sia dell'Orlando Furioso che delle Satire di Ariosto, due edizioni sia della Secchia Rapita che de L'Oceano di Alessandro Tassoni... Dunque di lavori da fare con il diff ce ne sarebbero pronti già adesso... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:58, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Hai provato offline con gli strumenti che hai citato? Ti segnalo anche che ogni anno c'è una "raccolta di proposte" per sottoporre qualsiasi progetto ai "piani alti". [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:48, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Ho provato con Diffchecker a confrontare le tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di De Sanctis. Riesce a trovare differenze minime: ad esempio tra la versione del 1890 e quella del 1912 cambiano accenti gravi al posto che acuti (perché, più, già e simili) uso di apostrofi (ne' al posto di nei), uso in più di virgole ("E, studiando in quella forma" invece di "E studiando in quella forma" ...) e anche maiuscole al posto di minuscole (nazione invece che Nazione). Il confronto tra la versione del 1912 e quella del 1962, quest'ultima ancora da trascrivere completamente, invece mostra quasi soltanto errori OCR (spaziature mancanti o in più, accenti mancanti o invertiti...). Dimmi pure dove posso sottoporre questa proposta di una utility diff ai "piani alti". [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:19, 5 nov 2024 (CET)
::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] [https://github.com/wikimedia/mediawiki-gadgets-ConvenientDiscussions/pulls Qui] una possibilità; ma ogni anno c'è un'iniziativa apposita, con votazione delle proposte, che al momento non trovo :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:32, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Intendi dire questa iniziativa [https://meta.wikimedia.org/wiki/Community_Wishlist/it qui]? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:40, 5 nov 2024 (CET)
::::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Sì. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:49, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::::Ho appena scritto una richiesta in inglese. Sono stato breve e generico usando il titolo "Diff utility to compare texts of different editions of the same literary work" e la richiesta estesa "It would be very useful to have a diff utility within Wikisource that allows you to compare the texts of two different editions of the same scanned and OCR-edited literary work in order to find the differences and speed up the digitisation of the texts." Vediamo cosa diranno i "piani alti"... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 16:08, 5 nov 2024 (CET)
:::::eh anch'io preferisco dare la precedenza a opere non ancora "liberate", piuttosto che a versioni ulteriori.
:::::Una domanda dal link che hai messo sono risalito a questo
:::::https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Canestrini_-_Antropologia.djvu
:::::ma mi sembra incompleta?
:::::è ''solo'' da trascrivere o c'è da fare anche altre operazioni più complesse? [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 14:15, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Accolturato|Accolturato]] Il Match&Split è stato effettuato, ma occorre passare pagina per pagina
::::::* ad aggiungere intestazione,
::::::*controllare i cambi di pagina
::::::**all'inizio per eventuali inizi di paragrafo,
::::::*inizio e fine per vedere se ci sono parole spezzate da sistemare;
::::::*i titoli di capitoli e paragrafi sono da formattare.
::::::Fatto questo resta la parte di correzione del testo che in teoria potremmo lasciare anche a un altro rilettore; ma almeno la verifica di accenti gravi/acuti o regolarità di punteggiatura può essere verificata velocemente; in caso di correzioni ricorrenti possono venire in aiuto gli automatismi delle [[Aiuto:MemoRegex|MemoRegex]] '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 17:17, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Accolturato|Accolturato]] Dopo aver fatto mente locale sul caso, mi sono ricordato di un particolare (che può essere verificato visualizzando la Discussione della pagina ns0 principale; è stata cancellata ma il contenuto viene riprodotto in u messaggio): l'edizione di cui è stato fatto il M & S era la seconda, mentre quella della pagina Indice è la terza, con aggiunte; e alcune risultano ancora "rosse", perchè il loro testo non esisteva nella seconda edizione. Per queste pagine occorre partire dall'OCR come se fosse un libro nuovo.
:::::::Nota che fra le pagine ancora non riempite c'è la prefazione alla III edizione, che di certo nella seconda edizione non figurava :-) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 00:57, 6 nov 2024 (CET)
krcptgc2faynsbjdd87anx7cvl4tfda
3419744
3419743
2024-11-06T00:02:26Z
Alex brollo
1615
/* Novelle per un anno */
3419744
wikitext
text/x-wiki
{{bar}}
== Problemi di creazione della pagina ==
Tentando di creare questa pagina per il bar di novembre, ho ricavato un messaggio di errore: <code>La pagina che si è tentato di pubblicare è stata bloccata dal filtro anti-spam. Ciò è probabilmente dovuto alla presenza di un collegamento a un sito esterno proibito. Il filtro anti-spam è stato attivato dal seguente testo: forms.gle</code>. Incomprensibile. Per creare la pagina ho dovuto crearla in un altro namespace, e poi spostarla qui. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:41, 1 nov 2024 (CET)
== Di nuovo il bug Ctrl+i e Ctrl+b ==
Il bug che devastava Ctrl+i (applicazione del codice doppio asterisco = testo corsivo) e Ctrl+b (triplo asterisco = grassetto) improvvisamente si ripresenta. Il risultato di Ctrl+i in nsPagina e ns0 è <nowiki>''testo in corsivo''''''</nowiki> e quello di Ctrl+b è, sempre in nsPagina e ns0, <nowiki>'''testo in grassetto'''''''''</nowiki>. La cosa è estremamente fastidiosa. @[[Utente:Candalua|Candalua]], aiuto! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 17:32, 1 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]: questi sono shortcut di sistema, non dovrebbe essere necessario attivarli [https://it.wikisource.org/w/index.php?title=MediaWiki:Gadget-RegexMenuFramework.js&diff=prev&oldid=3410801 qui]. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 10:56, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] Aimè, l'età... ricordo di averli disabilitati, ma non ricordo affatto di averli riabilitati, nè perchè. Mi scuso, e grazie. :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:45, 4 nov 2024 (CET)
== Proposte e pagine autore: riforma alla tedesca ==
Cari amici,
con l'inizio del mese resterà in evidenza la seguente proposta emersa all'ItWikiCon e finora colpevolmente non divulgata:
La pagina [[Wikisource:Proposte]] è molto utile ma poco frequentata. Ho notato che in alcune pagine autore è già attuata una politica già presente nella Wikisource in tedesco: ''le proposte di testi <u>dotate di fonte</u> sono poste <u>nelle pagine degli autori</u>''.
Mi piacerebbe sistematizzare questo processo: tutte le proposte con la fonte indicata vengano spostate nelle pagine del loro autore, che se non è presente può essere creato.
Come conseguenza:
*rimarrebbero nella pagina delle proposte solo testi anonimi o collettivi
*eliminiamo le proposte senza fonte facendo una pulizia che attende da tempo di essere compiuta.
Obiezioni? '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 10:20, 3 nov 2024 (CET)
:Ciao! Nessuna obiezione. Anzi nei giorni scorsi ho copiato alcuni testi proposti nelle rispettive pagine autore, segnalando (per ora) la cosa in Wikisource:Proposte. --[[User:Paperoastro|Paperoastro]] ([[User talk:Paperoastro|disc.]]) 11:32, 3 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Alle volte ho scorso la pagina, ma con delusione: molte proposte non tengono conto del copyright. Quindi preciserei: opere dotate di ''fonte digitale'', dai cui metadati si desuma lo stato PD in atto o imminente.
::Invece che cancellare le proposte, proporrei di suddividerle in due liste, una con con stato PD accertato (o, ma sono casi rarissimi, con licenza CC valida compatibile) e una con tutte le altre.
::Le licenze riportate su Internet Archive non sono minimamente affidabili, per abuso di rilasci impropri sotto una licenza CC, assegnata da chi non ne ha diritto (utente che ha caricato il testo). Anch'io ho fatto questo errore innumerevoli volte, senza che Internet Archive reagisse in alcun modo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:41, 4 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Io semplicemente prima accerterei quali sono le opere in PD, le copierei nelle pagine degli autori e poi provvederei a cancellare tutte le proposte. Non ho ben capito cosa intendi per "Licenze riportate su Internet Archive". Ricordo che Internet Archive è un server in territorio USA, dunque presuppone le leggi del copyright USA che non sono identiche a quello italiano, per questo ad esempio alcune opere di Luigi Einaudi o di Sibilla Aleramo, morti meno di 70 anni fa, sono presenti su IA, per il semplice fatto che alcune loro opere sono state pubblicate più di 95 anni fa. Poi ci sono i casi di autori che rilasciano le loro opere in licenza CC, ad esempio il romanzo "Q" di Luther Blissett, ma appunto queste licenze sono scritte chiaramente nel frontespizio del testo. Mi pare strano che un utente per divertimento modifichi un file pdf che contiene, che ne so, "Il Nome della Rosa" di Umberto Eco per scrivere dentro il PDF che i detentori dei diritti (editori o eredi dell'autore) rilasciano il romanzo sotto licenza CC. Il problema comunque per noi di Wikisource non si pone perché per i testi sotto licenza CC ci occorre l'autorizzazione VRT dal detentore dei diritti a pubblicare il testo con licenza libera. [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:25, 4 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Attenzione, da sostituire nella tua risposta "le opere in PD" con "le edizioni in PD". Per rientrare nel PD USA conta l'anno di pubblicazione dell'edizione. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:37, 4 nov 2024 (CET)
== spostamento avviso licenza ==
Su segnalazione di un utente, ho spostato il messaggio di avviso che compare ad ogni salvataggio, riguardante la licenza con cui si rilasciano i propri contributi su Wikisource, rimettendolo "nel posto giusto", cioè in [[MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning]]. In precedenza era stato spostato più in basso con una modalità non proprio ineccepibile, che comportava il rischio che in certe circostanze (es. utilizzo dell'editor visuale) questo messaggio non venisse visualizzato. Siccome era parecchio lungo e portava via molto spazio, facendo precipitare molto più in basso il bottone "Pubblica le modifiche", l'ho rimpicciolito e accorciato, mantenendo però la parte sostanziale. Se volete possiamo accorciarlo ulteriormente: considerate che [https://translatewiki.net/wiki/MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning/it il messaggio predefinito] è molto più corto, e anche scrivendo al Bar con "Aggiungi argomento" compare un messaggio di una sola riga. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 09:32, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] Intanto '''grazie'''! Adesso mi precipito a vedere il risultato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:38, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] MI pare benissimo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:16, 4 nov 2024 (CET)
== Categorizzazione libri e immagini su Commons ==
@[[Utente:ZandDev|ZandDev]] Stimolato da un'osservazione di ZandDev, ho rivisto un po' di categorizzazioni di libri e immagini estratte su Commons, trovando, naturalmente, un bel po' di confusione. :-(
Per ora mi sono limitato a spostare le immagini ritagliate in alcune categorie "Illustrations..." elimnandole dalle categorie riservate ai libri. Ma la cetegorizzazione di libri di itwikisource e relative immagini andrebbe sistemata; noto però che in [[Aiuto:Procedure operative]] manca una voce "Caricamento di libri su Commons" (potrei aver cercato male, ma di certo un utente principiante trova la stessa difficoltà che ho trovato io). Insomma, un altro "lavoro sporco" da fare :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:48, 4 nov 2024 (CET)
== <span lang="en" dir="ltr">Tech News: 2024-45</span> ==
<div lang="en" dir="ltr">
<section begin="technews-2024-W45"/><div class="plainlinks">
Latest '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|tech news]]''' from the Wikimedia technical community. Please tell other users about these changes. Not all changes will affect you. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translations]] are available.
'''Updates for editors'''
* Stewards can now make [[m:Special:MyLanguage/Global blocks|global account blocks]] cause global [[mw:Special:MyLanguage/Autoblock|autoblocks]]. This will assist stewards in preventing abuse from users who have been globally blocked. This includes preventing globally blocked temporary accounts from exiting their session or switching browsers to make subsequent edits for 24 hours. Previously, temporary accounts could exit their current session or switch browsers to continue editing. This is an anti-abuse tool improvement for the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|Temporary Accounts]] project. You can read more about the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts/Updates|progress on key features for temporary accounts]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T368949]
* Wikis that have the [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status|CampaignEvents extension enabled]] can now use the [[m:Special:MyLanguage/Campaigns/Foundation Product Team/Event list#October 29, 2024: Collaboration List launched|Collaboration List]] feature. This list provides a new, easy way for contributors to learn about WikiProjects on their wikis. Thanks to the Campaign team for this work that is part of [[m:Special:MyLanguage/Wikimedia Foundation Annual Plan/2024-2025/Product %26 Technology OKRs#WE KRs|the 2024/25 annual plan]]. If you are interested in bringing the CampaignEvents extension to your wiki, you can [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status#How to Request the CampaignEvents Extension for your wiki|follow these steps]] or you can reach out to User:Udehb-WMF for help.
* The text color for red links will be slightly changed later this week to improve their contrast in light mode. [https://phabricator.wikimedia.org/T370446]
* View all {{formatnum:32}} community-submitted {{PLURAL:32|task|tasks}} that were [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Recently resolved community tasks|resolved last week]]. For example, on multilingual wikis, users [[phab:T216368|can now]] hide translations from the WhatLinksHere special page.
'''Updates for technical contributors'''
* XML [[m:Special:MyLanguage/Data dumps|data dumps]] have been temporarily paused whilst a bug is investigated. [https://lists.wikimedia.org/hyperkitty/list/xmldatadumps-l@lists.wikimedia.org/message/BXWJDPO5QI2QMBCY7HO36ELDCRO6HRM4/]
'''In depth'''
* Temporary Accounts have been deployed to six wikis; thanks to the Trust and Safety Product team for [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|this work]], you can read about [[phab:T340001|the deployment plans]]. Beginning next week, Temporary Accounts will also be enabled on [[phab:T378336|seven other projects]]. If you are active on these wikis and need help migrating your tools, please reach out to [[m:User:Udehb-WMF|User:Udehb-WMF]] for assistance.
* The latest quarterly [[mw:Special:MyLanguage/Wikimedia Language and Product Localization/Newsletter/2024/October|Language and Internationalization newsletter]] is available. It includes: New languages supported in translatewiki or in MediaWiki; New keyboard input methods for some languages; details about recent and upcoming meetings, and more.
'''Meetings and events'''
* [[mw:Special:MyLanguage/MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024|MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024]] is happening in Vienna, Austria and online from 4 to 6 November 2024. The conference will feature discussions around the usage of MediaWiki software by and within companies in different industries and will inspire and onboard new users.
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' prepared by [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|Tech News writers]] and posted by [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribute]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translate]] • [[m:Tech|Get help]] • [[m:Talk:Tech/News|Give feedback]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Subscribe or unsubscribe]].''
</div><section end="technews-2024-W45"/>
</div>
<bdi lang="en" dir="ltr">[[User:MediaWiki message delivery|MediaWiki message delivery]]</bdi> 21:50, 4 nov 2024 (CET)
<!-- Messaggio inviato da User:UOzurumba (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=Global_message_delivery/Targets/Tech_ambassadors&oldid=27693917 -->
== Novelle per un anno ==
Carissimi, dopo lunghe ricerche e decine di richieste di sblocco a Google, sono finalmente riuscito a scovare tutti i 15 volumi delle ''Novelle per un anno'' di Pirandello, opera fondamentale della novellistica italiana!
Ora vorrei caricarle e iniziare la trascrizione. Pensavo di caricare ogni volume per conto suo e ogni novella come opera per conto suo come pagine ns0 indipendenti, come fatto per le commedie del Goldoni, dato che per la maggior parte sono state pubblicate prima individualmente e solo poi raccolte in volume.
Ho riassunto qui la situazione: [[Progetto:Letteratura/Luigi Pirandello/Novelle per un anno]]. Come vedete c'è una certa eterogeneità nelle edizioni disponibili, perché a volte ho trovato la prima edizione Bemporad, altre volte una Mondadori di prima o dopo la guerra, e in una buona metà dei casi ne ho trovata più di una. Posto che sarà inevitabile una certa mescolanza, che in parte è intrinseca dato che la pubblicazione è avvenuta nel corso di vari anni e cambiando editore, vorrei il vostro aiuto per capire quale edizione è preferibile. Aggiungete magari le vostre note a fianco, come ho fatto per la XII.
Si potrebbe poi anche pensare di precaricare il testo usando quello di LiberLiber (pane per i denti di {{@|Alex brollo}}), facendo però attenzione perché alcuni volumi sono stati riveduti dall'autore e presentano molte varianti rispetto alle edizioni più vecchie.
A voi i commenti! [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 23:43, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] '''Bello!''' Che lavorone! Quanto al precaricamento del testo LiberLiber, dipende dalla qualità dell'OCR. Se l'OCR è buono/ottimo, non ne vale la pena. Se l'OCR è così così, ma le immagini sono buone, non ne vale la pena: il sistema OCR di mediawiki fa miracoli. Se l'OCR fa schifo, e le immagini anche, allora conviene. Quindi, la mia proposta è di caricare, poi vedere com'è l'OCR e come viene, eventualmente, l'OCR mediawiki.
:Quanto alla struttura ns0, non abbiamo mai (che io sappia) "indipendizzato" le novelle di una raccolta, ma ci si può pensare; intanto carichiamo rapidamente su Commons, per salvare il salvabile (non si sa mai su eventuali ripensamenti). Aggiungerei anche alla pagina Progetto uno schema standard di template Book (con la migliore categorizzazione possibile), non tanto per te, ma come modello per altri. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:27, 5 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] io continuo a sostenere la grande importanza in questi casi di edizioni diverse delle stesse opere di avere una utility "diff" che evidenzia le differenze tra due testi, che come dicevo velocizzerebero la digitalizzazione di edizioni diverse dello stesso testo. Ho già citato il software Kdiff3 scaricabile qui https://kdiff3.sourceforge.net/ e utility da usare direttamente online come la seguente: https://www.diffchecker.com/ mentre su LibreOffice Writer c'è la funzione Modifica/Revisioni/Confronta documento che dovrebbe segnalare anche differenze di formattazione. Su Wikisource non c'è una utility diff simile per confrontare due testi, anche limitandoci a txt semplici di OCR grezzo senza formattazioni? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:22, 5 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] No, che io sappia, non c'è; l'idea è suggestiva e merita una riflessione più profonda del poco che ho fatto io. Riferendomi alla tua proposta precedente, se ci fosse non la utilizzarei per il confronto fra gli OCR ma per il confronto fra trascrizioni validate, per non perdersi in un terribile intrico di ''diff''. Ci ho pensato un po', ma mi spaventa il fatto che poi, diff per diff, toccherebbe andare in nsPagina per verificare; non riesco a immaginare un modo per farlo in maniera rapida ed efficente. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:34, 5 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] PS: l'idea di caricare edizioni multiple è buona anche lei, ma.... darei la precedenza alle centinaia di incompiute che attendono trascrittori o rilettori volenterosi. Fra le incompiute, segnalo in particolare quelle elencate in [[Progetto:Trascrizioni/Match and split]], e in particolare i due elenchi di libri in cui il M & S è completato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:40, 5 nov 2024 (CET)
:::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] A dire il vero abbiamo già molte edizioni multiple già caricate e parzialmente trascritte o parzialmente rilette: due edizioni della Divina Commedia di Dante non commentate, edizioni doppie di quattro opere di Galileo (Le Meccaniche, Il Saggiatore, Le operazione del compasso geometrico e militare, Discorsi e dimostrazioni), ben tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis, ben tre edizioni delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, due edizioni dell'Aminta di Torquato Tasso, due edizioni sia dell'Orlando Furioso che delle Satire di Ariosto, due edizioni sia della Secchia Rapita che de L'Oceano di Alessandro Tassoni... Dunque di lavori da fare con il diff ce ne sarebbero pronti già adesso... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:58, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Hai provato offline con gli strumenti che hai citato? Ti segnalo anche che ogni anno c'è una "raccolta di proposte" per sottoporre qualsiasi progetto ai "piani alti". [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:48, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Ho provato con Diffchecker a confrontare le tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di De Sanctis. Riesce a trovare differenze minime: ad esempio tra la versione del 1890 e quella del 1912 cambiano accenti gravi al posto che acuti (perché, più, già e simili) uso di apostrofi (ne' al posto di nei), uso in più di virgole ("E, studiando in quella forma" invece di "E studiando in quella forma" ...) e anche maiuscole al posto di minuscole (nazione invece che Nazione). Il confronto tra la versione del 1912 e quella del 1962, quest'ultima ancora da trascrivere completamente, invece mostra quasi soltanto errori OCR (spaziature mancanti o in più, accenti mancanti o invertiti...). Dimmi pure dove posso sottoporre questa proposta di una utility diff ai "piani alti". [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:19, 5 nov 2024 (CET)
::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] [https://github.com/wikimedia/mediawiki-gadgets-ConvenientDiscussions/pulls Qui] una possibilità; ma ogni anno c'è un'iniziativa apposita, con votazione delle proposte, che al momento non trovo :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:32, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Intendi dire questa iniziativa [https://meta.wikimedia.org/wiki/Community_Wishlist/it qui]? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:40, 5 nov 2024 (CET)
::::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Sì. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:49, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::::Ho appena scritto una richiesta in inglese. Sono stato breve e generico usando il titolo "Diff utility to compare texts of different editions of the same literary work" e la richiesta estesa "It would be very useful to have a diff utility within Wikisource that allows you to compare the texts of two different editions of the same scanned and OCR-edited literary work in order to find the differences and speed up the digitisation of the texts." Vediamo cosa diranno i "piani alti"... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 16:08, 5 nov 2024 (CET)
:::::eh anch'io preferisco dare la precedenza a opere non ancora "liberate", piuttosto che a versioni ulteriori.
:::::Una domanda dal link che hai messo sono risalito a questo
:::::https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Canestrini_-_Antropologia.djvu
:::::ma mi sembra incompleta?
:::::è ''solo'' da trascrivere o c'è da fare anche altre operazioni più complesse? [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 14:15, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Accolturato|Accolturato]] Il Match&Split è stato effettuato, ma occorre passare pagina per pagina
::::::* ad aggiungere intestazione,
::::::*controllare i cambi di pagina
::::::**all'inizio per eventuali inizi di paragrafo,
::::::*inizio e fine per vedere se ci sono parole spezzate da sistemare;
::::::*i titoli di capitoli e paragrafi sono da formattare.
::::::Fatto questo resta la parte di correzione del testo che in teoria potremmo lasciare anche a un altro rilettore; ma almeno la verifica di accenti gravi/acuti o regolarità di punteggiatura può essere verificata velocemente; in caso di correzioni ricorrenti possono venire in aiuto gli automatismi delle [[Aiuto:MemoRegex|MemoRegex]] '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 17:17, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Accolturato|Accolturato]] Dopo aver fatto mente locale sul caso, mi sono ricordato di un particolare (che può essere verificato visualizzando la Discussione della pagina ns0 principale; è stata cancellata ma il contenuto viene riprodotto in u messaggio): l'edizione di cui è stato fatto il M & S era la seconda, mentre quella della pagina Indice è la terza, con aggiunte; e alcune risultano ancora "rosse", perchè il loro testo non esisteva nella seconda edizione. Per queste pagine occorre partire dall'OCR come se fosse un libro nuovo.
:::::::E' un rilettura abbastanza delicata, perchè le aggiunte sostanziose si vedono a colpo d'occhio, ma niente impedisce che ci siano correzioni o aggiunte limitate, più difficili da scovare. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 00:57, 6 nov 2024 (CET)
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Alex brollo
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{{bar}}
== Problemi di creazione della pagina ==
Tentando di creare questa pagina per il bar di novembre, ho ricavato un messaggio di errore: <code>La pagina che si è tentato di pubblicare è stata bloccata dal filtro anti-spam. Ciò è probabilmente dovuto alla presenza di un collegamento a un sito esterno proibito. Il filtro anti-spam è stato attivato dal seguente testo: forms.gle</code>. Incomprensibile. Per creare la pagina ho dovuto crearla in un altro namespace, e poi spostarla qui. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:41, 1 nov 2024 (CET)
== Di nuovo il bug Ctrl+i e Ctrl+b ==
Il bug che devastava Ctrl+i (applicazione del codice doppio asterisco = testo corsivo) e Ctrl+b (triplo asterisco = grassetto) improvvisamente si ripresenta. Il risultato di Ctrl+i in nsPagina e ns0 è <nowiki>''testo in corsivo''''''</nowiki> e quello di Ctrl+b è, sempre in nsPagina e ns0, <nowiki>'''testo in grassetto'''''''''</nowiki>. La cosa è estremamente fastidiosa. @[[Utente:Candalua|Candalua]], aiuto! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 17:32, 1 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]: questi sono shortcut di sistema, non dovrebbe essere necessario attivarli [https://it.wikisource.org/w/index.php?title=MediaWiki:Gadget-RegexMenuFramework.js&diff=prev&oldid=3410801 qui]. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 10:56, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] Aimè, l'età... ricordo di averli disabilitati, ma non ricordo affatto di averli riabilitati, nè perchè. Mi scuso, e grazie. :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:45, 4 nov 2024 (CET)
== Proposte e pagine autore: riforma alla tedesca ==
Cari amici,
con l'inizio del mese resterà in evidenza la seguente proposta emersa all'ItWikiCon e finora colpevolmente non divulgata:
La pagina [[Wikisource:Proposte]] è molto utile ma poco frequentata. Ho notato che in alcune pagine autore è già attuata una politica già presente nella Wikisource in tedesco: ''le proposte di testi <u>dotate di fonte</u> sono poste <u>nelle pagine degli autori</u>''.
Mi piacerebbe sistematizzare questo processo: tutte le proposte con la fonte indicata vengano spostate nelle pagine del loro autore, che se non è presente può essere creato.
Come conseguenza:
*rimarrebbero nella pagina delle proposte solo testi anonimi o collettivi
*eliminiamo le proposte senza fonte facendo una pulizia che attende da tempo di essere compiuta.
Obiezioni? '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 10:20, 3 nov 2024 (CET)
:Ciao! Nessuna obiezione. Anzi nei giorni scorsi ho copiato alcuni testi proposti nelle rispettive pagine autore, segnalando (per ora) la cosa in Wikisource:Proposte. --[[User:Paperoastro|Paperoastro]] ([[User talk:Paperoastro|disc.]]) 11:32, 3 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Alle volte ho scorso la pagina, ma con delusione: molte proposte non tengono conto del copyright. Quindi preciserei: opere dotate di ''fonte digitale'', dai cui metadati si desuma lo stato PD in atto o imminente.
::Invece che cancellare le proposte, proporrei di suddividerle in due liste, una con con stato PD accertato (o, ma sono casi rarissimi, con licenza CC valida compatibile) e una con tutte le altre.
::Le licenze riportate su Internet Archive non sono minimamente affidabili, per abuso di rilasci impropri sotto una licenza CC, assegnata da chi non ne ha diritto (utente che ha caricato il testo). Anch'io ho fatto questo errore innumerevoli volte, senza che Internet Archive reagisse in alcun modo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:41, 4 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Io semplicemente prima accerterei quali sono le opere in PD, le copierei nelle pagine degli autori e poi provvederei a cancellare tutte le proposte. Non ho ben capito cosa intendi per "Licenze riportate su Internet Archive". Ricordo che Internet Archive è un server in territorio USA, dunque presuppone le leggi del copyright USA che non sono identiche a quello italiano, per questo ad esempio alcune opere di Luigi Einaudi o di Sibilla Aleramo, morti meno di 70 anni fa, sono presenti su IA, per il semplice fatto che alcune loro opere sono state pubblicate più di 95 anni fa. Poi ci sono i casi di autori che rilasciano le loro opere in licenza CC, ad esempio il romanzo "Q" di Luther Blissett, ma appunto queste licenze sono scritte chiaramente nel frontespizio del testo. Mi pare strano che un utente per divertimento modifichi un file pdf che contiene, che ne so, "Il Nome della Rosa" di Umberto Eco per scrivere dentro il PDF che i detentori dei diritti (editori o eredi dell'autore) rilasciano il romanzo sotto licenza CC. Il problema comunque per noi di Wikisource non si pone perché per i testi sotto licenza CC ci occorre l'autorizzazione VRT dal detentore dei diritti a pubblicare il testo con licenza libera. [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:25, 4 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Attenzione, da sostituire nella tua risposta "le opere in PD" con "le edizioni in PD". Per rientrare nel PD USA conta l'anno di pubblicazione dell'edizione. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:37, 4 nov 2024 (CET)
== spostamento avviso licenza ==
Su segnalazione di un utente, ho spostato il messaggio di avviso che compare ad ogni salvataggio, riguardante la licenza con cui si rilasciano i propri contributi su Wikisource, rimettendolo "nel posto giusto", cioè in [[MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning]]. In precedenza era stato spostato più in basso con una modalità non proprio ineccepibile, che comportava il rischio che in certe circostanze (es. utilizzo dell'editor visuale) questo messaggio non venisse visualizzato. Siccome era parecchio lungo e portava via molto spazio, facendo precipitare molto più in basso il bottone "Pubblica le modifiche", l'ho rimpicciolito e accorciato, mantenendo però la parte sostanziale. Se volete possiamo accorciarlo ulteriormente: considerate che [https://translatewiki.net/wiki/MediaWiki:Wikimedia-copyrightwarning/it il messaggio predefinito] è molto più corto, e anche scrivendo al Bar con "Aggiungi argomento" compare un messaggio di una sola riga. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 09:32, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] Intanto '''grazie'''! Adesso mi precipito a vedere il risultato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:38, 4 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] MI pare benissimo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:16, 4 nov 2024 (CET)
== Categorizzazione libri e immagini su Commons ==
@[[Utente:ZandDev|ZandDev]] Stimolato da un'osservazione di ZandDev, ho rivisto un po' di categorizzazioni di libri e immagini estratte su Commons, trovando, naturalmente, un bel po' di confusione. :-(
Per ora mi sono limitato a spostare le immagini ritagliate in alcune categorie "Illustrations..." elimnandole dalle categorie riservate ai libri. Ma la cetegorizzazione di libri di itwikisource e relative immagini andrebbe sistemata; noto però che in [[Aiuto:Procedure operative]] manca una voce "Caricamento di libri su Commons" (potrei aver cercato male, ma di certo un utente principiante trova la stessa difficoltà che ho trovato io). Insomma, un altro "lavoro sporco" da fare :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:48, 4 nov 2024 (CET)
== <span lang="en" dir="ltr">Tech News: 2024-45</span> ==
<div lang="en" dir="ltr">
<section begin="technews-2024-W45"/><div class="plainlinks">
Latest '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|tech news]]''' from the Wikimedia technical community. Please tell other users about these changes. Not all changes will affect you. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translations]] are available.
'''Updates for editors'''
* Stewards can now make [[m:Special:MyLanguage/Global blocks|global account blocks]] cause global [[mw:Special:MyLanguage/Autoblock|autoblocks]]. This will assist stewards in preventing abuse from users who have been globally blocked. This includes preventing globally blocked temporary accounts from exiting their session or switching browsers to make subsequent edits for 24 hours. Previously, temporary accounts could exit their current session or switch browsers to continue editing. This is an anti-abuse tool improvement for the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|Temporary Accounts]] project. You can read more about the [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts/Updates|progress on key features for temporary accounts]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T368949]
* Wikis that have the [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status|CampaignEvents extension enabled]] can now use the [[m:Special:MyLanguage/Campaigns/Foundation Product Team/Event list#October 29, 2024: Collaboration List launched|Collaboration List]] feature. This list provides a new, easy way for contributors to learn about WikiProjects on their wikis. Thanks to the Campaign team for this work that is part of [[m:Special:MyLanguage/Wikimedia Foundation Annual Plan/2024-2025/Product %26 Technology OKRs#WE KRs|the 2024/25 annual plan]]. If you are interested in bringing the CampaignEvents extension to your wiki, you can [[m:Special:MyLanguage/CampaignEvents/Deployment status#How to Request the CampaignEvents Extension for your wiki|follow these steps]] or you can reach out to User:Udehb-WMF for help.
* The text color for red links will be slightly changed later this week to improve their contrast in light mode. [https://phabricator.wikimedia.org/T370446]
* View all {{formatnum:32}} community-submitted {{PLURAL:32|task|tasks}} that were [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Recently resolved community tasks|resolved last week]]. For example, on multilingual wikis, users [[phab:T216368|can now]] hide translations from the WhatLinksHere special page.
'''Updates for technical contributors'''
* XML [[m:Special:MyLanguage/Data dumps|data dumps]] have been temporarily paused whilst a bug is investigated. [https://lists.wikimedia.org/hyperkitty/list/xmldatadumps-l@lists.wikimedia.org/message/BXWJDPO5QI2QMBCY7HO36ELDCRO6HRM4/]
'''In depth'''
* Temporary Accounts have been deployed to six wikis; thanks to the Trust and Safety Product team for [[mw:Special:MyLanguage/Trust and Safety Product/Temporary Accounts|this work]], you can read about [[phab:T340001|the deployment plans]]. Beginning next week, Temporary Accounts will also be enabled on [[phab:T378336|seven other projects]]. If you are active on these wikis and need help migrating your tools, please reach out to [[m:User:Udehb-WMF|User:Udehb-WMF]] for assistance.
* The latest quarterly [[mw:Special:MyLanguage/Wikimedia Language and Product Localization/Newsletter/2024/October|Language and Internationalization newsletter]] is available. It includes: New languages supported in translatewiki or in MediaWiki; New keyboard input methods for some languages; details about recent and upcoming meetings, and more.
'''Meetings and events'''
* [[mw:Special:MyLanguage/MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024|MediaWiki Users and Developers Conference Fall 2024]] is happening in Vienna, Austria and online from 4 to 6 November 2024. The conference will feature discussions around the usage of MediaWiki software by and within companies in different industries and will inspire and onboard new users.
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' prepared by [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|Tech News writers]] and posted by [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribute]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2024/45|Translate]] • [[m:Tech|Get help]] • [[m:Talk:Tech/News|Give feedback]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Subscribe or unsubscribe]].''
</div><section end="technews-2024-W45"/>
</div>
<bdi lang="en" dir="ltr">[[User:MediaWiki message delivery|MediaWiki message delivery]]</bdi> 21:50, 4 nov 2024 (CET)
<!-- Messaggio inviato da User:UOzurumba (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=Global_message_delivery/Targets/Tech_ambassadors&oldid=27693917 -->
== Novelle per un anno ==
Carissimi, dopo lunghe ricerche e decine di richieste di sblocco a Google, sono finalmente riuscito a scovare tutti i 15 volumi delle ''Novelle per un anno'' di Pirandello, opera fondamentale della novellistica italiana!
Ora vorrei caricarle e iniziare la trascrizione. Pensavo di caricare ogni volume per conto suo e ogni novella come opera per conto suo come pagine ns0 indipendenti, come fatto per le commedie del Goldoni, dato che per la maggior parte sono state pubblicate prima individualmente e solo poi raccolte in volume.
Ho riassunto qui la situazione: [[Progetto:Letteratura/Luigi Pirandello/Novelle per un anno]]. Come vedete c'è una certa eterogeneità nelle edizioni disponibili, perché a volte ho trovato la prima edizione Bemporad, altre volte una Mondadori di prima o dopo la guerra, e in una buona metà dei casi ne ho trovata più di una. Posto che sarà inevitabile una certa mescolanza, che in parte è intrinseca dato che la pubblicazione è avvenuta nel corso di vari anni e cambiando editore, vorrei il vostro aiuto per capire quale edizione è preferibile. Aggiungete magari le vostre note a fianco, come ho fatto per la XII.
Si potrebbe poi anche pensare di precaricare il testo usando quello di LiberLiber (pane per i denti di {{@|Alex brollo}}), facendo però attenzione perché alcuni volumi sono stati riveduti dall'autore e presentano molte varianti rispetto alle edizioni più vecchie.
A voi i commenti! [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 23:43, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:Candalua|Candalua]] '''Bello!''' Che lavorone! Quanto al precaricamento del testo LiberLiber, dipende dalla qualità dell'OCR. Se l'OCR è buono/ottimo, non ne vale la pena. Se l'OCR è così così, ma le immagini sono buone, non ne vale la pena: il sistema OCR di mediawiki fa miracoli. Se l'OCR fa schifo, e le immagini anche, allora conviene. Quindi, la mia proposta è di caricare, poi vedere com'è l'OCR e come viene, eventualmente, l'OCR mediawiki.
:Quanto alla struttura ns0, non abbiamo mai (che io sappia) "indipendizzato" le novelle di una raccolta, ma ci si può pensare; intanto carichiamo rapidamente su Commons, per salvare il salvabile (non si sa mai su eventuali ripensamenti). Aggiungerei anche alla pagina Progetto uno schema standard di template Book (con la migliore categorizzazione possibile), non tanto per te, ma come modello per altri. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:27, 5 nov 2024 (CET)
::@[[Utente:Candalua|Candalua]] @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] io continuo a sostenere la grande importanza in questi casi di edizioni diverse delle stesse opere di avere una utility "diff" che evidenzia le differenze tra due testi, che come dicevo velocizzerebero la digitalizzazione di edizioni diverse dello stesso testo. Ho già citato il software Kdiff3 scaricabile qui https://kdiff3.sourceforge.net/ e utility da usare direttamente online come la seguente: https://www.diffchecker.com/ mentre su LibreOffice Writer c'è la funzione Modifica/Revisioni/Confronta documento che dovrebbe segnalare anche differenze di formattazione. Su Wikisource non c'è una utility diff simile per confrontare due testi, anche limitandoci a txt semplici di OCR grezzo senza formattazioni? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:22, 5 nov 2024 (CET)
:::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] No, che io sappia, non c'è; l'idea è suggestiva e merita una riflessione più profonda del poco che ho fatto io. Riferendomi alla tua proposta precedente, se ci fosse non la utilizzarei per il confronto fra gli OCR ma per il confronto fra trascrizioni validate, per non perdersi in un terribile intrico di ''diff''. Ci ho pensato un po', ma mi spaventa il fatto che poi, diff per diff, toccherebbe andare in nsPagina per verificare; non riesco a immaginare un modo per farlo in maniera rapida ed efficente. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:34, 5 nov 2024 (CET)
::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] PS: l'idea di caricare edizioni multiple è buona anche lei, ma.... darei la precedenza alle centinaia di incompiute che attendono trascrittori o rilettori volenterosi. Fra le incompiute, segnalo in particolare quelle elencate in [[Progetto:Trascrizioni/Match and split]], e in particolare i due elenchi di libri in cui il M & S è completato. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:40, 5 nov 2024 (CET)
:::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] A dire il vero abbiamo già molte edizioni multiple già caricate e parzialmente trascritte o parzialmente rilette: due edizioni della Divina Commedia di Dante non commentate, edizioni doppie di quattro opere di Galileo (Le Meccaniche, Il Saggiatore, Le operazione del compasso geometrico e militare, Discorsi e dimostrazioni), ben tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis, ben tre edizioni delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, due edizioni dell'Aminta di Torquato Tasso, due edizioni sia dell'Orlando Furioso che delle Satire di Ariosto, due edizioni sia della Secchia Rapita che de L'Oceano di Alessandro Tassoni... Dunque di lavori da fare con il diff ce ne sarebbero pronti già adesso... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 08:58, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Hai provato offline con gli strumenti che hai citato? Ti segnalo anche che ogni anno c'è una "raccolta di proposte" per sottoporre qualsiasi progetto ai "piani alti". [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:48, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Ho provato con Diffchecker a confrontare le tre edizioni della "Storia della letteratura italiana" di De Sanctis. Riesce a trovare differenze minime: ad esempio tra la versione del 1890 e quella del 1912 cambiano accenti gravi al posto che acuti (perché, più, già e simili) uso di apostrofi (ne' al posto di nei), uso in più di virgole ("E, studiando in quella forma" invece di "E studiando in quella forma" ...) e anche maiuscole al posto di minuscole (nazione invece che Nazione). Il confronto tra la versione del 1912 e quella del 1962, quest'ultima ancora da trascrivere completamente, invece mostra quasi soltanto errori OCR (spaziature mancanti o in più, accenti mancanti o invertiti...). Dimmi pure dove posso sottoporre questa proposta di una utility diff ai "piani alti". [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:19, 5 nov 2024 (CET)
::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] [https://github.com/wikimedia/mediawiki-gadgets-ConvenientDiscussions/pulls Qui] una possibilità; ma ogni anno c'è un'iniziativa apposita, con votazione delle proposte, che al momento non trovo :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:32, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] Intendi dire questa iniziativa [https://meta.wikimedia.org/wiki/Community_Wishlist/it qui]? [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 10:40, 5 nov 2024 (CET)
::::::::::@[[Utente:Myron Aub|Myron Aub]] Sì. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:49, 5 nov 2024 (CET)
:::::::::::Ho appena scritto una richiesta in inglese. Sono stato breve e generico usando il titolo "Diff utility to compare texts of different editions of the same literary work" e la richiesta estesa "It would be very useful to have a diff utility within Wikisource that allows you to compare the texts of two different editions of the same scanned and OCR-edited literary work in order to find the differences and speed up the digitisation of the texts." Vediamo cosa diranno i "piani alti"... [[User:Myron Aub|Myron Aub]] ([[User talk:Myron Aub|disc.]]) 16:08, 5 nov 2024 (CET)
:::::eh anch'io preferisco dare la precedenza a opere non ancora "liberate", piuttosto che a versioni ulteriori.
:::::Una domanda dal link che hai messo sono risalito a questo
:::::https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Canestrini_-_Antropologia.djvu
:::::ma mi sembra incompleta?
:::::è ''solo'' da trascrivere o c'è da fare anche altre operazioni più complesse? [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 14:15, 5 nov 2024 (CET)
::::::@[[Utente:Accolturato|Accolturato]] Il Match&Split è stato effettuato, ma occorre passare pagina per pagina
::::::* ad aggiungere intestazione,
::::::*controllare i cambi di pagina
::::::**all'inizio per eventuali inizi di paragrafo,
::::::*inizio e fine per vedere se ci sono parole spezzate da sistemare;
::::::*i titoli di capitoli e paragrafi sono da formattare.
::::::Fatto questo resta la parte di correzione del testo che in teoria potremmo lasciare anche a un altro rilettore; ma almeno la verifica di accenti gravi/acuti o regolarità di punteggiatura può essere verificata velocemente; in caso di correzioni ricorrenti possono venire in aiuto gli automatismi delle [[Aiuto:MemoRegex|MemoRegex]] '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 17:17, 5 nov 2024 (CET)
:::::::@[[Utente:Accolturato|Accolturato]] Dopo aver fatto mente locale sul caso, mi sono ricordato di un particolare (che può essere verificato visualizzando la Discussione della pagina ns0 principale; è stata cancellata ma il contenuto viene riprodotto in u messaggio): l'edizione di cui è stato fatto il M & S era la seconda, mentre quella della pagina Indice è la terza, con aggiunte; e alcune risultano ancora "rosse", perchè il loro testo non esisteva nella seconda edizione. Per queste pagine occorre partire dall'OCR come se fosse un libro nuovo.
:::::::E' un rilettura abbastanza delicata, perchè le aggiunte sostanziose si vedono a colpo d'occhio, ma niente impedisce che ci siano correzioni o aggiunte limitate, più difficili da scovare.
:::::::Come al solito, in caso di dubbi o difficoltà particolari, il posto giusto per segnalarle è la pagina Discussioni indice, pingando qualche altro utente per richiamarne l'attenzione (io mi offro volontario, visto che eventuali pasticci di M & S sono opera mia) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 00:57, 6 nov 2024 (CET)
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Carlomorino
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proofread-page
text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="2" user="Carlomorino" /></noinclude>{{Ct|f=150%|t=3|v=1|L= |INDICE ALFABETICO}}
{{Ct|f=110%|t=1|v=1|L=3px |DEGLI ARTISTI ESPONENTI}}
{{Rule|4em|000|h=1px|t=1|v=3}}
<small>NB. — Il numero designa la pagina o le pagine ove sono indicate le opere.</small>
{{Colonna}}
<poem style=font-size:1em;text-align:left;>
{{Wl|Q259538|Abbey Edwin}} A. {{pg|226}}, {{pg|253}}, {{pg|322}}
Abe Shiumpo {{pg|215}}
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Adler Hans {{pg|64}}
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Aitken Robert I. {{pg|344}}, {{pg|345}}
Ajdukiewicz Zygmunt {{pg|119}}
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Alciati A. {{pg|113}}
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{{AltraColonna}}
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Alciati Antonio Ambrogio {{pg|24}}, {{pg|33}}
Alexander Edwin {{pg|239}}
Alexander Erbert {{pg|239}}
Alexander John W. {{pg|318}}, {{pg|321}}
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Allegri Oreste {{pg|277}}
Alien Charles J. {{pg|270}}
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Allom Thomas {{pg|262}}
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Alma-Tadema Anna {{pg|240}}
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Alvarez Sala Ventura {{pg|307}}
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Amiet Cuno {{pg|60}}
Amisani Giuseppe {{pg|27}}
Ancher Anna {{pg|49}}
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Andersen Hendrick Christian {{pg|11}}, {{pg|22}}, {{pg|347}}
Anderson Robert Rowand {{pg|263}}
Andrade y Blazquez Anvel {{pg|307}}
Andrae Elisabeth {{pg|185}}
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{{FineColonna}}<noinclude>{{PieDiPagina||377|}}</noinclude>
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Carlomorino
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="2" user="Carlomorino" />{{RigaIntestazione||INDICE|}}</noinclude>{{Colonna}}
<poem style=font-size:1em;text-align:left;>
Andreu Sentamans Teodoro {{pg|307}}
Andri Ferdinand {{pg|85}}, {{pg|125}}, {{pg|126}}, {{pg|137}}, {{pg|138}}, {{pg|139}}, {{pg|142}}, {{pg|144}}, {{pg|145}}
Angeli (von) Einrich {{pg|118}}, {{pg|119}}
Angheloff Ivan {{pg|72}}
Anglada y Camarasa Hermen {{pg|57}}
Angst Albert-Carl {{pg|11}}, {{pg|65}}
Anner Emil {{pg|60}}, {{pg|64}}
Anreiter (von) Alois {{pg|115}}
Anthone Julien-Alphonse {{pg|155}}
Aoyama Kumaji {{pg|216}}
Aoyama Suikó {{pg|216}}
Apol Armand {{pg|146}}
Apolloni Adolfo {{pg|30}}
Araki Kuampo {{pg|214}}
Arambasic Dragoljub {{pg|350}}
Archipow Abram {{pg|277}}
Argylì Princess Louise {{pg|239}}
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{{AltraColonna}}
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Bille Edmond {{pg|60}}
Billotte René {{pg|160}}
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Binz Hermann {{pg|186}}
Biondi Ernesto {{pg|31}}
Biong M. {{pg|88}}
Birch S. J. Lamorna {{pg|227}}, {{pg|240}}
Bisschop Christoffel {{pg|37}}
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Björck Oscar {{pg|101}}
Blanc Hippolyte J. {{pg|263}}
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Bleckmann W. C. C. {{Pg|42}}
Bleeker Bernhard {{Pg|186}}
Blieck Maurice {{Pg|146}}
Blomberg Sigrid {{Pg|110}}
Blomfield Reginald T. {{Pg|263}}
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Blos Carl {{Pg|189}}
Blum Robert {{Pg|337}}
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Board Ernest {{Pg|240}}
Bobrowski Nicolaï {{Pg|278}}
Bocci Augusta {{Pg|34}}
Bochechiampi Vincenzo {{Pg|74}}
Bochmann Gregor {{Pg|187}}, {{Pg|208}}
Bodart Henry {{Pg|152}}
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Boehme Karl {{Pg|187}}
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Boer (de) M. {{Pg|38}}
Bogaewski Konstantin {{Pg|278}}
Bogdanow Iwan {{Pg|278}}
Bogdanow-Bielskï Nicolaï {{Pg|278}}
Boggio Emile {{Pg|160}}
Boglione Marcello {{Pg|2}}Q
Bohrdt Hans {{Pg|187}}
Boldirew Nicolaï {{Pg|278}}
Bolens Ernest {{Pg|60}}
Bolingbroke Minna {{Pg|254}}
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Carlomorino
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Bolton Arthur T. {{Pg|263}}
Bompard Maurice {{Pg|160}}
Bonanos Giorgio {{Pg|22}}, {{Pg|76}}
Bonduelle Paul {{Pg|157}}
Bone Muirhead {{Pg|254}}
Bongers B. {{Pg|42}}
Bonington R. P. {{Pg|221}}
Bonivento Eugenio {{Pg|35}}
Bonnard Pierre {{Pg|160}}
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Boon Jan {{Pg|44}}, {{Pg|90}}
Bordes Ernest {{Pg|161}}
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Borglum Solon H. {{Pg|347}}
Borie Adolphe {{Pg|326}}
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Borthwick A. {{Pg|240}}
Borthwick A. F. {{Pg|254}}
Bortoluzzi Millo {{Pg|59}}
Boruth Andrea {{Pg|350}}
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Bosch E. {{Pg|44}}
Boscovits Fritz {{Pg|60}}
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Bosznay Stefano {{Pg|350}}
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Botkina Maria {{Pg|278}}
Botto G. {{Pg|78}}
Bouchard Henry {{Pg|179}}
Bouchor Joseph-Félix {{Pg|160}}
Bough Sam {{Pg|221}}, {{Pg|240}}
Bouisset Firmin {{Pg|175}}
Boulard Emile {{Pg|160}}
Bourgoin Eugène {{Pg|179}}
Bourgonnier M.me Claude {{Pg|160}}
Boutigny Emile {{Pg|160}}
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Bovio E. {{Pg|78}}
Bowcher Frank {{Pg|270}}, {{Pg|271}}
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{{AltraColonna}}
<poem style=font-size:1em;text-align:left;>
Boyce G. P. {{Pg|240}}
Boyer Otto {{Pg|187}}
Boyer Pierre {{Pg|160}}
Boyesen P. R. {{Pg|49}}
Boyle John J. {{Pg|246}}, {{Pg|348}}
Boznanska (von] Olga {{Pg|117}}
Brabazon H. B. {{Pg|240}}
Bracht Eugen {{Pg|187}}, {{Pg|208}}
Bracquemond Felix {{Pg|172}}
Bracquemond Pierre {{Pg|161}}
Bradley Susan H. {{Pg|330}}, {{Pg|331}}
Braecke Pierre {{Pg|155}}
Brailowskaya Rimma {{Pg|293}}
Braïlowski Lew {{Pg|279}}, {{Pg|297}}
Bramley Frank {{Pg|227}}
Brandard R. {{Pg|254}}
Brandis August {{Pg|187}}
Brandstrup L. {{Pg|55}}
Brangwyn Frank {{Pg|227}}, {{Pg|240}}, {{Pg|254}}
Brass Italico {{Pg|16}}, {{Pg|17}}
Braun Hermann {{Pg|187}}
Braunecker Ernestina {{Pg|350}}
Braz Josiph {{Pg|279}}
Breckinridge Hugh H. {{Pg|332}}
Breithut Peter {{Pg|121}}, {{Pg|122}}, {{Pg|123}}, {{Pg|129}}, {{Pg|131}}, {{Pg|132}}
Breitner G. H. {{Pg|37}}, {{Pg|42}}
Breman C0. {{Pg|38}}
Brender à Brandis G. A. {{Pg|43}}
Brenner Victor D. {{Pg|342}}
Bresciani Archimede {{Pg|59}}
Breslau Louise {{Pg|60}}
Brett J. {{Pg|221}}
Bretz Julius {{Pg|187}}
Brewer {{Pg|269}}
Breyer Robert {{Pg|187}}
Brickdale E. Fortescue {{Pg|240}}
Bridgwater H. Scott {{Pg|254}}
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Brinley D. Putnam {{Pg|322}}
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Brizzolura arch. {{Pg|91}}
Brock Charles F. {{Pg|154}}
Brock H. M. {{Pg|254}}
Brock Thomas {{Pg|271}}
Brocky Carlo {{Pg|350}}
Brodski Isaak {{Pg|279}}
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Brocksmit F. H. {{Pg|45}}
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Bromet Mrs. {{Pg|271}}
Brömse August {{Pg|136}}, {{Pg|138}}
Brooks Richard N. {{Pg|347}}, {{Pg|348}}
Broquelet Alfred {{Pg|172}}
Brough Robert {{Pg|221}}
Brown A. {{Pg|240}}
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Brown J. A. Arnesby {{Pg|227}}
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Bruck Massimiliano {{Pg|350}}
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Briitt Adolf {{Pg|187}}
Briitt Ferdinand {{Pg|187}}
Bryce D. {{Pg|264}}
Bryce J. {{Pg|264}}
Bryfogle John Winstanley {{Pg|3}}*9
Bucher Erwin {{Pg|66}}
Budkowski Antoni {{Pg|86}}
Budworth W. S. {{Pg|329}}
Bufano Benjamin {{Pg|345}}
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{{AltraColonna}}
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Bugatti Rembrandt {{Pg|19}}
Bühler Hans Adolf {{Pg|187}}
Buismans H. {{Pg|38}}
Bukholz Feodor {{Pg|278}}, {{Pg|279}}
Bunchiò {{Pg|219}}
Bundgaard Andr. J. {{Pg|55}}
Bundy Edgar {{Pg|227}}, {{Pg|241}}
Bunny R. W. {{Pg|227}}
Burger Fritz {{Pg|187}}
Bürgers Felix {{Pg|187}}
Burmeister Gabriel {{Pg|108}}
Burnand Eugène {{Pg|60}}
Burne-Jones Edward {{Pg|221}}, {{Pg|241}}, {{Pg|254}}
Burne-Jones Philip {{Pg|227}}
Burnet John James {{Pg|264}}
Burnham Roger Noble {{Pg|342}}, {{Pg|344}}
Burnier Richard {{Pg|209}}
Burns Robert {{Pg|227}}
Burri Max {{Pg|60}}
Burridge F. V. {{Pg|254}}
Burroughs Edith Woodman {{Pg|341}}, {{Pg|344}}, {{Pg|347}}
Burton W. {{Pg|227}}
Burzi Ettore {{Pg|32}}
Bush R. E. J. {{Pg|254}}
Bush-Brown Henry K. {{Pg|344}}
Bushom P. G. {{Pg|90}}
Busiri Carlo {{Pg|92}}
Busse Hans {{Pg|188}}
Cabanes {{Pg|161}}
Cacheux Armand {{Pg|61}}
Cadenhead James {{Pg|241}}
Cadorin Guido {{Pg|34}}, {{Pg|35}}, {{Pg|59}}
Cairati Gerolamo {{Pg|59}}, {{Pg|69}}
Calandra D. {{Pg|79}}
Calder A. Stirling {{Pg|341}}, {{Pg|342}}
Calderini Guglielmo {{Pg|79}}, {{Pg|94}}
Calderon W. Frank {{Pg|227}}
Calori Guido {{Pg|30}}
Caluwaers Jean {{Pg|157}}
Calvert Edward {{Pg|221}}
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Bufano Benjamin {{Pg|345}}
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{{AltraColonna}}
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Bugatti Rembrandt {{Pg|19}}
Bühler Hans Adolf {{Pg|187}}
Buismans H. {{Pg|38}}
Bukholz Feodor {{Pg|278}}, {{Pg|279}}
Bunchiò {{Pg|219}}
Bundgaard Andr. J. {{Pg|55}}
Bundy Edgar {{Pg|227}}, {{Pg|241}}
Bunny R. W. {{Pg|227}}
Burger Fritz {{Pg|187}}
Bürgers Felix {{Pg|187}}
Burmeister Gabriel {{Pg|108}}
Burnand Eugène {{Pg|60}}
Burne-Jones Edward {{Pg|221}}, {{Pg|241}}, {{Pg|254}}
Burne-Jones Philip {{Pg|227}}
Burnet John James {{Pg|264}}
Burnham Roger Noble {{Pg|342}}, {{Pg|344}}
Burnier Richard {{Pg|209}}
Burns Robert {{Pg|227}}
Burri Max {{Pg|60}}
Burridge F. V. {{Pg|254}}
Burroughs Edith Woodman {{Pg|341}}, {{Pg|344}}, {{Pg|347}}
Burton W. {{Pg|227}}
Burzi Ettore {{Pg|32}}
Bush R. E. J. {{Pg|254}}
Bush-Brown Henry K. {{Pg|344}}
Bushom P. G. {{Pg|90}}
Busiri Carlo {{Pg|92}}
Busse Hans {{Pg|188}}
Cabanes {{Pg|161}}
Cacheux Armand {{Pg|61}}
Cadenhead James {{Pg|241}}
Cadorin Guido {{Pg|34}}, {{Pg|35}}, {{Pg|59}}
Cairati Gerolamo {{Pg|59}}, {{Pg|69}}
Calandra D. {{Pg|79}}
Calder A. Stirling {{Pg|341}}, {{Pg|342}}
Calderini Guglielmo {{Pg|79}}, {{Pg|94}}
Calderon W. Frank {{Pg|227}}
Calori Guido {{Pg|30}}
Caluwaers Jean {{Pg|157}}
Calvert Edward {{Pg|221}}
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Cameron D. Y. {{Pg|227}}, {{Pg|241}}, {{Pg|254}}, {{Pg|266}}
Camoreyt Jacques {{Pg|161}}
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Campbell {{Pg|264}}
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Canale Victor {{Pg|182}}
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Canonica ing. {{Pg|79}}
Capitò Giuseppe {{Pg|93}}
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Capuz José {{Pg|315}}
Carcano Filippo {{Pg|18}}
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Carlandi Onorato {{Pg|19}}
Carlberg Hugo {{Pg|102}}
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Caròe W. D. {{Pg|264}}
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Caron Georges {{Pg|11}}, {{Pg|66}}
Carosi Giuseppe {{Pg|34}}
Carozzi Giuseppe {{Pg|16}}
Carpentier Evariste {{Pg|146}}
Carrèra Augustin {{Pg|161}}
Casadio Luigi {{Pg|30}}
Casas Abarca Agapito {{Pg|309}}
Cnsciaro Giuseppe {{Pg|23}}
Casella Ella {{Pg|271}}
Casella Nelia {{Pg|271}}
Casorati Felice {{Pg|14}}
Cassatt Mary {{Pg|317}}
Castegnaro Felice {{Pg|16}}
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Castello Eugène {{Pg|328}}
Castillo Lopez Eduardo {{Pg|309}}
Castro (de) Paul {{Pg|161}}
Cataldi Amleto {{Pg|30}}
Cauchois Henri {{Pg|161}}
Cauer Stanislaus {{Pg|188}}
Caviglieri Mario {{Pg|35}}
Cavagnari ing. {{Pg|79}}
Cavalieri Anita {{Pg|31}}
Cave Walter {{Pg|264}}
Cayron {{Pg|161}}
Cazin J. M. Michel {{Pg|179}}
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Cazzaniga Carlo {{Pg|16}}
Cellini Gaetano {{Pg|30}}
Celos Julien {{Pg|146}}
Chabas Sig.ra {{Pg|161}}
Cha-Fow-Ching {{Pg|80}}
Chahine Edgar {{Pg|10}}
Chaland-Barrier {{Pg|161}}
Chalmers G. P. {{Pg|221}}
Champeil Jean-Baptiste {{Pg|179}}
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Chandler Walter George {{Pg|336}}, {{Pg|337}}
Chang Emma {{Pg|80}}
Chanks Emilia {{Pg|279}}
Chanler Beatrice Ashley {{Pg|246}}
Chaplin Elisabetta {{Pg|70}}
Charle Gabriel {{Pg|157}}
Charlemagne Josiph {{Pg|279}}
Charles James {{Pg|221}}
Charpentier Alexandre {{Pg|183}}
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Chase William Merritt {{Pg|318}}, {{Pg|319}}, {{Pg|326}}
Chaussemiche Benjamin {{Pg|177}}
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Chelmonski Jozef {{Pg|117}}
Chemiakin Mikhail {{Pg|279}}
Cheng-Cheng {{Pg|80}}
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Cheng-Yi {{Pg|80}}
Chéret Jules {{Pg|173}}
Cherwoud Leonid {{Pg|296}}
Chevalier Ernest {{Pg|161}}
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Chiesa Pietro {{Pg|12}}, {{Pg|13}}, {{Pg|25}}
Chigot Eugène {{Pg|161}}
Chitarin Trajano {{Pg|12}}
Chòdensu {{Pg|218}}
Choku-an {{Pg|218}}
Chréien Sig.ra {{Pg|161}}
Christiansen P. S. {{Pg|49}}
Christophe Franz {{Pg|188}}
Ciambellani Albert {{Pg|146}}
Ciampi Alimondo {{Pg|31}}
Ciardi Beppe {{Pg|25}}
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Cifariello Filippo {{Pg|31}}
Cipolla Fabio {{Pg|113}}
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Ciusa Francesco {{Pg|31}}
Clarà José {{Pg|315}}
Clarenbach Max {{Pg|188}}
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Claudel Camille {{Pg|1}} {{Pg|80}}
Claudius Wilhelm {{Pg|188}}
Claus Emile {{Pg|146}}, {{Pg|152}}
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Clemens Benjamin {{Pg|271}}
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Clément G. F. {{Pg|49}}
Closson William Baxter {{Pg|332}}
Cluysenaer André {{Pg|146}}
Coert A. {{Pg|42}}
Coffin William A. {{Pg|324}}
Cohen Gosschalk J. {{Pg|45}}
Cole Timothy {{Pg|338}}
Coleman Charles Caryl {{Pg|325}}
Coleman Enrico {{Pg|20}}
Collamarini Edoardo {{Pg|91}}
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Collier hon. John {{Pg|228}}
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Collier Tom {{Pg|241}}
Collins Richard {{Pg|251}}
Collins W. {{Pg|221}}
Colombi Plinio {{Pg|64}}
Coltelli Elfriede {{Pg|71}}
Colton W. Robert {{Pg|271}}
Colucci Guido {{Pg|7}}
Colwell Elizabeth {{Pg|330}}
Comba Siglienza {{Pg|315}}
Comerre Léon {{Pg|162}}
Compton E. T. {{Pg|228}}
Comte (le) A. {{Pg|42}}
Conder Charles {{Pg|235}}
Conkling Mabel {{Pg|343}}
Constable John {{Pg|221}}
Contessa di Fiandra (S. A. R. la) {{Pg|152}}
Conz Walter {{Pg|168}}
Cooper Alexander {{Pg|251}}
Cooper Colin Campbell {{Pg|320}}, {{Pg|326}}, {{Pg|326}}, {{Pg|330}}
Cooper Emma Lampert {{Pg|331}}
Cooper Samuel {{Pg|251}}
Cope A. S. {{Pg|228}}
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Coppens Omer {{Pg|147}}, {{Pg|152}}
Coppier Charles {{Pg|173}}
Corbett Gail Sherman {{Pg|347}}
Corelli Augusto {{Pg|113}}
Corinth Lovis {{Pg|188}}
Corlette {{Pg|267}}
Cornell Grace {{Pg|327}}, {{Pg|328}}
Cornoyer Paul {{Pg|320}}
Coromaldi Umberto {{Pg|24}}
Corson Register Emmasita {{Pg|329}}
Cossmann Alfred {{Pg|139}}, {{Pg|140}}, {{Pg|142}}
Costa Gaetano {{Pg|95}}
Costantini Battista {{Pg|13}}
Costantini Virgilio {{Pg|25}}, {{Pg|33}}
Cosway Richard {{Pg|251}}
Cotman F. G. {{Pg|228}}, {{Pg|241}}
Cotman John Sell {{Pg|221}}
Cottet Charles {{Pg|162}}, {{Pg|173}}
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Coudray Lucien {{Pg|183}}
Coulin Arturo {{Pg|350}}
Courtens Alfred {{Pg|155}}
Courtens Frans {{Pg|147}}
Courtens Hermann {{Pg|147}}
Courtois Gustave {{Pg|132}}
Cousen J. {{Pg|255}}
Coutheillas Henri {{Pg|180}}
Coventry R. M. G. {{Pg|241}}
Cowper F. Cadogan {{Pg|228}}, {{Pg|241}}
Cox David {{Pg|222}}
Cox Louise {{Pg|324}}
Craft Percy R. {{Pg|241}}
Crahay Albert {{Pg|147}}
Craig Frank {{Pg|228}}, {{Pg|255}}
Crane Bruce {{Pg|326}}
Crane Lionel F. {{Pg|264}}
Crane Walter {{Pg|228}}, {{Pg|241}}, {{Pg|255}}
Crauk Adolphe {{Pg|173}}
Crawhall J. {{Pg|241}}
Crema Giambattista {{Pg|33}}, {{Pg|69}}
Creten Victor {{Pg|157}}
Crocket H. E. {{Pg|241}}
Crodel Paul l88
Crome John {{Pg|222}}
Crosby W. R. {{Pg|338}}
Crosse Lawrence {{Pg|251}}
Csillag Stefano {{Pg|362}}
Csók Stefano {{Pg|350}}
Cullen Hernan {{Pg|11}}, {{Pg|22}}
Cunz Martha {{Pg|61}}, {{Pg|62}}
Curran Charles C. {{Pg|322}}
Cushing Howard Gardinier {{Pg|317}}, {{Pg|320}}
Czajkowski Joseph {{Pg|86}}
Czajkowski Stanislaus {{Pg|116}}, {{Pg|137}}
Czeschka Cari O. {{Pg|124}}, {{Pg|125}}, {{Pg|139}}, {{Pg|142}}
Czjgàny Desiderio {{Pg|350}}
Dabadie Henri {{Pg|162}}
D’Achiardi Pietro {{Pg|8}}
Da Costa John {{Pg|228}}
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{{AltraColonna}}
<poem style=font-size:1em;text-align:left;line-height:1.5em;>
Dadd Frank {{Pg|228}}, {{Pg|242}}
Daffinger Moritz Micael {{Pg|114}}, {{Pg|114}}
Dagnac-Rivière {{Pg|162}}
Dagnan-Bouveret Pascal {{Pg|173}}
Dagnaux Albert {{Pg|162}}
Dahl-Jensen I. P. {{Pg|55}}
Daingerfield Helliott {{Pg|324}}
Dake C. L. {{Pg|39}}, {{Pg|45}}
Dal Bò Romolo {{Pg|31}}
Dalbono Edoardo {{Pg|23}}, {{Pg|33}}
Dallemagne Airnè {{Pg|173}}
Dallèves Raphie {{Pg|61}}
Dallin Cyrus E. {{Pg|345}}
Dal Molin-Ferenzona Raul {{Pg|9}}
Damberger Josef {{Pg|188}}
Dambeza Léon {{Pg|162}}
Damkó Giuseppe {{Pg|362}}
Dammeler Rudolf {{Pg|188}}
D’Amore Benedetto {{Pg|29}}
Dampt Jean {{Pg|180}}
Dang-Kio-Seng {{Pg|80}}
Danieli Francesco {{Pg|14}}
Danis Robert {{Pg|177}}
Dankmeyer C. {{Pg|39}}
Dannat William T. {{Pg|326}}
Danse Auguste {{Pg|152}}
Danse Louise {{Pg|153}}
D’Antino Nicola {{Pg|15}}
Dantzig (van) R. M. {{Pg|47}}
Darnaut Hugo {{Pg|118}}
Dasio Ludwig {{Pg|188}}
Dauchez André {{Pg|162}}, {{Pg|173}}
Dautel Pierre {{Pg|183}}
Davies Arthur B. {{Pg|322}}
Davies Edward {{Pg|252}}
Davis Charles H. {{Pg|319}}
Davis H. W. B. {{Pg|228}}
Dawber E. Guy {{Pg|264}}
Dawson George Walter {{Pg|325}}, {{Pg|333}}
Deàk-Ebner Lodovico {{Pg|351}}
De Basel K. {{Pg|90}}
Debat-Ponsan Edouard {{Pg|162}}
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="2" user="Carlomorino" />{{RigaIntestazione||INDICE|}}</noinclude>{{Colonna}}
<poem style=font-size:1em;text-align:left;line-height:1.5em;>
De Benedetti Michele {{Pg|29}}
Deberitz Per {{Pg|96}}
Debillemont-Chardon M.me Gabrielle {{Pg|162}}
De Bremaecker Eugène-Jean {{Pg|155}}
De Brichy Charles {{Pg|155}}
De Bruycker Jules {{Pg|153}}
De Camp Joseph {{Pg|317}}
Déchin Jules {{Pg|180}}
Deckers Edwart {{Pg|155}}
Decóte Georges {{Pg|162}}
Defregger Franz {{Pg|188}}, {{Pg|209}}
De Gouve de Nuncques {{Pg|147}}
Deininger Wunibald {{Pg|85}}
De la Bere S. Baghot {{Pg|242}}
Delachaux Léon {{Pg|162}}
Delachaux Theodore {{Pg|91}}
De Lalaing conte Jacques {{Pg|147}}, {{Pg|155}}
Delaunois Alfred {{Pg|147}}, {{Pg|151}}, {{Pg|153}}
Del Bufalo ing. {{Pg|79}}
Della Vos Cardowskaia Olga {{Pg|279}}
Delpech Jean {{Pg|183}}
Delstanches Albert {{Pg|153}}
Delug Alois {{Pg|127}}
Delville Jean {{Pg|147}}, {{Pg|153}}
De Meyer Jan {{Pg|90}}
Deming Edwin Willard {{Pg|341}},
Denis Maurice {{Pg|162}}
Denua Leontï {{Pg|297}}
De Quiros Cesareo {{Pg|69}}, {{Pg|70}}
Derkzen van Angeren A. {{Pg|43}}
Derré Emil {{Pg|180}}
Déry Béla {{Pg|351}}
De Saedeleer Valerius {{Pg|147}}
Desch Théodore {{Pg|162}}
Deschamps Leon {{Pg|183}}
Des Granges David {{Pg|251}}
De Sloovere Georges {{Pg|147}}
Desmaré Mathieu {{Pg|155}}
Despiau Charles {{Pg|180}}
Dessar Louis Paul {{Pg|318}}
</poem>
{{AltraColonna}}
<poem style=font-size:1em;text-align:left;line-height:1.5em;>
Destrée-Danse Marie {{Pg|153}}
Desvallières Georges {{Pg|162}}
Desvignes Louis {{Pg|183}}
Detaille Edouard {{Pg|162}}
Dété Eugène {{Pg|173}}
Dethomas Maxime {{Pg|163}}
Dettmann Ludwig {{Pg|188}}
De Valériola Edmond {{Pg|155}}
Devambez André {{Pg|163}}
De Vestel Franz {{Pg|157}}
Devreese Godefroid {{Pg|155}}
Dewhurst Wynford {{Pg|228}}
Dewin J. B. {{Pg|157}}
Dewing Thomas W. {{Pg|318}}
De Witte Adrien {{Pg|153}}
Dézarrois Antoine {{Pg|173}}
Déziré Henry {{Pg|163}}
D’Haveloose Marnix {{Pg|155}}
Dhuicque Eugène {{Pg|157}}, {{Pg|158}}
Diamantini Giorgio {{Pg|70}}
Dickinson William {{Pg|255}}
Dicksee Frank {{Pg|228}}
Dicksee Herbert {{Pg|255}}
Dierckx P. J. {{Pg|147}}
Dierickx Omer {{Pg|147}}
Diez Robert {{Pg|188}}, {{Pg|209}}
Diez Wilhelm {{Pg|209}}
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Dillon Maria {{Pg|296}}
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Dinet Alphonse-Etienne {{Pg|173}}
Dinet Etienne {{Pg|163}}
Dircks Andreas {{Pg|189}}
Diriks Edward {{Pg|96}}
Discovolo Antonio {{Pg|33}}
Dmitrien Alexandr {{Pg|297}}
Doboujinski Mstislaw {{Pg|279}}
Dobrjinski Victor {{Pg|279}}
Docharty James {{Pg|222}}
Dodd Francis {{Pg|228}}, {{Pg|255}}
Dods-Withers Isobelle A. {{Pg|228}}
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Alex brollo
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/* Note sulla formattazione */
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text/x-wiki
== Edizione 1569 ==
@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Si sceglie l'ed. 1569 (stesso editore) perchè l'ed. 1563, IA, manca del frontespizio. Parecchie scansioni duplicate delle pagine sono state eliminate.
La prima pagina di ogni libro contiene un numero variabile di stanze (1, 5, 6...); le pagine seguenti ne contengono 10. Le stanze non sono numerate. Nell'indice delle materie viene indicato solo il foglio, senza specificare il v-r. Le annotazioni sono collocate immediatamente dopo la fine di ciascun libro. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:02, 23 lug 2024 (CEST)
:Ottimo. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 16:59, 23 lug 2024 (CEST)
== memoRegex ==
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== Note sulla formattazione ==
La formattazione si appoggia, per vari aspetti, alla pagina styles.css della pagina Indice. Vedi commenti associati alle righe di codice css.
* Il css prevede il corsivo per tutti i versi, tranne:
** i capilettera (temporaneamente non riprodotti con le immagini originali);
** rare parole in retto-maiuscoletto all'interno dei versi; lo stile retto si ottiene con il codice <code><nowiki>'' .....''</nowiki></code>
* anche l'elemento centrale di RigaIntestazione è formattato via css.
* Le A e O singole ad inizio verso non sono mai accentate. All'interno dei versi, la a singola è accentata in maniera incostante (va posta parecchia attenzione; nella prima rilettura tutte le a singole sono trascritte con l'accento).
[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 22:14, 4 nov 2024 (CET)
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Alex brollo
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/* Note sulla formattazione */ Risposta
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text/x-wiki
== Edizione 1569 ==
@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Si sceglie l'ed. 1569 (stesso editore) perchè l'ed. 1563, IA, manca del frontespizio. Parecchie scansioni duplicate delle pagine sono state eliminate.
La prima pagina di ogni libro contiene un numero variabile di stanze (1, 5, 6...); le pagine seguenti ne contengono 10. Le stanze non sono numerate. Nell'indice delle materie viene indicato solo il foglio, senza specificare il v-r. Le annotazioni sono collocate immediatamente dopo la fine di ciascun libro. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:02, 23 lug 2024 (CEST)
:Ottimo. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 16:59, 23 lug 2024 (CEST)
== memoRegex ==
<nowiki>{"\\n+</poem>":["(regex)","\n\n\n</poem>","g"],
"\\nÀ":["(regex)","\nA","g"],
" À":["(regex)"," A","g"],
"^n ":["(regex)","<noinclude><div class=note></noinclude>","gm"]}</nowiki>
== Note sulla formattazione ==
La formattazione si appoggia, per vari aspetti, alla pagina styles.css della pagina Indice. Vedi commenti associati alle righe di codice css.
* Il css prevede il corsivo per tutti i versi, tranne:
** i capilettera (temporaneamente non riprodotti con le immagini originali);
** rare parole in retto-maiuscoletto all'interno dei versi; lo stile retto si ottiene con il codice <code><nowiki>'' .....''</nowiki></code>
* anche l'elemento centrale di RigaIntestazione è formattato via css.
* Le A e O singole ad inizio verso non sono mai accentate. All'interno dei versi, la a singola è accentata in maniera incostante (va posta parecchia attenzione; nella prima rilettura tutte le a singole sono trascritte con l'accento).
[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 22:14, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Non sono riuscito a trovare alcuna regola che chiarisca l'alternanza a/à; tuttavia la prima forma prevale. "Normalizzerei" convertendo tutte le <code> à </code in <code> a </code>. Sei d'accordo? Più di così, in automatico, non si può fare. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:51, 6 nov 2024 (CET)
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Alex brollo
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/* Note sulla formattazione */
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text/x-wiki
== Edizione 1569 ==
@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Si sceglie l'ed. 1569 (stesso editore) perchè l'ed. 1563, IA, manca del frontespizio. Parecchie scansioni duplicate delle pagine sono state eliminate.
La prima pagina di ogni libro contiene un numero variabile di stanze (1, 5, 6...); le pagine seguenti ne contengono 10. Le stanze non sono numerate. Nell'indice delle materie viene indicato solo il foglio, senza specificare il v-r. Le annotazioni sono collocate immediatamente dopo la fine di ciascun libro. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:02, 23 lug 2024 (CEST)
:Ottimo. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 16:59, 23 lug 2024 (CEST)
== memoRegex ==
<nowiki>{"\\n+</poem>":["(regex)","\n\n\n</poem>","g"],
"\\nÀ":["(regex)","\nA","g"],
" À":["(regex)"," A","g"],
"^n ":["(regex)","<noinclude><div class=note></noinclude>","gm"]}</nowiki>
== Note sulla formattazione ==
La formattazione si appoggia, per vari aspetti, alla pagina styles.css della pagina Indice. Vedi commenti associati alle righe di codice css.
* Il css prevede il corsivo per tutti i versi, tranne:
** i capilettera (temporaneamente non riprodotti con le immagini originali);
** rare parole in retto-maiuscoletto all'interno dei versi; lo stile retto si ottiene con il codice <code><nowiki>'' .....''</nowiki></code>
* anche l'elemento centrale di RigaIntestazione è formattato via css.
* Le A e O singole ad inizio verso non sono mai accentate. All'interno dei versi, la a singola è accentata in maniera incostante (va posta parecchia attenzione; nella prima rilettura tutte le a singole sono trascritte con l'accento).
* Più e così non sono mai accentate; la forma originale viene conservata.
[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 22:14, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Non sono riuscito a trovare alcuna regola che chiarisca l'alternanza a/à; tuttavia la prima forma prevale. "Normalizzerei" convertendo tutte le <code> à </code in <code> a </code>. Sei d'accordo? Più di così, in automatico, non si può fare. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:51, 6 nov 2024 (CET)
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Alex brollo
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/* Note sulla formattazione */
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== Edizione 1569 ==
@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Si sceglie l'ed. 1569 (stesso editore) perchè l'ed. 1563, IA, manca del frontespizio. Parecchie scansioni duplicate delle pagine sono state eliminate.
La prima pagina di ogni libro contiene un numero variabile di stanze (1, 5, 6...); le pagine seguenti ne contengono 10. Le stanze non sono numerate. Nell'indice delle materie viene indicato solo il foglio, senza specificare il v-r. Le annotazioni sono collocate immediatamente dopo la fine di ciascun libro. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:02, 23 lug 2024 (CEST)
:Ottimo. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 16:59, 23 lug 2024 (CEST)
== memoRegex ==
<nowiki>{"\\n+</poem>":["(regex)","\n\n\n</poem>","g"],
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" À":["(regex)"," A","g"],
"^n ":["(regex)","<noinclude><div class=note></noinclude>","gm"]}</nowiki>
== Note sulla formattazione ==
La formattazione si appoggia, per vari aspetti, alla pagina styles.css della pagina Indice. Vedi commenti associati alle righe di codice css.
* Il css prevede il corsivo per tutti i versi, tranne:
** i capilettera (temporaneamente non riprodotti con le immagini originali);
** rare parole in retto-maiuscoletto all'interno dei versi; lo stile retto si ottiene con il codice <code><nowiki>'' .....''</nowiki></code>
* anche l'elemento centrale di RigaIntestazione è formattato via css.
* Le A e O singole ad inizio verso non sono mai accentate. All'interno dei versi, la a singola è accentata in maniera incostante (va posta parecchia attenzione; nella prima rilettura tutte le a singole sono trascritte con l'accento).
* Più e così non sono mai accentate; la forma originale viene conservata.
[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 22:14, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Non sono riuscito a trovare alcuna regola che chiarisca l'alternanza a/à; tuttavia la seconda forma prevale. "Normalizzerei" convertendo tutte le <code> a </code in <code> à </code>. Sei d'accordo? Più di così, in automatico, non si può fare. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:51, 6 nov 2024 (CET)
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== Edizione 1569 ==
@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Si sceglie l'ed. 1569 (stesso editore) perchè l'ed. 1563, IA, manca del frontespizio. Parecchie scansioni duplicate delle pagine sono state eliminate.
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== memoRegex ==
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" À":["(regex)"," A","g"],
"^n ":["(regex)","<noinclude><div class=note></noinclude>","gm"]}</nowiki>
== Note sulla formattazione ==
La formattazione si appoggia, per vari aspetti, alla pagina styles.css della pagina Indice. Vedi commenti associati alle righe di codice css.
* Il css prevede il corsivo per tutti i versi, tranne:
** i capilettera (temporaneamente non riprodotti con le immagini originali);
** rare parole in retto-maiuscoletto all'interno dei versi; lo stile retto si ottiene con il codice <code><nowiki>'' .....''</nowiki></code>
* anche l'elemento centrale di RigaIntestazione è formattato via css.
* Le A e O singole ad inizio verso non sono mai accentate. All'interno dei versi, la a singola è accentata in maniera incostante (va posta parecchia attenzione; nella prima rilettura tutte le a singole sono trascritte con l'accento).
* Più e così non sono mai accentate; la forma originale viene conservata.
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:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Non sono riuscito a trovare alcuna regola che chiarisca l'alternanza a/à; tuttavia la seconda forma prevale. "Normalizzerei" convertendo tutte le <code> a </code> in <code> à </code>. Sei d'accordo? Più di così, in automatico, non si può fare. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:51, 6 nov 2024 (CET)
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== Note sulla formattazione ==
La formattazione si appoggia, per vari aspetti, alla pagina styles.css della pagina Indice. Vedi commenti associati alle righe di codice css.
* Il css prevede il corsivo per tutti i versi, tranne:
** i capilettera (temporaneamente non riprodotti con le immagini originali);
** rare parole in retto-maiuscoletto all'interno dei versi; lo stile retto si ottiene con il codice <code><nowiki>'' .....''</nowiki></code>
* anche l'elemento centrale di RigaIntestazione è formattato via css.
* Le A e O singole ad inizio verso non sono mai accentate. All'interno dei versi, la a singola è accentata in maniera incostante (va posta parecchia attenzione; nella prima rilettura tutte le a singole sono trascritte con l'accento).
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"^n ":["(regex)","<noinclude><div class=note></noinclude>","gm"]}</nowiki>
== Note sulla formattazione ==
La formattazione si appoggia, per vari aspetti, alla pagina styles.css della pagina Indice. Vedi commenti associati alle righe di codice css.
* Il css prevede il corsivo per tutti i versi, tranne:
** i capilettera (temporaneamente non riprodotti con le immagini originali);
** rare parole in retto-maiuscoletto all'interno dei versi; lo stile retto si ottiene con il codice <code><nowiki>'' .....''</nowiki></code>
* anche l'elemento centrale di RigaIntestazione è formattato via css.
* Le A e O singole ad inizio verso non sono mai accentate. All'interno dei versi, la a singola è accentata in maniera incostante (va posta parecchia attenzione; nella prima rilettura tutte le a singole sono trascritte con l'accento).
* Più e così non sono mai accentate; la forma originale viene conservata. Anche gli altri accenti discordanti con l'ortografia moderna vanno conservati.
[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 22:14, 4 nov 2024 (CET)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Non sono riuscito a trovare alcuna regola che chiarisca l'alternanza a/à isolate; tuttavia la seconda forma prevale. "Normalizzerei" convertendo tutte le <code> a </code> in <code> à </code> (oppure il contrario, ignorando la frequenza che comunque ho valutato a naso), via bot. Sei d'accordo? Più di così, in automatico, non si può fare. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:51, 6 nov 2024 (CET)
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La prima pagina di ogni libro contiene un numero variabile di stanze (1, 5, 6...); le pagine seguenti ne contengono 10. Le stanze non sono numerate. Nell'indice delle materie viene indicato solo il foglio, senza specificare il v-r. Le annotazioni sono collocate immediatamente dopo la fine di ciascun libro. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:02, 23 lug 2024 (CEST)
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== Note sulla formattazione ==
La formattazione si appoggia, per vari aspetti, alla pagina styles.css della pagina Indice. Vedi commenti associati alle righe di codice css.
* Il css prevede il corsivo per tutti i versi, tranne:
** i capilettera (temporaneamente non riprodotti con le immagini originali);
** rare parole in retto-maiuscoletto all'interno dei versi; lo stile retto si ottiene con il codice <code><nowiki>'' .....''</nowiki></code>
* anche l'elemento centrale di RigaIntestazione è formattato via css.
* Le A e O singole ad inizio verso non sono mai accentate. All'interno dei versi, la a singola è accentata in maniera incostante (va posta parecchia attenzione; nella prima rilettura tutte le a singole sono trascritte con l'accento).
* Più e così non sono mai accentate; la forma originale viene conservata. Anche gli altri accenti discordanti con l'ortografia moderna vanno conservati.
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione}}</noinclude>
{{Ct|f=120%|v=1|t=2|L=8px|LIBRO QUINTO}}
{{FI
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}}
<poem>
{{capolettera|M}}entre à più degni Heroi de l’Ethiopia
L’illustre cavalier Greco ragiona;
Un gran romor d’huomini, e gridi in copia
Sorge ne l’aere, et ogni orecchia introna.
Tanto che lascia ogn’un la sede propia,
E pronta à l’armi acconcia la persona,
Che non è suon di dolci voci, ò carmi
Per rallegrar; ma d’alti gridi, e d’armi.
La regia sala è lunga, e larga tanto,
Ch’à gran pena maggior far si potria:
E ’l Re, che Perseo, il qual gli tolse il pianto,
Volle honorar d’ogni alta cortesia,
V’havea invitato il regno tutto quanto,
E v’era il fior de la sua Monarchia.
Tal, che la sala anchor confusa, e varia,
Empie di doppio suon l’orecchia, e l’aria.
Come talhor, se ’l mar si gode in pace
L’ampio suo letto placido, e contento,
E mentre tutto humil senz’onda giace,
Freme ne l’aria un tempestoso vento,
L’onda alza, e rompe, e mormorar la face,
Tanto, ch’assorda il ciel doppio lamento:
Cosi il lieto convito al novo insulto
Multiplicò tumulto con tumulto.
Fineo fratel di Cefeo era l’autore
Del romor, che promesso il Re gli havea
D’Andromeda il connubio, e co’l favore
Quasi di tutto il Regno hor la volea.
E quei, ch’eran più degni, e di più core
Nel palazzo Real condotti havea,
Da picche in fuor, con arme d’ogni sorte,
Proprie per quella sala, e quella corte.
Gli Ethiopi tutti havean non poco à sdegno,
Anchor che fosse il Greco un gran guerriero,
Che la figlia del Re con tutto il regno
S’havesse à dare in preda à un forestiero.
Però il fratel del Re fece disegno
(Seco havendo il favor del popol nero)
D’uccider Perseo, e torsi ogni sospetto,
Pria, che ’l facesse sposo ella nel letto.
</poem><noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|51}}</noinclude><poem>
Ben è del maggior lume orbo, e insensato
Chi regger non si sà ne la grandezza,
Che per haver ne gli altri imperio, e stato,
Ogn’un li viene à noia, ogn’un disprezza,
Ch’ei vien da tutti al fin tanto odiato,
Ch’ogn’un cerca fuggirlo, alcun nol prezza.
Ei, che si vede abbandonato allhora,
Chi pria schernì, con sua vergogna honora.
Tutto disser saper come passasse
Quel fatto l’altre à la maggior sorella.
Et anchor, che ciascuna l’approvasse
Per una elettion morale, e bella:
Non di men la pregar, che ne contasse
Un’altra al tutto incognita novella,
Che sà, ch’al genio human par, che più giove
Pascer l’alma, e ’l desio di cose nove.
Parve, ch’Alcitoe s’arrossisse alquanto,
Ó che vergogna la prendesse almeno,
Non ritrovando historia dal suo canto,
Ch’à le sorelle dilettasse à pieno.
Si stà tacita un poco, e pensa in tanto,
E dopo allenta à la sua lingua il freno,
E dir propon del Gelso in prima essangue,
Che si fe dentro, e fuor tutto di sangue.
Girò le luci, e pose à l’altre mente,
E al mover de la fronte, e de le ciglia,
Conobbe, che la favola presente
Sarebbe grata à tutta la famiglia.
E rivocando ogni minutia à mente
A questa col pensier tutta s’appiglia,
Questa per fine al suo parlar prefisse,
E tacque tutte l’altre, e questa disse.
Ragiona, e intanto industriosa, e presta
Toglie la forma al lin, che in fil risorge.
È ver, ch’alquanto il suo parlare arresta,
Mentre l’humido al fil la lingua porge:
E tanto lin la man sinistra appresta,
Quanto chiederne à lei la destra scorge;
L’una il toglie à la canna, ond’ha il sostegno,
E l’altra in filo il volge, e dallo al legno.
Come da l’una man l’altra si toglie,
Girar fa il fuso, e và più che può lunge,
Quel nodo, ch’è cagion, da lui poi scioglie,
Che mai la terra non percote, ò punge.
E dopo intorno al fuso il fil raccoglie,
Tanto, ch’à l’altra man si ricongiunge,
Dove con novo nodo il fil l’afferra,
Perch’al novo girar non cada in terra.
Mentre sì dotta la maggior sirocchia
Rende à la Dea l’intempestivo offitio,
E veste il fuso, e spoglia la conocchia,
E l’altre invoglia à sì degno essercitio;
Et hor le serve, hor le sorelle adocchia,
Che del diletto lor vuol qualche inditio,
Un dir, che in dolce suon l’aria percote,
Ciba l’orecchie lor di queste note.
Ne la città magnanima, che cinse
Colei, ch’oltre al valor tanto hebbe ingegno,
Che morto il suo marito il sesso finse,
E come suo figliuolo ottenne il regno,
Due nobili alme un forte nodo avinse
D’amor sì caro, e precioso pegno,
Che ’l Sole ovunque il mondo alluma, e vede,
Non vide tal beltà, ne tanta fede.
Piramo l’un dì questa coppia bella,
E l’altra il nome Tisbe havea sortito.
L’un tenero garzon, l’altra donzella,
Egli idoneo à la sposa, ella al marito.
Lor case eran congiunte, e questa, e quella
Commune un muro havean, ch’era sdruscito:
E ver, che ’l fesso in parte era riposto,
Ch’à tutti gli occhi anchora era nascosto.
Fra i più lodati giovani del mondo,
Non fu allhor nel più accorto, ne ’l più bello,
Ne di parlar più dolce, e più facondo,
Ne ch’invitasse più gli occhi à vedello.
Il volto grato, angelico, e giocondo
Non dava indicio anchor del primo vello,
Ne saprei dir chi s’havesse più parte
Nel grato viso suo Venere, ò Marte.
</poem><noinclude></noinclude>
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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/114
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Alex brollo
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Marte tanto v’havea, quanto il facea
Virile, e vigoroso ne l’aspetto:
Le gratie havea da la Ciprigna Dea,
Che danno à gli occhi altrui maggior diletto;
Tanto, ch’ogni mortal, come il vedea,
Dicea non si trovar più grato obbietto;
E le donne il voleano tutte quante
Chi per consorte haver, chi per amante.
E s’ei tutti eccedea di quella etade
I giovani di gratia, e di bellezza,
Tisbe havea sì dolce aere, e tal beltade,
Tal virtù, tal valor, tal gentilezza,
Che le donne, che allhora eran più rade,
Passo d’ogni beltà, d’ogni vaghezza;
Et ogni huom’ogni etate, e d’ogni sorte
La volea per amante, ò per consorte.
Ma quei che da principio erano usati
Vedersi spesso insieme, e trastullarsi,
(Però che soglion quei d’un tempo nati
Per la medesma età molto confarsi)
S’erano ogni di più talmente amati,
Che non poteano ad altro amor voltarsi;
E facean poca stima ambi di mille
Ch’ardean de l’amorose lor faville.
Era l’amor cresciuto à poco à poco,
Secondo erano in lor cresciuti gli anni;
E dove prima era trastullo, e gioco,
Scherzi, corrucci, e fanciulleschi inganni,
Quando fur giunti à quella età di foco
Dove comincian gli amorosi affanni,
Che l’alma nostra ha sì leggiadro il manto,
E che la donna, e l’huom s’amano tanto;
Era tanto l’amor, tanto il desire,
Tanta la fiamma, onde ciascun ardea,
Che l’uno, e l’altro si vedea morire,
Se pietoso Himeneo non gli giungea;
E tanto era maggior d’ambi il martire,
Quanto il voler de l’un l’altro scorgea:
Ben ambo de le nozze eran contenti,
Ma no’l soffriro i loro empi parenti.
Era fra i padri lor pochi anni avanti
Nata una troppo cruda inimicitia;
E quanto amore, e fè s’hebber gli amanti,
Tanto regnò ne’ padri odio, e malitia.
Gli huomini de la terra più prestanti
Tentar pur di ridurgli in amicitia,
E vi s’affaticar più volte assai,
Ma non vi sepper via ritrovar mai.
Quei padri, che fra lor fur si infedeli,
Vetaro à la fanciulla, e al giovinetto,
A due sì belli amanti, e si fedeli,
Che non dier luogo al desiato affetto
Ahi padri irragionevoli, e crudeli,
Perche togliete lor tanto diletto,
S’ogn’un di loro il suo desio corregge
Con la terrena, e la celeste legge?
Ó sfortunati padri, ove tendete,
Qual ve gli fa destin tener disgiunti?
Perche vetate quel, che non potete?
Che gli animi saran sempre congiunti?
Ahi che sarà di voi, se gli vedrete
Per lo vostro rigor restar defunti?
Ahi che co i vostri non sani consigli
Procurate la morte à i vostri figli.
Vivea dunque secreto il lor amore:
I cenni, i dolci sguardi solamente
Assicuravan l’uno, e l’altro core,
Di quanto fosse l’un de l’altro ardente.
Ahi che non trova, e non discopre amore?
A che non apre l’occhio, e non pon mente?
Havea il muro comun quel pelo aperto,
Ch’io dissi, e anchor nessun l’havea scoperto.
Voi prima accorti amanti discopriste
Il vitio, e ’l pel ch’à la parete noce;
Là, dove cauti poi la strada apriste
A i dolci sguardi, à la pietosa voce:
Dove le vostre lagrime fur viste,
Cui stilla il chiuso foco che vi coce:
Dove, perche troppo arde un chiuso foco,
Trovaste strada, onde essalasse un poco.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|52}}</noinclude><poem>
Là dove il parlar dolce, e pien d’affetto
Scoprì tutti i martir, tutte le voglie
De l’uno, e l’altro innamorato petto,
Ch’era di diventar marito, e moglie:
Si disse ivi de’ padri ’l gran dispetto,
Che ’l vostro dolce amor colmò di doglie;
Li vi sfogaste, e vi godeste alquanto,
E vi fu mille volte hor riso, hor pianto.
In prima giunta l’una, e l’alta vista
Lo splendor che desia, e contempla, e gode;
Gioia infinita poi l’orecchia acquista
Del soave parlar, ch’ascolta, et ode:
Ma poi la mente quel pensiero attrista,
E tutta dentro la conturba, e rode,
Che lor rammenta il ben vetato, e tolto
E fa, ch’ad ambi ’l pianto irrighi ’l volto.
La donna, più veloce nel pensiero,
Più tenera di cor primiera piange;
L’huom, se bene è più forte, e più severo,
Vedendo pianger lei, l’alma trista ange:
Ella, che ’l vorria lieto, apre il sentiero
Al gaudio, e con bel modo il dolor frange;
Ride, e l’allegra; e in questo, e ’n quello aviso
La donna è prima al pianto, e prima al riso.
Con un bel modo à lui ritorna à mente
Qualche bell’atto, ch’ei già fece, e ride
Che ’l fe in presentia d’infinita gente,
E così ben, che alcun non se n’avide:
Ei che quel vago riso vede, e sente,
Che di dolcezza l’alma gli divide,
S’allegra, ride, e gode, e le rammenta
Qualche cosa di lei, che la contenta.
I cupidi occhi stan fermi, et intensi
Ne la beltà de l’uno, e l’altro amante:
Ascolta, e gode quel fra gli altri sensi,
Che scorge al cor l’alte parole sante.
A più bramato ben da lor non viensi,
Che ’l muro vieta lor, c’hanno davante;
E benche sodo il ritrovaro, e duro,
Più volte, et ella, et ei dissero al muro.
Poi che tu doni al dolce sguardo il passo,
Che goder possa il suo divin obbietto,
Et al parlar, che facciam cheto, e basso,
Dai via, che scoprir possa il nostro affetto;
Perche ci vieti invidioso sasso,
Che congiungiamo l’uno, e l’altro petto?
Se questo è troppo, che non ci compiaci,
Che ci godiamo almen de i dolci baci?
Non ti siam però ingrati, anzi tenuti,
Che scopri à gli occhi il volto, ove si specchia,
Concedi à i detti affettuosi, e muti
Che possan contentar l’amica orecchia:
Deh, perche anchora in questo non ci aiuti?
Rinova questa tua fessura vecchia:
E perche la tua gratia sia più larga,
Questa antica fenestra alquanto allarga.
Deh, perche non ti movi à nostri preghi?
Che non t’allarghi homai, che non ci aiti?
E quando innanzi à noi di farlo nieghi
Deh fallo almen quando sarem partiti.
Deh perche no’l prometti? e non ti pieghi
A nostri insino à qui vani appetiti?
Il muro no’l promette, e manco il niega;
Ne fuor de l’uso suo s’allarga, ò piega.
Tornan più volte al grato loco il giorno,
Quando senza sospetto il posson fare,
E che non hanno alcun di casa intorno,
Che ciò possa veder ne rapportare:
Poi, quando fatto v’han tanto soggiorno,
Che temon non alcun gli habbia à trovare,
Baciando il muro ogn’un da la sua parte,
Dice. Dio ci contenti; e poi si parte.
Il bacio sol co’l desiderio arriva,
E sol gode di lor l’invida pietra;
Che quei miseri giovani ne priva,
E per se se gli succia, e se l’impetra.
La donna ne l’amor più calda, e viva,
Da poi, che s’è partita anchor s’arretra;
Richiama lui che torni, e vuol, ch’ascolte
Quel, che gli ha detto mille, e mille volte.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
L’innamorata figlia tanto l’ama,
Ha sì il pensiero in lui fermo, et intento,
Che non solo una volta il prega, e ’l chiama,
Ma talhor quattro, e cinque in un momento,
E poi quel, che da lui ricerca, e brama,
E quel, c’ha detto cento volte, e cento,
E mentre furo al loco à lor sì grato,
Non havean quasi mai d’altro parlato.
Partonsi e questi, e quella, e ’l luogo aperto
Ricopron pria con le medesme cose,
Che pria, ch’à gli occhi lor fosse scoperto,
Tenner quelle fessure à tutti ascose.
Ritornan poi, che ’l tempo è lor offerto,
E se le vesti e oscure, e tenebrose.
Non si ripon la notte, e l’agio n’hanno,
Ne la donna, ne l’huom non se ne vanno.
Quando la notte poi l’oscura veste
S’ammanta intorno, e le campagne adombra,
E la maggior la sù luce celeste,
Le tenebre à gli antipodi disgombra,
E ’l bel manto di stelle il ciel si veste,
Ogni pena d’amor gli amanti ingombra,
Questa, e quel si rammarica, e si dole,
Che tanto à rallegrarli indugi il Sole.
Chi potria dire ogni amorosa cura,
Che travaglia la mente à questa, e à quello,
A la donna non par d’esser sicura,
Ch’egli (come detto ha) le dia l’anello.
Conosce, ch’al parlar poco si cura
Di volerla levar dal patrio hostello,
Che se l’amante tal pensier havesse,
Ella seco n’andria dov’ei volesse.
N’ha ben talhor gittato qualche motto,
Ma l’ha veduto star tutto sospeso,
Anzi hà più volte il suo dir interrotto,
Et ha mostrato non havere inteso.
Teme, ch’egli in amor sagace, e dotto
Non habbia contra lei quel laccio teso,
Per isfogar le sue cupide voglie,
Ma che non pensi già farla sua moglie.
Piange, e sospira, e se ne duol pian piano,
Ne molto stà, che quel pensiero annulla,
Ne può pensar, ch’ei sia tanto inhumano,
Che cerchi d’ingannare una fanciulla.
Pensa, se non la mena più lontano,
E marito con lei non si trastulla,
Che’l fa, perch’egli è saggio, e indugia alquanto,
Perche crede placare il padre intanto.
Mentre pian pian la misera donzella
Per non si fare udir ragiona, e piange,
E questo, e quel pensier, che la flagella,
La dubbia mente sua tormenta, et ange;
De la luce del Sol lucida, e bella
Si duol, che troppo tardi esca del Gange,
Si leva, e guarda, e duolsi che Boote
Volga più che mai pigre le sue rote.
E se la donna hor piange, et ha sospetto,
Che non l’inganni l’huomo, et hor s’attrista,
Che esca sì tardi il Sol de l’aureo letto
A rallegrare il ciel de la sua vista;
Non sente l’huom men travagliato il petto,
E non ha men di lei la mente trista,
Che men di lei si duol del maggior lume,
Che tanto stia ne l’ociose piume.
Non ha però timor, ch’ella non l’ami,
Ne che per suo piacer cerchi ingannarlo,
E con finte lusinghe ordisca, e trami,
Godersi seco un tempo, e poi lasciarlo.
Ben vede quanto il matrimonio brami,
Poi ch’ovunque ei s’invia, vuol seguitarlo,
Vuol dare ogni contento à le sue voglie,
Pur che prima, che ’l dia, la faccia moglie.
Tutto travaglia addolorato, e mesto
Il suo letto innocente, ove si posa,
Pensa con qual ragion, con qual protesto
Poi che ’l padre non vuol, la farà sposa.
Discorre, e solve hor quel periglio, hor questo,
Ma preveder nessun puote ogni cosa.
Una notte à un partito al fin s’attenne,
Che per mal d’ambedue nel cor li venne.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|55}}</noinclude><poem>
Pensa, gita, che sia la notte oscura,
A tor con l’ombra sua la luce à quelli,
Che mentre à lor fu notte acerba, e dura,
Videro i rai del Sol lucidi, e belli.
Tornar di novo à le cortesi mura,
Che permetton, che vegga, e che favelli,
Et ordinar con lei, ch’à l’aer cieco
Si debbia preparare à fuggir seco.
Che vuol condurla in una altra cittade,
Dica il padre, che sà, vuol poi sposarla,
Danari, gemme, et altre cose rade,
Per qualche tempo ha ben da sostentarla.
Intanto amici havrà di qualitade,
Che potranno co i padri accommodarla,
Ma ben conviene in questo usar tal froda,
Ch’alcun di casa non la vegga, ò l’oda.
Passata che sarà la mezza notte,
Che vien d’un’hora, ò due pensa d’uscire,
Allhor, che per le case, e per le grotte
Ogni huomo, ogni animal dassi à dormire.
S’uscisser prima, ò poi, forse interrotte
Sariano à lor le strade del fuggire,
Potran per via più d’un ritrovar desto,
Che van tardi à dormire, ò surgon presto.
E se prima esce Tisbe ne la strada,
Non li par, che sia ben, ch’ivi l’aspetti,
Perche qualcun de la stessa contrada
Non la vegga, e conosca, e non sospetti.
Ma sarà ben, che da lei se ne vada
Per questi, et altri infiniti rispetti
Fuor de la terra, ad un fonte vicino,
Dov’è il ricco sepolcro del Re Nino.
Quivi corrà del suo bramato amore
Quel sì soave, e pretioso frutto,
Per cui sì spesso afflitto havuto ha il core,
E per cui così raro il volto asciutto.
N’andran poi come venga il primo albore
Poco lontan, ch’ei sà il camin per tutto,
Dove havran da un suo amico in un villaggio
Cavalli, et altre cose da viaggio.
Questo sol dubio al fin restato gli era,
Come à quell’hora aprir potran le porte,
Che i padri lor le chiudon, come è sera,
Sì per l’inimicitia temon forte,
E per torre à lor servi ogni maniera
Di poter lor tramar vergogna, ò morte,
Se in letto son, pria che sia spento il lume,
Voglion le chiavi haver sotto le piume.
Conchiude al fin, che sia buono argomento
Di far le chiavi contrafar, che danno
A l’uno, e l’altro amante impedimento,
Che quando piace à lor non se ne vanno.
L’Aurora à pena havea d’oro, e d’argento
Scoperto al mondo il suo lucido panno,
Ch’ambi del letto si levaro, e furo
Quasi ad un tempo al desiato muro.
È ver, che sempre l’huom fu più per tempo
Non che prima di lei lasciasse il letto,
Ma v’andò sempre un gran spatio di tempo,
Pria, ch’ella à modo suo fosse in assetto.
S’affretta, e teme di non gire à tempo,
E grida con la fante, e co’l valletto,
E chiama pigro lui, lei poco accorta
Per questa, e quella cosa, che non porta.
Come à lei parve essere in parte ornata,
Ma non à modo suo per la gran fretta,
Ritorna allegra, e scopre il muro, e guata,
E trova l’amor suo, ch’ivi l’aspetta.
Ode l’orecchia allhor la voce grata,
E l’occhio scopre il bel, che gli diletta,
Ma non vi fanno già quel gran soggiorno,
Che fer più d’una volta, e più d’un giorno.
Perche l’huom, come pria, non si distende
A dar de l’amor suo questo, e quel segno;
Ma le discopre, e fa, ch’à pieno intende
Il poco fortunato suo disegno,
Che s’altro non gliel viete, e no’l contende,
Vuol viver qualche di fuor di quel regno,
Pur ch’ella d’accettar degni il partito
Di fuggir seco, e farlo suo marito.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|53}}</noinclude><poem>
Pensa, gita, che sia la notte oscura,
A tor con l’ombra sua la luce à quelli,
Che mentre à lor fu notte acerba, e dura,
Videro i rai del Sol lucidi, e belli.
Tornar di novo à le cortesi mura,
Che permetton, che vegga, e che favelli,
Et ordinar con lei, ch’à l’aer cieco
Si debbia preparare à fuggir seco.
Che vuol condurla in una altra cittade,
Dica il padre, che sà, vuol poi sposarla,
Danari, gemme, et altre cose rade,
Per qualche tempo ha ben da sostentarla.
Intanto amici havrà di qualitade,
Che potranno co i padri accommodarla,
Ma ben conviene in questo usar tal froda,
Ch’alcun di casa non la vegga, ò l’oda.
Passata che sarà la mezza notte,
Che vien d’un’hora, ò due pensa d’uscire,
Allhor, che per le case, e per le grotte
Ogni huomo, ogni animal dassi à dormire.
S’uscisser prima, ò poi, forse interrotte
Sariano à lor le strade del fuggire,
Potran per via più d’un ritrovar desto,
Che van tardi à dormire, ò surgon presto.
E se prima esce Tisbe ne la strada,
Non li par, che sia ben, ch’ivi l’aspetti,
Perche qualcun de la stessa contrada
Non la vegga, e conosca, e non sospetti.
Ma sarà ben, che da lei se ne vada
Per questi, et altri infiniti rispetti
Fuor de la terra, ad un fonte vicino,
Dov’è il ricco sepolcro del Re Nino.
Quivi corrà del suo bramato amore
Quel sì soave, e pretioso frutto,
Per cui sì spesso afflitto havuto ha il core,
E per cui così raro il volto asciutto.
N’andran poi come venga il primo albore
Poco lontan, ch’ei sà il camin per tutto,
Dove havran da un suo amico in un villaggio
Cavalli, et altre cose da viaggio.
Questo sol dubio al fin restato gli era,
Come à quell’hora aprir potran le porte,
Che i padri lor le chiudon, come è sera,
Sì per l’inimicitia temon forte,
E per torre à lor servi ogni maniera
Di poter lor tramar vergogna, ò morte,
Se in letto son, pria che sia spento il lume,
Voglion le chiavi haver sotto le piume.
Conchiude al fin, che sia buono argomento
Di far le chiavi contrafar, che danno
A l’uno, e l’altro amante impedimento,
Che quando piace à lor non se ne vanno.
L’Aurora à pena havea d’oro, e d’argento
Scoperto al mondo il suo lucido panno,
Ch’ambi del letto si levaro, e furo
Quasi ad un tempo al desiato muro.
È ver, che sempre l’huom fu più per tempo
Non che prima di lei lasciasse il letto,
Ma v’andò sempre un gran spatio di tempo,
Pria, ch’ella à modo suo fosse in assetto.
S’affretta, e teme di non gire à tempo,
E grida con la fante, e co’l valletto,
E chiama pigro lui, lei poco accorta
Per questa, e quella cosa, che non porta.
Come à lei parve essere in parte ornata,
Ma non à modo suo per la gran fretta,
Ritorna allegra, e scopre il muro, e guata,
E trova l’amor suo, ch’ivi l’aspetta.
Ode l’orecchia allhor la voce grata,
E l’occhio scopre il bel, che gli diletta,
Ma non vi fanno già quel gran soggiorno,
Che fer più d’una volta, e più d’un giorno.
Perche l’huom, come pria, non si distende
A dar de l’amor suo questo, e quel segno;
Ma le discopre, e fa, ch’à pieno intende
Il poco fortunato suo disegno,
Che s’altro non gliel viete, e no’l contende,
Vuol viver qualche di fuor di quel regno,
Pur ch’ella d’accettar degni il partito
Di fuggir seco, e farlo suo marito.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Ella, ch’altro nel cor mai non havea,
E che s’era fra se doluta spesso,
Ch’egli quel buon partito non prendea,
Di via fuggire, e lei menar con esso,
Lieta stava ad udir, ma no’l credea,
Fin che Piramo suo non l’hebbe espresso,
Che modo, e che maniera à tener s’have,
Per contrafare ogni nemica chiave.
A quel, ch’ella ha da far, tempo non mette,
Ne vuol punto mancar da la sua parte,
Ma detto à l’amor suo, ch’ivi l’aspette,
Dice à Dio, bacia il muro, e poi si parte.
Cauta, e secreta andò, ne molto stette,
Che con cera involò con studio, et arte
A gl’incauti serragli immantinente
La stampa d’ogni croce, e d’ogni dente.
Ritorna dove intrattenuto s’era
Piramo intanto, e ’l chiama, e l’ode, e scorge,
Pon poi sopra un baston l’impressa cera,
E l’invia per quel fesso, e glie la porge.
Ei la medesma tien forma, e maniera,
Quel ferro inganna, e alcun non se n’accorge,
Che la lima, il martel, l’incude, e ’l foco
Fer tal, che sol la sua chiave v’ha loco.
Si parte ei con gran studio, e affretta il piede,
E ritrova un’artefice ben dotto
E ’l prega, e li promette gran mercede,
Che voglia lavorar, ne faccia motto,
Più chiavi come in quelle cere vede,
E le vuol pria, che ’l dì splenda di sotto,
Però che pria, che ’l Sol nel mar si lavi,
Dice d’havere à far di quelle chiavi.
Ben conosce l’artista al bel sembiante,
A gli atti honesti, à la gentil favella,
Ch’ei malfattor non è, ma bene amante,
Che vuol goder d’alcuna donna bella.
E ben allhor si ricordò di quante
Per se ne fe ne la sua età novella,
E ’l trovò in questo affar sì ben disposto,
Che ’l contentò con diligenza, e tosto.
Intanto Tisbe aduna, e mette insieme
Quel poco mobil, che portar disegna,
E perche alcun non se n’accorga, teme,
Più secreta, che può, far ciò s’ingegna.
E che troppo poi stian l’affligge, e preme
Le stelle à far la solita rassegna,
Le par, che stian più de la loro usanza
A far veder la lor bella ordinanza.
Le par, che troppo il Sol faccia dimora
A ritornarsi al suo splendido tetto,
E non le par già mai veder quell’hora
Di giunger col suo amor petto con petto,
E gustar quell’ambrosia, che dimora
Ne le vermiglie labra, e quel diletto,
Che dà del vero amor l’ultimo segno,
Ne si può haver di lui più certo pegno.
Ha più d’un luogo in casa, dove sole
Percotere à cert’hora il solar raggio,
Ne sol, che già v’habbia percosso, vole,
Ma che l’habbia passato d’avantaggio.
Corre, e vi guarda, e poi del Sol si dole,
Non che s’oda però, ma nel coraggio,
Che sia quel dì si negligente, e tardo
Ad illustrar quel muro co’l suo sguardo.
Lascia quel luogo, e torna al sasso aperto
E tanto, ch’andò via, che speranz’have,
Che sia tornato Piramo, e tien certo,
C’habbia con lui l’adulterina chiave.
Vi guarda, e il chiama poi, che l’ha scoperto,
E l’è, ch’ei non vi sia, noiosa, e grave,
Teme, ch’alcun non trovi à lui sì fido,
Che voglia far quello istrumento infido.
Con travaglio, e timor l’aspetta un poco,
Ma pare à lei d’haver tardato molto,
Va poi (come ha coperto il rotto loco)
Al muro, ond’havea il piè pur dianzi tolto.
Ben crede, che ’l maggior celeste foco
Habbia à quel sasso homai percosso il volto,
E trova, e se ne duol, che non vi giunge,
Anzi le par, che sia poco men lunge.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" /></noinclude><poem>
Piramo intanto à suoi negotij intende,
E cerca di spedir molti partiti,
Ch’è ben, s’à gir lontan l’amor l’accende,
Che lasci i fatti suoi chiari, e spediti.
E così ben sà far, che non comprende
Alcun, ch’ei lasciar cerchi i patrij liti,
E ’l suo più gran travaglio, e grande intento
È d’ammassare insieme oro, et argento.
Poi, c’hebbe quelle cose à fin condotte,
Ch’erano à l’andar suo molto importanti,
À casa si tornò vicino à notte
Con gli istrumenti fidi à i fidi amanti.
E come torna à le muraglie rotte,
Trova la sposa sua, che in doglia, e in pianti
Passato havea gran parte di quel giorno,
Vedendo tanto indugio al suo ritorno.
Rallegrata che l’hebbe, e instrutta meglio
Di quanto havesse à far parte per parte,
Stassi poco à goder l’amato speglio,
Ma dà le chiavi à lei, bacia, e si parte,
Che pria, che l’aurea sposa il bianco veglio
Lasci, spera goderla in altra parte.
E fra le notti lunghe, c’havut’ hanno,
Questa fu la più lunga, e di più danno.
Il padre in guardia havea la figlia bella
Data ad una prudente, e casta zia,
Che con l’essempio buon, con la favella
La più lodata à lei mostrasse via.
Seco l’innamorata damigella
In una stanza ogni notte dormia,
E ben le convenia d’essere accorta,
Per ingannar sì diligente scorta.
E però havea d’un vin dato la sera
À quella vecchia accorta, e vigilante,
Il qual, con certa polvere, che v’era,
Di far dormir tant’hore era bastante.
Ben la misura havea fidata, e vera,
Che tutto havuto havea dal fido amante.
E fu quel beveraggio sì perfetto,
Che non nocque à la donna, e fe l’effetto.
La prende un sonno sì profondo, e grave,
Che sia pur romor grande, ella non l’ode.
Onde d’aprir la figlia più non pave
Le porte de i balcon per la custode.
E se ben l’altre notti aperti gli have,
Trovò più d’una scusa, e d’una frode,
E disse cosa haver fuor de la loggia,
Che volea torre à la notturna pioggia.
Et hor con core intrepido, e sicuro
Senza far’ altra scusa i balconi apre,
Hor quel, che guarda verso il pigro Arturo,
Hor quel, che scopre le celesti capre.
Si duol del tardo moto, e dopo il muro
Chiude, ne molto stà, ch’ ancho il riapre,
Vuol saper se ben sà, ch’è troppo presto
Quando s’alza quel segno, e abbassa questo.
Leva come è vicin d’un’hora à l’hora,
Che partir si dovea l’ardita faccia:
E le par meglio uscir per tempo fuora,
Che gir sì tardi, ch’aspettar si faccia.
Che vuoi fare infelice, aspetta anchora,
Fuggi il crudel destin, che ti minaccia:
Ch’io temo, che la tua soverchia voglia
Quel ben, che speri haver, non cangi in doglia.
Si veste, e prende un fascetto, c’ha fatto,
Dove le cose sue più rare porta,
Ne le bisogna ferro contrafatto,
Co’l quale si debbia aprir la prima porta,
Che non le può contender questo tratto
Le chiavi sue l’addormentata scorta,
Che mentre dorme, e sonnacchiosa essala,
Le toglie, et apre, et esce in una sala.
Dove non fece già d’andar disegno
Per dritto filo, ov’ha fermo il pensiero
Di porre in opra il contrafatto ingegno,
E provar se quel fabro ha detto il vero,
Che s’al buio non gisse à punto al segno,
Le si potria confondere il sentiero,
E potrebbe tentar molti usci, prima,
Che quel trovasse, che d’aprir fa stima.
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Piramo intanto à suoi negotij intende,
E cerca di spedir molti partiti,
Ch’è ben, s’à gir lontan l’amor l’accende,
Che lasci i fatti suoi chiari, e spediti.
E così ben sà far, che non comprende
Alcun, ch’ei lasciar cerchi i patrij liti,
E ’l suo più gran travaglio, e grande intento
È d’ammassare insieme oro, et argento.
Poi, c’hebbe quelle cose à fin condotte,
Ch’erano à l’andar suo molto importanti,
A casa si tornò vicino à notte
Con gli istrumenti fidi à i fidi amanti.
E come torna à le muraglie rotte,
Trova la sposa sua, che in doglia, e in pianti
Passato havea gran parte di quel giorno,
Vedendo tanto indugio al suo ritorno.
Rallegrata che l’hebbe, e instrutta meglio
Di quanto havesse à far parte per parte,
Stassi poco à goder l’amato speglio,
Ma dà le chiavi à lei, bacia, e si parte,
Che pria, che l’aurea sposa il bianco veglio
Lasci, spera goderla in altra parte.
E fra le notti lunghe, c’havut’hanno,
Questa fu la più lunga, e di più danno.
Il padre in guardia havea la figlia bella
Data ad una prudente, e casta zia,
Che con l’essempio buon, con la favella
La più lodata à lei mostrasse via.
Seco l’innamorata damigella
In una stanza ogni notte dormia,
E ben le convenia d’essere accorta,
Per ingannar sì diligente scorta.
E però havea d’un vin dato la sera
A quella vecchia accorta, e vigilante,
Il qual, con certa polvere, che v’era,
Di far dormir tant’hore era bastante.
Ben la misura havea fidata, e vera,
Che tutto havuto havea dal fido amante.
E fu quel beveraggio sì perfetto,
Che non nocque à la donna, e fe l’effetto.
La prende un sonno sì profondo, e grave,
Che sia pur romor grande, ella non l’ode.
Onde d’aprir la figlia più non pave
Le porte de i balcon per la custode.
E se ben l’altre notti aperti gli have,
Trovò più d’una scusa, e d’una frode,
E disse cosa haver fuor de la loggia,
Che volea torre à la notturna pioggia.
Et hor con core intrepido, e sicuro
Senza far’altra scusa i balconi apre,
Hor quel, che guarda verso il pigro Arturo,
Hor quel, che scopre le celesti capre.
Si duol del tardo moto, e dopo il muro
Chiude, ne molto stà, ch’ancho il riapre,
Vuol saper se ben sà, ch’è troppo presto
Quando s’alza quel segno, e abbassa questo.
Leva come è vicin d’un’hora à l’hora,
Che partir si dovea l’ardita faccia:
E le par meglio uscir per tempo fuora,
Che gir sì tardi, ch’aspettar si faccia.
Che vuoi fare infelice, aspetta anchora,
Fuggi il crudel destin, che ti minaccia:
Ch’io temo, che la tua soverchia voglia
Quel ben, che speri haver, non cangi in doglia.
Si veste, e prende un fascetto, c’ha fatto,
Dove le cose sue più rare porta,
Ne le bisogna ferro contrafatto,
Co’l quale si debbia aprir la prima porta,
Che non le può contender questo tratto
Le chiavi sue l’addormentata scorta,
Che mentre dorme, e sonnacchiosa essala,
Le toglie, et apre, et esce in una sala.
Dove non fece già d’andar disegno
Per dritto filo, ov’ha fermo il pensiero
Di porre in opra il contrafatto ingegno,
E provar se quel fabro ha detto il vero,
Che s’al buio non gisse à punto al segno,
Le si potria confondere il sentiero,
E potrebbe tentar molti usci, prima,
Che quel trovasse, che d’aprir fa stima.
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Come il sospeso piè la sala ottiene,
Si volge a man sinistra, e ’l muro trova,
E con ambe le mani à lui s’attiene,
Ma la destra và innanzi, e palpa, e prova.
Passa quest’uscio, e quel tanto che viene
A quel, dove ha da far la prima prova;
E dopo assai cercar la toppa incontra,
E prova, se la chiave si riscontra.
Se ben la fedel toppa non consente
Con varij suoi riscontri, e varij ingegni
D’essere ad altra chiave obediente,
Ch’à quella, che ’l Signor vuol ch’ivi regni:
Pur, quando scontra ogni croce, ogni dente,
E che ritrova tutti i contrasegni,
Che le diede il signor, crede al mentire
De la bugiarda chiave, e lascia aprire.
Allegra esce di sala, e ’l muro prende,
E tien ben à memoria ovunque passa,
Giunge à le scale, e quelle, che discende,
Conta, che vuol saper quante ne lassa.
E tanto à gire in giù contando intende,
Che si ritrova à la scala più bassa,
Giunge poi dove un ferro assai più forte
Apre, et inganna anchor le maggior porte.
Come il cupido piè la strada ottenne,
Al fermo loco amor così la punge,
Che quando havesse al suo correr le penne,
Non giungeria più presto che vi giunge.
Sotto l’ombra d’un’arbore si tenne,
Ch’intorno i rami suoi stende assai lunge,
D’un gelso, ch’era lì carco di frutti,
Come neve del ciel, candidi tutti.
Con intrepido cor ne l’herba giace,
Che forte, e ardita la faceva amore.
Hor mentre spera haver contento, e pace,
E satisfar d’ogni diletto al core;
Compare un fier Leone empio, e rapace
Non lunge, e nel venir fa tal romore,
Ch’ella, che sente come altero rugge,
Si leva, e con piè timido la fugge.
Dal viso il bel color subito sparse,
E s’arricciò à la donna ogni capello,
Come al raggio lunar lontan comparse
Quel feroce animal crudele, e fello.
Ne venne il picciol fascio à ricordarse,
Ch’appresso al fonte cristallino, e bello
Havea lasciato, ov’era la sua vesta,
Anzi le cadde il vel, c’aveva in testa.
In una oscura grotta si nasconde,
Là dove piena di paura stassi,
E s’ode mormorar pure una fronde,
Trema qual foglia al vento, e di giel fassi.
Dritto il Leone à le sue solite onde
Per cavarsi la sete affretta i passi,
C’havea pur dianzi un bue posto à giacere,
E ben satio di lui venia per bere.
E tinto di quel sangue, e sparso tutto,
E la bocca, e la fronte, e ’l collo, e ’l pelo,
AI fonte già così macchiato, e brutto,
E come piacque al non benigno cielo,
Fu in quella parte il rio Leon condutto,
Dove lasciato havea la donna il velo,
E spinto dal furor, che ’l punge, e caccia,
Il fiuta, in bocca il prende, il macchia, e straccia.
A l’arbor poi, c’ha il picciol fascio al piede,
Con maggior rabbia, e maggior furia giunge,
E quello imbocca subito che ’l vede,
E d’empia morte novi indicij aggiunge.
Da poi beve à bastanza il fonte, e riede
Dove il furor, ch’egli ha, lo sprona, e punge,
Et à pena il crudel se n’era andato,
Che giunse l’infelice innamorato.
Piramo anchor nel petto ha tanto foco,
Che di quel ch’ordinò, più tosto sorge,
Perche se giunge pria la donna al loco,
Troppo grand’agio à gl’infortunij porge.
A ratto andar lo stimola non poco
La porta del suo amor, ch’aperta scorge,
Che li fa vero inditio, e manifesto
Che si partì di lui Tisbe più presto.
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Ritrova prima il vel macchiato in terra,
E d’un gran mal comincia à temer forte.
No’l riconosce già, che in quella terra
Molte il soglion portar di quella sorte.
Ma come con più studio gli occhi atterra,
Trova segnal di necessaria morte.
Vede sangue per tutto, e nel sabbione
Conosce le pedate del Leone.
Deh Luna ascondi il luminoso corno,
E più che puoi, fa questa notte bruna,
Adombra il ciel tu Noto d’ogn’intorno,
E le più scure nubi insieme aduna.
Che ’l mal, ch’ad ambedue vuol torre il giorno,
E intanto passerà questa fortuna
Non trovi, e vegga, io dico, quella vesta,
Che coppia sì gentil vuol far funesta.
Stà con gran diligenza à riguardare,
E non può gli occhi più tor da l’arena,
E ’l piè, ch’impresso del Leon v’appare,
Quel giovane infelice à morte mena.
Discorre, guarda, e và, ne può trovare
Cosa, che non sia trista, e di duol piena,
L’orma il conduce, e fa, che trova, e guarda
Quella veste colpevole, e bugiarda.
Deh non dar fede misero à quel panno,
Che di così gran male indicio apporta,
E che t’astringe à creder per tuo danno,
Che senza dubbio alcun Tisbe sia morta.
Ne ti lasciar sì vincer da l’affanno,
Che vogli à giorni tuoi chiuder la porta.
Attendi un poco anchor, ch’ella ne viene,
E non ti priverai di tanto bene.
Come dà l’infelice i miseri occhi
Nel sangue, e prende quella vesta, e vede,
E riconosce le cinture, e i fiocchi,
E molti altri ornamenti ch’ei le diede:
Convien, che in pianto, e ’n lagrimar trabocchi
Il gran dolor, che ’l cor gli punge, e fiede,
Ben ch’in principio il duol l’occupa tanto,
Che pena à darlo fuora in voce, e in pianto.
Come ricuperar la voce puote,
E ch’aperte al suo duol trova le porte,
Di lagrime bagnando ambe le gote,
E facendosi udir, più che può forte,
Dice quest’acre, e dolorose note,
Dunque m’hai tolto invidiosa morte
La mia dolce compagna in un momento,
Hor, ch’io sperava haverne ogni contento.
Ahi quanto, ahi quanto à noi voi fate torto
Siate stelle, destin fortuna, ò fato,
A far in questo amor rimaner morto,
Chi non ha punto in questo amore errato.
Cercammo al nostro mal trovar conforto
Con modo ragionevole, e lodato,
E ’l nostro consumar giusto desio
Con la legge de gli huomini, e di Dio.
Non meritava già sì giusta voglia
Da te sorte crudel tal premio havere,
Ne d’alma sì gentil sì bella spoglia,
Farsi esca di rapaci, et empie fiere.
Deh cieli per aggiugner doglia, à doglia,
Che non mi fate al men l’ossa vedere?
Chi mi mostra il camin dov’ho d’andare,
Per trovar quel, che non vorrei trovare?
Oime, che molte fiere uccisa l’hanno,
E straciata co i denti, e con gli artigli,
Come fa testimonio il sangue, e ’l panno,
E gli ornamenti suoi fatti vermigli.
E divisa in più parti iti saranno
A farne parte à i lor voraci figli
Leoni, et altre fiere horrende, e strane,
Troppo dolce esca à le lor crude tane.
Quanto restiam panno infelice mesti
Ahi quanto, ahi quanto ben ci è stato tolto.
Tu le sue belle carni già godesti,
Io la divinità del suo bel volto.
Tù di goderle più privato resti,
Et io del frutto anchor, c’hoggi havrei colto.
Quel ben, c’havesti già, tu l’hai perduto,
Et io quel, c’hebbi, e c’havrei tosto havuto.
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Renditi veste, à me dolce, et humana,
Si ch’io ti abbracci, e contentar ti dei,
Ch’io baci questo sangue, e questa lana,
Poi ch’abbracciar non posso, e bacciar lei.
Deh lascia homai crudel Leon la tana,
E non venga un sol, ma cinque, e sei,
E s’à la moglie mia sepolcro sete,
Me di tal gratia anchor degno rendete.
Ma ben si mostra un’huom di poco core,
Quando cerca d’haver d’altrui la morte,
Dovrebbe un, ch’arde di perfetto amore,
Mostrarsi ardito in qual si voglia sorte.
Io n’hebbi colpa, io sol commisi errore,
Io le feci lasciar le patrie porte,
E se pur che venisse, io facea stima,
Doveva esser più accorto, e venir prima.
E se venia il Leone à l’onda fresca,
Forse c’havrei lui morto, e lei difesa,
E se pur’io di lui fossi stato esca,
Havrei salvata lei da tale offesa.
Ma vo, che vegga anchor qlunto m’incresca,
Quanto n’habbia dolor, quanto mi pesa,
Ch’al comparir di lui non mi trovassi
Per mostrar che valessi, e quanto amassi.
Conosca al mio morir l’alma sua degna
Di quanto, e quale affetto è ’l mio cor punto,
Che se in un core immenso amor non regna,
Non suol l’huom mai condursi à questo punto.
E perche la mia man voglio, che spegna
La luce mia, conosca, che se giunto
Io fossi à tempo, à stimar poco havea
La vita in caso, ov’io vincer potea.
Appoggia in terra il pomo de la spada
Per far, che con la punta il petto offenda.
Deh lumi de l’eterna alta contrada
Oprate, che qualcun quel pianto intenda,
Che per vetar, che sù l’acciar non cada,
A questo ponga indugio, e gliel contenda,
Che Tisbe già lasciato have lo speco,
E lieta vien, che vuol godersi seco.
E poi c’huomini, e Dei questo non fanno,
Che fate piante voi, voi che ’l vedete?
Che non cavate lui di tanto affanno?
Che non li dite quel, che visto havete?
Movete le radici à tanto danno,
E lui co i rami per pietà tenete.
Potete voi soffrir, che perda il giorno
Sì perfetto amator, giovan sì adorno?
E tanto più, che se ’l tenete alquanto,
Ogni poco di tempo, ogni momento,
Non fu già mai sotto ’l celeste manto
Più fortunato sposo, e più contento:
Che la sua bella Tisbe viene intanto
Per dirgli il suo timore, e ’l suo spavento,
Vuoi dirgli ove fuggisse, ove sia stata,
E come dal Leon si sia salvata.
Il miser disperato s’abbandona
Quando nol prende alcun, ne gliè conteso,
E lascia ruinar la sua persona
Sopra il pungente acciar con tutto ’l peso.
L’ignuda spada sua pungente, e buona
Ch’ogni altro havria più volentieri offeso,
Non può fuggir di far quel crudo effetto,
E passa al suo Signor la veste, e ’l petto.
Come se danno ad una valle un fonte
Acque, che vengan chiuse in un condotto,
Che in abondanza calan giù d’un monte,
Se un poco, ove è più basso, il piombo è rotto,
Manda in su l’acqua, e fa, che in aria monte
La canna, che forata è più di sotto,
Che l’onda, che in giù preme, e vien contraria,
Fa, ch’al ciel s’alza, e stride, e rompe l’aria:
Così del molto sangue, che sì mosse
Per voler aiutar le parti offese,
Quando il misero amante si percosse,
Quel, che corse al soccorso, tanto ascese,
Che fece quelle gelse tutte rosse,
Ch’à l’arbor testimonio erano appese,
E ’l piè tanto di lui venne à cibarse,
Che sempre i frutti poi di sangue sparse.
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Senza haver ben lasciata la paura
La donna vien con non sicuro piede,
Ch’ogni pensiero ha posto, et ogni cura
Di non mancar de la promessa fede.
Giunge vicino al fonte, e raffigura
L’arbor dove ha d’andar: ma quando vede
I frutti bianchi suoi d’altro colore
In dubbio stà di non pigliar errore.
Ó sventurata, e dove ti conduce
Il pensier, c’hai di servar bene il patto
Per poter con l’udire, e con la luce
Contentare ancho il sì cupido tatto.
Ahi quanto mal per te sì chiara luce
La Luna consapevole del fatto,
Che spande così chiara il suo splendore
Per mostrarti il tuo inganno, e ’l tuo dolore.
Tu speri al giunger tuo, che ’l bello aspetto
Debbia far l’occhio tuo contento, e lieto;
Che debbia il parlar dolce, e pien d’affetto
Dare à l’orecchio il cibo consueto;
Speri baciarlo, e prender quel diletto,
Che non potesti prender per l’adrieto;
E speri ancho trovar paesi esterni,
E goderti con lui poi molti verni.
Ma tu vorresti haver, quando il vedrai,
Misera al giunger tuo cieca la vista:
E le poche parole, ch’udirai,
Faran l’orecchia tua dolente, e trista.
Quel poco tempo morto il bacerai,
Che fia co’l corpo tuo l’anima mista,
E i verni, che farai seco soggiorno,
Non soffriran, che vegga il primo giorno.
Va da quell’arbor misera discosto,
Cerca per l’orme ove il Leon s’annida,
Tanto, che trovi dove stà nascosto,
E non ti curar punto, che t’uccida.
Ó ne la fronte fa cieca più tosto
La luce, che t’alluma, e che ti guida;
Misera, ad ogni mal prima t’inchina,
Che veggan gli occhi tuoi tanta ruina.
Hor come meglio i frutti, e l’arbor vede,
E che non fosser tai pur sì rimembra,
Scorge, che la vermiglia terra fiede
Un, che sì muor con le tremanti membra.
Torna pallida, e smorta à dietro il piede,
Tanto, ch’un bosso il suo color rassembra,
E pian trema al principio, come il mare,
Cui cominci lieve aura à far gonfiare.
Ma poi se ’l vento cresce, e ’l mar tormenta
Tanto, che tutto il rompa, apra, e confonda,
Fa, che ’l suo duol con più romor si senta,
La rotta, et agitata, e torbida onda:
Così poi, che la donna mal contenta
Vede, che ’l suo mal cresce, e soprabonda,
E raffigura il suo marito fido,
Fa sentire il suo duol con maggior grido.
Sentir fa l’alta, e dolorosa voce,
E si batte la man, si batte il petto,
Al volto smorto, à i capei biondi noce,
E mostra in mille modi il grande affetto.
Al corpo amato poi corse veloce,
E l’abbracciò con suo poco diletto,
Sparse d’amaro pianto il corpo essangue,
E temperò col lagrimare il sangue.
Bacia più volte il suo pallido volto,
E chiama l’amor suo più, che può forte,
Dolce Piramo mio chi mi t’ha tolto?
Rispondi à l’infelice tua consorte.
Chi da la vita tua lo stame ha sciolto,
Qual fato ò qual cagion ti die la morte?
Rispondi à chi tu sai, che tanto t’ama,
A la tua cara Tisbe, che ti chiama.
Al nome dolce, à la promessa fede
Leva Piramo allhora i languidi occhi,
E subito, che lei conosce, e vede,
Par, che dubia allegrezza il cor gli tocchi.
E tal forza al parlar la voglia diede,
Che disse, che la veste, il velo, e i fiocchi,
E l’ornamento suo di sangue tinto,
Con l’orme del Leon l’haveano estinto.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Volea più dir, ma la sua misera alma
Venuta era al suo fine, e fu sforzata,
D’abbandonar la sua terrestre salma,
E la moglie infelice, e disperata.
Raddoppia il grido, e batte palma, à palma,
L’abbraccia cosi morto, il bacia, e ’l guata,
E ben che ’l molto duol molto impedisse
Il suo rotto parlar pur così disse.
Se le mie sanguinose, e tinte vesti
Del non mio sangue ti toccar sì il core,
Perche me morta Piramo credesti,
Se ben potevi in ciò prendere errore,
Che di tua mano uccider ti volesti,
Per dimostrar la forza del tuo amore,
Che farò io, che te, mio conforto,
E veggo, e tocco, e tengo in braccio morto?
Io già non veggio una macchiata scorza,
Ne posso ingannar d’opinione,
Io te, te veggio morto, onde mi sforza
Amor la tua mort’empia, ogni ragione
A mostrar, che ’l mio amor non ha men forza,
E che non è di men perfettione,
E se tu fosti in te per me tant’empio,
Che debbo io far per te con questo essempio?
E se togliesti al bel sembiante humano
Con cor viril la viva imago, e bella,
Si come piacque al caso horrendo, e strano,
Che t’ordinò la tua maligna stella:
Amor darà tal forza à questa mano,
Se ben sono una tenera donzella,
Che chiamata sarò per l’avenire,
E compagna, e cagion del tuo morire.
E dove morte sol pria potea fare
Che non s’unisse il tuo bel corpo al mio,
Morte non ci potrà più separare,
Poi ch’ogni ragion vuol, che mora anch’io.
Vogliate ò padri miseri accettare
Il nostro ragionevole desio,
Che quei, ch’amor congiunse, e l’ultima hora,
Congiunga insieme un sol sepolcro anchora.
Tu, che co i rami tuoi bramato legno
Copri hora un morto, e dei coprirne due
Sotto cui doppio già, ma van disegno
Di goder ambo, e non di morir fue,
Serba di noi perpetuo eterno segno,
Tingi tutte di duol le gelse tue,
Fa lor del nostro sangue oscuro il manto,
Ch’altro non voglia dir, che doglia, e pianto.
Ma par chi tanto indugia, che non habbia
Di morir voglia, anzi la morte schive.
Da i baci estremi à le defunte labbia,
Che tanto amato havea di baciar vive.
Alza l’acciar da la sanguigna sabbia,
E pria che del veder le luci prive,
Dice queste parole, e tien ben mente
A la spada homicida, et innocente.
Deh poi c’hoggi la mia crudel fortuna
In vece d’ogni ben, d’ogni dolcezza,
Contra me disperata insieme aduna
Quanta fu mai nel mondo ira, et asprezza,
Terso, e lucido acciar mia vista imbruna,
E ’l mio stame vital subito spezza,
E in vece de l’usata crudeltate,
Ne l’uccidermi tosto usa pietate.
Sopra il pungente acciar cader si lassa,
Che forse suo mal grado il petto offende,
E tanto il peso in giù la donna abbassa,
Che giunge al caro sposo, e ’n braccio il prende.
Un peregrin non lunge in tanto passa,
E ’l pianger de la donna à caso intende,
E ’l piede à quel gridar drizza, e ’l pensiero,
Che vuol saper di quel lamento il vero.
Tanto di vivo à Tisbe era rimaso,
Che potè far, che ’l peregrin sapesse
Di loro amanti il doloroso caso,
E lui pregò ch’à i lor padri il dicesse.
A lei del viver suo giunta à l’occaso
Quelle gratie, che volle, il ciel concesse.
Mostra il frutto al mantel quando è maturo
Quel sangue, e quel color funebre, e scuro.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|57}}</noinclude><poem>
Quel miserabil fin s’udi per tutto,
Passando andò in quest’orecchia, e in quella,
Occhio non fu che rimanesse asciutto,
Pianse ogn’un la lor sorte acerba, e fella.
Con lagrime i lor padri, e amaro lutto
Collocaro il garzone, e la donzella
In un comun sepolcro, e i ricchi marmi
Fer d’accordo segnar di questi carmi.
Qui stan Piramo, e Tisbe; amansi, e danno
Ordine d’ire al fonte, ella s’invia.
Viene il leon, fugge ella, e lascia il panno;
L’insanguina il Leon, beve, e va via.
Le vesti uccider poi l’amante fanno,
Ond’ella apre al morir l’istessa via.
E quando l’una, e l’altra alma si svelse,
Tinser del sangue lor le bianche gelse.
Così contava Alcitoe, e in tal maniera
L’amor dipinse, e le bellezze conte,
Et ogni lor miseria così intera,
E con parole sì veraci, e pronte,
Ch’ogni donna sforzò, ch’ad udir era,
A far de gli occhi lagrimosa fonte,
E tutto fe con sì pietoso affetto,
Che nel lor lagrimar trovar diletto.
Conchiusa c’hebbe Alcitoe la novella,
Dovea parlar Leucotoe, che cuciva,
E de la terza era maggior sorella,
E non men de la prima accorta, e viva,
E lavorava una camicia bella,
E nel collar, ch’allhor di seta ordiva,
Pingea di color verdi, bianchi, e ranci,
Di cedri un vago fregio, e melaranci.
Con più d’un spillo in bassa sede assisa
Sopra un picciol guancial, c’ha in sen, conficca
Un capo del collar, ch’ella divisa,
Poi la sinistra à l’altro capo appicca,
Secondo l’occhio poi la destra avisa,
L’ago con diligentia appunta, e ficca,
Lo spinge poi che l’ha giusto appuntato
Co’l dito lungo di metallo armato.
Quanto puote l’anello innanzi il caccia,
I primi diti poi presa la punta
Lo scostan dal collar tanto, che l’accia
In quel bel fregio ad haver parte è giunta.
Tien sempre in quel lavor ferma la faccia,
E gli occhi anchor mentre che l’ago appunta,
Ma nel tirar del fil talvolta mira,
E senza il viso alzar le luci gira.
Quando l’ago la punta ove desia
Più por non può, che l’accia è troppo corta,
Con le forbici taglia, e getta via
La parte, che riman, la mano accorta.
Allhor dal fregio il volto alza, e disvia,
E l’occupata vista si conforta,
Prende il collo vigor, vigore il viso,
Che non stà come pria chinato, e fiso.
Al gomitolo poi la seta tolle,
E l’aguzza co i denti, e con le dita,
E via le tronca il pel debile, e molle,
E poi che l’ha ben torta, e bene unita,
La cruna à l’occhio l’una mano estolle,
Et ella l’altra à porvi il filo invita,
S’affisa l’occhio, e v’ha la man si pronta,
Che ne l’angusta cruna al primo affronta.
Co primi diti poi la punta prende
De l’accia, che già domina la cruna,
Tira il fil dentro alquanto, e l’occhio intende,
E con proportione insieme aduna
Fior, fronde, e frutti; e così ben gli stende,
Che non manca il disegno in parte alcuna,
Ne stà di variar l’accie, e colori,
Secondo son le foglie, i frutti, e i fiori.
Se ben con tanto studio, e con tant’arte
Ha nel cucir la mente, e gli occhi intenti,
Non vuol punto mancar de la sua parte
Di far gli orecchi altrui di lei contenti,
E con tal senno il suo tempo comparte,
Che fa sentir questi soavi accenti,
Con l’ornamento, ch’appartiensi à loro
Senza che toglia à l’ago il suo lavoro.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Di Venere la face è tanto ardente,
Che non solo i mortali in terra offese,
Ma i più sublimi Dei nel ciel sovente
Con le sue fiamme gravemente accese.
E ’l biondo illustre Dio, ch’à varia gente
Fà vario il clima, l’anno, il giorno, e ’l mese,
Più volte acceso dal suo vivo ardore,
Provò il dolce, e l’amar, che porge Amore.
Fra quante de lo Dio, l’auree cui chiome
Danno il giorno à mortali, arser giamai,
Una, c’hebbe, com’io Leucotoe nome,
Rendè più caldi i suoi cocenti rai:
E voglio hor raccontarvi, e dove, e come,
E d’ambi gl’infortunij, i pianti, e i guai,
Perche sdegnossi Venere, onde nacque
Che fece, che colei tanto li piacque.
Il primo fù, che l’adulterio scorse,
Che Venere fe già con Marte e il Sole.
Ne maraviglia è, s’ei primier s’accorse,
Poi che primo ogni cosa ei veder sole,
Di palesarlo, ò no, stà un pezzo in forse,
Poi seguane che può, scoprire il vole,
Non può soffrir, che sia, l’autor del giorno
Al fabro de gli Dei tal fatto scorno.
Senza punto indugiar trova Vulcano,
E gli palesa il fallo de la moglie,
E quei diventa in un momento insano,
Tanto gran gelosia nel petto accoglie.
Tosto al dotto martel porge la mano,
Et ogni lima, ogn’istrumento toglie,
Che per far uno ingegno gli bisogna,
Per far, che sappia ogn’un la sua vergogna.
Fà, che con rame, e ferro un liquor bolle,
Che forma una mistura à lui secreta,
E tal rete ne fa sottile, e molle,
Che più non si potria se fosse seta.
A gli stami d’Aranne il pregio tolle,
Ad ogni occhio il suo fil di veder vieta,
Dove il Sol gli mostrò, corre, e la tende
In guisa, ch’occhio alcun non la comprende.
Non vuol come un nel letto à poner vasse,
Che la rete, che v’è, subito scocchi,
Che prenderebbe quel, che pria v’entrasse,
Ma vuol, ch’ad ambedue la sorte tocchi.
E però un fil vi pon, che in parte stasse,
Che forza è, se due son, che ’l fil si tocchi,
Da poi s’asconde, e quindi non si parte,
Che vede l’infedel consorte, e Marte.
Hor mentre ha in colmo il suo contento il tatto,
Che di due corpi varij un sol ne forma,
E fonde il respirar penoso, e ratto
Quel sangue, che pur pria cangiò la forma,
E ’l piacer rende l’huom sì stupefatto,
Che travolge le luci, e par che dorma,
In così dolce lotta il fil si tocca,
E l’inganno, che v’è, subito scocca.
Nel sommo del gioire, e del diletto,
L’uno, e l’altro improviso al laccio è colto;
E l’uno, e l’altra stà congiunto, e stretto,
Mirabilmente in quella rete avolto.
Tien, ne mover si può petto con petto,
S’affronta, e fermo stà volto con volto,
Come ciascun, che s’ama in quello stato
Nel suo maggior piacer tiensi abbracciato.
Lo sciocco fabro allhora aprì le porte,
E gli Dei tutti à veder fe venire,
Che riser sì, che la celeste corte
Non hebbe per un tempo altro, che dire.
E vi fu più d’un Dio giovane, e forte,
Che de la ignuda Dea venne in desire,
Ne cureria (pur che le fosse in braccio)
D’esser colto da tutti in quell’impaccio.
Scoperto c’ha la sua vergogna, e l’arte
Quel Dio, ch’ad ogni suo passo s’inchina,
Mostra il nodo à Mercurio, e poi si parte,
E torna zoppicando à la fucina.
Non vuol trovarsi al dislegar di Marte,
Che non gli azzoppi il piè, che ben camina,
Ma se crede oltraggiarlo in Mongibello,
Proverà quanto pesa il suo martello.
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A preghi d’ambedue Mercurio sciolse
Il ben disposto Dio, la bella Dea,
E gran piacer di lei toccando tolse,
Mentre la rete intorno le svolgea.
Ella vergogna havea, pur gli occhi volse,
Et al guardo, et al toccar, ch’egli facea,
S’accorse (e piacer n’hebbe) del desio,
Ch’era nato di lei ne l’altro Dio.
A l’intricato Dio par di star troppo,
Ma non à quel, che scioglie, tocca, e vede,
Et à pena fu sciolto il nobil groppo,
Che l’armigero Dio trovossi in piede.
Si gitta un manto intorno, e cerca il zoppo,
Che gli vuol dar la debita mercede,
Ma Giove con bel modo il fece accorto,
Che ’l marito di lei non havea torto.
Al nipote d’Atlante in quella festa
(Oltre al doppio piacer, che ne riporta)
Quel sì ben lavorato ingegno resta,
E tutto lieto al suo palazzo il porta.
La Dea si mette subito una vesta,
Et esce à capo chin fuor de la porta,
E ne fa (sì gran tosco l’avelena)
Al formator del di portar la pena.
Restò sì vergognosa, e sconsolata
La colta in fallo di Vulcan consorte,
Che stè più dì romita, e ritirata,
E non ardì di comparire in corte.
Si stà tutta confusa, e travagliata,
Poi che gli Dei patir non posson morte,
Ne sà, che mal può farsi al solar raggio,
Che la vendetta superi l’oltraggio.
Resse già d’Achemenia un Re possente
Le città fortunate, Orcamo, padre
D’una, che mai non n’hebbe l’Oriente
Di si vive bellezze, e sì leggiadre.
Prima tutte avanzò la sua parente,
Ma quanto ogni altra superò la madre,
Tanto ella fu poi vinta da la figlia
Ne l’esser bella, oltre ogni maraviglia.
Per più opportuna lei l’irata Dea
Che debbia il Sole amar, sceglie fra cento,
Perche dopo la sua Fortuna rea,
Senta più passione, e più tormento.
Che per la legge pessima Sabea
È forza, che ne resti mal contento;
S’egli vorrà da lei quel, per che s’ama,
E poi si scopra il fallo de la dama.
La Dea tutte le gratie insieme accoglie,
Tutte le leggiadrie, tutti gli honori,
E se ne và con non vedute spoglie,
Al felice paese de gli odori,
E giunge, et opportuno il tempo coglie,
Ch’ella Leucotoe detta usciva fuori
Del suo superbo, e regale edificio,
Per gire à venerare il sacro officio.
Come vede la Dea, che il Sol percote
A caso à la donzella il vago viso,
Dà quelle gratie à lei, che dar le puote,
Le fa venusto il volto, e dolce il riso.
Affrena egli i destrier, ferma le rote,
E tiene il lume in lei ben fermo, e fiso.
E non si parte il miser di quel loco,
Che infiamma il corpo suo d’un’altro foco.
Non gli sovvien, che se più quivi ei bada,
Più di quel, che convien, fa lungo il giorno.
Ma quella gran beltà tanto gli aggrada,
Che ferma il carro, e mira il viso adorno.
E mentre andò la donna per la strada,
L’accompagnò co i raggi d’ogn’intorno,
E poi che dentro al tempio si raccolse,
Per le fenestre à lei le luci volse.
Con quella dignità, che si richiede
Ad una figlia regia, s’inginocchia,
Baciò una serva un libro, e poi gliel diede
Le ciglia riverente, e le ginocchia.
Intanto con qual cor, con quanta fede
Manda i suoi prieghi al cielo, il Sole adocchia,
E porta grande invidia al sommo Giove,
Al quale i preghi suoi dirizza, e move.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Havea la donna à l’Austro il viso volto,
Secondo richiedea l’opposto altare,
E ’l Sole il Cancro havea su ’l carro tolto,
Con cui non molti dì dovea girare.
Ne à Favonio havea anchor percosso il volto
Per dritto fil, ch’egli era in su’l levare,
Perche in quella stagion, quando appariva
Ver Borea fuor de l’Orizonte usciva.
Per li balconi adunque à l’Euro opposti
Nel tempio il Sol spargea raggi diversi,
Pingendo i balcon stretti, e mal disposti,
Che v’entravano anchor troppo traversi.
Gli omeri ornati, e i crin vaghi, e composti,
Il raggio ne l’entrar può sol godersi,
Ma poi che fere il muro, e ripercote,
Gode i dolci occhi, e le vermiglie gote.
Che se per linea retta il Sol s’accorge,
Fà per quelli balconi à lei passaggio,
Del leggiadro profil, ch’in lei si scorge,
Godra per dritto fil l’acceso raggio.
Tosto à i destrier più lunga briglia porge,
E gli sferza con studio à quel viaggio,
E mentre ei s’alza, e goder meglio spera,
S’abbassa il raggio, e fa più larga spera.
Come à quel punto fa l’aurea sua rota,
Dov’Euro ver Favonio il vento sbocca,
Gode il profilo, e la sinistra gota,
Con gran contento suo le palpa, e tocca.
Ella, ch’attenta stavasi, e divota,
Co’l cor Giove adorando, e con la bocca,
A la spia riscaldata di Vulcano
Oppose il velo, e la sinistra mano.
L’abbarbagliato amante allhor si crede,
Ch’ella il cerchi privar de la sua vista,
Perche non l’ami, poi che la concede
A più d’un bel garzon, ch’allhor l’acquista.
E quanto meglio ornati amanti vede,
Tanto maggior sospetto il cor gli attrista,
E per troppo dolor le luci abbassa,
Onde la spera sua splende più bassa.
Mentre più d’un ornato, e ben disposto,
Costretto il caldo cor gli tien co’l gielo,
E che ’l bel viso suo gli tien nascosto
La donna con la man sinistra, e ’l velo,
Vede un balcone à suoi bei lumi opposto,
Che guarda ov’ei più s’alza à mezzo il cielo,
Fà più ratto à destrier batter le piume
Per giungervi, e scontrar lume con lume.
Dove vuol comparir si chiaro, e adorno,
Di così illustri spoglie, e così rare,
Che vedrà, che di quei, ch’ella ha d’intorno,
Alcun non v’ha, ch’à lui possa esser pare.
Hor mentre i destrier punge al mezzo giorno
Per meglio il suo splendor quindi mirare,
Nel tempio sempre qualche raggio invia,
Che quel, ch’ivi si fa, riguarda, e spia.
Tosto, c’ha dato al sacro officio fine
Il riccamente ornato sacerdote,
Leva Leucotoe le ginocchia chine,
Con le donzelle sue fide, e divote.
Quel libro, che le cose alte, e divine
Discopre à gli occhi altrui con ricche note,
Ad una dà, che con l’inchin l’honora,
Il prende, e ’l bacia, e poi s’inchina anchora.
A pena ha per partirsi alzato il piede
Dal tempio, ove adorò la bella figlia,
Che più d’un solar raggio, che la vede,
N’avisa il Sole, et ei ritien la briglia.
Al regal tetto suo la donna riede
Con honorata, e splendida famiglia,
Il caldo Dio, che di goderla intende,
Con mille intorno à lei raggi risplende.
La porta incontra à Noto, e ’l regio Claustro
Guarda, ella và verso Settentrione,
E ’l Sol fa gir, che stà fra l’Euro, e l’Austro,
L’ombre fra l’Occidente, e l’Aquilone.
La spera allhor, che vien dal solar plaustro,
La destra guancia à vagheggiar si pone,
Ma perche troppo amor l’ha fatta ardente,
S’oppon la destra, e ’l velo, e no’l consente.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|59}}</noinclude><poem>
Troppo gran gelosia gli entra nel petto,
Quando di novo oppon la mano, e ’l panno,
E che concede il suo divino aspetto
A quei, che’ à lei da man sinistra vanno.
E tutto pien d’invidia, e di sospetto,
Fà lor quel, che far puote, oltraggio, e danno.
E come alcun di lor mirarla ardisce,
Gli dà i raggi ne gli occhi, e l’impedisce.
Mai non la perde d’occhio, ovunque vada,
E non si cura più d’andar si forte.
Giunge Leucotoe in capo de la strada,
E già preme co piè le regie porte.
Il Sò più co’l pensier di fuor non bada,
Ma l’attende à man manca entro la corte,
E poi che ’l tetto à lei grat’ombra porge,
Sempre ha qualche spiraglio, onde la scorge.
Acceso Sol, che co’l tuo raggio ardente
Tutte quante le cose abbruci, e cuoci,
Hor sei bruciato, et ardi parimente
Et à te, et à noi più caldo nuoci.
Non vuoi si fermi in lei l’occhio, e la mente,
Che i tuoi volin destrier tanto veloci,
E mentre per mirar non cangi loco,
Infiammi il giorno à noi di doppio foco.
S’à mensa siede, ò pur parla, e discorre,
Ó passa il tempo in qual si voglia guisa,
Sempre un raggio solar la dentro corre,
E di quel, ch’ella face, il Sole avisa.
Quell’occhio, il qual dovria per tutto porre,
Tutto in un luogo il caldo amante affisa,
L’occhio, che riguardar debbe ogni parte
Dal bel viso di lei già mai non parte.
Quelle hore si noiose, e tanto ardenti,
Quando percote à Borea il Sol la fronte,
Ch’ardon di caldo il cielo, e gli elementi,
E che all’ombra d’un’arbore, ò d’un monte
Fan, che ’l pastor si posi, e s’addormenti,
Rimembrano l’incendio di Fetonte,
E ne fanno i mortai qualche bisbiglio,
Ch’auriga sia qualche inesperto figlio.
Nessun per gran negotio, che s’havesse,
Seguire osava allhor il suo viaggio,
Ma convenia, che nell’albergo stesse,
Fin che fosse men caldo il solar raggio.
Non era vento in aria, che potesse
Spirare, anzi ciascun provido, e saggio,
S’era per non restar dal Sol bruciato
Ne le caverne d’Eolo ritirato.
Ogni huom và ne la stanza più sotterra,
Ogn’huom cerca al suo mal qual puote, aviso,
E poco vi mancò, ch’allhor la terra
Non sollevasse il polveroso viso
Al Re, che l’arme di Vulcano atterra,
Che quel, che stà nel solar carro assiso
Punisse, pure anchor stà dubia, e aspetta,
Per non venir sì tosto à tal vendetta.
Ben molti san, che ’l Sol co’l Cancro stando,
Convien, che sopra noi più alto monte,
E che i suoi raggi sian più caldi, dando
A piombo quasi ne la nostra fronte.
E che sia il giorno anchor più lungo, quando
Il maggior arco è sopra l’orizonte,
Pur tanto hoggi arde, e lungamente dura,
Ch’à tutti par, che passi ogni misura.
Se sapesser nel cor come tu cuoci,
E ’l mirar lei di quanto ti contenti,
S’à gli animali, à gli elementi nuoci,
E se mandi i tuoi rai soverchio ardenti,
E se fai, che i destrier van men veloci,
Forse ti scuserian l’offese genti:
Ma poi che ’l fin non veggon del tuo sguardo,
T’accusan, che tu vai crudele, e tardo.
Se nessun può soffrir l’empia facella,
Che rende il mezzo dì cotanto acceso,
Come farà la misera donzella,
Verso cui tutto il lume ha sempre inteso.
Ne la più bassa stanza stassi anch’ella,
E ’l volto asciuga dal sudore offeso,
E con le penne fa del vago augello
Di Giunon vento al viso humido, e bello.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Un picciol Sol, ch’ov’è la donna, splende,
Vede il gran mal, che forza è, che ne segua,
E s’ei con tanta forza il giorno accende,
Quanto l’amata figlia si dilegua;
Rapporta al solar corpo, e fa, che intende,
Che lei, che tutti con sua falce adegua,
De’ Persi adeguerà l’alta Reina
A morti, s’à l’occaso ei non s’inchina.
Quando l’affitto innamorato ascolta,
Che per soverchio ardore ella si sface,
E che tosto le fia da morte tolta,
Se scalda il dì con si cocente face:
Con una nube lagrimosa, e folta
S’asconde il volto, e ’l dì men caldo face.
E ’l grosso lagrimar dimostra quanto
Sent’ei dolor, ch’ella patisca tanto.
Quei, che sapean, che l’humido vapore,
Che manda freddo al ciel la terra calda,
Formar tal nube suol, che ’l freddo humore
Serva, mentre star puote unita, e salda,
Credean, c’hor, che riverbera l’ardore
Tanto, che sopra anchor le nubi scalda,
Per resistere al foco unito fosse
Quel giel, che fa le gocce cosi grosse.
Ma s’ingannan d’assai, che nasce altronde
La nube, che gli oscura il chiaro volto.
Il suo mesto pensier la luce asconde,
Da questa nube il suo splendor gliè tolto.
Le grosse, tempestose, e subit’onde,
L’humor, che vien più saldo, e più raccolto,
Son le lagrime sue, che tai le spande
Per mostrar quanto il suo dolore è grande.
Lo spesso lagrimar, che l’occhio atterra,
Dà ristoro à l’asciutto, anzi arso seno
De la distrutta, e polverosa terra,
Et à tutti i mortai, che venian meno.
Quando l’amante stà per gir sotterra,
Si scopre più temprato, e più sereno,
Che vede l’amor suo, che si diporta,
E ’l vagheggiar di lui talhor sopporta.
Come se da Pirati alcuno è preso,
E contra il suo voler la patria lassa,
In nave l’occhio tien d’amore acceso
Al lito, e ’l legno il porta, e innanzi passa.
E mentre ei vi tien l’occhio caldo, e inteso,
La nave s’alza, e la terra s’abbassa,
E poi che ’l mare anchor tutta l’asconde,
Riguarda in quella parte il cielo, e l’onde.
Così dal desio preso, che conduce
L’innamorato Sole ad occultarsi,
Si che quando di sopra egli non luce,
Possa il suo amor co’l sonno ricrearsi.
Tien sempre volta à lei l’accesa luce,
E contra il suo voler lascia abbassarsi,
E poi che l’onda anchor gli ha posto il velo,
Riguarda in quella parte il mare, e ’l cielo.
Volte che l’ha le sue splendide terga,
Al suo nobil palazzo, che già vede,
Sferza i destrier con più feroce verga,
Giunge, e tirando il fren, lor ferma il piede.
Scende del carro, l’Hora, che l’alberga,
Si maraviglia, che sì mesto riede:
Ma non s’arrischia punto dimandarlo,
E non sà trovar via da consolarlo.
Ne nettare, ne ambrosia il può cibare,
Ne ciò che dà la sua splendida mensa.
E se pur mangia, poco il può gustare,
Ma sol discorre con la mente, e pensa.
Tal, che chi il serve, può considerare,
Ch’egli nel cor sente una pena immensa,
E più che pria di quel, ch’è suo costume,
Andò à trovar le sue splendide piume.
E tanto il punge amor, l’ange, e ’l flagella,
Che riposar non può, ne men dormire,
E per veder la donna amata, e bella
Par, che non vegga mai l’hora d’uscire.
Di subito levossi, et ogni stella
Innanzi tempo assai fece sparire.
Stupisce ogn’un, che ’l Sol si tosto rotte
Habbia l’oscure tenebre à la notte.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|60}}</noinclude><poem>
Ma non è da stupir, s’ei non assonna,
Che ’l suo desio gli fa tropp’aspra guerra,
E per mirar la sua sì vaga donna,
Gli par mill’anni illuminar la terra.
E se tempo si lungo l’aurea gonna
Mostra à mortali, e non vuol gir sotterra,
Fallo, perc’ha di lei troppo diletto,
Ne può l’occhio levar dal grato obietto.
E s’hoggi, e gli altri giorni anche il vedrete
Di questa state far si lunghi i giorni,
E vi dorrà (si caldo il sentirete)
Ch’al ricco albergo suo si tardi torni,
E se quando è di sotto scorgerete
In quanto poco tempo il mondo aggiorni,
E quanto si distrugga, e si consumi,
In grossa pioggia distillando i lumi.
Se ben vi sovverrà del giorno adrieto,
Troverete, ch’Amor fa quegli effetti
Ne l’infiammato Sol, ch’è consueto
Di far ne gli altri innamorati petti,
E se dapoi sarà più dolce, e lieto,
Come nel carro suo la Libra accetti,
Verrà, ch’à lei talhor non parrà grave
Godersi alquanto al suo raggio soave.
Sol, se la luce tua talhor vien bruna,
E tinta par d’insanguinati inchiostri,
Non vien, perche ’l denso orbe de la Luna,
S’interpon fra ’l tuo lume, e gli occhi nostri.
Amore è quel, che ’l tuo bel viso imbruna,
Amor vuol, che sì pallido ti mostri,
Quel color tristo, e scuro amor ti porge,
Che dà tanto terrore à chi lo scorge.
Quando la Capra poi, che nutrì Giove,
Di tenebrose nubi il cielo adombra,
E che l’Aquario si sovente piove,
Che tutta l’acqua sua dal viso sgombra,
E ch’ella de l’albergo non si move,
Che l’acqua il ciel, la terra il fango ingombra,
Anzi di modo al giel chiude il viaggio,
Che non può penetrarvi il solar raggio,
Allhora il cauto amante, perche tolto
Non gli sia da chi serra al freddo il varco,
Di poter contemplar l’amato volto,
Fà sopra l’orizonte un picciol arco,
E come s’è nel suo tetto racolto,
E de’ bei raggi suoi libero, e scarco,
D’una veste invisibile si copre,
E in casa entra di lei, ne alcun lo scopre.
Ne và, che non è visto in quella parte,
Dove la bella vergine dimora,
E la contempla tutta à parte, à parte,
E quanto mira più, più s’innamora.
Ammira il parlar dolce, e non si parte,
Che la vede mangiar, spogliarsi anchora,
E restar sola con due damigelle,
Che le scopron le membra ignude, e belle.
In quella occasion come la vede,
Pensa ire à porsi in quel felice letto,
E palesarsi, e poi goder si crede
Quel, che può dare amor maggior diletto.
Fà due, e tre volte andar l’acceso piede;
E due, e tre volte il ferma, c’ha sospetto,
Ch’ella non voglia udir, non gridi forte,
E non metta à romor tutta la corte.
Di trasformarsi in qualche forma approva,
Ch’ella habbia in tanto honore, e riverisca,
Che mentre parla in quella forma nova
L’ascolti, e fare un motto non ardisca.
Pensa far poi qualche mirabil prova,
Che non c’habbia à gridar, vuol ch’ammutisca.
E con questo pensier rivolge il tergo
A quella stanza, e torna al proprio albergo.
È stanco il Sol, che ’l carro andando à torno,
Un fangoso camin sempre ha trovato:
E dove fa la sua donna soggiorno,
A piedi venne, à piè se n’è tornato,
Tanto, che starà troppo à dare il giorno
Lo stanco, et addormito innamorato,
Ch’è stato un tempo in gran pensiero inteso,
Poi l’ha tutto affannato il sonno preso.
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L’hore del sonno in pensier passi, e in pianti,
E fai Sol come gli altri innamorati,
E poi t’addormi, e lasci i viandanti,
E gli altri, che t’aspettan disperati.
Sol questo tuo indugiar piace à gli amanti,
Che con piacer si tengono abbracciati,
I quai vorrian, così contenti stanno,
Che questa notte anchor durasse un’anno.
Stupisce ogn’un, c’homai lo Dio non giunga,
Al cui novo apparir l’aria s’aggiorna,
Ne ad alcun par, che notte cosi lunga
Nascesse mai da le caprigne corna.
Non aspettate anchor, che i destrier punga,
Ne vi maravigliate se non torna,
Che tutta notte hanno perduto il sonno
Gli occhi, c’hor dal dormir tor non si ponno.
Come si sveglia, e leva, e l’aria vede,
E che da l’hore matutine intende,
Come l’Aurora è già gran tempo in piede,
E discaccia le tenebre, e l’attende.
Le ricche veste, i raggi, e i destrier chiede,
Si veste in fretta, e sopra il carro ascende,
Sorge, et al primo dà nel regio tetto,
Che gli nasconde il suo maggior diletto.
Non ardea sì star sopra l’orizonte
Ne la calda stagion, quando potea
Il vago viso, e le bellezze conte
Vedere in ogni parte che volea:
Quanto brama hor coprir l’aurea sua fronte,
Che come vuol l’offesa Citherea,
Vuol gire à riveder (che si rimembra
Del piacer, che li dier) l’ignude membra.
Accusi pure il Sol, sia chi si voglia,
Ch’ei troppo avaro sia de la sua luce,
Che poco ei se ne cura, che lo voglia
A l’interesse proprio il riconduce.
Vuol la donna veder quando si spoglia,
E di tal vista contentar la luce,
Ne si cura, s’alcun di lui si dole
Che toglia così tosto al giorno il Sole.
Giunto, si fa invisibile, e ritorna,
E lei mira, e vagheggia insino à tanto,
Che de le ricche veste si disorna,
Poi vede à l’alma un più leggiàdro manto.
Indi si parte, e posa, e tardi aggiorna,
Ma non gli viene occasione intanto
Di far quel, che desia, ne mai gli venne,
Fin che co’l Toro il suo camin non tenne.
Allhor vede una sera, che la madre
Ha cosa à far (ch’Eurinome s’appella)
Un lungo tempo co’l marito, e padre
De l’amata da lui vergine bella.
Le disposte di lei membra leggiadre,
Tosto si veste, e si trasforma in ella.
E come in sala appare, ogn’un s’inchina
Credendola ciascun la lor Reina.
In quella adorna stanza il Sol pon mente,
Dov’egli ha posto il trasformato piede,
Et una bella, et honorata gente
Di degni huomini, e donne aspettar vede.
Passeggia l’huomo, e dà l’occhio sovente
Verso la donna, che in disparte siede,
Piace à la donna, e tien la luce bassa,
E con gran dignità mirar si lassa.
De la gente confusa, e non distinta,
Quella aspettava il Re, la moglie questa,
Compare in tanto la Reina finta,
E si china ogni pie, scopre ogni testa.
La corte de la donna urtata, e spinta
Da se medesma và, quell’altra resta.
Ogn’un s’appressa, e luogo si procaccia,
Ch’à l’entrar la Reina il vegga in faccia.
Più d’un s’inchina, e cosa che gl’importa
Chiede humilmente, et ella con quell’arte,
Ch’Eurinome suol far, con lor si porta,
Et hor questo, et hor quel tira da parte,
E giustamente come l’altra accorta,
A quei, ch’ella ama, il suo favor comparte;
E poi con poca, e più degna famiglia
Se n’entra ove sedea la bella figlia.
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Là dove molte havea donne, e donzelle
L’appartamento riccamente ornato,
Le più ricche, più nobili, e più belle,
C’havesse tutto il suo felice stato.
La figlia si levò, levarsi anch’elle
Al dir d’un paggio, ch’era innanzi entrato,
Che venia la Reina à ritrovarla,
E ver la porta andò per incontrarla.
Come s’incontra l’uno, e l’altro lume,
L’accorta figlia subito s’inchina,
E quel fa honore al trasformato Nume,
Che suol far quando incontra la Reina,
E con lodato, e nobile costume
Del viso solamente il ciglio china,
China molto il ginocchio, adagio, e à tempo,
E ne l’alzarsi pon l’istesso tempo.
Di quà, di là s’inchina ogni donzella,
E tutte à tempo, e ne la stessa guisa.
La finta madre ne la figlia bella,
E ne gli atti suoi nobili s’affisa.
Lieta l’accoglie, e bacia, e le favella,
E degnamente ove conviensi assisa,
Alzando il ciglio ad una vecchia disse,
Che tosto di quel luogo ogni altra uscisse.
Come fu senza testimoij intorno,
(Come solea la madre alcuna volta)
Così ragiona il formator del giorno
Verso di lei, che riverente ascolta.
Quel puro lume io son, che ’l cielo adorno
Del più chiaro splendor, che vada in volta,
Io son quel Dio, la cui splendida luce
Fà, che la Luna, et ogni stella luce.
Io son quel Dio, per cui la terra, e ’l cielo
Vede ogni cosa, io son l’occhio del mondo,
E tiemmi acceso il cor d’ardente zelo
L’alma beltà del tuo viso giocondo.
E che sia il ver questo mentito velo
Mi toglio, e à gli occhi tuoi più non m’ascondo.
E in un batter di ciglio si trasforma,
E torna il Sol ne la sua propria forma.
Al primo suon, che la donzella intende,
Che quel, che de la madre have il sembiante,
È ’l chiaro Dio, che ’n terra, e ’n ciel risplende,
E come amor di lei l’ha fatto amante;
Improviso stupor tutta la prende,
E vuol dir non so che tutta tremante;
Come ne l’esser suo poi vede il Sole,
Perde i sensi, i concetti, e le parole.
E pria, che ’l resentito sentimento
Desse vita à lo spirto stupefatto,
Havea già il Sole havuto il suo contento,
E dato à pieno il suo diletto al tatto.
Ella con pianto, e tacito lamento
Si doleva del Sol, c’havea mal fatto.
Ma il Sole in fatto, e ’n detto oprossi tanto,
Ch’al fin le fe cessar la doglia, e ’l pianto.
E poi fa sì, che la contenta figlia,
Che tal la vede, per madre l’appella.
Poi torna con la solita famiglia,
Ma, dove il Re si stava, entra sola ella.
Dove invisibil fassi, e ’l camin piglia
Verso la stanza sua superba, e bella.
Sì spesso vi và poi senz’esser madre,
Che Clitia se n’accorge, e ’l dice al padre.
È tanto il grande amor, che Clitia porta
Al Sol, ch’un tempo amante fu di lei,
Che resta per invidia mezza morta
Quando vede lasciarsi per costei.
Discopre il tutto al padre, e poi l’essorta,
Che secondo la legge de’ Sabei
Sepolta viva sia, tal che ’l suo scempio
Sia per l’altre donzelle eterno essempio.
Come la Ninfa invidiosa prova
Lo stupro à l’infelice suo parente,
E sà di sorte oprar, ch’egli la trova
Del corpo violata, e de la mente;
Non senza gran dolor la legge approva,
Che condanna la vergine nocente.
E se ben n’ha pietà, fà, che sotterra
Sia posta in un giardin fuor de la terra.
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Mentre il crudo carnefice la vole
Por ne la fossa, ove coprirla intende,
Le mani, e gli occhi l’infelice al Sole,
E le querele sue dirizza, e tende.
Ne sanno altro sonar le sue parole,
Se non, ch’ella per lui quel male attende.
La cala, e copre il rio ministro intanto,
E la via chiude à le parole, e al pianto.
Come s’al cavo specchio il Sol da il lume,
Il piramidal raggio che riflette,
Scaldando fa, ch’à poco à poco fume
Dove la punta à dar ferma si mette:
Fan, che ’l foco da poi batta le piume
Le forze in quella cima unite, e strette
Del Sol, che fere ogni hor nel cavo loco,
Che forma la piramide, e fa il foco.
Cosi convesso allhora il Sol formosse,
E i rai, ch’erano sparsi, insieme unio,
E fe, che la piramide percosse
La terra, che la vergine coprio.
E contra quel terren tanto sforzosse
Col raggio, e con l’ardente suo desio,
Che fece il fumo al ciel salir per forza,
E ’l foco al suo splendore aprir la scorza.
Intanto al Sole un picciol raggio apporta,
Che potè ne la punta penetrare,
Ch’egli ha veduta la sua donna morta,
E che ’l terren l’ha tolto il respirare.
Apre il misero amante allhor la porta
Al grosso, e tempestoso lagrimare,
E fur tante da lui lagrime sparte,
Che spense il foco acceso in quella parte.
Dapoi scoperse a la sua luce il velo,
E si fe, più che mai lucente, e chiaro,
E disse acceso d’un pietoso zelo,
Fermando gli occhi in quel sepolcro avaro.
Io vo, che vegghi ad ogni modo il cielo,
Ad onta d’ogni tuo forte riparo,
Indi d’ambrosia, e d’ogni odor celeste
Sparge la chioma, il volto, e l’aurea veste.
Fà, che i suoi raggi evaporar poi fanno
L’odor, che da le stelle han gli alti Dei.
E quei vapori ad una nube danno,
Che piove ove ha il terren sepolta lei.
La cui pioggia è cagion, c’hoggi anchor’hanno
Si grato odore i frutti de’ Sabei.
Fa l’odorato humor, che in terra spande
La pioggia, ancho un miracolo più grande.
Che come hebbe il sepolcro tutto sparso
D’ogni celeste, e più pregiato odore,
L’odorifero Sol dolce comparso
Temprò con tal temperie quell’humore,
Che senza haverlo evaporato, et arso,
Oprò, ch’in mezzo al sotterrato core
S’unì quella virtute, e strinse insieme,
La qual per generar serba ogni seme.
Poi dando ogni favor proprio al terreno
Hor grata pioggia, hor temperato raggio,
Fe, che ’l gravido core aperse il seno
Nel dolce mese, il qual precede al Maggio.
Come il guscio aprir suol maturo, e pieno,
Il seme d’una quercia, over d’un faggio,
Che quanto al ciel la cima alza felice,
Tanto stende à l’inferno la radice.
Così intorno al suo cor l’humida terra
E ’l temprato calor talmente adopra,
Che la radice fa stender sotterra,
E ’l fusto per lo corpo venir sopra.
L’incastrature già del capo sferra,
Ne vuol più, che la terra la ricopra,
Rompe il sepolcro, e più non si nasconde,
E mostra al Sol le sue tenere fronde.
L’innamorato Dio come s’accorge,
Che ’l sepolto amor suo sopra è venuto,
E che la luce in altra forma scorge,
Li dà maggior favor, maggiore aiuto.
Fà, che l’arbor, che dà l’incenso, sorge,
Ch’allhor non era al mondo conosciuto,
A l’huom grato, et à l’alme elette, e belle,
Che fa il suo odor sentir fin’à le stelle.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|62}}</noinclude><poem>
La Ninfa, ch’al padre Orcamo scoperse
L’error, che fe con l’invide parole,
Colei, che in si degno arbor si converse,
Non hebbe mai più gratia appresso il Sole,
Ch’ei più non la guardò, più non sofferse
Tentar d’haver di lei diletto, ò prole.
Ne la scusa accettò, che ’l troppo amore
Cader l’havesse fatta in tanto errore.
Come ella vide tanto disprezzarsi,
E non poter mai più con lui sperare
Nel già felice letto consolarsi,
Come in miglior fortuna usò di fare,
Cominciò da le Ninfe à ritirarsi,
Senza fonte gustar, senza mangiare,
Si scapigliò, stè su la terra ignuda,
A l’aria hor chiara, hor bruna, hor dolce, hor cruda.
I suoi giorni digiuni eran già nove,
E ’l fonte, che gustava, era il suo pianto,
E la rugiada, che l’Aurora piove
Il cibo, onde nutriva il carnal manto.
Sol si vedea voltar l’afflitta dove
Vedea girar l’amato Sole, e intanto
Fean nel terren le sue membra infelici
L’allhor non conosciute herbe, e radici.
Converte il corpo suo pallido in herba,
Ma il pallido color non l’è già tolto,
Che ne la foglia anchora il ramo il serba,
Rosso è ’l color del fior, non però molto.
Mostra hoggi anchor la sua fortuna acerba,
Gira à l’amato Sol l’afflitto volto,
Fassi Elitropio, e al Sol si volge, come
Risuona à punto il trasformato nome.
Poi che Leucotoe di Leucotoe disse,
E del novo arbor l’odorato effetto,
E che in quell’herba Clitia convertisse,
Ch’anchor rivolge al Sol l’afflitto aspetto.
Ne la terza sorella ogni altra affisse
Le luci, onde attendean novo diletto,
La qual mentre parlar le due sorelle,
Si venne à proveder di più novelle.
Dal padre fu costei detta Minea,
Che dovea dar di se l’ultimo saggio,
E ’n dispregio di Bacco anch’ella havea
La luce al dipanar volta, e ’l coraggio.
Un panno doppio la manca premea,
Onde il filo al gomitol fea passaggio,
La destra fea del filo, al fil coperchio,
E la palla vestia di cerchio in cerchio.
Facea questo lavor prima ascoltando,
Mentre le due sorelle novellaro,
L’una con l’ago in man, l’altra filando,
Secondo l’essercitio à lor più caro.
Et hor facea il medesmo novellando,
Con dolce favellar, distinto, e chiaro,
E le prime parole accorte, e honeste,
Che l’usciron di bocca, furon queste.
Io non vorrei contar qualche argomento,
Che per ventura poi non vi piacesse,
Ó per saperlo, ò per l’altrui tormento,
Che ’l vostro dolce cor troppo movesse.
Per far dunque ogni cor di me contento,
Io vo, che l’eleggiate da voi stesse,
Più cose io proporrò, degna ciascuna,
E voi farete elettion poi d’una.
Di Dafnide io dirò l’Ideo pastore,
C’havendo di due Ninfe accesa l’alma,
Quella in sasso il cangiò, che del suo amore
Non potè riportar l’amata palma:
Ó del cangiato di Sciton valore,
C’hebbe hor di donna, hor d’huom la carnal salma.
E se questa vi piace, io dirò, come
Lunga hor la barba havesse, hora le chiome.
Ó di Giove dirò di Celmo amante,
Dove un fanciullo ad un fanciullo piacque,
E come trasformollo in un diamante,
E da che madre questo sdegno nacque.
Se questa non vi piace andrò più avante,
E dirò de’ miracoli de l’acque,
Conterò de’ Cureti, et in che foggia
Creati fur da tempestosa pioggia.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
O dirò come Smilace amò Croco,
Ma non potè goder l’amato fianco,
Che nel contender l’amoroso gioco,
Divenner fior, l’un giallo, e l’altro bianco.
Ó narrerò di quello infame loco,
Dove fa un fonte l’huom venir da manco,
Ch’alquanto trasformandosi di vista,
Perde parte d’un membro, et un n’acquista.
Volea proporre anchor molte novelle,
La proveduta giovane Minea,
Ma le disser d’accordo le sorelle,
Che l’historia del fonte à lor piacea.
Mov’ella allhor le note ornate, e belle.
Nacque già di Mercurio, e Citherea
Un figlio, e ’l latte da le Naiade hebbe
Là dove in Ida fu nutrito, e crebbe.
Il nobil viso suo leggiadro, e vago
Hebbe da padri un’aere si felice,
Che in lui scorgeasi l’una, e l’altra imago
Del genitore, e de la genitrice.
Ei di veder varij paesi vago
Lasciò la patria sua, l’idea pendice,
E visto havea quando dal monte Alunno
Partissi, il quintodecimo autunno.
Il desio di veder gl’ignoti fiumi,
Con l’ignote città, l’ignote genti,
Varie d’aspetto, e varie di costumi
Varie di region, varie d’accenti,
Se ben diversi, e strani, hispidi dumi
Spesso passò con rapidi torrenti,
Fea, ch’ogni gran fatica et ardua, e grave,
Li parea dolce, facile, e soave.
Ogni loco di Licia ha già trascorso,
E poi di Licia in Caria ha posto il piede,
La dove pargli raffrenare il corso
Vicino à un fonte cristallin, che vede,
Che subito l’invita à darvi un sorso
L’humor, che in limpidezza ogni altro eccede,
Che lascia (in modo egli è purgato, e mondo)
Penetrare ogni vista insino al fondo.
Spinoso giunco, over canna palustre
Non fa ne l’orlo altrui noia, ò riparo,
Ma terra herbosa, e soda il fa si illustre,
Ch’avanza ogni artificio human più raro.
Hor come giunge il giovane trilustre
A cosi nobil fonte, e cosi chiaro,
Vuol ristorar di quello humore il volto,
Che gli ha ’l Sole, e ’l camin co’l sudor tolto.
Gusta con gran piacer quel chiuso fonte
Preso il garzon dal caldo, e da la sete,
Le man si lava, e la sudata fronte,
E poi và sotto l’ombra d’un abete,
Che fin, che ’l Sol non cala alquanto il monte,
Vuol dar le lasse membra à la quiete:
Ma siede à pena in su l’herbosa sponda,
Ch’una Ninfa lo scorge di quell’onda.
A questa bella Ninfa mai non piacque
L’andare à caccia, al seguitar Diana,
Come l’altre facean, ma si compiacque
Di non s’allontanar da la fontana.
Le disser le sorelle homai quest’acque
Lascia Salmace alquanto, e t’allontana,
Non star ne l’otio, in si nefando vitio,
Ma datti à più lodevole essercitio.
Prendi Salmace l’arco, e la faretra,
E con noi vienne in più lontana selva,
Come fan l’altre, e da Diana impetra
Di ferir seco ogni silvestre belva.
Ma da lor sempre Salmace s’arretra,
O s’attuffa nel fonte, ò si rinselva
Fra gli alberi suoi proprij, e si compiace
Godersi ’l suo paese, e starsi in pace.
Senza cura tener de le sorelle
Lieta si stà à goder le patrie sponde.
Lava talhor le membra ignude, e belle
Nel dolce fonte suo, ne le chiar’onde.
Talhor siede su l’herbe tenerelle,
E stassi à pettinar le chiome bionde.
Guarda talhor ne l’acque, e si consiglia,
Come s’acconci, e al suo voler s’appiglia.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|63}}</noinclude><poem>
Coglie hor fior per ornarsi, e ’n sen gli serba,
E forse anche in quel tempo il fior cogliea,
Che vider gli occhi suoi seder sù l’herba
Il figliuol di Mercurio, e Citherea.
Mira, e non scorge in quella etate acerba,
S’egli ha d’un Dio l’aspetto, ò d’una Dea.
Ma dal vestir, che sia fanciullo intende,
E de l’amor di lui tosto s’accende.
E ben che la spronasse una gran voglia
Di gire à far col bel garzon soggiorno,
Pur non v’andò, che rassettò la spoglia,
E diè l’occhio à le vesti d’ogn’intorno.
Guarda come il suo crin leghi, e raccoglia,
Perche paia più vago, e meglio adorno.
Compone il viso, e non si mostra, ch’ella
Merita in tutto esser veduta bella.
Come con l’acque si consiglia, e vede
La veste acconcia, il viso, il velo, e ’l crine,
E le pare esser tal, ch’al fermo crede
Venir con esso al desiato fine:
Move l’acceso, e desioso piede
Ver le bellezze angeliche, e divine.
Fermò poi gli occhi in lui fisi, et intenti,
E fe l’aria sonar di questi accenti.
Spirto gentil, ch’alberghi in si bel nido,
Che divin ti dimostra, e non mortale.
E se pur sei divin, tu sei Cupido,
Se ben non porti la Faretra, e l’ale.
Ben ti fu quello albergo amico, e fido,
Che pose tanto studio à farti tale,
Che ti diè sì bel viso, e sì giocondo,
Ch’un simil mai non n’ha veduto il mondo.
Felice madre di si nobil frutto,
E se sorella n’hai non men felice,
Ne di lei men, ne di chi t’ha produtto,
Si può chiamar beata la nutrice.
Ma ben gradita, e fortunata in tutto
La sposa è (se tu l’hai) cui goder lice
Si delicate membra, e sì leggiadre,
Che ti formò si gloriosa madre.
Se giunto à sposa sei, non ti sia grave,
Ch’io furtivo di te prenda diletto,
E ch’io goda d’un don, così soave,
Come promette il tuo divino aspetto.
Se nodo coniugal stretto non t’have,
Fà me tua sposa, e fa comune il letto.
Non mi negare, ò sia legato, ò sciolto,
Ch’io goda di quel ben, ch’è in te raccolto.
Così disse la Ninfa al gentil figlio,
E tutta intenta la risposta attese.
Et ei con gran rispeto abbassò il ciglio,
Tal rossore, e vergogna il vinse, e prese.
Il dolce viso suo bianco, e vermiglio,
Di più bel rosso subito s’accese.
Quel color, che ’l dipinse à l’improviso,
Gli fe più bello, e gratioso il viso.
Come quando il mezzo orbe à noi tien volto
Delia, in cui fere il formator del giorno,
E mostra tutto l’allumato volto,
Onde la veggiam piena, e non col corno,
Se da la terra vien quel lume tolto,
Che ’l ricopra con l’ombra d’ogn’intorno,
Fra lei stando, e fra ’l Sol, la Luna astringe,
Che d’ostro il suo color confonde, e tinge.
Così al fanciullo la vergogna tinse
Il volto col sanguigno suo pennello
D’un ostro natural, che gliel dipinse
Di maggior gratia, e ’l fe venir più bello.
Con le cupide braccia ella l’avinse,
E diede un bacio à quel color novello,
Ben ch’à la bocca il bacio elIa converse,
Ma il garzon torse il viso, e no’l sofferse.
Non sa, che cosa è amor, ne che si voglia
Il semplice garzon la Ninfa bella,
E cerca tutta via come si scioglia
Da lei, che in questa forma gli favella.
Lascia amor mio, che da tuoi labri io toglia
Baci almen da congiunta, e da sorella.
Se quei dolci d’amor dar non mi vuoi,
Non mi negar quei de’ parenti tuoi.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Il dolce soro, e mal’accorto figlio
Prova sciorsi da lei, ma dolcemente,
Le parla poi con vergognoso ciglio,
Con sì timido dir, ch’à pena il sente.
A più grato camin tosto m’appiglio,
(Ch’io mi sciorrò per forza finalmente)
Se tu m’annoi, e mi molesti tanto,
E da te non ti sciogli, e stai da canto.
Perch’ei non se ne vada, e non la lassi,
(Come questo parlar la Ninfa intese)
Da lui si spicca, e ritirata stassi,
Seco favella poi tutta cortese.
Altrove non voltar giovane i passi,
Godi sicuro, e sol questo paese.
Già cedo al solitario tuo desio.
E perche ci stia tu, me ne vad’io.
Così dicendo subito si parte,
E fra certi arbuscelli si nasconde,
E china le ginocchia, e con grand’arte
Fura il bel viso suo fra fronde, e fronde.
Ei si diporta in questa, e in quella parte,
E poi torna à goder le limpide onde.
L’invita il fonte, e ’l caldo gli rimembra,
Ch’ivi è ben rifrescar l’ignude membra.
E però, ch’osservato esser non crede,
Fa saggio pria del suo temperamento,
E poi discalza l’uno, e l’altro piede,
E spoglia il ricco, e molle vestimento.
Come la bella Ninfa ignudo il vede,
Infiamma di tal foco il primo intento,
Che gli occhi suoi lampeggian, come suole
Lampeggiar vetro, ove percuote il Sole.
E si può à pena ritenere, (e fullo
Per far) di correr tosto ad abbracciarlo,
Ma stà, che (se ne l’acqua entra il fanciullo)
Con più vantaggio suo potrà poi farlo,
Che quel, ch’ella d’amor brama trastullo,
Quivi otterrà, ch’ei non potrà negarlo,
Che di quella fontana essendo Ninfa
Ha tutto il suo potere in quella linfa.
Entra ei ne l’acque cristalline, e chiare,
Dove à la Ninfa il fonte non contende,
Che possa à quel bel corpo penetrare
Con l’occhio, che sì cupido v’intende.
Come in un vetro una rosa traspare,
Che chiusa à gli occhi altrui di fuor risplende,
Tal chiuso ei traspare nel picciol fiume
Al lampeggiante de la Ninfa lume.
Alza la voce allhor la Ninfa lieta.
Habbiam sicuro già vinto il partito.
Nessuna cosa più mi turba, e vieta,
Ch’io non t’abbracci, e faccia mio marito.
Le gioie, il sottil lin, la ricca seta,
Ogni ornamento suo getta su’l lito,
E corre ignuda, e cupida, in gran fretta
Nel fortunato suo fonte si getta.
La dove giunta subito l’abbraccia,
E dove più l’aggrada, il palpa, e tocca,
Li tien poi con le man ferma la faccia,
E se bene ei no’l soffre, il bacia in bocca.
Con le gambe, e le man tutto l’allaccia,
Contra la mente sua semplice, e sciocca.
Che ben è sciocco, e semplice colui,
Che se di tanto ben priva, et altrui.
E gli si scuote, e la discaccia, e spinge,
Irato al fin, la prende per le chiome.
Come l’hedera intorno il tronco cinge,
E con più rami s’avviticchia, e come
Quel pesce il pescatore afferra, e stringe,
Che da molti suoi piè Polipo ha nome.
Così lega ella il giovane con ambe
Le braccia, e con le mani, e con le gambe.
Lo stringe ella, ei si scuote, e ’l crin le tira,
Cadon su’l lito, et ei perche no’l goda,
Si torce, e sforza, tal l’augel, che mira
Fiso nel Sol, talhor la serpe annoda,
Che mentre l’ha ne i piedi, e al cielo aspira,
La serpe il lega tutto con la coda,
E l’ali spatiose in modo afferra,
Che cadon spesso ambi in un gruppo in terra.
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Ei stà nel suo proposito, e contende,
E nega à quella il desiato bene,
Ma à poco à poco ella in tal modo il prende,
Che come era il desio, se’l gode, e tiene.
E mentre ingorda al suo contento intende,
Di grado in grado in tal dolcezza viene,
Ch’alza i travolti lumi al cielo, e move
Un parlar pien d’affanno, e rotto à Giove.
Fa sommo Dio del gran piacer, ch’io sento
Tutti i miei sensi eternamente ricchi,
E che ’l ben, che mi dà si gran contento,
Mai da me non si parta, e non si spicchi.
Et ecco, non so come, in un momento
Par ch’un corpo con l’altro in un s’appicchi.
Le cosce si fan due, che quattro foro,
Cosi le braccia, e l’altre membra loro.
Già la schena di lei di pancia ha forma,
Che la pancia di pria ne l’huomo è entrata.
Già d’un corpo comun l’un l’altro informa,
E fanno una figura raddoppiata.
Il doppio collo, e viso, un Sol si forma,
E fassi un huom d’effigie effeminata.
Son due, ma non però fanno una coppia,
Ma in un corpo comun la forma è doppia.
Cosi ramo con ramo anchor s’innesta,
E poi, che ben s’è unito, e alquanto alzato,
Così conforme l’uno à l’altro resta,
Che par, che ’l ramo sia nel tronco nato.
Così la donna, e l’huom fanno una testa,
Ma non è alcun di lor, quel, ch’è già stato.
Non è donna, ne d’huom, ma resta tale,
Ch’è donna, et huom, ne l’un ne l’altro vale.
Come il figliuol di Mercurio s’accorge,
Ch’egli è fatto mez’huom, d’un huomo intero,
E che gli ha l’acqua chiara, ch’ivi sorge,
Effeminato il suo volto primiero,
Queste preghiere à suoi parenti porge,
Ma non co’l suo parlar virile, e vero.
Con voce dubbia al ciel le luci fisse,
E questi prieghi Hermafrodito disse.
Pietosa madre mia, genitor pio,
Fare al vostro figliuol gratia vi piaccia,
Ch’ogni huom, che in questa fonte entra, com’io
Fra la donna, e fra l’huom dubbio si faccia.
Allhor la madre Dea col padre Dio
Fan, che in quel fonte l’huom cangi la faccia.
Quell’acque fan di tanto vitio sparte,
Ch’ogni huomo Hermafrodito se ne parte.
Già novellato havendo ogni sorella,
Schernendo Bacco à l’opra s’attendea,
Mentre per la città la pompa bella
Da tutto quanto il popol si facea.
E già per tutto il ciel più d’una stella
Levata à la sua luce il velo havea,
Si vedea l’aria dubbia d’ogn’intorno,
E non si potea dir notte, ne giorno.
Quando più d’una tromba, e d’un tamburo
Par, che la casa à l’improviso introni,
E renda sordo l’aere mezzo oscuro,
Senza che veda alcun chi sia, che suoni.
Il cavo rame, il ferro unito, e duro
Fan tintinnare il ciel di vari suoni.
Ingombran dopo l’aere oltre à romori
Mirra, ambra, e croco, et altri varij odori.
Ma quello (onde maggior ciascun haver de
Maraviglia) è il veder, ch’ogni lor vesta
Il suo primo color trasforma, e perde,
E d’hedera, e di fronde vien contesta.
Vede Alcitoe, che ’l lin diventa verde,
E che pampino è ’l fil, che ’l dito appresta.
E come al grave fuso i lumi intende,
Scorge, ch’un raspo d’una è quel, che pende.
L’altra, ch’un cedro nel collar pingea,
Riguarda, e crede haver errato anch’ella,
Che l’uva in quella vece vi scorgea;
Tolse tosto il coltel de la cistella,
Che quella seta via levar volea,
Che veniva à guastar l’opra sua bella.
E trova, come il picciol ferro stringe,
C’ha in man la falce da potar le vigne.
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L’altra non vede l’arcolaio quel, ch’era
Ma ’l secco legno un’olmo vivo cresce,
E lo scorge cangiarsi in tal maniera,
Ch’ogni legno di lui ramo riesce.
Pampino in copia, et uva bianca, e nera,
Del fil, ch’è intorno à lui, si forma, et esce,
Cresce il gomitol poi, s’ingrossa l’accia,
E al fin di viti verdi un fascio abbraccia.
Ardon per casa lampade, e facelle,
E sentonsi ulular diverse fere,
Ch’esser mostrano al suon crudeli, e felle,
Orsi, Tigri, Leon, Pardi, e Pantere.
L’esterrefatte subito sorelle
Si levan con gran fretta da sedere,
E con timido piè fugge ciascuna,
Dove le par, che sia l’aria più bruna.
E così come avien, che nel timore
Spesso l’huom suol tutto in un gruppo farsi,
Acciò che ’l giel, che fa tremare il core,
Men nuoca à membri, di timor cosparsi;
Tal per unire il natural calore
Venner con tutto ’l corpo ad incurvarsi
Le tre sorelle, e ’l non veduto Nume
Le fe gli augei, che son nemici al lume.
S’impiccolano i membri, e vengon tali,
Che l’augel tutto è come un passer grande.
Di cartilagine ha le deformi ali,
E quelle senza piume à l’aria spande.
Odia la luce, e tutti gli animali,
Ne s’annida già mai fra pruni, e ghiande,
Compare al buio, e case habita, e grotte,
E Nottola vien detta da la notte.
Si maraviglia ogn’una di vederse
Volar per l’aria tenebrosa, e sola,
E come si gran membra sian converse
In poca cartilagine, che vola.
E mentre s’arma ciascuna à dolerse,
Non può la voce sua formar parola,
Il grido al picciol corpo si conface,
Et è forza, che strida, se non tace.
Allhor di Bacco il glorioso nome
Per tutta la città maggior si sparse.
Altro la zia non fea, che contar come
Con suoni, e faci à le donzelle apparse.
Come dal vespro anchor l’augel si nome,
Da l’hora, che ’l lor volto human disparse,
Come l’irato Dio dispose, e volle,
La cui pompa stimar bugiarda, e folle.
Ino fa si sublime ogni suo fatto,
I miracoli suoi, la sua possanza,
Ch’in ogni suo proposito, in ogni atto
Fà rifrescar di lui la rimembranza.
Tal che non può soffrire ad alcun patto
Tanta gloria Giunon, tanta arroganza.
Non può soffrir colei, ch’ogni hor favella
Del figlio de la pellice sorella.
A morte odia Giunon questa famiglia,
Perche Giove di lor n’amò già due.
E però di estirparla si consiglia,
Perche da lor non le sia tolto piue.
Lassa (dicea) d’Agenore la figlia
Già il fece in Tiro diventare un Bue.
La meretrice poi, d’onde hebbe Bacco,
Co’l regio manto il fece ire in Baldacco.
Restò da l’amor suo bruciata e spenta
Semele, al dimandar credula, e insana.
Autonoe per lo figlio è mal contenta,
Che fece in Cervo trasformar Diana.
Agave ogni hor s’affligge, e si tormenta,
Che fu nel suo figliuol troppo inhumana.
Fra tutte le sorelle è sol questa una,
Che và d’ogni dolor sciolta, e digiuna.
Tutto quel fa, che in mio dispregio puote
Questa de’ figli altera, e de la sorte,
Ch’altro non dice mai, che del nipote,
Bastardo de l’infido mio consorte.
E con superbe, e gloriose note
De’ primi il fa de la celeste corte,
E tanto questo essalta, e gli altri annulla,
Che la potentia mia non v’è per nulla.
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Ben si sà contra ogn’un (s’alcun l’offende)
Il suo superbo alunno vendicare.
Et fa, che ’l marinar di Lidia prende
La forma del Delfino, e solca il mare.
Contra il proprio figliuol la madre accende,
E ’l fa parere un porco, e lacerare.
Le figlie di Mineo fa cieche al lume,
E che volan di notte senza piume.
Non trovo io, s’un m’offende, altro riparo,
Che lagrimar l’invendicato oltraggio.
Deh perche da nemici io non imparo,
(Che spesso l’inimico fa l’huom saggio)
S’ei per torle il figliuolo amato, e caro,
Porco à la madre il fe parer selvaggio,
Perche non mostra anchor Giuno à costei
Quel, che far contra l’huom posson gli Dei?
E se la sua sorella oprò la spada
Contra il figliuol con cor ferino, et empio,
E li gettò le mani in su la strada,
E fe de membri un doloroso scempio:
Perche non fa Giunon, che in furor vada
Questa Ino anchor per lo cognato essempio.
Si ch’ella nel dar morte à i proprij figli,
A la madre di Penteo s’assomigli.
Volta al fiato di Borea è una caverna,
Che fin’al centro de la terra dura,
Che mena ogni huom, che passa à l’onda averna
Per una via precipitosa, e scura.
Non vi può splender fiaccola, ò lanterna,
Ch’aria ha si densa, si funesta, e impura.
E fa intorno un riparo di tal forza,
Che ’l foco non v’essala, e vi s’ammorza.
Per si caliginosa, e trista fossa
La sitibonda di vendetta Dea
Si mette à caminar, da l’odio mossa,
Ch’à questa gloriosa donna havea.
Passa per più silentij l’aria grossa,
Co’l divin, che l’alluma, e che la bea.
Quindi quei, che di questo hanno il governo,
Conducon le trist’anime à l’inferno.
Già di lontan conosce Flegetonte,
Che di cocenti fiamme arde, e risplende,
Tanto, che in parte il regno d’Acheronte
D’un tenebroso di visibil rende,
Fuor de la porta ne la prima fronte,
(Onde al più basso inferno si discende)
Stanno i pallidi morbi, e tutti i mali
Nemici de le vite de’ mortali.
V’è la crudel Vendetta, e ’l mesto Pianto,
V’è la fredda Vecchiezza, e faticosa.
La vergognosa Povertà da canto
Si stà in dispregio, e dimandar non osa.
V’è la Fatica, che fatica tanto,
E dopo il faticar si poco posa,
Ch’al suo volto si vede, che la morte
La vuol por là da le tartaree porte,
La Navigation soverchio ardita
Stà co’l Disagio assai presso à la porta,
Usa una vesta assai corta, e spedita,
Se non talhor, ch’un manto lungo porta.
Un palmo non è larga di due dita
L’asse, ove dorme, aspra, ineguale, e corta.
La ciban con mangiar spesso interrotto
Cibi acri, e salsi, e pan più volte cotto.
Con fronte il Timor bassa, e poco lieta
Si fa d’ogn’un, che v’è timido, donno.
V’è la pazza Discordia, et inquieta,
V’è il fratel de la Morte, il pigro Sonno,
Che con tanto stupore i sensi accheta,
Che come morti più sentir non ponno.
La Crapula è con lui, c’hor giace, hor siede,
E se vegghia, hora il vino, hor l’esca chiede.
I Pensier dolorosi de la mente
Tengon mesti, e barbati il volto chino.
Vi stà la Guerra armata, e risplendente
D’insanguinato acciar forbito, e fino,
Guarda con occhio altier tutta la gente,
E gode, ch’ella à l’infernal camino
Maggior numero d’alme instiga, e preme,
Che quasi tutti i mali uniti insieme.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Nel mezzo stà de le tremende porte
L’ultimo de gli horrendi, e che più noce,
Dico la cruda, et implacabil Morte,
Che dona tutte l’alme à quella foce.
Fà fra le gambe sue l’anime smorte
Passare, e con la falce, e con la voce
Hor quest’anima, hor quella afflitta, e grama,
Ch’andar non vi vorrebbe, afferra, e chiama.
Fa la falce passare à mille à mille
Gli huomini incauti giunti in quella parte.
E ciascun da città, da campi, e ville
Senza saper dov’ha d’andar si parte.
Ne guidan de la guerra l’empie ancille
Con honori, e donar la maggior parte.
Ne guida assai de l’huom cruda nemica
La cupida Avaritia, e la Fatica.
Ma poi che quegli appresenta la Guerra
A l’empia morte, che di là gli passi,
O qual si voglia mal, tosto gli afferra
La falce, e più ritrar non ponno i passi.
Il corpo poco stà, che si fa terra,
E l’anima entra dentro, e quivi stassi.
Dove secondo le passate vite,
Ne fa giudicio la città di Dite.
Giunon si fa invisibile, e s’asconde,
Vola sopra la morte, e dentro vede
Un’olmo ricco, e pien di rami, e fronde,
Sopra un grosso, alto, e ben fondato piede.
Qui (se la fama antica al ver risponde)
I fantastichi sogni hanno la sede.
Ne stà per ogni fronde una gran torma,
D’ogni più strana, e non veduta forma.
Sotto quei sogni chimerosi, e vani
Stanno i Centauri, e v’è Scilla biforme.
Con quel, c’ha cento piedi, e cento mani,
Stà la Chimera horribile, e difforme.
V’è l’Idra, e gli altri mostri horrendi, e strani,
C’han non usate, e spaventose forme.
La Dea, lasciando quei, drizza la fronte
A la nera palude di Caronte,
Qual da più region l’acque de fiumi
Son senza che ’l mar cresca, al mar condotte
Cosi da varij vitij, e rei costumi
Si guidan l’alme à la perpetua notte.
Et à l’ombre di tanti estinti lumi
Capaci sempre son l’inferne grotte,
Ogni giorno infinite ve ne vanno,
Ne l’inferno s’allarga, e pur vi stanno.
Come lasciata han la terrestre spoglia,
Passan volontier l’ombre à l’altra arena,
Che di saper di là ciascun ha voglia
Qual le darà Minos merito, ò pena.
Pregan tutte il Nocchier ch’entro le toglia,
Ma quegli altre ne lascia, altre ne mena.
L’anime che non passan (che son molte)
Son quelle, c’hanno l’ossa non sepolte.
Passa l’ascosa Dea con infinite
Anime, che i lor corpi hanno sotterra,
E giunge, e vede la città di Dite,
Che da tre mura si circonda, e serra.
Di serpi cerca poi le Dee crinite,
Come ha il cupido pie dentro à la terra,
Che stanno dentro à guardia de le porte
Del crudo carcer de le genti morte.
La non veduta Dea pria che si scopra,
Se ben l’odio la sprona al primo intento
Riguarda come ogni huom quivi s’adopra,
E di quei che non han pena, ò tormento.
Gli esercitij, ch’al sol fecer di sopra,
Fan quivi al lume tenebroso, e spento,
Un privato, un maggiore, un più meschino,
Secondo che di quà diede il destino.
Non sta molto à guardar, ch’altro le preme,
E le veste invisibili via tolle,
E del carcer le porte, ove si geme,
Percote, e ’l can trifauce il capo estolle.
Abbaia, e manda tre latrati insieme,
Ne il triplice abbaiar mai lasciar volle,
Ma poi che ’l divin Nume hebbe veduto,
Fe di quel gran latrare un gemer muto.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|66}}</noinclude><poem>
Le furie entrar con viso acro, e dimesso,
E con cortese, e furioso invito
Fan l’amica Giunon, che bene spesso
La fanno ire in furor per lo marito.
Come è dentro la Dea, si vede appresso
Tito, ch’in terra ingombra tanto sito,
Co i larghi, e lunghi e grossi membri suoi
Quanto ara in nove giorni un par di buoi.
Le membra più vitali, e più secrete
Un’avoltor continuo à Tito offende.
Si muor di fame Tantalo, e di sete,
Ha ciò, che vuol; ma v’è chi gliel contende.
Ruota Ission, ne può trovar quiete,
Hor va sotto, hor va sopra, hor sale, hor scende.
E ’n questa eterna pena si distrugge,
Ch’ei medesmo se stesso hor segue, hor fugge.
Sisifo vuol pur porre il sasso, dove
Forz’è, che ’l cader suo si rinovelli.
E quelle, che scannar quarantanove
In una notte miseri fratelli,
Voglion l’acque portar, che in copia piove
Nel fondo, ove tant’occhi hanno i crivelli.
E con perpetua, e raggirata foggia
Pioggia la fonte vien, fonte la pioggia.
Al girato Ission le luci volse
Di novo la Reina de gli Dei,
Che si ricorda quel, che far le volse,
Nel tempo, che credendo abbracciar lei,
Una nube in suo scambio in braccio accolse,
Onde il poser la giù fra gli altri rei.
Di novo anchor ver Sisifo s’affisse,
E mostrollo à l’Erinni, e cosi disse.
Questi è ben condennato à pena eterna,
Per esser suto al mondo involatore,
Ma ’l suo fratello altier Thebe governa,
E regge à modo suo l’Imperadore.
Che offende ogni hor la maestà superna,
Sprezzando il nostro culto, e ’l nostro honore.
E la cagion de l’odio manifesta,
E del viaggio suo laqual fu questa.
Che la stirpe di Cadmo alta, e superba
Mancasse; e non dovesse andar più avante,
Per cagion nova, oltre il rancor che serba,
Che Giove à due di lor sia stato amante.
E tal cerca di lor vendetta acerba
Ch’Ino cada in furore, et Athamante.
A l’ira il suo parlar ben corrisponde,
Che imperio, e preghi, e premij in un confonde.
Per far veder l’infuriata faccia
Al lume de l’inferno atro, e notturno,
Tesifone dal volto i serpi scaccia,
E parla à la figliuola di Saturno.
Hoggi non passerà, che non si faccia,
Ritorna pure al lume almo, e diurno.
Lieta ella và, d’ambrosia Iri l’asperge,
E d’ogni male odor la purga, e terge.
La furiosa Furia in furia prende
D’insania sparsa una facella e sangue,
E quella in furia in Flegetonte accende,
Ma prima con furor si cinge un angue.
Si parte da l’inferno, e al Sole ascende,
Va seco quel, ch’ogni hor si duole, e langue,
Io dico il miser Pianto, e ’n compagnia
Vi va il Terror, la Rabbia, e la Pazzia.
Come la compagnia rabbiosa giunge
A l’infelice d’Athamante porta,
Trema l’acero, e ’l ferro, e ’l Sol va lunge,
La casa, e l’aria vien pallida, e smorta.
La face in tanto dà nel legno, e ’l punge
Con quello estremo, ove la fiamma è morta.
Cade à un tratto la porta, e un romor suona,
Che tutta quanta la contrada introna.
Prima Ino sbigottisce, indi il consorte
L’infelice sorella di Megera,
Tosto che fa cader le regie porte
De la superbia lor regia, et altera.
Ma ben si sbigottiscono più forte,
Come compar la mostruosa schiera,
Volean fuggir, ma d’huopo eran le penne,
Che la donna infernal la porta tenne.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Tre fiate la Dea crolla la testa,
E fa sdegnar le serpentine chiome,
Tanto ch’alzando ogni animal la cresta,
Vibra tre lingue sibilando, come
Se s’oltraggia una serpe ardita, e presta
S’alza, vibra tre lingue, e ’l venen vome.
Così s’alza ogni serpe in un baleno,
E contra quegli aventa il suo veleno.
Qual s’una Ninfa al vento il tergo volta,
C’ha sparso il biondo crin, sottile, e bello,
Fa l’aurea rabbuffar la chioma sciolta,
E guarda, ove guarda ella ogni capello:
Tal ogni serpe il suo sguardo rivolta,
Dov’ella drizza l’occhio oscuro, e fello.
E fan tutti diadema al volto avante,
Guardando verso d’ lno, e d’Atamante.
Indi da crudi crin due serpi svelle,
E lor con man pestifera gli aventa
Le quai tosto ambo annodano, e di quelle
L’una la donna, l’huom l’altra tormenta.
Et ambedue senza intaccar la pelle,
Fan, che ’l core, e la mente il venen senta.
Questa, e quei scaccia il serpe, e ’l risospinge,
Ma il drago ogn’hor più rio li punge, e stringe.
Di più veneni un tosco havea formato,
Ch’era una irreparabile mistura,
V’è la spuma di Cerbero, e ’l mal fiato
De l’ ldra, e v’è il tremor de la paura.
V’è de la rabbia il fel, v’è l’insensato
Oblio de la pazzia, v’è l’atra, e scura
Sete de l’empia morte, e anchor de l’ira
La bava, ch’ella fa mentre s’adira.
Tutta questa mistura insieme unita
Con di cicuta, e di sardonia alquanto,
E dentro al rame poi cotta, e bollita
Ne le misere lagrime del Pianto.
De la decottion, che n’era uscita,
Piena una ampolla havea portata accanto.
La virtù del liquor di fuor non bagna,
Ma fa, che dentro il cor s’infetta, e lagna.
Su’l capo d’ambedue quell’acqua sparse,
E finì d’offuscar lor l’intelletto.
Girò tre volte poi la face, et arse
L’aere, e del fosco fumo il fece infetto.
Indi da lor vittoriosa sparse,
Per ritornarsi al suo più scuro tetto.
E di tanto stupor quei lasciò presi,
Che stero un pezzo immobili, e sospesi.
Non si ricordan più chi siano, ò dove,
Ne men d’haver veduti i crudi mostri.
Ma già l’huomo il veneno instiga, e move,
E fa, che ’l suo furor rabbioso mostri.
Già grida, ecco compagni, ecco, ch’altrove
Tender non ci bisogna i lacci nostri.
Tendiamo in queste selve a i crudi artigli
Di questa empia Leonza, c’ha due figli.
Come se fosse una selvaggia fera
L’insano cacciator la moglie caccia.
E mentre ella è stordita di maniera,
Che non sa se si fugga, ò che si faccia;
Clearco un suo figliuol, che in braccio l’era,
E che ridendo à lui stendea le braccia,
Da lei per l’un de’ piedi afferra, e tira,
E d’una fromba à guisa il rota, e gira.
Di quel girare il centro ha preso il piede,
Ma la circumferentia il capo ha tolto.
Tre volte il rota, e poi co’l capo fiede
Ad un candido marmo il duro volto.
Come la madre il duro scempio vede,
Che fe del dolce figlio il padre stolto,
Stracciando il crin volge al marito il tergo,
E lascia in furia il parricida albergo.
Un scoglio dentro in mar si spinge, e poggia,
Che stretto, lungo, et aspro in là si stende,
Da l’empio mar cavato d’una foggia
Co’l continuo picchiar, che ’l sasso offende,
Che salva l’onde salse da la pioggia,
Tal, che l’acque da l’acque illese rende.
Ver questo scoglio al mar drizza il camino
La furiosa, e miserabile Ino.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|67}}</noinclude><poem>
Corre con Melicerta in braccio, e stride,
E chiama spesso Bacco il suo nipote.
Aiuto (dice allhor Giunone) e ride,
Lo Dio celebre tuo ti dia, se puote.
Giunge al monte maggior, salta, e s’uccide,
E col peso, c’ha in braccio, il mar percote.
S’apre l’avido mar, l’inghiotte, e asconde,
E fa lucide in su risplender l’onde.
Venere hebbe pietà de l’innocente,
Che de la figlia Hermione, e Cadmo nacque,
Così dicendo al Re, che co’l tridente
Nel suo tetto real dà legge à l’acque.
Habbi alto Dio pietà de la dolente
Donna congiunta tua, che nel mar nacque,
Dovrei dal mare haver gratia, ch’io crebbi
Nel mare, e fui sua prole, e ’l nome n’hebbi.
I due nipoti miei, c’hoggi raccolse
L’Euboico mare, in mar fà che sian Dei.
Volontier consentì Nettuno, e tolse
Quel mortal, che già fu nel figlio, e in lei.
Poi quella maestà donar lor volse,
Che fa, che l’huom si nume faccia, e bei.
E fatto questo il beator Nettuno
Nominò lei Matuta, e lui Portuno.
Molte donne Thebane la figliuola
Vider del lor signor correndo andare
Co’l figlio in braccio, scapigliata, e sola,
(Quel, che mai non l’havean veduto fare)
E sentendo insensata ogni parola,
Si poser curiose à seguitare,
E quelle, che di lor corser più forte,
Vider non lungi il salto, e la sua morte.
Come san, che del Re morta è la figlia,
Che chi morir l’ha vista, à l’altre il dice,
Ciascuna si percote, e si scapiglia,
E si chiama scontenta, et infelice.
E questa, e quella mormora, e bisbiglia,
Che tutto il mal vien da Giunone ultrice.
Già sapean, che per Semele la Dea
Tutto il sangue reale in odio havea.
Si duol di lei ciascuna, e si lamenta,
Che troppo sia d’ogni pietate ignuda,
Che troppo crudelmente si risenta,
Che troppo dentro al cor l’ingiuria chiuda.
Giunon di ciò sdegnata, io vò che senta
(Dice) ogn’una di voi quanto io sia cruda.
Voi ne sassi, ch’à lei Nettuno ha sacri
Vò del mio duro cor far simulacri.
Una mossa à pietà seguir la volle,
Ma nel voler saltar, le vien conteso.
Che mentre per lanciarsi un piede estolle,
Sente l’altro gravar da troppo peso.
Vi guarda, e ’l vede marmo, e ’l corpo molle
Dal duro sasso à poco, à poco è preso.
Al duro scoglio il pie manco appiccosse,
L’altro alto stè ne l’atto, in cui si mosse.
Una, che si battea, mentre fa prova,
Co’l solito ferir darsi nel petto,
Alzata c’ha la mano, il braccio trova
Fatto di pietra, e non può far l’effetto.
Una à la gente, che venia più nova,
Mostrava, ov’ella ascose il regio aspetto;
E secondo, ch’al mar tendeva il dito,
Il simulacro suo restò scolpito.
L’altra, che si svellea le bionde chiome,
E che chiamava lagrimando in vano
Di lei l’illustre, e riverito nome,
Fermò nel sasseo crin la sassea mano.
Restò la bocca aperta, e mesta, come
Stava quando mancò del senso humano.
Lagrimoso era il viso, e quel mirando
Si conoscea, che si dolea gridando.
Molte, e molt’altre addolorate, e meste,
Che piangevan di lei l’acerba morte,
Fecer di piume al corpo un’altra veste,
E diventaro augei di varia sorte.
Chi di bianco vestia, di bianco hor veste,
E i bianchi, e i neri anchor l’aman si forte,
Che radon sempre l’onde nel volare,
E non si posson mai levar dal mare.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Cadmo non sà, che ’l nipote, e la figlia
La Deità marina habbia ottenuta;
Ne che Nettuno con la sua famiglia
Nomini lui Portuno, e lei Matuta.
Onde à lasciar già vinto si consiglia
La città travagliata, e combattuta
Da tanti strani, e miseri portenti,
Quella, ch’edificò da fondamenti.
Vecchio, scontento, e misero si parte
Ne la opinion sua fermo, e costante,
Con la figlia di Venere, e di Marte,
E ne l’Illiria al fin ferma le piante.
Li revocò à memoria à parte, à parte,
Dal dì, ch’egli lasciò d’esser infante,
Tutta la vita sua cosa per cosa,
Con la seco invecchiata, e cara sposa.
Oime (poi disse) oime superno Dio,
Ho pur discorsi i miei passati eccessi,
Qual’offesa, qual mal mai vi feci io,
Che in tal calamità cader dovessi?
Sei personaggi ho già del sangue mio
Da morte si crudel veduti oppressi,
Che dar non si potria più cruda, ò tale
A chi commesso havesse ogni gran male.
Forse questo m’avien per quel serpente,
Ch’io venendo di Tiro uccisi à l’acque,
Che fe, che tutta la Sidonia gente
Innanzi à gli occhi suoi distesa giacque.
S’io lui non uccidea, col crudo dente
Egli ucciso havria me, tal che non nacque
La morte sua da mala intentione,
Quando io ciò fei per mia defensione.
Se ingiuria à qualche Dio signor si fece
Del serpe, e contra me serva lo sdegno,
Faccia serpente me, che in quella vece
Sarò serpe à quel Dio, s’io ne son degno.
Dà fine à pena à la sua lunga prece,
Ch’unisce l’uno, e l’altro suo sostegno.
Le due gambe si fan coda di serpe,
Che s’aggira per l’herbe, striscia, e serpe.
Già simiglia Erittonio, ha già di drago
Dal nodo de le cosce insino al piede,
E di quel, che sarà vero presago,
Questo consiglio à la consorte diede.
Godi una parte de la prima imago
Donna, mentre dal ciel ti si concede.
Godi la man viril, l’humane labbia
Pria, che tutto inserpito il serpe m’habbia.
Piange la Donna amaramente, e dice,
Dolce marito mio, che sorte, e questa?
Qual fato, qual destin, qual ira ultrice
Prender ti fa la serpentina vesta?
Piange egli, e parla à lei; donna infelice
Non pianger, ma l’huom godi, che mi resta.
Ecco viril la man, viril la bocca,
Baciami l’una homai, l’altra mi tocca.
La mesta moglie il bacia, e la man stringe,
E riguarda la coda, che s’aggira,
Et un color, che lui vago dipinge,
Ceruleo, e nero, ombrato à scacchi mira.
Intanto tutto il corpo il serpe cinge
Fin’à le braccia, e la man dentro tira.
Cadmo oime (dice allhora) oime consorte,
La man dentro se’n vien, tienla ben forte.
La man per forza v’entra, e ’l dir gli è tolto,
Che la lingua in due parti à lui si fende,
E forma prima un favellar non sciolto,
E poi suona un parlar, che non s’intende.
Già la serpigna squama asconde il volto,
E se vuol favellare, il sibil rende.
Pur si volge à la moglie, e dir s’arrischia,
Ma in vece di parlar sibila, e fischia.
Vede, e stupisce l’infelice moglie,
Come tutto in quel serpe ei si nasconda.
Poi dice, esci, ben mio di quelle spoglie,
Del cuoio serpentin, che ti circonda.
Oime, dov’è il tuo viso, e chi ti toglie
La lingua, e fa, che fischi, e non risponda.
Dov’è l’amato petto, ù son le mani,
Le spalle, i fianchi, e gli altri membri humani.
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Si china poi la donna su ’l terreno,
E liscia il serpe, et ei la cara sposa
Riguarda, e l’entra poi serpendo al seno,
E quivi s’attortiglia, e si riposa.
Stupiscon, che non tema il suo veneno
Alcuni, e stimar lei molto animosa,
Che comparir, senza saper il fatto,
E restò ogn’un, che ’l vide, stupefatto.
Nel seno il liscia la venerea figlia,
E ’l serpe alza la testa, e in su si spinge,
E intorno al bianco collo s’attortiglia,
Con cinque cerchi, ò sei l’annoda, e cinge.
L’hedera intorno al tronco rassimiglia,
Che circonda la scorza, e non la stringe.
La bacia il grato serpe, e le fa festa,
Nel noto petto poi ficca la testa.
Stassi il capo nel seno, e par che dorma,
E gode il ben, che ’l ciel già fe per lui.
Prega la donna; ò Giove, e me trasforma,
Si, ch’anchor serpe io sia moglie à costui.
Ecco à un tratto ancho à lei fugge la forma,
E non è più un serpente, ma son dui.
E serpono ambedue fra l’herba, e vanno
Ne’ più propinqui boschi, e lì si stanno.
Questi fecer di serpe quella sorte,
La qual Cervona apppella il Regno Tosco,
Non fuggon l’huom, ne men temon la morte
Da lui, ne ’l mordon mai, ne meno han tosco.
Hor, come vuol la lor cangiata sorte,
Se ben comunemente amano il bosco,
Han l’huom (c’huomini fur) per cosi fido,
Che fanno in molte case i figli, e ’l nido.
Questo conforto solo era restato
Al vecchio lor ringiovenito amore,
Che Bacco il lor nipote havea portato
Da tutta l’ lndia il trionfale honore,
E per tutte le patrie era adornato
Da la città crudel d’Acrisio in fuore,
Il qual non sol raccor dentro no’l volle,
Ma stimò la sua pompa infame, e folle.
Che stupor fia, s’Acrisio il Re non crede
A le feste di Bacco altere, e nove,
Poi ch’al nipote proprio non dà fede,
Ne vuol, che sia figliuol Perseo di Giove?
Nel viso suo l’alta sembianza vede
Del Re, che tutto intende, e tutto move,
Ne sol non l’ha per quel, ch’appar nel volto,
Ma il fa gittar nel mar crudele, e stolto.
Una tenera figlia Acrisio havea
Nomata Danae, si leggiadra, e bella,
Che non donna mortal, ma vera Dea
Sembrava al viso, à modi, e à la favella.
Il padre per lo ben, che le volea,
Saper cercò il destin de la sua stella.
Ma ’l decreto fatal tanto gli spiacque,
Che la fe col figliuol gettar ne l’acque.
Di Danae figlia tua (l’Oracol disse)
Nascerà un figlio oltre ogni creder forte,
Che (come son le sorti à ciascun fisse)
Contra sua voglia ti darà la morte.
Queste parole ne la mente scrisse
Acrisio, e per fuggir si cruda sorte,
Fù per ferire à la sua figlia il seno,
Ma l’affetto paterno il tenne in freno.
Onde le fabricò, per far men fallo,
Un superbo giardin per suo soggiorno,
E d’altissime mura di metallo
(Fattavi la sua stanza) il cinse intorno.
In questo breve, e misero intervallo
La condannò fin à l’estremo giorno.
Pur per gradire in parte à l’infelice,
Le diede in compagnia la sua nutrice.
Quivi ordinò, che con la balia stesse,
Ne quindi volle mai lasciarla uscire,
Perche l’amor de l’huom non conoscesse,
Onde n’havesse un figlio à partorire.
Ma non però il disegno gli successe,
Che male il suo destin può l’huom fuggire.
Quel, che regge nel ciel gli eterni Dei,
La vide un giorno, e s’infiammò di lei.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|68}}</noinclude><poem>
Si china poi la donna su ’l terreno,
E liscia il serpe, et ei la cara sposa
Riguarda, e l’entra poi serpendo al seno,
E quivi s’attortiglia, e si riposa.
Stupiscon, che non tema il suo veneno
Alcuni, e stimar lei molto animosa,
Che comparir, senza saper il fatto,
E restò ogn’un, che ’l vide, stupefatto.
Nel seno il liscia la venerea figlia,
E ’l serpe alza la testa, e in su si spinge,
E intorno al bianco collo s’attortiglia,
Con cinque cerchi, ò sei l’annoda, e cinge.
L’hedera intorno al tronco rassimiglia,
Che circonda la scorza, e non la stringe.
La bacia il grato serpe, e le fa festa,
Nel noto petto poi ficca la testa.
Stassi il capo nel seno, e par che dorma,
E gode il ben, che ’l ciel già fe per lui.
Prega la donna; ò Giove, e me trasforma,
Si, ch’anchor serpe io sia moglie à costui.
Ecco à un tratto ancho à lei fugge la forma,
E non è più un serpente, ma son dui.
E serpono ambedue fra l’herba, e vanno
Ne’ più propinqui boschi, e lì si stanno.
Questi fecer di serpe quella sorte,
La qual Cervona apppella il Regno Tosco,
Non fuggon l’huom, ne men temon la morte
Da lui, ne ’l mordon mai, ne meno han tosco.
Hor, come vuol la lor cangiata sorte,
Se ben comunemente amano il bosco,
Han l’huom (c’huomini fur) per cosi fido,
Che fanno in molte case i figli, e ’l nido.
Questo conforto solo era restato
Al vecchio lor ringiovenito amore,
Che Bacco il lor nipote havea portato
Da tutta l’ lndia il trionfale honore,
E per tutte le patrie era adornato
Da la città crudel d’Acrisio in fuore,
Il qual non sol raccor dentro no’l volle,
Ma stimò la sua pompa infame, e folle.
Che stupor fia, s’Acrisio il Re non crede
A le feste di Bacco altere, e nove,
Poi ch’al nipote proprio non dà fede,
Ne vuol, che sia figliuol Perseo di Giove?
Nel viso suo l’alta sembianza vede
Del Re, che tutto intende, e tutto move,
Ne sol non l’ha per quel, ch’appar nel volto,
Ma il fa gittar nel mar crudele, e stolto.
Una tenera figlia Acrisio havea
Nomata Danae, si leggiadra, e bella,
Che non donna mortal, ma vera Dea
Sembrava al viso, à modi, e à la favella.
Il padre per lo ben, che le volea,
Saper cercò il destin de la sua stella.
Ma ’l decreto fatal tanto gli spiacque,
Che la fe col figliuol gettar ne l’acque.
Di Danae figlia tua (l’Oracol disse)
Nascerà un figlio oltre ogni creder forte,
Che (come son le sorti à ciascun fisse)
Contra sua voglia ti darà la morte.
Queste parole ne la mente scrisse
Acrisio, e per fuggir si cruda sorte,
Fù per ferire à la sua figlia il seno,
Ma l’affetto paterno il tenne in freno.
Onde le fabricò, per far men fallo,
Un superbo giardin per suo soggiorno,
E d’altissime mura di metallo
(Fattavi la sua stanza) il cinse intorno.
In questo breve, e misero intervallo
La condannò fin à l’estremo giorno.
Pur per gradire in parte à l’infelice,
Le diede in compagnia la sua nutrice.
Quivi ordinò, che con la balia stesse,
Ne quindi volle mai lasciarla uscire,
Perche l’amor de l’huom non conoscesse,
Onde n’havesse un figlio à partorire.
Ma non però il disegno gli successe,
Che male il suo destin può l’huom fuggire.
Quel, che regge nel ciel gli eterni Dei,
La vide un giorno, e s’infiammò di lei.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Ma quando l’artificio ammira, e l’opra,
Che ’l superbo giardin rende sicuro,
Ch’à pena entrar vi può l’aer di sopra,
Tanto và in sù l’inespugnabil muro,
Fa ch’un torbido nembo il giardin copra,
E fagli intorno il ciel turbato, e scuro.
Nel mezzo poi del nuvolo si serra,
E si fà pioggia d’oro, e cade in terra.
Come la nube minacciar la pioggia
Conosce aperto la donzella Argiva,
Corre, e ponsi à veder sotto una loggia,
E de la vista sua l’amante priva.
Ma quando vide in cosi strana foggia,
Ch’ogni sua goccia d’or puro appariva,
Lasciò il coperto, e non temè più il nembo,
Et à la ricca pioggia aperse il grembo.
Poi che ’l ricco thesoro à la donzella,
(Che non sà quel che sia) fatt’ha il sen grave,
Ne và contenta in solitaria cella,
Che pensa confidarlo ad una chiave,
Hor quando sola la vergine bella
Giove rimira, e sospition non have
D’arbitro, ò testimonio, che ’l palese,
La vera forma sua divina prese.
Stà per morir la timida fanciulla,
Quando vede quell’or, che dal ciel piove,
Che la forma dorata in tutto annulla,
E ch’al volto divin si mostra Giove.
Hor mentre egli s’accosta, e si trastulla,
Ella cerca fuggirlo, e non sa dove,
Pur tanto ei disse, e tanto oro mostrolle,
Che n’hebbe finalmente ciò, che volle.
Di Giove partorì la donna un figlio,
Formato c’hebbe Delia il nono tondo,
Che d’ardir, di valore, e di consiglio,
A tempi suoi non hebbe pari al mondo,
Ma conoscendo d’ambo il gran periglio,
Se ’l risapeva il suo padre iracondo,
Tenne nascosto al folle empio, e tiranno
Quel, che Perseo nomò, fin al quart’anno.
Entrava nel giardino il padre spesso,
Perche di cor la bella figlia amava.
Hor essendovi un giorno, udì da presso
La voce del garzon, che si giocava.
V’accorse, e restò si fuor di se stesso,
Che non sapea, se desto era, ò sognava,
Vedendo entro al giardin la bella prole,
Dov’entra à pena l’aere, il gielo, e ’l Sole.
Pien d’ira, e di furor prende la figlia,
E la strascina un pezzo per le chiome,
La stratia, la percote, e la scapiglia,
E chiede, e vuol, che gli confessi, come
Egli li dentro sia, di qual famiglia,
Che pensi far di lui, com’habbia nome?
La misera si scusa, e scopre il tutto,
E de l’inganno altrui miete mal frutto,
Non crede, che di Giove egli sia nato,
Anchor che chiaro il mostri nel sembiante,
Ma che l’habbia la figlia generato
Di qualche ardito, e temerario amante.
E per fuggir di novo il tristo fato,
Rinchiude lei co’l figlio in uno istante
Dentro un’arca ben chiusa, e in mar la getta,
E crede al Re del mar la sua vendetta.
Di vendicarlo molto non si cura,
Ne Protheo, ne Triton, Teti, ò Portuno,
Anzi particular di Perseo cura
Prende, e di Danae il zio d’ambo Nettuno.
E fa l’arca del mar sorger sicura
In Puglia, ove regnava il Re Piluno.
Tanto, ch’un pescator (ch’ivi trovolla)
Poi che l’hebbe scoperta, al Re portolla.
Come il cortese Re vide, et intese
La bella madre, e ’l dolce ardito figlio,
E la progenie lor gli fu palese,
E quale havean nel mar corso periglio;
De la venusta giovane s’accese,
E di sposarla al fin prese consiglio.
Al Signor di Sirifo il figliuol piacque,
E’l cortese Pilunno gliel compiacque.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|69}}</noinclude><poem>
E cosi Polidette suo congiunto
Condusse seco il bel figliuol di Giove.
Ma quando il vide à più begli anni giunto,
E di lui scorse le stupende prove,
E ch’al dolce aere ha tal valore aggiunto,
Ch’ogn’un tira ad amarlo, ogn’un commove,
Fù da qualche sospetto avelenato,
Che non gli sollevasse un dì lo stato.
Dopo lungo pensar fece un convito,
Per torgli (s’ei l’havea) questo disegno.
E fatto fare un generale invito,
Ad ogni huom di quell’isola più degno,
Disse. poi che fe ogn’un lieto, et ardito
Il liquor del vicin Cretense regno,
S’havessi (io sarei ben del tutto lieto)
Un don, ch’io vo tener nel mio secreto.
A pena fu questa parola udita,
Ch’ogn’un da vero, e nobil cavaliero,
Mostrò la mente haver pronta, et ardita,
Pur, ch’egli discoprisse il suo pensiero,
D’oprarsi con l’havere, e con la vita,
Per far, c’havesse il suo contento intero.
Ma Perseo più d’ogni altro ardito, e forte,
Promise con più cor d’un’altra sorte.
Io giuro (disse Perseo) per quel Dio,
Che mi vestì questa terrena spoglia,
Che, per farti contento del desio,
Ch’ascoso stà ne la tua interna voglia,
(Pur che non porti macchia à l’honor mio,
Sia ne l’animo tuo quel che si voglia)
Io non mancherò mai, ne farò scusa,
Se ben volessi il capo di Medusa.
Celebre allhora di Medusa il nome
Era, ch’ogn’un facea diventar sasso.
Ascoltò il cauto Polidette, e come
Fù giunto il dir di Perseo à questo passo,
Disse. io desio le serpentine chiome,
E quel mostro di vita ignudo, e casso,
E puoi tu più d’ogn’un tentar tai prove,
Ch’aiuto havrai dal tuo parente Giove.
Se non l’havesse il forte giuramento
(Che fece troppo subito) legato,
Perseo de la promessa mal contento,
Non sò, s’havesse tal peso accettato.
Pur lasciato da parte ogni spavento,
Disse. ho promesso, e tentar vo il mio fato.
Verso il mar d’Ethiopia ardito passa,
Dove il mostro infelice ogn’uno insassa.
Ma Mercurio, e Minerva, per salvare
Perseo dal mostro dispietato, e fello,
Perche nol fesse in sasso trasformare,
Non mancaro d’aiuto al lor fratello:
E dove, e come, e quando ei debbia andare,
E come acquisti il viperin capello,
L’informar d’ogni parte, di maniera,
Ch’ei troncò il capo à la spietata fera.
Del sangue, che dal collo tronco sparse
Medusa, in un momento fu formato,
E innanzi à Perseo ben guarnito apparse
Fuor d’ogni fede un gran cavallo alato.
Perseo montovvi, e subito disparse,
Che veder volle il mondo in ogni lato.
Si drizza contra il Sole, e non s’arresta,
Tenendo in man la mostruosa testa.
Hor mentre ver Levante il camin prende,
E drizza per la Libia il primo volo,
E da Favonio ad Euro si distende,
E in mezzo stà fra l’uno, e l’altro Polo:
Goccia la testa infame, e ’l sangue rende
Gravido l’African non fertil suolo.
Partorì poi la Libia di quel sangue
Ogni più crudo, e più terribile angue.
Ne mai quel clima poi si vide mondo
Di quei crudi, e pestiferi animali,
Che quanto è più infelice, è più fecondo
Il seme di noi miseri mortali.
Perseo invaghito di vedere il mondo,
Per tutto al suo destrier fa batter l’ali,
Come nube agitata hor quinci, hor quindi,
Da venti Sciti, Australi, Hiberi, et Indi.
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Hor dove nasce il Sol drizza la faccia,
Hor dove ne l’Hesperia ei si ripone;
Vede hor del Cancro l’incurvate braccia,
Hor l’Orsa, che sdegnar suol far Giunone.
Tre volte vide dove il mar s’agghiaccia,
E tre, dove son nere le persone.
Hor vola fra le stelle, et hor s’atterra,
E quando rade il ciel, quando la terra.
Già ne l’estremo mar cadeva il giorno,
E cercava allumar l’altro Hemispero;
Ne pensando più Perseo andar attorno,
Ne creder se volendo à l’aer nero,
Pensò il notturno consumar soggiorno,
Dov’è l’Africa opposta al regno Hibero.
Che quivi gli si fece il mondo oscuro,
E si scoprì con l’altre stelle Arturo.
Reggeva Atlante l’ultimo Occidente,
Quella terra godea, quel ciel, quel mare,
Dove invitar suol Teti il più lucente
Pianeta, al fin del giorno à pernottare.
Non havea Re vicin, che più possente
Potesse à le sue forze contrastare,
D’imperio, e di più eletto popol moro,
Di senno, d’arme, di valore, e d’oro.
Un giardin fra due monti si nasconde,
C’ha volto à l’orto Hiberno il lieto aspetto,
L’irrigan due diverse, e limpid’onde,
Ch’ambe d’arena, e d’or corrono il letto.
Gli arbori, i rami, i frutti, i fior, le fronde
Risplendon tutti d’or forbito, e netto.
Già ne rubò Prometeo al ciel un pomo,
Quando il foco involò, che formò l’huomo.
L’ottenne poi dal suo fratello Atlante,
E nel suo bel giardin sotterra il pose,
Quel nacque, e fe multiplicar le piante,
Ma ’l Re le tenne avaro à tutti ascose.
Mai non pose lì dentro alcun le piante,
Vi faceva egli sol tutte le cose,
Egli era l’hortolano, egli il godea,
Et un gran drago à guardia vi tenea.
Fea stare il crudo dente ogn’un discosto
Del mostro altier, che in una torre stava;
E s’un vedea vicin, d’un volo tosto
Dava le penne à l’aria, e ’l divorava.
Sol le figlie del Re (secondo imposto
Atlante al mostro havea) non oltraggiava.
Tal che d’un grosso miglio intorno al muro
Solo à lui quel paese era sicuro.
Hebbe ventura il Greco, che ’l dragone
Volendo allhor ne l’horto il cibo torre,
Che gli portò l’avaro suo padrone,
Lasciato havea la guardia de la torre,
Che l’infelice capo di Gorgone
A tempo non havria potuto opporre,
A la porta de l’oro il vol ritenne,
Dove ad un grosso Pin legò le penne.
Non molto lunge à le superbe porte
Vede il superbo Atlante, che vien fuore,
E torna solo à la sua regia corte,
Ne alcun gli viene in contro à fargli honore.
Ch’ogni suddito suo teme si forte
(Sia pur di grande ardir, sia di gran core)
Del rio dragon, ch’alcun non s’assicura
D’appressarsi d’un miglio à quelle mura.
Con quella riverenza, et humiltade,
Ch’à dignità si deve alta, e superba,
Perseo s’inchina à quella maestade,
Che ne l’altiera fronte Atlante serba.
Magno Signor dal ciel la notte cade,
E non vorrei le piume haver da l’herba,
E poi, che ’l giorno qui m’ha volto il tergo,
A la maestà tua dimando albergo.
S’huom di progenie altissima ti move,
E fa, che volentier gli dai ricetto;
Se d’udir cose sopr’humane, e nove
Prende Atlante invittissimo diletto;
Alberga il giunto quì figliuol di Giove,
Che di cose alte, e nove ha pieno il petto.
E ben creder me’l puoi, ch’andando à torno
Ho visto il mondo tutto in un sol giorno.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|71}}</noinclude><poem>
Stupisce Atlante, ch’un sia tanto ardito,
Che non tema l’horror di quella porta,
Che ’l suo dragone ogn’uno ha sbigottito,
Tanto v’ha gente avelenata, e morta.
Come ha il suo intento, e ’l suo lignaggio udito,
Con vista il guarda disdegnosa, e torta,
Che la stirpe di Giove ha in odio, e teme
Per quel, che già in Parnaso udì à Teme.
Verrà un figliuol di Giove un giorno Atlante,
(Gli disse) ove il giardin tant’oro asconde,
Che spoglierà le tue superbe piante
De’ frutti d’or, de’ rami, e de le fronde.
Però con voce acerba, et arrogante,
A l’odioso peregrin risponde.
Sia da te lunge Giove, e questo muro,
Di tue nove, e tue glorie io non mi curo.
Prega il figliuol di Giove, et ei minaccia,
Al fin crucciato il risospinge, e sforza.
Tanto, ch’irati vengono à le braccia,
Ma chi d’Atlante agguagliar può la forza?
Perseo trahe fuor la stupefatta faccia,
Ch’à chi la vede immarmora la scorza.
Egli portava al fianco ogni hor Medusa
In un sacco di cuoio ascosa, e chiusa.
Non ha il Greco di Palla il raro scudo,
Ch’à l’arcion pegaseo legato pende,
C’havendol può mirar quel mostro crudo,
E fa, che non s’insassa, e non l’offende.
Hor quando il fa restar del zaino ignudo,
Per ammutir quel Re, con cui contende;
Chiude le luci, e ’l tergo à serpi volto,
Gli oppone in faccia il dispietato volto.
Come in quel viso, in quei viperei toschi,
Che pendon de lo spirto ignudi, e cassi,
Intende gli occhi incrudeliti, e foschi,
Cresce Atlante di pietra, e un monte fassi.
La barba, e i neri crin diventan boschi,
E le parti più dure si fan sassi,
Le vene restar vene, e fer nel monte
Il sangue distillarsi in più d’un fonte.
Ogni suo picciol pel, c’havea su’l dosso,
D’herba fessi humil pianta, ò verde arbusto.
Divenne un duro sasso il nervo, e l’osso,
La costa, il dente, l’anca, il braccio, e ’l busto.
Fù cima il capo, e ’l piè formar più grosso
Le piante, atto sostegno al grave fusto.
Hor il giorno, e la notte al caldo, e al gielo
Tutto sostien con tante stelle il cielo.
Come Perseo à Medusa ha posto il manto,
Apre le luci, e si rivolta, e vede
Un monte, che non v’era, e s’alza tanto,
Che su’l suo dosso il ciel si posa, e siede.
Pensa gir poi per ristorarsi alquanto,
Dove scorge un villaggio, e move il piede
Verso il cavallo alato, e in aria poggia,
E vi giunge in un volo, e quivi alloggia.
Tutte servito havean la scura Notte
Ad una ad una già l’Hore notturne,
E l’Aurora le tenebre havea rotte,
Spargendo i fior con le sue mani eburne,
E togliea da le case, e da le grotte
Tutti i mortali à l’opere diurne;
Quando su’l pegaseo veloce ascese
Perseo, e per l’Ethiopia il volo prese.
Su l’Ocean scopria già il Cefeo lido,
Dove Cassiopea troppo hebbe orgoglio,
Quando più d’un lamento, e più d’un strido
S’udì tutto empir l’aere di cordoglio.
Perseo rivolge gli occhi al flebil grido,
E vede star legata ad uno scoglio
Una infelice vergine, che piange
Per lo timor, che la tormenta, et ange.
Ó sententia di Giove, ò sommo padre
Come la tua giustitia (oime) consente,
Che per l’error d’una orgogliosa madre,
Patir debbia una vergine innocente?
Fù di bellezze già cosi leggiadre,
E di si altiera, e gloriosa mente
La madre di colei, ch’à la catena
Piange l’altrui delitto, e la sua pena.
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Stupisce Atlante, ch’un sia tanto ardito,
Che non tema l’horror di quella porta,
Che ’l suo dragone ogn’uno ha sbigottito,
Tanto v’ha gente avelenata, e morta.
Come ha il suo intento, e ’l suo lignaggio udito,
Con vista il guarda disdegnosa, e torta,
Che la stirpe di Giove ha in odio, e teme
Per quel, che già in Parnaso udì à Teme.
Verrà un figliuol di Giove un giorno Atlante,
(Gli disse) ove il giardin tant’oro asconde,
Che spoglierà le tue superbe piante
De’ frutti d’or, de’ rami, e de le fronde.
Però con voce acerba, et arrogante,
A l’odioso peregrin risponde.
Sia da te lunge Giove, e questo muro,
Di tue nove, e tue glorie io non mi curo.
Prega il figliuol di Giove, et ei minaccia,
Al fin crucciato il risospinge, e sforza.
Tanto, ch’irati vengono à le braccia,
Ma chi d’Atlante agguagliar può la forza?
Perseo trahe fuor la stupefatta faccia,
Ch’à chi la vede immarmora la scorza.
Egli portava al fianco ogni hor Medusa
In un sacco di cuoio ascosa, e chiusa.
Non ha il Greco di Palla il raro scudo,
Ch’à l’arcion pegaseo legato pende,
C’havendol può mirar quel mostro crudo,
E fa, che non s’insassa, e non l’offende.
Hor quando il fa restar del zaino ignudo,
Per ammutir quel Re, con cui contende;
Chiude le luci, e ’l tergo à serpi volto,
Gli oppone in faccia il dispietato volto.
Come in quel viso, in quei viperei toschi,
Che pendon de lo spirto ignudi, e cassi,
Intende gli occhi incrudeliti, e foschi,
Cresce Atlante di pietra, e un monte fassi.
La barba, e i neri crin diventan boschi,
E le parti più dure si fan sassi,
Le vene restar vene, e fer nel monte
Il sangue distillarsi in più d’un fonte.
Ogni suo picciol pel, c’havea su’l dosso,
D’herba fessi humil pianta, ò verde arbusto.
Divenne un duro sasso il nervo, e l’osso,
La costa, il dente, l’anca, il braccio, e ’l busto.
Fù cima il capo, e ’l piè formar più grosso
Le piante, atto sostegno al grave fusto.
Hor il giorno, e la notte al caldo, e al gielo
Tutto sostien con tante stelle il cielo.
Come Perseo à Medusa ha posto il manto,
Apre le luci, e si rivolta, e vede
Un monte, che non v’era, e s’alza tanto,
Che su’l suo dosso il ciel si posa, e siede.
Pensa gir poi per ristorarsi alquanto,
Dove scorge un villaggio, e move il piede
Verso il cavallo alato, e in aria poggia,
E vi giunge in un volo, e quivi alloggia.
Tutte servito havean la scura Notte
Ad una ad una già l’Hore notturne,
E l’Aurora le tenebre havea rotte,
Spargendo i fior con le sue mani eburne,
E togliea da le case, e da le grotte
Tutti i mortali à l’opere diurne;
Quando su’l pegaseo veloce ascese
Perseo, e per l’Ethiopia il volo prese.
Su l’Ocean scopria già il Cefeo lido,
Dove Cassiopea troppo hebbe orgoglio,
Quando più d’un lamento, e più d’un strido
S’udì tutto empir l’aere di cordoglio.
Perseo rivolge gli occhi al flebil grido,
E vede star legata ad uno scoglio
Una infelice vergine, che piange
Per lo timor, che la tormenta, et ange.
Ó sententia di Giove, ò sommo padre
Come la tua giustitia (oime) consente,
Che per l’error d’una orgogliosa madre,
Patir debbia una vergine innocente?
Fù di bellezze già cosi leggiadre,
E di si altiera, e gloriosa mente
La madre di colei, ch’à la catena
Piange l’altrui delitto, e la sua pena.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Che non solo osò dir, che in tutto il mondo
Di belta donna à lei non era pare,
Ma che non era viso più giocondo
Fra le Ninfe più nobili del mare.
Dove Nettuno stà nel più profondo
Mar, se n’andar le Ninfe à querelare,
Dove conchiuso fu da gli aquei Dei
Di punir l’arroganza di colei.
Manda d’accordo un marin mostro in terra,
Perche dia il guasto à tutta l’Ethiopia.
Le biade egli, e le piante, e i muri atterra,
E fa lor d’ogni cosa estrema inopia.
Sepper poi da l’Oracol, che tal guerra
Si finiria se la sua figlia propia
Desse al pesce crudel Cassiopea,
Che bella sopra ogni altra esser dicea.
Così per liberare il popol tutto
Da così gravi, e perigliosi some,
Cagionaro in Andromeda quel lutto,
(Che così havea la sventurata nome)
E in quello scoglio sopra il lito asciutto
Ignuda la legaro al mostro, come
Dissi, che la trovò colui, che venne
A caso lì sù le Gorgonee penne.
Perseo fa, che l’augel nel lito scende,
E più da presso le s’accosta, e vede,
E mentre gli occhi cupidi v’intende,
E la contempla ben dal capo al piede;
Senza saper chi sia, di lei s’accende,
Et ha del suo languir maggior mercede,
E ’n lei le luci accese havendo fisse
Pien d’amore, e pietà cosi le disse.
Donna del ferro indegna, che nel braccio
Fuor d’ogni humanità t’annoda, e cinge,
Ma degna ben de l’amoroso laccio,
Che i più fedeli amanti abbraccia, e stringe;
Contami, chi t’ha posto in questo impaccio,
E quale Antropofago ti costringe
A farti lagrimar sul duro scoglio,
Che ’l lito, e ’l mar fai pianger di cordoglio.
Contami il nome, il sangue, e ’l regio seno,
Che t’han dato per patria i sommi Dei.
Ch’io veggio ben nel bel viso sereno
La regia stirpe, onde discesa sei.
Che se quel, che in me può, non mi vien meno,
Ti sciorrò da quei nodi iniqui, e rei.
China ella il viso, e si commove tanto,
Che in vece di risposta accresce il pianto.
E se i legami non l’havesser tolto
Le man, vedendo ignudo il corpo tutto,
Celato avrebbe il lagrimoso volto
L’ignudo fianco, la vergogna, e ’l lutto.
Pur si la prega il Greco, che con molto
Pianto, e con poche note il rende instrutto
De l’arroganza de la madre, e poi
Palese fè la patria, e’ maggior suoi.
Ecco, mentre che parla, un romor sorge,
E in un baleno il mar tutto turbare.
Perseo alza gli occhi, e mentre in alto scorge,
Pargli un monte veder, che solchi il mare.
Questo è quel pesce, à cui l’Oracol porge
L’infelice donzella à divorare,
E quanto mar da quel lito si scopre,
Tanto co’l ventre suo ne preme, e copre.
La misera fanciulla alza le strida;
Con fioco, e senil grido il padre piange;
La madre si percote, e graffia, e grida;
S’appressa il pesce ingordo, e l’onda frange.
Perseo del suo valor tanto si fida,
Ch’ad ambo dice, dal dolor, che v’ange,
Io vi trarrò, ma ben vorrei, ch’offerto
Fosse il connubio suo premio al mio merto.
Perseo son io, figliuol del sommo Giove,
Nipote son d’Acrisio, Argo è ’l mio regno.
E se ben stesse à me dir le mie prove,
lo non sarei di voi genero indegno.
Cefeo, e la moglie à quel parlar si move,
E questa, e quei gli dà la fe per pegno,
Che se dal mare Andromeda riscote,
Gli daran lei con tutto il regno in dote.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|73}}</noinclude><poem>
Si come legno in mar, c’hà in poppa il vento,
Et ogni vela inalberata, e piena,
Se’n vien non men veloce, che contento
Per posseder la desiata arena:
Così quel mostro vien presto, et intento
Per trangugghiar si delicata cena,
E brama posseder l’amato lito
Per contentar l’ingordo empio appetito.
L’innamorato giovane, che mira,
Che ’l pesce con ingorde, et empie voglie
A quello sventurato scoglio aspira,
Per torre à lui la convenuta moglie:
Gli vola incontra, e intorno poi l’aggira,
Per ottener da lui l’opime spoglie,
E per ritrar dal suo ferir più frutto,
Prima, ch’investa, il riconosce tutto.
L’ombra nel mar de l’huomo, e del destriero
Vede la belva mostruosa, e strana,
E lascia il cibo sensitivo, e vero,
Per seguir l’ombra fuggitiva, e vana.
Perseo su l’animal presto, e leggiero
Verso il celeste regno s’allontana,
Cala poi, qual l’astor sopra la starna,
Ma l’hasta nel suo tergo non s’incarna.
Qual se l’augel di Giove in terra vede
Godersi al Sol l’intrepido serpente,
E pensa por su lui l’avido piede,
Gli va da tergo, e d’afferrar pon mente
Con l’unghia la cervice, onde non crede
Che voltar possa il venenoso dente:
Tal Perseo il fiero Ceto offende, e preme
In quella parte, onde men danno teme.
S’accorge al fin, che se mill’anni stesse
A percotergli il dosso con quel pino,
Ó con lo stocco offender si credesse
Quello squamoso scoglio adamantino,
Sarebbe come, s’un fender volesse
Con una spada l’Alpe, ò l’Apeninno.
Tanto, che di ferirlo in parte loda,
Ch’al mostro dia più danno, à se più loda.
Quando egli tutto riconobbe intorno
L’horrendo pesce, ne la fronte scorse
Le due fenestre, ond’egli prende il giorno,
Ch’eran di tal grandezza, che s’accorse,
Ch’ivi maggiore à lui far si potea scorno,
E innanzi à gli occhi suoi subito corse.
Lo smisurato Ceto il morso stende
Per inghiottirlo, e Perseo al cielo ascende.
La lancia gli havea pria rotta su’l dosso,
Ma teneva à l’arcion sospeso un dardo,
E con quel contra l’aversario mosso
L’aventa in mezzo à l’inimico sguardo.
Il pesce appunto in quel, che fu percosso
Volle abbassare il capo, ma fu tardo.
Che con tal forza Perseo il braccio sciolse,
Ch’in quel, che’l mostro il vide, il dardo il colse.
Il ferro non trovò la squama dura,
E penetrò ne l’occhio alto, et intento,
Tal, che non sol fe la pupilla oscura,
Ma gli die tal dolore, e tal tormento,
Che del tutto lasciò la prima cura,
E diessi à vendicare il lume spento.
Di vendetta desio per l’aria il tira
Dove volare il suo nemico mira.
Vorrebbe il grave peso andare in alto
Per vendicar la scolorata luce,
E ne l’aria gli dà più d’uno assalto,
Ma ’l troppo peso abbasso il riconduce.
E nel cader fa l’acqua andar tant’alto,
Che pone in dubbio il valoroso duce,
S’egli co’l suo destrier per l’aria vola,
Ó se nuota nel mar fin’a la gola.
Conosce ben che l’inimico offeso
Di vendetta desio preme, et invoglia,
E se non gliel vetasse il troppo peso,
Vendicheria la sua soverchia doglia,
Ma s’alza alquanto, e poi cade disteso,
E men col salto và, che con la voglia.
Perseo mostra fuggir volando basso,
E ’l tira in alto mar lunge dal sasso.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|71}}</noinclude><poem>
Si come legno in mar, c’hà in poppa il vento,
Et ogni vela inalberata, e piena,
Se’n vien non men veloce, che contento
Per posseder la desiata arena:
Così quel mostro vien presto, et intento
Per trangugghiar si delicata cena,
E brama posseder l’amato lito
Per contentar l’ingordo empio appetito.
L’innamorato giovane, che mira,
Che ’l pesce con ingorde, et empie voglie
A quello sventurato scoglio aspira,
Per torre à lui la convenuta moglie:
Gli vola incontra, e intorno poi l’aggira,
Per ottener da lui l’opime spoglie,
E per ritrar dal suo ferir più frutto,
Prima, ch’investa, il riconosce tutto.
L’ombra nel mar de l’huomo, e del destriero
Vede la belva mostruosa, e strana,
E lascia il cibo sensitivo, e vero,
Per seguir l’ombra fuggitiva, e vana.
Perseo su l’animal presto, e leggiero
Verso il celeste regno s’allontana,
Cala poi, qual l’astor sopra la starna,
Ma l’hasta nel suo tergo non s’incarna.
Qual se l’augel di Giove in terra vede
Godersi al Sol l’intrepido serpente,
E pensa por su lui l’avido piede,
Gli va da tergo, e d’afferrar pon mente
Con l’unghia la cervice, onde non crede
Che voltar possa il venenoso dente:
Tal Perseo il fiero Ceto offende, e preme
In quella parte, onde men danno teme.
S’accorge al fin, che se mill’anni stesse
A percotergli il dosso con quel pino,
Ó con lo stocco offender si credesse
Quello squamoso scoglio adamantino,
Sarebbe come, s’un fender volesse
Con una spada l’Alpe, ò l’Apeninno.
Tanto, che di ferirlo in parte loda,
Ch’al mostro dia più danno, à se più loda.
Quando egli tutto riconobbe intorno
L’horrendo pesce, ne la fronte scorse
Le due fenestre, ond’egli prende il giorno,
Ch’eran di tal grandezza, che s’accorse,
Ch’ivi maggiore à lui far si potea scorno,
E innanzi à gli occhi suoi subito corse.
Lo smisurato Ceto il morso stende
Per inghiottirlo, e Perseo al cielo ascende.
La lancia gli havea pria rotta su’l dosso,
Ma teneva à l’arcion sospeso un dardo,
E con quel contra l’aversario mosso
L’aventa in mezzo à l’inimico sguardo.
Il pesce appunto in quel, che fu percosso
Volle abbassare il capo, ma fu tardo.
Che con tal forza Perseo il braccio sciolse,
Ch’in quel, che’l mostro il vide, il dardo il colse.
Il ferro non trovò la squama dura,
E penetrò ne l’occhio alto, et intento,
Tal, che non sol fe la pupilla oscura,
Ma gli die tal dolore, e tal tormento,
Che del tutto lasciò la prima cura,
E diessi à vendicare il lume spento.
Di vendetta desio per l’aria il tira
Dove volare il suo nemico mira.
Vorrebbe il grave peso andare in alto
Per vendicar la scolorata luce,
E ne l’aria gli dà più d’uno assalto,
Ma ’l troppo peso abbasso il riconduce.
E nel cader fa l’acqua andar tant’alto,
Che pone in dubbio il valoroso duce,
S’egli co’l suo destrier per l’aria vola,
Ó se nuota nel mar fin’a la gola.
Conosce ben che l’inimico offeso
Di vendetta desio preme, et invoglia,
E se non gliel vetasse il troppo peso,
Vendicheria la sua soverchia doglia,
Ma s’alza alquanto, e poi cade disteso,
E men col salto và, che con la voglia.
Perseo mostra fuggir volando basso,
E ’l tira in alto mar lunge dal sasso.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Come condutto l’ha lunge dal lito,
Prende la pelle, ove Gorgon si serra;
Che gli par questo assai miglior partito,
Da terminar la perigliosa guerra.
Ma pria, che sia del zaino il capo uscito,
Volta le spalle al popol de la terra.
E poi dinanzi al mostro alza la mano,
E mostra il crudel volto à l’occhio sano.
Tosto, che vede il pesce il crudo aspetto,
La carne indura, e ’l sangue, e pietra fassi.
E le spalle, e la coda, e l’occhio, e ’l petto,
Con tutte l’altre membra si fan sassi.
La pancia và à trovar del mare il letto,
Son le spalle alte fuor ben dieci passi.
E ’l diametro lor tanto si spande,
Che fanno un scoglio in mar sassoso, e grande.
Da poi che ’l mostro più non gli contende,
E c’ha di sasso il corpo, e spenta l’alma;
Vola in una isoletta, e quivi scende,
E lega il suo destriero ad una palma.
Che prima, che si mostri al lito, intende
Quivi lavar l’insanguinata palma.
Che’l pesce, c’hor nel mare è sasso essangue,
Tutto sparso l’havea d’acqua, e di sangue.
E, perche in terra offeso non restasse
Il volto, che fe sasso la balena,
Certe ramose verghe del mar trasse,
E gli fe un letto in su la trita arena.
Io non credo, ch’à pena le toccasse,
Che la scorza di fuor, dentro la vena,
Alterar si sentì la sua natura,
E farsi pietra pretiosa, e dura.
Ma le Nereide, ch’immortali, e dive
Non han punto à temer di quella testa,
Con altre verghe assai bagnate, e vive
Voller toccar la serpentina cresta.
Vistole poi restar del legno prive,
Ne fer con l’altre Ninfe una gran festa.
Co’l seme anchor la vennero à toccare,
E quel poi seminar per tutto il mare.
Cosi nacque il corallo, e anchor ritiene
Simil natura, che nel mar più basso,
È tenero virgulto, e come viene
A l’aria s’indurisce, e si fa sasso.
Perseo già mondo al desiato bene
Aspira, e serpi asconde, e in aria il passo
Move, e giunge in un vol dove su’l lito
Altri il genero aspetta, altri il marito.
I lieti gridi, il plauso, e le parole
Sparser di gaudio il ciel tosto, che venne.
Ogn’un s’inchina, ogn’un l’ammira, e cole
Tosto, ch’ei lascia le veloci penne.
Cefeo, e la moglie inginocchiar si vole,
Ma Perseo à forza in alto li ritenne.
Genero già il salutano, e gli danno
Tutti i più degni titoli, che sanno.
Perseo legata Andromeda anchor vede,
V’accorre in fretta, e subito la scioglie:
E poi con l’honestà, che si richiede,
Saluta allegro la salvata moglie.
Indi ver la città drizzano il piede,
Dove il palazzo regio li raccoglie.
Ma far lo sponsalitio ei non intende,
Se prima à gli alti Dei gratie non rende.
Drizzò tre altari in uno istesso luogo
Per Giove, per Mercurio, e per Minerva.
E vi fe sù per l’hostia un picciol rogo
Con quella cerimonia, che si serva.
Un Toro, che giàmai non sentì il giogo
A lo Dio, che nel ciel maggior s’osserva,
Sacrò fra quelle fiamme accese, e chiare,
Ch’in mezzo stan nel più sublime altare.
A Mercurio un Vitel ne l’ara manca
Sacrò sopra altre fiamme accese, e vive;
Et una Vacca come neve bianca
A l’inventrice de le prime Olive.
Fatti quei sacrificij, altro non manca
Che goder le bellezze uniche, e dive,
E con allegro, e propitio Himeneo
Colei, che liberò, sua sposa feo.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|72}}</noinclude><poem>
Fansi le regie nozze, e sontuose
Con ogni sorte d’allegrezza, e festa.
Di seta, e d’oro, e pietre pretiose
Si vede ogni ornamento, et ogni vesta.
Traggon le donne fuor le gemme ascose,
E n’ornano altri il collo, altri la testa.
Empion voci, e stormenti eletti, e buoni
L’aria di mille canti, e mille suoni.
Ne la sala real lieta, et immensa
Si vede il ricco, e nobile apparato,
Dove à la larga, e sontuosa mensa
Ogni ordine s’honora, et ogni stato.
E per tutto egualmente si dispensa
Ogni cibo più raro, e più pregiato.
È ver, che Bacco, e ’l suo divin liquore
Vollero in quel convito il primo honore.
Poi, che ’l divin Lieo tutti i cor lieti
Fatti ha, come di fuor mostrano i volti,
E che lasciar veder gli aurei tapeti
I lini, che lor fur di sopra tolti:
Vi fur da lor più degni alti Poeti
Dolci versi cantati, ma non molti.
Poi cercò intender Perseo, il clima, e ’l sito,
I costumi, e ’l vestir, le leggi, e ’l rito.
Come hebbe inteso di quel regno in parte
Del governo, e del clima i proprij doni,
Disse il più gran Signor, c’havesse parte
In quelle troppo calde regioni.
Dimmi ti prego Perseo con qual’arte,
Con qual valor vincesti le Gorgoni,
Come acquistasti quella horribil fronte,
Che fe di quel gran pesce in mare un monte.
Perseo cortese al cavalier si volse,
Poi fe, che queste note ogn’uno intese.
Da poi, ch’inanimar quel Re mi volse,
Che m’ha nutrito à si dubiose imprese;
A favorirmi mia sorella tolse
Minerva, e con Mercurio in terra scese;
E non mi lasciar porre a quel periglio
Senza l’aiuto loro, e ’l lor consiglio.
Lo scudo al braccio Pallade mi pone,
Mercurio l’ali à pie, la spada al fianco,
Poi disse Palla. Il capo di Gorgone
Havrai senza restare un marmo bianco,
S’ove il Sol ne l’Hesperia si ripone,
Tu saprai ritrovar nel lato manco
Dove assicura due sorelle un muro,
Che vecchie son, ne giovani mai furo.
D’un figlio di Nettuno Forco detto
Nacquero, e come uscir del materno alvo
Cangiaro à un tratto il puerile aspetto
La canicie del volto, e ’l capo calvo.
Nacquer de lumi anchor private, eccetto
Ch’un’occhio sol fra due ne trasser salvo.
E con uno occhio fuor d’ogni costume
Anc’hoggi gode hor l’una, hor l’altra il lume.
Permise questo il lor fiero destino
Per dar castigo al troppo empio peccato
Di Forco, il qual contra il voler divino
Fù da si obsceni vitij accompagnato,
Che si congiunse ad un mostro marino,
E nacquer de quel coito scelerato
Queste, à cui mostra un’occhio il giorno, e ’l cielo,
Che fer cano in un punto il volto, e ’l pelo.
Vizze, canute, curve, e rimbambite
Si fer con larga bocca, e labra schive,
Co’l mento in fuor pensose, e sbigottite
Come fosser cent’anni state vive.
Come le vide il padre si stordite,
E d’ogni honor d’ogni fortezza prive,
Del patrio le scacciò Corsico sito,
E le fe por sù l’Africano lito.
Ma non potè Pluton lor zio soffrire,
Che le nepoti in tutto abbandonate,
Penasser lì senza poter morire,
Che sapea, ch’immortali erano nate.
Onde per donar lor forza, et ardire,
Andò là dove attonite, e insensate
Sedeano, e le dotò di si gran pregio,
Che poi mai più non s’hebbero in dispregio.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Quattro Coturni alati esser contente
Le fer, da quali i piedi hebber si snelli,
Ch’elle non sol dapoi non fur si lente,
Ma giro à par de’ più veloci augelli.
La prova voller fare immantinente
De rari stivaletti, alati, e belli,
E visto si veloci havere i vanni,
Tutti scacciaro i lor canuti affanni.
Con quest’ali cercar la terra, e ’l mare,
E dopo più d’un volo, e più d’un giro,
Ne l’Atlantico lito ad habitare
Incontro à gli horti Hesperidi ne giro.
Hor queste t’è mistier di ritrovare,
S’adempir brami il troppo alto desiro.
Che quelle, che tu cerchi, in parte stanno,
Che queste dette Gree sole la sanno.
Sanno anchora una valle amena, e bella,
Ch’alcune illustri Ninfe hanno in governo,
Ricche d’un morione, il qual s’appella
L’invisibil celata de l’inferno.
Formata fu da l’infernal facella,
Et hebbe tempra tal dal lago averno,
Che se la porta à sorte in capo alcuno,
Veduto esser non puote, e vede ogn’uno.
Ne fece gratia lor l’infernal Nume,
Con legge, ch’altrui mai non si credesse,
Se non à le due Gree, c’hanno un sol lume,
S’alcuna di lor due d’huopo n’havesse.
Fece le Dee giurar su’l nero fiume
Pluton, prima che dar lor la volesse,
Che l’una, e l’altra vecchia sua nipote
Volle anchor rallegrar con questa dote.
Se giunger cerchi al destinato scopo,
Più d’un da queste haver convienti aiuto,
Ch’à le Ninfe ti guidino, e che dopo
La celata per te chieggan di Pluto.
Ma se questo ottener brami, t’è d’huopo,
Che vadi più, che puoi nascosto, e muto,
Che per promesse mai, ne per preghiere
Non potresti da lor questo ottenere.
Ch’à le Gorgoni son le Gree sorelle,
Di Forco nate, e del mostro marino.
E per non farsi al lor sangue rubelle,
Mai non ti mostrerebbono il camino.
Ch’essendo mostruose, e schive, anch’elle
Una, perche peccò, due per destino,
Si stanno in un deserto afflitte, e triste,
E non si curan molto d’esser viste.
Hor se tal coppia haver brami per duce,
Che volan sì, che ’l folgore è più tardo,
E l’elmo, ch’invisibil l’huom conduce,
Convienti ad una cosa haver riguardo.
Che cerchi d’involar lor quella luce,
Ond’han comune hor quella, hor questa il guardo.
E sappi certo s’involar la puoi,
Che da le Gree trarrai ciò, che tu vuoi.
Se l’occhio involar puoi, no’l render mai,
Se non giurano pria d’esser tua scorta,
E se per mezzo lor l’elmo non hai,
Che fa gir invisibile chi ’l porta,
Perche se senza lui visibil vai,
Anchor, che sia da te Medusa morta,
Da l’altra Euriale detta, e da Stenone,
T’è forza rimaner morto, ò prigione.
Tu dei saper, che son nate immortali
Le due, che son con lei, figlie di Forco.
Et ambe d’Aquila han veloci l’ali,
E le zanne più lunghe assai d’un porco.
E son sì bellicose, e si fatali,
Che se non porti il morion de l’orco,
Essendo tu mortal nato, e non divo,
Non te ne lascieran partir mai vivo.
D’un’altra cosa anchora io t’ammonisco,
Che mentre intento voli al capo crudo,
Se d’impetrarti non vuoi correr risco,
Fa, che guardi continuo in questo scudo.
Che se qui dentro il crudo basilisco
Miri, non ti può far de l’alma ignudo.
Con questo specchio ti consiglia, come
Puoi tor la vita à le tremende chiome.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|74}}</noinclude><poem>
Guarda qui dentro, e poi vanne à l’indietro,
Et à lei giunto d’un rovescio dalle,
Che l’aere ripercosso in questo vetro,
Ti mostrerà da pervenirvi il calle.
Come la vedi degna del feretro,
Che l’harai tolto il capo da le spalle,
Volgi sicuro à lei lo sguardo, e ’l passo,
Che s’hai lo scudo, non ti può far sasso.
Poi che m’hebbe del fatto à pieno instrutto,
E di torre à le due l’unico lume,
Io me ne vado in aria alto condutto,
Verso le Gree da le Cillenie piume.
Hor sotto ho ’l mare, hor v’haggio il lito asciutto,
Ne m’arresta aspro monte ò largo fiume.
Giungo al lor luogo, e smonto in un boschetto,
Dove m’havea la mia sorella detto.
Stommi in quello albereto ombroso, e folto
Fin ch’escon nel giardin per lor diporto:
E riguardo per tutto, e non sto molto,
Ch’ambe io le veggio passeggiar per l’horto.
Miro fra fronde, e fronde ad ambe il volto,
Insin, che l’occhio illuminato ho scorto,
Sto cauto, e come commodo mi viene,
Volo dietro à colei, che l’occhio tiene.
Mentre à la vecchia, ovunque si diporta
Io son sempre à le spalle, odo che chiede
Quell’occhio, ilquale illumina, chi’l porta,
La Grea, che ne stà senza, e che non vede.
La sorella, cortese e poco accorta
Se’l cava da la fossa, dove siede.
Stendo io la mano, mentre à l’altra il porge,
E dallo à me per lei, ne se n’accorge.
Allhor di un volo alquanto io mi discosto,
Et odo anchor colei, che l’occhio vole,
L’altra risponde, haverglielo in man posto,
E van multiplicando le parole.
Io non potei tener le risa, e tosto
Volan ver me per racquistare il Sole,
Ma ne’ Coturni havendo anch’io le piume,
Prender non mi potean senz’il lor lume.
Al fin se voller l’occhio, lor fu d’huopo
Di torsi via d’ogni altra opinione,
Giurar condurmi al destinato scopo,
Et impetrar la cuffia di Plutone.
Rendo lor l’occhio desiato, e dopo
Voliam per l’invisibil morione.
Servan le Ninfe al fato il giuramento,
E del dono infernal me fan contento.
Dopo lungo volar sento, che dice
Quella, che l’occhio havea, noi siamo al passo.
S’à te veder la mia sorella lice,
Senza, che t’habbi à trasformare in sasso;
Guarda, che dorme là in quella pendice,
Se tu la vuoi veder, tien l’occhio basso.
Non vi guard’io, resta Medusa à dietro,
Tanto, che ripercote entro al mio vetro.
Come l’ho ne lo scudo, in terra scendo,
E come il granchio verso lei camino.
Riguardo ne lo specchio, e ’l ferro prendo,
Tanto, ch’à lei, che dorme, m’avicino.
Come vi giungo, il braccio in dietro stendo,
E co’l consiglio, e co’l favor divino
Le tiro un gran rovescio sopra il collo,
E ’l tronco, e le fo dar l’ultimo crollo.
Da l’aere ripercosso il vetro fido
Il tronco collo à gli occhi mi riporta,
Et ecco sento un lagrimoso strido,
Che fa in aria colei, che l’occhio porta.
Risuona à pena il mesto, e flebil grido,
Medusa (oime) la mia sorella è morta,
Ch’odo anchor l’altra vecchia, che non vede,
Che seco duolsi, e stride, e l’aria fiede.
A pianti, à gridi lor non pongo mente,
Ma prendo il tronco capo, et ecco intanto,
Euriale con Stenon, che ’l grido sente,
Corrono, e l’una, e l’altra accresce il pianto,
Arrotano il porcino, e crudo dente,
E se non m’ascondea l’infernal manto,
Vidi ciascuna si veloce, e forte,
Che fuggita à gran pena havrei la morte.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quarto.|73}}</noinclude><poem>
Guarda qui dentro, e poi vanne à l’indietro,
Et à lei giunto d’un rovescio dalle,
Che l’aere ripercosso in questo vetro,
Ti mostrerà da pervenirvi il calle.
Come la vedi degna del feretro,
Che l’harai tolto il capo da le spalle,
Volgi sicuro à lei lo sguardo, e ’l passo,
Che s’hai lo scudo, non ti può far sasso.
Poi che m’hebbe del fatto à pieno instrutto,
E di torre à le due l’unico lume,
Io me ne vado in aria alto condutto,
Verso le Gree da le Cillenie piume.
Hor sotto ho ’l mare, hor v’haggio il lito asciutto,
Ne m’arresta aspro monte ò largo fiume.
Giungo al lor luogo, e smonto in un boschetto,
Dove m’havea la mia sorella detto.
Stommi in quello albereto ombroso, e folto
Fin ch’escon nel giardin per lor diporto:
E riguardo per tutto, e non sto molto,
Ch’ambe io le veggio passeggiar per l’horto.
Miro fra fronde, e fronde ad ambe il volto,
Insin, che l’occhio illuminato ho scorto,
Sto cauto, e come commodo mi viene,
Volo dietro à colei, che l’occhio tiene.
Mentre à la vecchia, ovunque si diporta
Io son sempre à le spalle, odo che chiede
Quell’occhio, ilquale illumina, chi’l porta,
La Grea, che ne stà senza, e che non vede.
La sorella, cortese e poco accorta
Se’l cava da la fossa, dove siede.
Stendo io la mano, mentre à l’altra il porge,
E dallo à me per lei, ne se n’accorge.
Allhor di un volo alquanto io mi discosto,
Et odo anchor colei, che l’occhio vole,
L’altra risponde, haverglielo in man posto,
E van multiplicando le parole.
Io non potei tener le risa, e tosto
Volan ver me per racquistare il Sole,
Ma ne’ Coturni havendo anch’io le piume,
Prender non mi potean senz’il lor lume.
Al fin se voller l’occhio, lor fu d’huopo
Di torsi via d’ogni altra opinione,
Giurar condurmi al destinato scopo,
Et impetrar la cuffia di Plutone.
Rendo lor l’occhio desiato, e dopo
Voliam per l’invisibil morione.
Servan le Ninfe al fato il giuramento,
E del dono infernal me fan contento.
Dopo lungo volar sento, che dice
Quella, che l’occhio havea, noi siamo al passo.
S’à te veder la mia sorella lice,
Senza, che t’habbi à trasformare in sasso;
Guarda, che dorme là in quella pendice,
Se tu la vuoi veder, tien l’occhio basso.
Non vi guard’io, resta Medusa à dietro,
Tanto, che ripercote entro al mio vetro.
Come l’ho ne lo scudo, in terra scendo,
E come il granchio verso lei camino.
Riguardo ne lo specchio, e ’l ferro prendo,
Tanto, ch’à lei, che dorme, m’avicino.
Come vi giungo, il braccio in dietro stendo,
E co’l consiglio, e co’l favor divino
Le tiro un gran rovescio sopra il collo,
E ’l tronco, e le fo dar l’ultimo crollo.
Da l’aere ripercosso il vetro fido
Il tronco collo à gli occhi mi riporta,
Et ecco sento un lagrimoso strido,
Che fa in aria colei, che l’occhio porta.
Risuona à pena il mesto, e flebil grido,
Medusa (oime) la mia sorella è morta,
Ch’odo anchor l’altra vecchia, che non vede,
Che seco duolsi, e stride, e l’aria fiede.
A pianti, à gridi lor non pongo mente,
Ma prendo il tronco capo, et ecco intanto,
Euriale con Stenon, che ’l grido sente,
Corrono, e l’una, e l’altra accresce il pianto,
Arrotano il porcino, e crudo dente,
E se non m’ascondea l’infernal manto,
Vidi ciascuna si veloce, e forte,
Che fuggita à gran pena havrei la morte.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Mentre guardando in terra al cielo aspiro,
Per gire à le mie parti amene, e belle,
Et ascolto ogni pianto, ogni martiro,
Che dicon le due Gree, con le sorelle,
Unirsi il sangue di Medusa miro,
E fare altro colore, et altra pelle;
E ’n manco tempo, ch’io non l’ho contato,
Si fe guarnito un bel cavallo alato.
Io, che’l veggio si forte, agile, e bello,
E tanto atto al maneggio, al volo, al corso,
D’un volo vò su’l quadrupede augello,
Ch’io vo veder, come obedisce al morso.
E ’l trovai si latin, veloce, e snello,
Che su lui tutto l’aere ho visto, e corso.
E dopo haver cercato il mondo tutto,
A farmi sposo il vol qui m’ha condutto.
A tal successo sol fu questo aggiunto,
Che per non esser falso, ne pergiuro,
Come al giardin fu de le Ninfe giunto,
Lasciò l’elmo infernal dentro al lor muro.
Poi credendo arrivato essere al punto,
Chiuse la porta al suo parlar, ma furo
Quei Principi si vaghi del suo dire,
Ch’anchor questo da lui vollero udire.
Dimmi ti preghiam Perseo, gli fu detto,
Perche de le tre giovani, à sol una
Fer mostruoso i serpi il primo aspetto?
Dì, se fu suo peccato, ò sua fortuna?
Perseo, che pria, che gisse al lor ricetto,
Volle saper la sorte di ciascuna,
E sapea de le serpi, e de’ crin d’oro,
Così rispose à la richiesta loro.
De le tre prime, che di Forco prole
Furon, Medusa sol nacque mortale:
Ma fu ben di bellezze uniche, e sole,
Senza havere à suoi giorni al mondo eguale.
Divino il volto, ogni occhio un vivo Sole
Onde scoccava ogn’hor l’aurato strale
Cupido, e sopra ogni altra hebbe i capelli
Biondi, lunghi, sottili, ornati, e belli.
Vede il rettor del mare il suo bel viso,
E quanto l’aurea chioma arde, e risplende,
Vede gli occhi soavi, e ’l dolce riso,
Ne si parte da lei, che se n’accende.
Non gli occorrendo allhor migliore aviso,
La forma d’un cavallo approva, e prende,
E infiamma à un tratto lei di quel desiro,
Del quale accese Europa il Toro in Tiro.
Come ha ’l rettor del pelago il suo amore
Fatto montar su’l trasformato dorso,
Entra ne l’alto suo salato humore,
Poi per le note strade affretta il corso;
E senza uscir de l’Africano ardore,
In terra à se medesmo affrena il morso.
E presa la viril spoglia di prima,
Fà si, ch’ottien di lei la spoglia opima.
Ma non havendo luogo più vicino
Da satisfare à le veneree voglie:
Non riguardando al pio culto divino,
Spogliata questa, e quel, tutte le spoglie,
Nel tempio di Minerva il Re marino
Ne le sue braccia ignuda la raccoglie.
Per non veder quel mal l’offeso Nume
Lo scudo oppose à lo sdegnato lume.
Poi per punir d’un’atto si lascivo
Colei, ch’errò nel suo pudico tempio,
L’illustre crin del suo splendor fe privo,
Perch’ella fosse à l’altre eterno essempio.
Die l’alma al suo capello, e fello vivo,
Fe d’ogni crine un serpe horrendo, et empio,
E i begli occhi, ond’Amor già scoccò l’armi,
Volle, che i corpi altrui facesser marmi.
E per far, ch’altra mai donna non tenti
Lasciva à lei mostrare il corpo ignudo,
E per terror de le nemiche genti,
Fe scolpir natural quel volto crudo,
Con gli horrendi, e pestiferi serpenti,
Nel suo famoso, et honorato scudo.
E per altrui terrore, e sua difesa,
De le sue insegne il fe perpetua impresa.
</poem>
{{Ct|f=100%|v=3|L=1px|IL FINE DEL QUARTO LIBRO.}}
[[en:Metamorphoses (tr. Garth, Dryden, et al.)/Book IV]]
[[es:Las metamorfosis: Libro IV]]
[[fr:Les Métamorphoses/Livre IV]]
[[la:Metamorphoses (Ovidius)/Liber IV]]<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Manda à veder con degnità turbato
Chi fà il romore il Re canuto, e bianco.
Il fido scudo il Greco hà già trovato
Col capo ascoso di Medusa al fianco.
Lo stocco, che Mercurio gli havea dato,
Nel fodro anchor pendea dal lato manco,
Che la Real presentia ivi richiede,
Ch’ei non debbia sfodrar, s’altro non vede.
I Principi, che fur di quel convito,
Stavano come quei, ch’altro non sanno,
Del ricco ornato, e splendido vestito,
Pronti per imbracciar la seta, e ’l panno,
E chiedean, chi superbo, e chi smarrito,
Chi son quei, che da basso il romor fanno,
Chi può, da i balcon guarda in sù la strada,
E ogn’un la man sù l’elso hà de la spada.
La guardia del Signor, che sù l’entrata
Stava ordinaria à l’improviso colta,
Dopo qualche contrasto fu sforzata,
Tutta disfatta fu non senza molta
Strage, ch’alcuni havean l’arma abbassata,
E la difesa de la porta tolta.
Ma fur tanto assaltati à l’improviso,
Ch’un dopo l’altro al fin ciascun fu ucciso.
Come Fineo compare in sala, e grida
Con arme hastate, e spade, archi, e rotelle,
E Perseo, e tutti i suoi minaccia, e sfida;
La sposa, et altre assai donne, e donzelle,
Alzano sbigottite al ciel le strida,
Ne il Moro udir si può quel, che favelle.
Ma tosto un prende de le Donne cura,
E tutte in altra stanza l’assicura.
Hor si vedrà, se sei figliuol di Giove
Fineo à gridar comincia da la lunga,
Ch’ei non farà, che tutto intende, e move,
Che ’l core hoggi quest’hasta non ti punga.
L’ali del tuo destrier si rare, e nove
Non potran sì volar, ch’io non ti giunga.
Tutto il ciel non farà, ch’io non ti spoglie
De la vita in un punto, e de la moglie.
Vede ei, mentre l’ingiuria, e d’ira freme,
Che in sala ignuda ogn’un la spada afferra,
E però pensa i suoi stringere insieme,
Et in battaglia poi far lor la guerra.
Che se non và come conviensi, teme
Ch’à suoi non tocchi insanguinar la terra,
E però aspetta gli altri ne la sala,
Li quai di man in man montan la scala.
Il Re al fratello accenna con la mano,
E corre con senile, e debil piede,
E gli dice sdegnato di lontano.
Questa del merto dunque è la mercede?
S’ei salvò lei dal mostro horrendo, e strano,
Come poss’io mancar de la mia fede?
Perseo à te non hà tolta la consorte,
Ben l’hà involata al mostro, et à la morte.
Legata la vedesti al duro scoglio,
Dove dal mostro esser dovea inghiottita:
E tu suo sposo, e zio di lei cordoglio
Non però havesti, e non le desti aita.
Fineo tutto ripien d’ira, e d’orgoglio
Tolta al Re in un momento havria la vita,
Ma perche sposar vuol la figlia, l’ira
Sfoga contra il rivale, e un dardo tira.
Perseo, che attento stava à riguardallo
Quello al ferro nemico oppose scudo,
Ch’è fuor d’acciaio, e dentro di cristallo,
E fe lo stral restar d’effetto ignudo.
Ma il Greco già lanciar no’l volle in fallo,
Ma, che contra Fineo fera più crudo,
Manda l’istesso dardo à la vendetta,
Ma Fineo spicca un salto, e non l’aspetta.
Il dardo fende l’aria, e in fronte giunge
D’un, che dietro era à Fineo detto Reto,
E tanto indentro in quella parte il punge,
Che ’l fa senz’alma riversare indrieto.
Il vecchio Re da quel furor và lunge,
E protesta a gli Dei, ne ’l dice cheto,
Ch’al forte peregrin, cortese, e saggio
Contra la mente sua fan quello oltraggio.
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Perseo intanto gli Heroi di quella mensa
(Per proveder se può di qualche scampo)
In filo con grand’ordine dispensa,
E tutto prende per traverso il campo,
Squadra gli huomini, e l’arme, e mentre pensa
Come meglio ordinar puote il suo campo,
Giunge una freccia ingiuriosa, e presta,
E fora à lui le falde de la vesta.
Fin da l’estremo Gange era venuto
Ati, un paggio di Fineo illustre, e bello,
E forse un simil mai non fu veduto
Da la natura fatto, ò dal pennello,
Da ch’egli nacque havea il Montone havuto
Dal Sol sedici volte onato il vello,
E solea ornar si vago aspetto, e divo
D’un vestir non men ricco, che lascivo.
Vada pur dove vuol, da tutti gli occhi
D’huomini, e donne à se tira lo sguardo.
Altri non è, che meglio un segno tocchi,
Quando egli lancia un pal di ferro, ò un dardo,
Nel far, che giusto al punto un telo scocchi,
Nel mostrarsi à caval destro, e gagliardo.
E ’n tutto quel, che fà, mostra tal gratia,
Che vista mai di lui non resta satia.
Trovossi Perseo appresso al ricco altare,
Dove fer sacrificio ad Himeneo,
E vedendo un gran legno anchor fumare,
Il prese, e l’aventò contra Fineo.
Hor mentre il vuol d’un salto egli schivare,
Colse contra la mente di Perseo
Nel vago viso, e d’ogni gratia adorno,
Mentre egli à l’arco anchor tendeva il corno.
Fra la fronte, e la tempia fu percosso
Il misero garzon dal lato manco,
E non bastò al carbon far nero, e rosso
Di sangue il volto suo splendido, e bianco;
Ma gli ruppe la fronte insino à l’osso,
E batter fe in terra il petto, e ’l fianco,
E dopo un rispirar penoso, e corto
Il misero restò del tutto morto.
Quando il vede cader Licaba, un Siro,
Il qual l’amava assai più che se stesso,
Fà con un doloroso alto sospiro
Conoscere à ciascun, che gli è da presso,
Ch’egli hà di quel morir maggior martiro,
Che se fosse il morir toccato ad esso,
A piangerlo l’invita il duol; ma l’ira
A la vendetta, et à la morte il tira.
E ben mostrò l’amor non esser finto,
Che ’l nervo, che quel misero havea teso,
A punto in quel momento, che fu estinto,
Prese di rabbia, e di furor acceso,
Lo strale incocca, e poi, che l’arco ha spinto
Co’l braccio manco più, che può disteso,
Tira il cordon co’l destro, e pria, che scocchi,
Drizza à l’istesso segno il dardo, e gli occhi.
Scocca la freccia, e batte in aria l’ale,
Lo guarda il mesto Siro, e grida forte,
Tutto ’l ciel non farà, che questo strale
Non vendichi la sua con la tua morte.
E quando l’arco suo non sia mortale,
T’ucciderò con arme d’altra sorte,
C’hai scolorato un viso il più giocondo,
Che fosse mai veduto in tutto ’l mondo.
Schiva egli il colpo, e quel, che trasse, vede,
Che di novo minaccia, e l’arco tende,
Lascia le squadre unite, e giunge, e fiede
Il Siro, e d’un mandritto il capo fende.
Quel gira, e và, ne può tenersi in piede,
E in tanto nel garzon le luci intende,
Gli cade appresso, e se felice chiama,
Che muore à canto à quel, che cotanto ama.
Dal Greco a pena il Siro fu percosso,
Che Fineo, e mille suoi tutti in un punto
Se gli aventaro con mille arme addosso,
Ma à tempo ei ritirossi, e non fu punto.
Hor l’uno, e l’altro essercito s’è mosso,
E quel del Moro, e quel del Greco è giunto.
L’un Duca addosso à l’altro altier si serra,
E sono i primi à cominciar la guerra.
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Mostra la punta de la spada, e ’l volto
L’uno, e l’altro rivale audace, e forte,
E cerca via, che sia il nemico colto
In parte tal, che lui conduca à morte.
Ma il braccio hanno ambedue si fermo, e sciolto,
E voglia tal di vincer la consorte,
Ch’ogni lor colpo ingiurioso, e crudo
Hor la spada ripara, et hor lo scudo.
Mostrano i due Signor nel mezzo il viso,
E questi, e quei ne l’uno, e l’altro corno.
Se ben quei, che fur colti à l’improviso,
Non han tante haste, e tanto ferro intorno,
Ma sanno star talmente in sù l’aviso,
Che da gli altri non han danno, ne scorno,
Pur qualche targa, e qualche spiedo v’hanno,
Che ritrovar dove hor le Donne stanno.
Il Greco, e ’l Moro cerca ogni vantaggio,
Onde il nemico suo di vita spoglie,
E fere questi, e quei con gran coraggio,
Ne men l’honor combatte, che la moglie.
È ver, che ’l Moro hà già disavantaggio,
Ne la persona no, ma ne le spoglie,
Che la spada celeste è di tal prova,
Che manda tutto in pezzi ciò, che trova.
Hor ecco quei, che son dal destro lato
Di Perseo tutti in fuga, e molti morti,
Che i Cefeni han molt’haste, e ogn’uno è armato,
Non, che de gli altri sian più fieri, e accorti.
Perseo, che l’alma, e la sposa, e lo stato
Perde, se gli aversarij son più forti,
I suoi soccorre, e Libi al collo arriva,
E del suo caro peso il busto priva.
Sdegnato contra lui con una scure
Per vendicar l’amico Erito venne,
Ma le tempre del ciel fendenti, e dure
Li fan cader la mano, e la bipenne.
A Forba rende poi le luci oscure,
Che la celata il colpo non sostenne.
Il colpo, ch’à la sua terrestre salma
Tolse con un fendente il giorno, e l’alma.
Mill’arme, e cavalier à un tratto à fronte
Gli sono, et ei più invitto ogni hor contende,
Ne men che invitto il core, hà le man pronte,
E ribatte, e percuote, e fora, e fende,
E fà di sangue un mar, di morti un monte.
Bellona è seco, e ’l cor più ogni hor gli accende.
Visto quei, che fuggir si gran valore,
Ripigliaro in un punto, e l’alme, e ’l core.
Fra i morti in terra eran molt’haste sparte,
Onde quei, che fuggir, meglio s’armaro,
E si strinser di novo al fiero Marte,
E co’l Greco Signor s’accompagnaro,
E si pronti investir, che in quella parte
Gli aversi cavalier si ritiraro,
E ben di lor si vendicar, ma in tanto
I Persi rotti fur da l’altro canto.
L’ira, e ’l valor di Fineo, il core, e ’l senno,
Il vantaggio de l’arme, e de guerrieri
La rotta à i Persi in quella parte denno,
Se ben furo un gran tempo arditi, e fieri.
Un, ch’era appresso à Perseo, gli fe cenno,
E fe, che vide i morti cavalieri.
Non sà l’ardito Greco ove s’investa,
Se salva quella parte, perde questa.
Come Tigre crudel, ch’arrota i denti,
Da fame stimulata, anzi da rabbia,
Se muggir sente due diversi armenti,
In due diverse valli, più s’arrabia,
Gli orecchi hà in questa parte, e in quella intenti,
E non sa dove prima à investir s’habbia,
Al fin dove è più cibo, e più muggito,
Corre à sfogar l’ingordo suo appetito.
Tal’ei, che di ferire ardea di voglia
Varij nemici in varij luochi sparsi,
Mentre à questi, et à quei l’ardor l’invoglia,
Riguarda questi, e quei, ne sà, che farsi.
S’investe questi pria, di quei si spoglia,
Corre alfin dove i cibi son men scarsi,
E procaccia esca al ferro ingordo, e fido,
Dov’è maggior romore, e maggior grido.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quinto.|79}}</noinclude><poem>
In prima Molfo, e dopo uccide Enone,
E Clito, e Flegia il cavalier esterno,
E di ciascun, ch’al suo furor s’oppone,
L’alma in un colpo, ò due manda à l’inferno.
Seguon lui due fratei Brotea, et Ammone,
E Odite, che del Regno havea il governo,
E con animo invitto, e saggio aviso
Fecer di nuovo à lor mostrare il viso.
Ma i Mori, che restar da l’altro lato,
Vedendo guerreggiar nel corno manco,
E’l destro restar tutto abbandonato,
Strinsersi insieme, e à Persi dier per fianco.
Come vide con pochi esser serrato
Da tanti, e tanti neri il guerrier bianco,
Si tirò in un canton, che ’l fea sicuro
Quinci un superbo armario, e quindi il muro.
E à quei, che seco lì si ritiraro,
Disse, armar ne convien d’invitto core,
Se voi mi fate tanto di riparo,
Ch’io possa trar di questo sacco fuore
L’empia Medusa, costerà lor caro
L’oltraggio, che n’han fatto, e ’l dishonore.
Vi trarrò tutti à un tratto di periglio,
Ma al primo motto mio chiudete il ciglio.
I seguaci di Fineo, freschi, e molti
Fieri combatton contra pochi, e stanchi;
Ma i Persi con gran cor mostrano i volti
Dapoi, che s’hanno assicurati i fianchi.
Di quei, che fuor di quel canton fur colti.
Molti ne mandar giù pallidi, e bianchi.
Molti, che fur più fieri, e meglio accorti,
In un’altro canton si fecer forti.
Fra i quali Odite fu, che ’l primo grado
Levato quel del Re nel regno havea,
Fineo l’odiava à morte, ch’à mal grado
Di quei del sangue regio egli il tenea,
E perche vien l’occasion di rado,
Vedendo, che con pochi ei difendea
La fronte d’un canton ristretto, e forte,
Andò per dargli di sua man la morte.
L’odio, che porta à Odite, e la paura,
Che n’hà per quel, ch’ei può co’l suo fratello,
Fà, che de l’odio antico hà maggior cura,
E s’oblia per allhor l’odio novello.
Perseo intanto à colei, che l’huomo indura,
Havea scoperto il viperin capello,
E gli amici avisati, e ’l tempo tolto,
Alzò in fronte al nemico il crudo volto.
Tessalo alza la man per trarre un dardo,
E dice armati pur di più fort’armi,
Ch’io farò te col tuo mostro bugiardo,
Se d’altro contra il mio ferir non t’armi;
Volle snodare il braccio, ma fu tardo,
Che tutti i membri suoi si fecer marmi,
Co’l braccio destro alzato, che s’arretra,
E co’l piè manco innanzi ei si fe pietra.
Neleo nel tempo istesso il Greco vede,
Che con altr’arme à la vittoria aspira,
E che mostra quel capo, e che si crede,
Che debbia marmo far ciascun, che ’l mira;
Vuol per girlo à ferire alzare il piede,
E trova, che ’l gran peso abbasso il tira,
E anchor l’immarmorite, e stupid’ossa
Mostran, che correr voglia, e che non possa.
Erice, ch’à quei due, c’havean la scorza
Di marmo era vicino, e combattea
Co’ soldati di Perseo, che per forza
Con molti altri in quel canto entrar volea,
Mentre, che chiama aiuto, e entrar si sforza,
Vede stupidi i due, ch’appresso havea,
Gli guarda, e vuol con man la prova farne,
E in somma son di sasso, e non di carne.
Si tira à dietro, e al ciel le mani alzando,
Gli guarda, e dice. oh Dio, che cosa è questa?
Ne vuoi far sassi, come fummo quando
Deucalion ne fe la mortal vesta?
Et in quell’atto attonito parlando,
Un marmo con le labra aperte resta,
Con tese braccia, e stupefatte ciglia
Guarda quei sassi, e se ne maraviglia.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quinto.|78}}</noinclude><poem>
In prima Molfo, e dopo uccide Enone,
E Clito, e Flegia il cavalier esterno,
E di ciascun, ch’al suo furor s’oppone,
L’alma in un colpo, ò due manda à l’inferno.
Seguon lui due fratei Brotea, et Ammone,
E Odite, che del Regno havea il governo,
E con animo invitto, e saggio aviso
Fecer di nuovo à lor mostrare il viso.
Ma i Mori, che restar da l’altro lato,
Vedendo guerreggiar nel corno manco,
E’l destro restar tutto abbandonato,
Strinsersi insieme, e à Persi dier per fianco.
Come vide con pochi esser serrato
Da tanti, e tanti neri il guerrier bianco,
Si tirò in un canton, che ’l fea sicuro
Quinci un superbo armario, e quindi il muro.
E à quei, che seco lì si ritiraro,
Disse, armar ne convien d’invitto core,
Se voi mi fate tanto di riparo,
Ch’io possa trar di questo sacco fuore
L’empia Medusa, costerà lor caro
L’oltraggio, che n’han fatto, e ’l dishonore.
Vi trarrò tutti à un tratto di periglio,
Ma al primo motto mio chiudete il ciglio.
I seguaci di Fineo, freschi, e molti
Fieri combatton contra pochi, e stanchi;
Ma i Persi con gran cor mostrano i volti
Dapoi, che s’hanno assicurati i fianchi.
Di quei, che fuor di quel canton fur colti.
Molti ne mandar giù pallidi, e bianchi.
Molti, che fur più fieri, e meglio accorti,
In un’altro canton si fecer forti.
Fra i quali Odite fu, che ’l primo grado
Levato quel del Re nel regno havea,
Fineo l’odiava à morte, ch’à mal grado
Di quei del sangue regio egli il tenea,
E perche vien l’occasion di rado,
Vedendo, che con pochi ei difendea
La fronte d’un canton ristretto, e forte,
Andò per dargli di sua man la morte.
L’odio, che porta à Odite, e la paura,
Che n’hà per quel, ch’ei può co’l suo fratello,
Fà, che de l’odio antico hà maggior cura,
E s’oblia per allhor l’odio novello.
Perseo intanto à colei, che l’huomo indura,
Havea scoperto il viperin capello,
E gli amici avisati, e ’l tempo tolto,
Alzò in fronte al nemico il crudo volto.
Tessalo alza la man per trarre un dardo,
E dice armati pur di più fort’armi,
Ch’io farò te col tuo mostro bugiardo,
Se d’altro contra il mio ferir non t’armi;
Volle snodare il braccio, ma fu tardo,
Che tutti i membri suoi si fecer marmi,
Co’l braccio destro alzato, che s’arretra,
E co’l piè manco innanzi ei si fe pietra.
Neleo nel tempo istesso il Greco vede,
Che con altr’arme à la vittoria aspira,
E che mostra quel capo, e che si crede,
Che debbia marmo far ciascun, che ’l mira;
Vuol per girlo à ferire alzare il piede,
E trova, che ’l gran peso abbasso il tira,
E anchor l’immarmorite, e stupid’ossa
Mostran, che correr voglia, e che non possa.
Erice, ch’à quei due, c’havean la scorza
Di marmo era vicino, e combattea
Co’ soldati di Perseo, che per forza
Con molti altri in quel canto entrar volea,
Mentre, che chiama aiuto, e entrar si sforza,
Vede stupidi i due, ch’appresso havea,
Gli guarda, e vuol con man la prova farne,
E in somma son di sasso, e non di carne.
Si tira à dietro, e al ciel le mani alzando,
Gli guarda, e dice. oh Dio, che cosa è questa?
Ne vuoi far sassi, come fummo quando
Deucalion ne fe la mortal vesta?
Et in quell’atto attonito parlando,
Un marmo con le labra aperte resta,
Con tese braccia, e stupefatte ciglia
Guarda quei sassi, e se ne maraviglia.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Ma quei puniti fur meritamente,
Che fer torto al cortese cavaliero,
Ma Aconto, che di questo era innocente,
E combattea per Perseo ardito, e fiero,
Tosto, ch’incauto al mostro pose mente,
La carne trasformò, perdè il pensiero.
Astiage si credea, che vivo fosse,
E d’un man dritto in testa empio il percosse.
La spada lampeggiando il capo fiede,
E spicca un sasso, e in su balza, e s’arretra,
Maravigliato, il colpo ei guarda, e vede
Una ferita essangue in sù la pietra.
Hor mentre vuol toccarlo, e che no’l crede,
E stà tutto confuso, anch’ei s’impetra.
Dove anchor guarda attonito, e stordito,
E la ferita sua tocca col dito.
Ognun restò ne l’atto, ov’era intento,
Quando il capo crudel venne à mostrarsi,
Ma saria troppo à dirne, e cento, e cento,
Che per tutta la sala erano sparsi,
Per Perseo, e contra Perseo, e in un momento
Fur visti tutti quanti trasformarsi.
Perseo insaccar pensa il suo mostro, e intanto
Combatter sente anchor ne l’altro canto.
Fineo disposto uccider il nemico
Con Climeno, e molti altri à questo intende,
Et ei con più d’un forte, e fido amico
Valoroso in quel canto si difende.
Il volto, che nel tempio fu impudico,
Anchora in parte stà, che non gli offende.
Il Greco andar vi vuole, e stà confuso,
Che d’ogn’intorno l’han le statue chiuso.
Secondo, ch’era intorno assediato,
Non molto pria da gli huomini, e da l’armi,
Cosi poi, che ciascun fu trasformato.
Restò chiuso in quel canto da quei marmi,
Non si trovando allhora il piede alato,
Monta sopra una statua, e veder parmi
Quei, ch’Ercole imitar sanno co’l salto,
Quando l’huom sopra l’huom sormonta in alto.
Climeno intanto, e Fineo haveano morti
Odite, e gli altri, e s’erano inviati
Là dove i Persi s’eran fatti forti:
Ma quando vider tanti sassi armati,
Stupidi in atti star di mille sorti,
Restar com’essi attoniti, e insensati,
E allhor si ricordar, che ’l cauto Greco
Il sassifico mostro havea ogni hor seco.
Mentre Fineo con lui si maraviglia,
E pensa seco andar verso la scala,
Vede, ch’egli non batte più le ciglia,
E che lo spirto il gozzo non essala.
Subito chiude gli occhi, e si consiglia
D’abbandonar la stupefatta sala.
Non sà dove si sia l’esterno Duce,
Ne per saperlo aprire osa la luce.
Dapoi, che ’l cavalier di Grecia scese
Da marmi, che gli havean serrato il passo,
Dritto ne và dove il contrasto intese,
Ne vi trova huom, che non sia morto, ò sasso.
Poi vede il disleale, e discortese
Fineo, che move brancolando il passo,
E le man stende innanzi, c’hà paura
Del volto fier, ch’altrui la carne indura.
Guardando stassi, e tien la risa à pena,
Che spesso in qualche statua urta la mano.
E perche i morti, onde la sala è piena,
Spesso il fanno intoppare, e gir più piano,
E più, che quel camino in luogo il mena
Dal desiderio suo molto lontano,
Ch’ei per fuggir vorria trovar le scale,
E quello il mena dritto al suo rivale.
Hor come di quel moto, e di quel riso
Fece l’attenta orecchia il Moro accorto,
Crebbe il timore, e prese un’altro aviso,
Per non restare, ò simolacro, ò morto,
Di non aprir mai gli occhi al crudo viso,
Ma confessare al suo nemico il torto.
E fatta à timidi occhi un’altra chiusa
Con tutte due le man, cosi si scusa.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quinto.|79}}</noinclude><poem>
Deh Perseo contentatevi haver vinto,
Deh nascondete il venenoso mostro,
Perch’odio à prender l’armi non m’hà spinto,
Ne desio di regnar nel clima nostro:
Ma bene un’amor nobile, e non finto,
M’armò contra il maggior merito vostro,
Per quella, ch’à voi sposa il valor diede,
Et à me il padre, il regno, e la sua fede.
Di non l’haver ceduta à voi mi pento,
E in tutto à me dò torto, à voi ragione.
Deh non mi fate l’horrido spavento
Veder de la sassifica Gorgone.
Quest’anima, ond’io formo questo accento,
Lasciate anchor ne la carnal prigione,
Non fate questa vita un simulacro,
E tutta al vostro Nume io la consacro.
A quei si caldi preghi si commosse,
Il cortese, e magnanimo guerriero,
E discorse fra se, che ben non fosse
Di perder cosi nobil cavaliero.
Ma ne la mente un dubbio gli si mosse,
Che ’l fe sospeso alquanto nel pensiero,
Ch’ei sol potea, d’ogn’un più illustre, e degno
Porgli in dubbio ogni dì la sposa e ’l Regno.
Mentre dubbio pensiero ingombra il petto
A chi nacque di Danae, e pioggia d’oro:
E da l’un canto il domina il sospetto
Di non perder il doppio suo thesoro,
Da l’altro il move un virtuoso affetto
Di compiacere al supplicante Moro.
Che non è ben, ch’un vincitore offenda
Un, che si chiami vinto, e che s’arrenda.
Ode, che Fineo alza la voce, e dice
Oime, c’hò fatto, e in là la testa volta.
E mentre anchor pregar vuol l’infelice,
Sente, che più non hà la lingua sciolta.
E toccandogli il collo, e la cervice
Trova, che ’l sasso gli hà la carne tolta,
Anchor tien con le man gli occhi coperti,
È ver, che v’à due diti alquanto aperti.
Ó che fosse la voglia di scoprire
Chi sia colui, ch’à perdonargli essorta,
Ó pur perch’havea voglia di fuggire,
Ma non sapea dove trovar la porta,
Come volle la luce alquanto aprire,
Vide del Re del mar l’amica morta,
E fattosi da se del tutto cieco,
Ogni sospetto tolse al dubbio Greco.
Perseo vittorioso il zaino prende,
E vi ripon la testa infame, e truce,
E lieto à suoi consorti il giorno rende,
Che chiusa insino allhor tenner la luce.
Poi l’amor de la patria si l’accende,
Che seco la consorte vi conduce.
Non và su’l Pegaseo, che s’era sciolto,
Ne sapea dove il vol s’havesse volto.
Seppe per via, che Preto, empio suo zio
D’Argo, e del regno havea tolto il governo
A quel, che più d’ogni altro iniquo e rio
Con la madre il die in preda al mare, e al verno.
Ma l’atto empio, e mortal posto in oblio
De l’avo immeritevole materno,
D’armarsi contra il zio fece disegno,
E l’avo ingiusto suo ripor nel regno.
L’arme non gli giovar, ne la gran forza,
Ch’Argo contra Perseo gia non difese,
Che ’l miser fe di marmo un’altra scorza,
Come ne l’empio crin le luci intese.
Poi nel mare alternò la poggia, e l’orza,
E ver l’iniquo alunno il camin prese,
Il qual con empio fin gli die consiglio,
Che s’esponesse à cosi gran periglio.
Non fu raccolto Perseo con quel viso,
Che gli parea, che richiedesse il merto,
Anzi quando egli disse, fu deriso
D’haver quel mostro seco, ma coperto.
Diss’ei creder non vuoi, ch’io l’habbia ucciso,
Ma te ne voglio dar pegno più certo,
Subito afferra in man l’horribil’angue,
E fallo dura selce senza sangue.
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Dal dì, che da quest’isola si tolse
Perseo, per gire à si dubbiosa impresa,
Abbandonar non mai Minerva il volse,
Ma si trovò per tutto in sua difesa.
Come poi ne la patria ei si raccolse,
Havendo ella la mente altrove intesa,
Lascia il fratello, e verso il santo monte
De le figlie di Giove alza la fronte.
Com’ella giunge à l’elevato tetto
Di gemme adorno, e d’artificio, e d’oro,
E vede insieme il bel numero eletto
Del sacro, dotto, e venerabil choro,
Con quella dignitate il suo concetto
Apre à le Dee, che à lei conviensi, e à loro,
E con parole saggie, e grato modo
Cosi disciolse à la sua lingua il nodo.
Di voi talmente in ogni parte suona
La fama prudentissime sorelle,
Ch’à celebrare il monte di Elicona
Tirato havete tutte le favelle.
Ma più d’ogni altra cosa si ragiona
De le nov’acque cristalline, e belle,
Ch’à quell’augello qui far sorger piacque,
Che di Medusa, e del suo sangue nacque.
Del sangue di Medusa egli formosse
In un batter di ciglio, e ’l vidi anch’io.
E poi ch’in Ethiopia egli involosse
Nascosamente à un fratel vostro, e mio,
La fama m’apportò, che qui voltosse,
E co’l piè zappò in terra, e nacque un rio,
Il più chiaro, il più puro, e ’l più giocondo,
Che fosse mai veduto in tutto il mondo.
Ond’io, che più d’ogni altra veder bramo
Le vostre maraviglie, i pregi nostri,
Che la virtù, che v’orna, ammiro, et amo,
Venuta sono à i dotti ornati chiostri.
E per quel padre, che comune habbiamo,
Vi prego in cortesia, che mi si mostri
La nova fonte, e più d’ogni altra chiara,
E s’altra cosa in questo monte è rara.
Fer le cortesi Dee con lieto volto
Palese à la pudica, e saggia Dea,
Che ’l virginal collegio ivi raccolto
Pronto era à tutto quel, ch’ella chiedea.
E verso Urania ogn’una il ciglio volto,
Che nel Senato allhor tal grado havea,
Tutte con gran rispetto atteser, ch’ella
Fosse la prima à scioglier la favella.
Qual si sia la cagion, ch’al monte nostro
Lieta (le disse Urania) hoggi vi rende
L’acqua, gli antri, le selve, i prati, e ’l chiostro
Quanto il nostro dominio si distende,
Tutto saggia Tritonia, il monte è vostro,
Nulla al vostro desio qui si contende,
Pur dianzi il Pegaseo qui battè l’ale,
E ’l fonte fe, c’hor di veder vi cale.
Nume ne l’alto regno io non conosco,
Che ne potesse ritrovar più pronte.
E s’havrete piacer di venir nosco,
Non sol vi mostrerem la nova fonte,
Ma il tempio, i libri, le ghirlande, e ’l bosco,
Et ogni altro thesor, ch’eterna il monte.
E in un tempo per man la prese, e tacque,
E con l’altre n’andar verso quell’acque.
Sorger la Dea d’un vivo sasso vede
Quel fonte vivo, cristallino, e bello.
Che nacque lì zappando con un piede
Il novo Meduseo veloce augello.
Loda il vaso capace, ù surge, e siede,
Loda il lascivo, e lucido ruscello.
Loda gli antri, le selve, i prati, e i fiori,
E tutti gli altri lor pregi, et honori.
Felice monte, ella soggiunse poi,
Che si dotte sorelle ascolti, e chiudi,
Che fan, che gl’infiniti pregi tuoi
Non restan come gli altri inculti, e rudi.
Degne ben sete Dee del loco voi,
E degno è ’l loco de bei vostri studi.
Voi culto, illustre, e celebre il rendete,
Et ei vi dà il diporto, che vedete.
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Ó Dei (rispose allhora una di quelle)
Ben saremmo felici, e in pregio havute,
S’ad opre più magnanime, e più belle
La vostra non v’ergesse alta virtute,
E fra le vostre timide sorelle
Fossero le vostre arme conosciute,
Si che le menti nostre, e caste, e pure
Da l’insolentie altrui fosser sicure.
Il tempio, il fonte, il sito, e l’aere è grato,
Lo studio alto, e divin del nostro carme.
E sarebbe felice il nostro stato
Se voi foste fra noi con le vostr’arme.
Non è mai dì, che qualche scelerato
Contra la nostra castità non s’arme,
Che vedendoci imbelli hà ogn’un coraggio
Di machinarci insidie, e farci oltraggio.
Di Tracia venne in Focide un tiranno
Il maggior non fu mal sopra la terra,
E prese con la forza, e con l’inganno
Daulia, una populata, e ricca terra.
Non credo, che regnato havesse un’anno,
Che mosse à le tue suore un’altra guerra,
E batter le costrinse in aria i vanni,
Per via fuggir da suoi troppo empi inganni.
Andando noi verso Parnaso un giorno
Per porger voto al suo famoso tempio,
N’ingombra tutto il ciel di nubi intorno
Un’austro, che si leva oscure et empio.
N’invita intanto à far seco soggiorno
Per far di tutte un vergognoso essempio
Questo crudel, che Pirenio nomosse,
Fin, che la pioggia, e ’l giel passato fosse.
Noi, che veggiam d’oscuri nembi il cielo,
E di grandine, e pioggia esser coperto,
Mosse dal minacciato horrore, e gielo,
E da l’invito in quel bisogno offerto,
Tanto, che quell’oscuro, e horribil velo
Havesse à l’atra pioggia il grembo aperto,
Ó volto al nostro cielo havesse il tergo,
Crediam noi stesse al suo non fido albergo.
N’invita intanto il suo pensier malvagio,
Ch’appar nel volto amabile, e modesto
A veder de l’ignoto à noi palagio
Lo stupendo artificio, ond’è contesto.
E havendo da quel tempo horrido ogni agio
Con parole cortesi, e modo honesto
Seppe far si, ch’à rimirar la pioggia
N’andammo ne la sua più alta loggia.
Ma poi che l’Aquilon chiaro, et altero
Comparse in giostra con il torbido Austro,
E ’l fece con quel nembo oscuro, e nero
Nasconder sotto ’l mar nel noto claustro,
E tutto rallegrò questo hemispero
Lo scoperto del Sol lucido plaustro,
Lui ringratiammo col migliore aviso,
Che san le nostre lingue, e ’l nostro viso.
Ben che ’l Barbaro rio noi conoscesse.
E Clio, Calliope, e me chiamasse Dea;
Non però vidi, ch’ei riguardo havesse
Al divin, che n’eterna, e che ne bea.
Un van desio di noi l’alma gli oppresse,
E perche chiuse già le porte havea,
Cercò di farne forza, e ne convenne
Se volemmo fuggir, vestir le penne.
Battiam veloci, e snelle in aria l’ale,
E lasciam l’empio hostel, cerchiamo il pio.
Lo sciocco allhora, e misero mortale
Non s’accorgendo, ch’ei non era un Dio,
Ne prevedendo il suo propinquo male,
Mosso dal troppo ardente empio desio,
Saltò fuor de la loggia al volo intento,
E fidò ’l corpo suo più grave al vento.
Con la parte celeste al cielo aspira
Per seguir noi l’amante iniquo, e stolto,
Ma la terrea virtù, ch’in terra il tira,
Fà, ch’à l’antica madre ei batte il volto.
Da lui lo spirto in poco tempo spira,
E ver l’inferno và libero, e sciolto,
Del sangue ingiusto havendo il terren tinto
Il corpo, pria che fosse in tutto estinto.
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Mentre l’accorta Musa anchor ragiona
De la caduta del crudel tiranno,
A tutte un gran romor l’orecchie introna
Di molti augei, ch’al ciel le penne danno.
Corron per tutto il bel monte Helicona,
Poi volan sopra un faggio, e lì si stanno.
E senza mai tener la lingua muta
Guarda ogni augel Minerva, e la saluta.
Prima, che gli vedesse, ella pensosse,
Ch’un’huom da l’arbor ragionasse seco,
Quando il saluto pio, che ’l ciel percosse,
Fe l’idioma suo conoscer Greco.
Minerva ver le Muse il parlar mosse,
Non so se quegli augei ragionin meco,
Che se ’l sapessi, io non rifiuterei
D’aggradir lor d’altri saluti miei.
Guarda d’accordo allhor disser le Muse,
Fà, ch’ad uso miglior la lingua serbe,
Non ascoltar le lor querele, e scuse,
Che non fur donne mai tanto superbe.
Del volto human restar pur dianzi escluse
Essendo anchor d’eta molli, et accerbe
Dal nostro allhor troppo oltraggiato choro
Per l’arrogantia, e per la gloria loro.
Dentro del Macedonico sentiero
Peonia una provincia il volgo appella,
Vi nacque Evippe moglie di Piero,
Ricco, e degno huom de la città di Pella.
Di questa donna, e questo cavaliero
Nacque quell’animal, c’hor ti favella,
Che come io dissi, à ritrovar ne venne
Per arricchire il ciel di nove penne.
Non credo mai, che de la madre alcuna
Più prospera nascesse, e più feconda,
C’havesse nel figliar miglior fortuna,
Che trovasse Lucina più seconda.
Fece una figlia ad ogni nona Luna
Più bella una dell’altra, e più gioconda,
Tal, che in men di novanta Lune nove
Con gran felicità n’acquistò nove.
Crebbero, e si trovar queste donzelle
Cresciute un canto haver tanto soave,
Che sopra tutte l’altre essendo belle,
E’l lor verso ammirando ogni huom piu grave,
Essendo come noi nove sorelle
La lingua di parole armar sì prave,
Che per tutto d’haver si davan vanto
Di noi maggior dottrina, e miglior canto.
E un dì lasciato à bel studio il patrio tetto,
Venner con grande audacia al sacro monte,
E innanzi il nostro virginal cospetto
Disser con folle, e temeraria fronte.
Trovate altro diporto, altro ricetto,
Che terrem cura noi di questa fonte,
Ch’essendo nel cantar miglior di voi
L’officio vostro hor s’appertiene à noi.
E se tal confidentia in voi si trova,
Che ’l vostro canto sia di voce, e d’arte,
Più soave del nostro, e che più mova,
Ritiriamoci à cantare in qualche parte,
Che vi farem veder per chiara prova,
Che siam migliori in voci, e ’n vive carte,
E siam contente, che le Ninfe unite
Debbian d’accordo terminar tal lite.
Ma con patto però, che se in tal gioco
A l’Amadriadi addolcirem più l’alma,
Che voi n’habbiate à ceder questo loco,
Questa fontana gloriosa, et alma.
Ma quando il nostro canto sia più fioco,
E tocchi à voi di riportar la palma,
L’Emathie selve de la madre Evippe
Contraponiamo al fonte d’Aganippe.
Se bene opra ne par di Dee non degna
Venir contra mortali à tal contesa,
Di gran lunga ne par cosa più indegna,
Che si possan vantar di tanta offesa.
De le Ninfe troviam l’illustre insegna,
Le quai poi, ch’accettata hebber l’impresa,
Per lo stagno giurar fatale, e nero
Dar la sententia lor, secondo il vero.
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In un bell’antro un sasso vivo, e forte
D’intorno fa molti honorati seggi,
I primi à premer van le Ninfe accorte,
Come del giudicar voglion le leggi,
L’altre senza servar legge, ne sorte,
Come alcuna in virtù non le pareggi,
Fecer di tutte noi si poca stima.
Ch’occupar la man destra, e cantar prima.
Dà lor l’eletta à cominciar lor canti
Al suon d’un non colpevole istrumento,
In dispregio de Numi eterni, e santi
Die fuora il primo suo profano accento.
Cantò gli horrendi, e perfidi giganti,
E ’l periglio del cielo, e lo spavento.
Tutta contra gli Dei l’horribil guerra
De figli di Titano, e de la terra.
L’empia suo verso ogni sovrano honore
A giganti rendea, tutto in dispregio
Del padre nostro altissimo motore,
E de l’eterno suo divin collegio.
E d’haver dato al ciel maggior terrore
Dava à Tifeo fra gli altri il sommo pregio,
Perch’ei fu, ch’agli Dei tal terror diede,
Che la salute lor fidaro al piede.
E che ogni Dio dal troppo corso afflitto
Perduta nel fuggir tutta la lena,
Raccolto fu dal Nilo, e da l’Egitto,
Che per dar refrigerio à si gran pena,
D’ogni vivanda più prestante al vitto
Apparecchiaro una superba cena,
E come v’invitaro ogni huom più degno,
Ogni più bella donna del lor regno.
Ma che goder non la poter, che quando
Erano per mangiar, sentir Tifeo,
Che per l’Egitto già gli Dei cercando,
Per dargli al suo flagello ingiusto, e reo.
E che come il sentir, l’un l’altro urtando,
Volle ogni Dio fuggir, ma non poteo:
Ch’essendo già vicin fu à tutti forza
Per salvarsi da lui cangiar la scorza.
Ch’à pena con Tifeo s’udì dir ecco,
Che per l’incomparabil lor paura,
Si fe Giove un montone, e Bacco un becco,
E gir con l’altre bestie à la pastura.
Ch’Apollo anch’ei fe de la bocca un becco,
E tutto si vestì di piuma oscura.
E fatto un corvo lui, Mercurio un Ibi
Volar con le cornacchie, e con gli nibi.
Che visto ciò Giunon temendo anch’ella,
Una cornuta vacca si fe dopo:
La cacciatrice Dea del Sol sorella
Si fe il folle animal, che caccia il topo:
Che l’impudica Dea, non disse bella,
L’onde, che fur sua madre, hebbe per scopo;
E udito l’huom, che de la terra nacque,
Entrò in un pesce, e s’attuffò ne l’acque.
Ogni calunnia, che trovò maggiore,
Osò dir de gli Dei sommi immortali,
Ne disse pure un verso in lor favore,
Ne come fur dapoi gli Egitij tali,
Che con sommo del ciel pregio, et honore
Ne’ lor tempij adorar molti animali;
Ne come sotto il vello d’un montone
Venerar ne la Libia Giove Ammone.
Ma ogn’un, che la risposta havesse intesa,
E di Calliope la dottrina, e l’arte,
E come hebbe l’honor di questa impresa,
E la pena, che n’hebbe l’altra parte,
Sapria, che chi con noi prende contesa
Nel canto, con honor non se ne parte.
Ma forse non hai tempo d’ascoltarmi,
Ch’io farò udirti i suoi più dotti carmi.
Anzi te’n vò pregar (la Dea rispose)
Ch’io bramo un tempo far con voi soggiorno,
E goder queste belle selve ombrose,
Fin che passi il calor del mezzo giorno.
E fia ben, che sù l’erba si ripose
Ciascuna à guisa, di theatro intorno,
Ch’io spero di goder con questo aviso
D’una il dotto parlar, di tutte il viso.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Poste a seder nel bosco ombroso, e santo,
Cosi la Musa il suo parlar riprese
Poi che Calliope hebbe da noi co’l canto
Cura di terminar le liti prese;
Tolse la dotta cetra, e tirò alquanto
Hor questa, hor quella corda, insin ch’intese
Da più d’un lamentevol lor ricordo,
Che tutte le sorelle eran d’accordo.
Percote hor solo un nervo, hor molti insieme
La destra, e molto hor fa veloce, hor lento,
E ’l nervo hor sol se ne risente, e geme,
Hor fa con gli altri il suo dolce lamento.
La manca trova à tempo i tasti, e preme,
E con l’acuto accorda il grave accento.
Et ella al suon, ch’in aria ripercote,
Concorda anchor le sue divine note.
Prima Cerere a l’huom la norma diede,
Onde co’l curvo aratro aprì la terra.
Prima gli fe conoscer la mercede
Del seme, se con arte il pon sotterra.
Prima le leggi die d’amore, e fede
Da viver senza lite, e senza guerra.
Prima die à l’huom la più lodata spica,
A l’alimento suo si dolce amica.
Questa cantare intendo, e piaccia à Dio
Di dare il canto a me si pronto, e certo,
Ch’agguagli di prontezza il gran desio,
De la Dea di certezza agguagli il merto.
Che se sarà si chiaro il canto mio,
Che quel, c’hò dentro al cor, mostri scoperto,
Farò veder, che fra gli eterni Dei
Tocca del sommo honor gran parte à lei.
Poi che dal divin folgore percosso
Tifeo cadde anchor vivo in terra steso,
Giove, perch’ei da troppo orgoglio mosso,
Il Cielo havea di mille ingiurie offeso,
Gli pose la Sicilia tutta adosso,
Perche gravato dal soverchio peso,
Stesse in eterno in quel sepolcro oscuro,
Per fare il Ciel dal suo terror sicuro.
La destra ver l’Italia del gigante
Stà sotto al promontorio di Peloro.
La manca, ch’è rivolta in ver Levante,
Pachino aggrava un’altro promontoro.
Sostengon Lilibeo l’immense piante
Che guarda fra Ponente, e ’l popol Moro.
Etna gli preme il volto, et è quel loco,
Onde anchor resupino essala il foco.
L’altier gigante, che gravar si sente
Dal peso, che sostien la carne, e l’ossa,
Con ogni suo poter se ne risente,
E dà talhor si smisurata scossa,
Che ’l terremoto la terra innocente
Apre, e fa si profonda, e larga fossa,
Ch’inghiotte dentro à regni infami, e neri
I palazzi, le terre, e i monti interi.
Vede una volta il Re de le mort’ombra
Tutto intorno tremar ciò, ch’è sotterra,
E che per tema ogni empia Erinni, ogn’ombra
Cerca fuggir del cerchio, che la serra.
Subito tal paura il cor gl’ingombra,
Che teme, che la troppo aperta Terra
Non inghiotta l’inferno, e chi v’è dentro
Più basso s’esser può, che non e ’l centro.
Dapoi, che ’l terremoto venne meno
Lo sbigottito anchor Re dell’ lnferno
Fà porre à neri suoi cavalli il freno,
Monta su’l carro, e lascia il lago averno,
E subito, che scorge il ciel sereno,
Splender vede in Sicilia un foco eterno,
Ei tien, che ’l terremoto habbia per certo
Fin dentro il regno suo quel monte aperto.
Vavvi, et ode, che ’l foco, ch’ivi splende,
È ’l fiato d’ira acceso di Tifeo.
Onde intorno à veder l’isola intende,
Per saper s’altro mal quel moto feo.
E quando danno alcun non vi comprende,
Tornar pensa ov’ei crucia il popol reo;
Ma nel girar ch’ei fe, cosa gli avenne,
Che ’l suo camino alquanto gli ritenne.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quinto.|82}}</noinclude><poem>
Ne la Sicilia un monte Erice è detto,
Dove è sacrato un tempio a Citherea,
Quivi la bella Dea stando a diletto,
Co’l suo dolce figliuol, ch’in braccio havea,
Vede il Signor del tenebroso tetto
Guardar, se la gran machina Tifea
Fatt’hà qualche voragine in quel sito,
Che torni in danno al regno di Cocito.
Venere, c’havea ogni hor la mente accesa
Di crescere a se nome, imperio al figlio,
Proserpina vedendo essere intesa
A corre, e à inghirlandar la rosa, e ’l giglio,
Le cadde in mente un’honorata impresa,
E volse ver Cupido il lieto ciglio,
Et accennando in questa parte, e ’n quella,
Gli fe veder Plutone, e la Donzella.
Era anchor una tenera fanciulla
Colei figlia di Cerere, e di Giove,
Hor mentre coglie i fiori, e si trastulla,
Cosi il parlar la Dea verso Amor move.
La tua potentia ogni potentia annulla
Nel cielo, e ne la terra, eccetto dove
Regna colui, c’hor qui ti vedi à fronte,
Il quale è Re del regno d’Acheronte.
Già tre parti si fer di tutto il mondo.
Costui per Re la terza parte osserva.
Tu acquisti il Re del regno più profondo,
Se fai lui tuo soggetto, e lei tua serva.
Tu vedi ne l’imperio alto, e giocondo
La guerra, che ci fa Delia, e Minerva.
Tal, che s’habbiam nel ciel perduto in parte,
È ben, che ci allarghiamo in altra parte.
Prendi dolce amor mio, quell’alme prendi,
(Non ci perdiam si aventurosa sorte)
Onde et huomini, e Dei sovente accendi,
E fai soggetti à la tua altera corte.
Stendi à l’inferno anchor l’imperio, stendi,
E fa del zio Proserpina consorte.
Fatti soggetti anchor gl’inferni Dei,
Tu vedi qui Pluton, lì vedi lei.
L’ale il lascivo Amor subito stende,
E trova l’arco, e la faretra, e guarda,
E fra mille saette una ne prende,
Più giusta, più sicura, e più gagliarda.
E che talmente il volo, e l’arco intende,
Ch’ogni sorella sua fà parer tarda,
Et aguzzato il ferro à un duro sasso,
Ferma co’l piè sinistro innanzi il passo.
Lo stral nel nervo incocca, e insieme accorda
E la cocca, e la punta, e l’occhio à un segno:
Poi con la destra tira à se la corda,
E con la manca spinge innanzi il legno.
La destra allenta poi, lo stral si scorda,
E contra il Re del tenebroso regno
Fendendo l’aria, e sibilando giunge,
E dove accenna l’occhio il coglie, e punge.
Stà non lontan dal monte, ond’esce il foco
Di prati un lago cinto d’ogn’intorno,
Con fiori di color di minio, e croco,
D’ogni splendor, che far può un prato adorno.
Ma quei, che fan più vago il nobil loco,
I boschi son, che dal calor del giorno
Difendon quei bei prati d’ogni banda,
E fanno intorno al lago una ghirlanda.
Hà di Pergusa il nome il lago, dove
Con altre vaghe, e tenere donzelle
La vergine di Cerere, e di Giove
Tessea le vaghe sue ghirlande, e belle.
Quivi cercò come havea fatto altrove
Quel, che dà legge à l’ombre oscure, e felle,
Per veder se Tifeo fatto ivi havesse
Danno, ch’al Regno suo nocer potesse.
E poi, che danno alcun non vi comprese,
Pensò tornare al suo scuro ricetto,
Ma nel girar del carro i lumi intese
In quel leggiadro, anzi divino aspetto.
In tanto contra Amor l’arco gli tese,
E come io dissi, il colse in mezzo al petto,
E passò il colpo si dentro à la scorza,
Che ei senza altro pensar venne à la forza.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
La tenera fanciulla, et innocente
Tutta lieta cogliea questo, et quel fiore,
E quinci, e quindi havea le luci intente,
Correndo à quei, c’havean più bel colore.
Quest’era il maggior fin de la sua mente,
D’haver fra le compagne il primo honore.
In tanto il novo amante, ch’io vi narro,
L’afferrò un braccio, e la tirò su’l carro.
Ella, che tutto havea volto il pensiero
A le ghirlande, e à fior, come si vede
Prender da quel cosi affumato, e nero,
Stridendo à le compagne aiuto chiede.
Plutone intanto al suo infernal impero
Gl’infiammati cavalli instiga, e fiede.
Chiama la mesta Vergine in quel corso
Più d’ogni altra la madre in suo soccorso.
E volendo appigliarsi per tenersi
A un legno con le man, vede, che cade
Il lembo de la veste, e i fior diversi
Tutte adornar le polverose strade:
E in tal semplicità lasciò cadersi
L’affetto de la sua tenera etade,
Che de caduti fior non men si dolse,
Che del ladron, ch’à forza indi la tolse.
Inteso il Re de l’Orco al suo contento
Poi, che su’l carro tien l’amate some,
Fa sovente scoppiar la sferza al vento,
E questo, e quel caval chiama per nome.
E grida, e fa lor’animo, e spavento,
E scuote lor le redine, e le chiome.
Strid’ella, e volge à le compagne il viso,
Che corrano à la madre à darne aviso.
Ma strider ben potea, che si discosto
Da l’altre il Re infernal trovolla, e prese,
Et elle havean tanto il pensier disposto
A fiori, e tanto in lor le luci intese,
Et ei fe il carro suo sparir si tosto,
Che di tutte una non la vide, ò intese,
E già calava il Sol verso la sera
Quando tutte s’accorser, che non v’era.
Passa Pluton sul suo carro veloce
Vicino à gli alti di Palico stagni,
Dove l’odor solfureo à l’aria noce,
Ch’essala fuor di quei ferventi bagni,
Ne si cura di lei, ch’alza la voce,
Ma lascia, che si doglia, e che si lagni,
Giunge poi dove appresso à Siracusa
Sorge il famoso fonte d’Aretusa.
Da quel sorge non un’altra fonte,
V’è chi dal nome suo Ciane l’appella,
Ninfa, che l’hà in custodia à piè del monte,
Che preme di Tifeo la manca ascella.
Costei tenendo allhora alta la fronte
Fuor di quell’acqua cristallina, e bella,
Vide portar con violentia altrove
Colei, ch’uscì di Cerere, e di Giove.
E de la madre amica, e de l’honesto
Al Re de l’Orco attraversò la strada,
E disse con un volto acro, e molesto,
Non passerai per questa mia contrada,
Che pria non lasci il furto manifesto.
E se pur questa vergine t’aggrada,
Dei Cerere pregar, che te la dia,
E non torla per forza, e fuggir via.
Farsi genero alcun mai non dovrebbe,
Se ’l socero à restar n’havesse offeso,
E s’uno à le gran cose agguagliar debbe
Le picciole, anche Anapo restò preso
Di me, qual tu mi vedi, e sposa m’hebbe,
Ma ben con modo honestamente inteso.
Cosi dicendo stende ambe le braccia,
Et à cavalli suoi grida, e minaccia.
Temendo il Re del tenebroso inferno,
Che l’Amadriade, e i Fauni, e le Napee,
E quelle, che del mare hanno il governo,
Et altre assai de le dolci acque Dee
Non concorrano à fargli danno, e scherno
Prima, che torni à l’ombre ingiuste, e ree,
Batte la Terra, e le comanda poi,
Che s’apra fin’al centro, e che l’ingoi.
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Obedisce la Terra al suo tiranno,
E la strada apre, ch’à l’inferno il mena,
Et ei sferza i cavalli, e quei vi vanno
A roder lieti l’infernale avena.
Con dolor, con angoscia, e con affanno
Resta, colei ne l’oltraggiata arena,
E può l’ira, e ’l dolor nel suo cor tanto,
Che più, che v’ha il pensier, più cresce il pianto.
Stillar fa in acqua l’uno, e l’altro lume
La grand’ira, e ’l dolor ch’ange la mente,
E ne l’onde medesme, ond’era nume,
A poco, à poco liquefar si sente,
Tal, che fà di se stessa un picciol fiume,
Il piede è già tutt’acqua e solamente
Si tien anchora un poco il nervo, e l’osso,
Se ben non è si duro, ne si grosso.
Piegato havreste qual tenera verga
L’ossa, che non ster molto à liquefarsi,
Ne membro v’ha, che l’acqua no’l disperga,
Ogni poco, che dentro osa attuffarsi,
Di questa, e quella man, ch’entro v’alberga,
I diti son nel fonte in fonte sparsi,
Visibil restav’ancho il volto, e ’l petto,
Ma assai trasfigurato ne l’aspetto.
Perche fur prime le sue chiome bionde
A la fontana à far più colmo l’alvo,
Che cadder di ruggiada in mezzo à l’onde,
E le lasciaro il capo ignudo, e calvo,
Al fine il petto, e ’l volto anch’ei si fonde
In acqua, e membro in lei non resta salvo,
E dove pria fu de le linfe Ninfa,
Si fece poi de l’altre Ninfe linfa.
Quando tornar la madre non la vede
La sera in compagnia de le donzelle,
La qual con tutte ne ragiona, e chiede,
E non è, chi ne sappia dir novelle,
Move per tutto il doloroso piede,
Cercandola hor co’l Sole, hor con le stelle,
Fà poi con alte, e dolorose strida
Palese il gran dolor, che in lei s’annida.
L’Aurora già di ruggiadoso humore
Sparsa l’arida terra havea due volte,
Et altrettanto il Sol co’l suo splendore
Havea tutte à i mortai le stelle tolte.
Due volte anchor nel tenebroso horrore
L’alme città la notte havea sepolte
Co’l manto suo caliginoso, e nero,
Del nostro, e de l’Antartico Hemispero.
Quando per tutta la Trinacria havendo
Cercato, senza haverla mai trovata,
E fuor del suo costume non essendo
A l’infelice albergo mai tornata;
Congiunse i draghi horribili piangendo
Al carro, in tutto afflitta, e disperata.
Ma due gran Pini pria nel monte Etneo
Accese ne le fiamme di Tifeo.
Dapoi, c’hebbe la Dea le faci accese,
Montò su’l carro, e diede i draghi al volo,
E vide ( in tanto ciel le penne stese )
L’Hibero, il Gange, e l’uno, e l’altro Polo.
Benche più, che cerconne, men n’intese;
Le mancò la speranza, e crebbe il duolo;
E ’n boschi, antri, palazzi, e ’n ogni loco
Entrò quando co’l Sol, quando co’l foco.
Al fin da la stanchezza, e da la sete
Vinta, co’l carro in una selva scende,
Lega gli stanchi draghi ad uno abete,
E l’occhio, e ’l piè verso un tugurio intende.
E d’acqua desiosa, e di quiete,
Co’l piè la bassa porta alquanto offende.
Una vecchia vien fuor, ch’ode picchiarla,
E la Sicana Dea cosi le parla.
Se chi può, quelle spighe faccia d’oro,
Che concede la terra à la tua sorte,
E renda gli anni tuoi, come già foro
Lieti, e robusti, e te vivace, e forte;
Dà con un poco d’acqua alcun ristoro
A queste membra stanche, afflitte, e morte:
Ristora quell’humor, che ’l Sol m’ha tolto,
E fatto nel camin piover dal volto.
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Non havea anchor la Dea fermato il detto,
Che la cortese vecchia, benche lenta,
Mossa da la pietà, dal santo aspetto,
Cercò farla restar di se contenta.
E del vin, che nel suo povero tetto
Teneva, e d’una rustica polenta,
C’havea per uso suo fatta pur dianzi,
Con fede, e con amor le pose innanzi.
Il palato la Dea sente si asciutto,
Et ha di ristorar sete si grande
L’afflitto corpo da l’ardor distrutto,
Che poco havendo à cor l’altre vivande,
Dal vaso terreo il vin si beve tutto,
E poi de l’altro vin da se vi spande.
Poi getta dentro al vin le spighe cotte,
E ’l vino, e l’orzo ingordamente inghiotte.
Un fanciullo era lì soverchio ardito,
Anzi secondo il suo stato impudente,
Ne visto havendo mai si bel vestito,
Ne fronte si divina, e risplendente,
Stava à mirarla attonito, e stordito,
Vistola poi mangiar si ingordamente,
Rise, e guardò la vecchia, et additolla,
E troppo ingorda, et avida chiamolla.
E seguitando il suo dispregio, e riso,
Fu forza, che la Dea si risentisse,
E quella zuppa gli aventò nel viso,
E con grand’ira, e gran disdegno disse.
Perche non sia da te più alcun deriso,
Io vo, che porti eternamente affisse
Queste vivande, onde mi spregi tanto,
Per nota del tuo ardir sopra il tuo manto.
Tutto gli macchia il vino, e ’l grano il volto,
E in un momento tutto il corpo abbraccia:
Si fan d’un’animal breve, e raccolto
Due gambe picciolissime le braccia.
Non dal Ramarro differente ha molto
Il corpo, i piedi, e la coda, e la faccia.
È più picciolo assai, di stelle pieno,
Et ha, ma non mortal qualche veneno.
Vien detto Stellion da molte stelle,
Che ’l manto cosi vario gli han composto,
E che gl’impresser sopra de la pelle
Per uno sdegno la polenta, e ’l mosto.
Piange l’afflitta vecchia, e guarda quelle
Membra fatte si picciole, e si tosto:
Vorria toccarlo, e teme, e non sà donde
Debbia afferrarlo, et ei fugge, e s’asconde.
La Dea ritorna à draghi, e in aria poggia
Sotto il torrido cerchio, e sotto il gielo:
Vede ove il Sol si leva, e dove alloggia,
L’huom di quanti colori hà il mortal velo.
Non teme Sol, ne grandine, ne pioggia,
Ne il troppo freddo, o ’l troppo ardente cielo.
E tanto in giro andò di tondo, in tondo,
Che per troppo cercar le mancò il mondo.
Al fin torna in Sicania, e guarda dove
Stava cogliendo i fior con le compagne.
Quivi non la ritrova, e cerca altrove,
E tutti scorre i boschi, e le campagne.
Al fin verso quel fonte il passo move,
Che ’l torto di Pluton continuo piagne:
L’havria ben Ciane allhora il tutto detto,
Ma le mancava il suon, la lingua, e ’l petto.
E non potendo più con quelle note,
Onde à Pluton gridò, scoprir la mente:
Dà quegli inditij à lei, che dar le puote,
Come la nova sorte le consente.
Mentre spinse Pluton l’avare rote,
Co’ fior cadde à la vergine innocente
Una cintura, dove il fonte nacque,
E questa Ciane le mostrò sù l’acque.
Come la madre sconsolata vede
La pretiosa fascia, e in man la piglia,
Come le faccia indubitata fede,
Che cadde nel fuggir, che fe la figlia,
Il tristo, et innocente petto fiede,
E l’inornate chiome si scapiglia:
E stride, e fa sentire i suoi lamenti
Con questi afflitti, e dolorosi accenti.
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Malvagia terra, e di quei frutti indegna,
Ond’ho fatti i tuoi campi alteri, e lieti.
Onde ridotta t’ho fertile, e pregna
Da le nobili biade, che tu mieti.
Ahi quanta ingratitudine in te regna,
Dapoi, che non t’opponi, e che non vieti
A chi danno, et ingiuria mi procaccia
Con ogni tuo poter, ch’egli no’l faccia.
Io cerco di giovarti più, ch’io posso,
D’ornarti d’ogni pregio, e d’ogni honore;
Per porti un ricco, e vago manto adosso,
Varia l’herba ti dò, la spiga, e ’l fiore:
Tu poi vedi un contra il mio sangue mosso,
Che la mia figlia toglie, anzi il mio core,
E beneficio tal posto in oblio,
Tu ’l soffri, e non ti cal del danno mio.
Ne mi puoi dir di non l’haver veduta,
Ch’ecco la sua cintura, ecco qui il pegno,
Ch’in questa parte è nel fuggir caduta
Quando rapita fu da questo regno.
Che non mi dici almen, perche stai muta,
Dov’ha l’involator drizzato il legno?
Come ha passato il mare, et à che volta,
Come ha nome il ladron, che me l’ha tolta?
Sicania più d’ogni altra empia contrada,
Ingrata, e degna, d’ogni gran supplicio
Terra non v’è, per cui la miglior biada
Facesse mai più liberale ufficio:
E tu soffristi, che per questa strada,
Scordata di si raro beneficio,
Fosse condotta misera, e infelice,
La figlia de la tua benefattrice.
E per farmi maggior l’onta, e l’offesa,
Al desiderio mio muta ti stai,
Non vuoi dir dove sia, chi l’habbia presa,
Anchor, che certa io sia, che ’l tutto sai.
Già mai maggiore ingiuria non fu intesa
Di quella, che m’hai fatta, e che mi fai.
Ma di quella mercè sarai pregiata,
Che si conviene à la tua mente ingrata.
I curvi aratri, e i vomeri lucenti,
I rastri, e gl’istrumenti d’ogni sorte,
Tutti rompe, e distrugge, e gl’innocenti
Huomini, et animai condanna à morte.
Comanda poi, che sterile diventi
Il fertil campo, e frutto non apporte
A chi il seme in deposito gli crede,
E manchi de l’usura, e de la fede.
La Sicilia le biade alte, e superbe
Non rende più, che Cerere non vole,
Le secca, se talhor crescono acerbe
Hor troppo lunga pioggia, hor troppo Sole.
Vedi il seme marcir, seccarsi l’herbe,
E restar le campagne ignude, e sole.
Vi corron, s’altrui sparge in terra il seme
Tutti gli augei del mondo uniti insieme.
La terra, non più matre, anzi matrigna,
Ogni herbaggio nutrisce infame, e strano,
E fà, che ’l seme buon manca, e traligna,
E diventa di nobile villano.
Fà, che l’inespugnabile gramigna,
E che ’l loglio, e la vecchia affoghi il grano.
Se la pioggia il corrompe, il Sole il coce,
La terra, il foco, e l’acqua, e ’l ciel li noce.
La fonte allhor, che fu prima Aretusa,
Che sà chi tien la figlia, e dove, e come,
Alza da l’onde Elee la testa infusa,
Dal volto allarga poi l’humide chiome.
E come meglio sà, la terra scusa,
Per lei sgravar da si dannose some,
E stando fuor de l’acqua insino al petto,
Cerca mover la Dea con questo affetto.
Ó de le biade santa genitrice,
E di quel viso angelico, e giocondo,
Che del mar ricercando ogni pendice,
Trovata anchor non hai, ne in tutto ’l mondo;
Rendi à la terra misera, e infelice
Il manto, come havea lieto, e fecondo,
Ch’al furto de la figlia, che t’addoglia,
Aperse il tristo sen contra sua voglia.
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Non da l’amor de la mia patria spinta
Ti prego, essorto, e supplico per lei,
Ch’io nacqui in quella Grecia, che vien cinta
Da Corinto, e dal mar ne’ campi Eliei;
Ma ben dal giusto, e da l’honesto vinta
Ti ricordo, che fai quel, che non dei.
Che togli à questa terra i pregi sui,
E la vieni à punir del fallo altrui.
Non per la patria, ò mio proprio interesse,
Ti cerco far ver la Sicilia humana,
Ch’anchor, ch’io irrighi la Trinacria messe,
Io son qui forestiera, e non Sicana.
Che fur le membra mie da prima impresse
Ne’ campi Elei, dov’io nacqui Pisana,
Benche quest’isola ami à quella guisa,
Ch’amai la patria Elea vivendo in Pisa.
E s’io scorgessi in te più lieta fronte,
E tu havessi diletto d’ascoltarme,
Ti conterei, come io mi sparsi in fonte,
E come venni in queste parti à starme.
Basta per hor, che la ragion ti conte,
Ch’in favor de la terra ha fatto armarme.
E s’io troverò in te l’usata pieta,
Tu la tua patria, et io farò te lieta.
Sappi, che queste fresche, e limpid’onde,
Che surgon qui nel tuo Sicanio lito,
Non nascon ne le tue fertili sponde,
Ma ben nel primo mio materno sito.
Quivi il terren m’inghiotte, e mi nasconde,
E mena per lo regno di Cocito,
Là dove lascio l’ombre oscure, e felle,
E qui risorgo à riveder le stelle.
Hor mentre sotto il mar per molte miglia
L’onde nascoste mie conduco meco,
Io veggio tutta l’infernal famiglia,
E ciò, che fan nel piu profondo speco.
E fra gli altri ho veduta la tua figlia,
Ma Regina del regno opaco, e cieco,
Ma, che comanda à l’infernal magione,
Ma Dea de l’Orco, e moglie di Plutone.
Si che non sol non dei pianger si forte,
D’haver per maggior ben perduta lei,
Ma, ch’ella habbia acquistato un tal consorte
Mi par, che molto rallegrar ti dei.
Hor qual potea maggior ritrovar sorte?
Qual maggior nobiltà fra gli alti Dei?
S’ella chiama marito il Re notturno,
Giunon cognata, e socero Saturno?
Come la madre addolorata sente
Di Proserpina sua l’inferno honore,
Resta si stupefatta de la mente,
Dal novo sopragiunto dolore.
Ch’assembra un marmo, e come si risente,
Da l’ira stimulata, e dal furore,
Verso i superbi draghi il camin tenne,
E dritto al ciel fe lor batter le penne.
E co’l crin scapigliato, hirto, et incolto
Si fermò innanzi al tribunal di Giove.
E di lagrime sparso havendo il volto,
Che ’l continuo dolor distilla, e piove;
Poi che lo spirto alquanto have raccolto,
Cosi la voce articolata move.
Giove de gli alti Dei Signore, e padre,
Ascolta questa addolorata madre.
Io vengo al tuo sublime tribunale,
Ó de gli eterni Dei superno Dio,
Non già per accusar, ne per far male
Altrui, per odio, ò vendice desio.
Non, perche ’l tuo giudicio universale
Punisca l’offensor del sangue mio,
Non per dir, c’hoggi ogn’uno empio, e profano
Osa nel sangue tuo stender la mano.
Di questo io lascerò cura à colui,
Che debbe provedere al comun danno,
Ch’io non porto odio, e inimicitia altrui,
Se bene in me la forza usa, e l’inganno.
Tu sai pur quale io son, qual sempre fui,
E quanto m’affatichi tutto l’anno,
Per provedere i frutti più pregiati
Tanto à gli honesti, e pij, quanto à gl’ingrati.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quinto.|85}}</noinclude><poem>
Non ho la mente si malvagia, e ria,
Che m’apporti contento l’altrui doglia,
Ma cerco, che ragion fatta mi sia,
Che dal tuo tribunal non mi si toglia,
Che donna io sia de la fortuna mia,
Poi che v’è chi per forza me ne spoglia,
Rendasi à me quel, che mi s’appartiene,
E ’l ladro, e ’l malfattore habbia ogni bene.
La mia figlia infelice, ch’io perdei,
Anzi la tua da me cercata tanto,
La figlia, che di te già concepei,
Che fu creata dal tuo Nume santo;
Fra gli spirti hor si stà dannati, e rei,
Nel regno de le tenebre, e del pianto,
Trovata l’ho ne l’infernal deserto,
Se trovar si può dir, perder più certo.
Se trovar si può dir saper dov’ella
Per forza stà, senza poterla havere.
Pluton rapì la misera donzella,
Fuor del rispetto tuo, fuor del devere.
Hor non ti dimando altro, che d’havella,
Come prima l’havea nel mio potere.
Che starà tanto meglio al mio governo,
Quanto è più ben nel ciel, che ne l’inferno.
Sol questo à te nel tuo santo collegio
Chiedo, non men per me, che per te stesso,
E se ’l mio sangue non t’è punto in pregio,
Movati il sangue, ond’hai quel parto impresso.
Non disprezzar del cielo il germe regio,
Anchor che fosse il mio vile, e dimesso;
Deh se mover no’l può l’afflitta madre,
Mova la figlia almen l’offeso padre.
Fà dunque come Dio giusto, e clemente,
Ch’un prego honesto, e pio non sia schernito,
Che ’l celeste giudicio non consente,
Ch’alcun debbia goder d’un ben rapito.
E la pietà non vuol, ch’una innocente
Figlia uno involator chiami marito.
Se tal ragione ogni giudicio move,
Ben mover dè per la sua figlia Giove.
L’imperador del sempiterno regno
Con dolce occhio guardò la dolce amica.
E d’havere in memoria le fè segno
La grata lor benevolentia antica.
Comune è questa ingiuria, e questo pegno,
Comune è la vendetta, e la fatica,
Rispose poi, comune è il suo cordoglio;
Ma dà l’orecchie à quel, che dir ti voglio.
Se noi vogliam considerare il vero,
Può dirsi allhora ingiurioso oltraggio,
Che l’ingiuria è nel fatto, e nel pensiero,
E qui bisogna haver l’occhio al coraggio.
S’un tragge in alto un sasso, e un cavaliero
Percote giunto à caso in quel viaggio,
S’in mente il trahitor non ha l’inganno,
Ingiuria non gli fa, ma gli fa danno.
D’oltraggio io non saprei dannar Plutone,
Di danno si nel pegno amato, e fido,
Ch’ei non v’andò con questa intentione,
E lo sforzò la face di Cupido.
Anzi io sarei di ferma opinione
Di dar Regina al sotterraneo lido,
E consorte à colui la nostra prole,
Che ’l terzo tien de l’universa mole.
Io ’l ciel, Nettuno il mar, quel regno hav’ello,
Che de gli altri è più immobile, e più forte,
Ne sdegnar ci dobbiam genero havello,
Poi che nel mondo ci tien la terza corte,
Et è mio, come sai, minor fratello,
Ne d’altro cede à me, che de la sorte,
E questo furto, s’un vi pon ben cura,
Non è danno, ne ingiuria, ma ventura.
Ma se pure il desio, che ti conduce,
Cerca disfar questo connubio à fatto,
Ritornerà Proserpina à la luce
Per sententia del ciel con questo patto;
Se nel paese de l’infernal duce
Non ha del cibo al gusto satisfatto:
Ma non se i frutti Stigij ha già gustati,
Che cosi voglion de le Parche i fati.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Era l’irata Dea disposta in tutto,
Di dar la figlia al ciel, torla à l’inferno,
Ma non vollero i fati, che già un frutto
Gustato havea contra il decreto eterno,
L’havea il sudor tanto il palato asciutto,
Che ritrovando nel giardino Averno
Molti pomi granati, ne prese uno,
E ruppe prima il pomo, e poi il digiuno.
Orfne già piacque al torbido Acheronte,
La qual Naiade fu de le mort’acque,
Ninfa la giù di non ignobil fronte,
E ’n quei scuri antri al fin con lei si giacque.
Di questa donna Stigia, e questo Fonte
Ascalafo nomato un figlio nacque,
Costui mangiar la vide, e al Re notturno
Accusò la nipote di Saturno.
Non pensò allhora Ascalafo all’errore,
Che ’l corvo fe, ne à quel, che gl’intervenne,
E perch’ei fu cagion, ch’à lo splendore
Del più lodato regno ella non venne,
Sdegnò la Dea del tenebroso horrore,
E tutto il fe vestir di smorte penne,
E gli fe, in quel, che l’ammantar le piume
Più picciolo ogni membro eccetto il lume.
Fece del molle labro un duro rostro,
Curvo, e d’augel, che viva de la caccia,
Fa, che fra gli altri augei rassembra un mostro
La grande, altera, e stupefatta faccia.
Non move avezzo ne l’infernal chiostro
Di giorno à volo mai l’inerti braccia.
Si fece un Gufo, e anchor suo grido è tale,
Ch’ovunque il fa sentir predice il male.
Non è chi sia nel mondo peggio visto
D’un, che rapporta ciò, che sente, e vede,
Ne più dannoso, e scelerato tristo,
Senza amor, senza legge, e senza fede.
Tal che s’ei fè di quelle penne acquisto,
Conforme al merto ottenne la mercede,
Cosa, che non avenne à le Sirene,
Ch’in peggio si cangiar per oprar bene.
Che come è ver le virtuose, e belle
Sirene in questa parte il bene opraro,
Fur tre gratiosissime sorelle,
Figlie al fiume Acheloo, che si trovaro
Cogliendo i fior con molte altre donzelle,
Quando l’eterne tenebre involaro
La figlia di colei, ch’anchor commove
Con pianto, e con parole il cielo, e Giove.
Ogni parte cercar, ch’ingombra il mondo
Queste afflitte sorelle per trovarla,
Volean ne l’aria gir, nel mar profondo
Fra i pesci, e fra gli augelli à ricercarla;
Ma ritrovar che ’l lor terrestre pondo
Impedia lor la via da seguitarla,
E fatto à gli alti Dei di questo un voto,
Benigni à lor donar le penne, e ’l nuoto.
Tosto questo, e quel piè si fan di pesce
Due code atte à notar ne’ fusi sali.
Ne l’una, e l’altra man la piuma cresce,
E fansi ambe le braccia due grand’ali.
Il viso sol del suo splendor non esce
Per non privar del lor canto i mortali.
Fur si felici, e nobili nel canto,
C’havean per tutto il mondo il grido, e ’l vanto.
La cercar poi fra i pesci, e fra gli augelli,
Volar per l’aria, e s’attuffar nel mare,
Ne fra gli spirti apparse aerij, e snelli,
Ne fra l’alme, che ’l mar suole informare.
Perch’ella fra i demonij oscuri, e felli,
La madre innanzi à Giove era à pregare,
Che non facesse il suo santo decreto
La sorella scontenta, e ’l frate lieto.
Dal Re del più felice alto soggiorno
Le liti al fin fur giudicate, e rotte,
Fra lei, ch’anchor piangea l’havuto scorno,
E fra il rettor de le tartaree grotte,
E fe, che stesse fuor sei mesi al giorno,
Sei mesi dentro à la perpetua notte
Proserpina, hor fra lor l’anno hà partito,
E si gode hor la madre, hora il marito.
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Rallegraro à la Dea l’interna mente
Le nozze, e la vittoria, e divenne aviso,
L’occhio rasserenato, e risplendente,
E la grata favella, e ’l dolce riso.
Cosi tal’hor le nubi al più lucente
Lume del ciel fan tristo, e oscuro il viso,
Ma poi s’ei scaccia il nembo horrido, e folto,
Mostra il cor vincitor nel lieto volto.
In terra vien dallo stellato monte
Co’l rallegrato cor, co’l primo honore,
E và lieta à trovar l’amica fonte,
Che conoscer li fe l’involatore.
Deh di novo Arethusa alza la fronte,
E come ti stillasti in questo humore,
Conta (la Dea le disse) e fammi note
Le tue fortune, e le tue dolci note.
Restan di mormorar le lucid’onde,
Et ella mostra fuor l’infusa faccia,
La verde chioma poi, che ’l viso asconde,
Di quà, di là fin’à l’orecchie scaccia.
Poi con gran maestà cosi risponde.
De la Vergine Dea, ch’ama la caccia,
Io fui già Ninfa, e ne l’Achivo lido
Havea fra le più belle il vanto, e ’l grido.
Ninfa in Grecia non fu, che conoscesse
Meglio le selve, i piani, i monti, e i passi;
Neé che le reti meglio vi tendesse,
Ne che movesse più veloci i passi.
Le leggi nel mio cor di Delia impresse
Non soffrian, ch’à fin rio l’alma io voltassi,
Ma scacciato ogni fine infame, et empio,
Sol cercava di lei seguir l’essempio.
E dove ogn’altra Ninfa altera andava,
S’altrui la sua beltà fea maraviglia:
Io se la forma mia qualchun lodava,
Per vergogna tenea basse le ciglia.
E se talhor qualchun mi vagheggiava,
La guancia à un tratto si facea vermiglia,
E cosi rozza in questa parte fui,
Che vitio mi parea piacere altrui.
Tornando lassa da la caccia un giorno
Sola, che le compagne havea lasciate,
Veggio di pioppi, e salci un fiume adorno
Ambe le sponde, e d’ombre amene, e grate.
Solo era il loco, e ’l Sol girando intorno
Su ’l carro havea la perigliosa State,
E ’l faticoso di cacciar diletto
Di doppia state ardea lo stanco petto.
Quel fiume Alfeo si chiaro era, e si mondo,
E senza mormorar gia cosi lento,
Che si potea contar nel maggior fondo
L’arena, ogni suo gran d’oro, e d’argento.
Era infocato in ogni parte il mondo,
Spirata era ne l’aria in tutto il vento.
Tal, che mi mosse à diguazzarmi un poco
L’ombra, l’acqua, il viaggio, il tempo, e ’l loco.
Sfibbio la vaga, e ben fregiata spoglia,
Ch’à me fa il fianco adorno, altrui l’asconde.
E dove veggio più folta la foglia,
La poso, e lascio in su l’herbose sponde.
Poi dal desio, ch’à rinfrescar m’invoglia,
Spinta fido il mio corpo à le fals’onde,
C’havrian sommerso il mio terrestre peso,
S’io non havessi al mio sostegno inteso.
Le braccia, e i piedi à tempo incurvo, e scuoto,
Disteso hor tengo il corpo, hor più raccolto,
Con le mani, e co i piè l’acqua percoto,
E la discaccio co’l soffiar dal volto.
Mi diletta dapoi di cangiar nuoto,
E ’l volto, e’l petto, e ’l grembo al ciel rivolto,
E tenendo à l’insù drizzato il lume,
Mi lascio alquanto in giù portar dal fiume.
Indi come và l’huom per terra in piede
Mi drizzo, e su le braccia mi sostegno.
Poi torno al primo nuoto, e ’l petto siede
Steso tutto su l’acqua come un legno.
Zappo poi l’onde, e, come una man fiede,
S’inalza l’altra, e di ferir fa segno,
Et alternando nel zappar le braccia,
Come hà percosso l’un, l’altro minaccia.
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Mentre fo mille scherzi in mezzo à l’acque,
E fuggo il caldo Sol con mio diletto:
Un roco mormorar ne l’onde nacque,
Che m’empì di paura, e di sospetto.
Quivi ad Alfeo la mia bellezza piacque,
Che mi vide oltre al viso, il fianco, e ’l petto,
E à pena gli occhi cupidi v’intese,
Ch’in mezzo à l’onde sue di me s’accese.
Habbi vergine bella, egli alza il grido
Con caldo affetto, e parlar dolce, e roco,
Mercè del nuovo amor, ch’in me fa nido,
Anzi del novo insopportabil foco.
Tosto io vò fuor nel più propinquo lido,
Per fuggir quel d’amor non casto gioco,
Misera io salto ignuda fuor de l’onda,
E le mie vesti son ne l’altra sponda.
Anch’ei salta su’l lito, e à me rivolto
Con benigno parlar la lingua snoda.
Io dono i piedi al corso, e non l’ascolto,
Pur sento, che mi prega, e che mi loda.
Ei d’ogni altro pensier libero, e sciolto,
Mi segue intento à l’amorosa froda,
Con quella fame misera, e infelice,
Che fa l’altier terzuol l’humil pernice.
Come l’ingordo veltro ardito, e presto
Suol ne’ campi cacciar timida Damma,
Cosi cacciava ei me, dal poco honesto
Spinto, e folle desio, che ’l cor gl’infiamma.
L’esser nuda arrossimmi, e forse questo
Accendea l’amor suo di maggior fiamma.
Io pur correa, non mi trovando altr’arme
Dove meglio credea poter salvarme.
Chiedea tutti in favor gli eterni numi,
Chiamava il loro aiuto, e ’l lor consiglio,
Che mi salvasser da gli accesi Fiumi,
E cercasser di tormi à quel periglio.
Per piani, e monti, e strani hispidi dumi
Passo, e sempre al peggior camin m’appiglio.
E saltai mille spine, e mille arbusti,
Che mi sparser di sangue i piedi, e i busti.
Già corso insino al mar ver Pisa havea,
E l’alma d’ogni forza era si sgombra,
E si vicina havea la sete Alfea,
Ch’egli innanzi al mio piè facea già l’ombra:
Ricorro come io soglio à la mia Dea,
Per lo troppo timor, che ’l cor m’ingombra,
Che ’l propinquo scoppiar sento del piede,
E ’l troppo acceso spirto al crin mi fiede.
Salva Vergine santa la tua serva,
Che perderai, s’aiuto non impetra,
Colei pudica Dea Vergine serva,
Che suol portarti l’arco, e la faretra.
Costui, di te nemico, e di Minerva,
Da l’amore, e dal corso ingiusto arretra,
Costui, la cui lascivia, e mente insana
Vuol darmi à Citerea, tormi à Diana.
Al giusto prego mio la Dea s’arrende,
E vedendo, che ’l ciel di nubi abonda,
Fà, ch’una, ove son’io, tosto ne scende,
La qual tutta mi copre, e mi circonda.
Gli occhi l’acceso Fiume intorno intende,
E cerca ov’io sia gita, ov’io m’asconda.
Due volte disse, oime dolce Aretusa,
Oime dolce alma mia, dove sei chiusa.
S’aggira, e guarda in questa parte, e in quella
D’intorno al nembo il troppo ingordo lupo,
E cerca questa sventurata agnella
Per esca al suo appetito ingordo, e cupo.
Co’l cor ritorno à la mia Dea, perch’ella
M’involi al crudo dente del suo strupo.
E giaccio muta ne la tana mia,
Perche non senta il lupo, ch’io vi sia.
Qual se trovar co’l fiuto il can procura
La lepre fra cespugli, e pruni, e ciocchi,
Et ella giace muta, c’ha paura
Del can, che non la scopra, e non l’imbocchi;
Tal egli intorno à quella nebbia oscura
Il mio misero piè cerca con gli occhi,
Et io mi giaccio muta entro à quel nembo,
Perch’egli non mi senta, e toglia in grembo.
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Ei cerca, e non si parte, perche vede,
Che più lunge il mio piè stampa non forma.
Et io fra la fatica, che mi diede
Il formar si veloce in terra l’orma;
E fra ’l timor, che mi tormenta, e fiede,
Veggio, che in humor freddo si trasforma
La carne, il sangue, e l’ossa, e l’auree chiome,
E non mi resta salvo altro, che ’l nome.
Come son le mie membra in acqua sparse,
Conosce l’onde amate il caldo Dio,
E la forma, c’havea quando m’apparse
De l’huom pensa cangiar nel proprio rio,
Per poter meco alcun diletto darse,
E mescer l’acque sue nel fonte mio.
E secondo il pensier si cangia, e fonde,
Novella noia à le mie vergini onde.
Percote con un dardo allhor la terra
Diana, e fà, che s’apre, e che m’invola,
E mi conduce piu del mar sotterra
Per una cupa, e tenebrosa gola:
Non senza del condotto, che mi serra
Timor, che non mi lasci venir sola,
Ch’egli non apra à Dori il seno avaro,
E ’l dolce fonte mio non renda amaro.
E poi, ch’un lungo tratto hebbi trascorso
Per quel condotto periglioso, e strano,
Qui venni al giorno, e qui concessi il sorso
De le mie linfe al popolo Sicano.
Qui diè fine Aretusa al suo discorso,
E rinchiuse in se stessa il volto humano,
Il verde crin, la cristallina fronte
Attuffò come pria nel proprio fonte.
La lieta Dea di novo il carro ascende,
E poggia in aria, e lascia il fonte solo,
E verso l’oriente il camin prende,
Fra ’l cancro, e ’l cerchio del più noto polo.
Già sopra la Morea ne l’aria pende,
Vede, e passa Corinto, e ferma il volo
Ne le parti honorate, eccelse, e dive,
Dove Palla piantò le prime olive.
E, perche far sopra ogni cosa brama
Del seme suo tutto il terren fecondo
Trittolemo un suo alunno allegra chiama,
Gli dice poi. D’un’honorato pondo
Gravar ti vò per darti eterna fama,
Che cerchi su’l mio carro tutto ’l mondo,
Per le parti di mezzo, e per l’estreme,
E che le sparghi tutte del mio seme.
Fà su’l carro montar l’alunno altero,
Poi gli da un vaso d’or non molto grande,
Pien del suo seme più lodato, e vero,
E ’l vaso è sempre pien, se ben si spande.
Leva egli il drago à vol presto, e leggiero,
E dona al mondo le miglior vivande:
E dopo haverne sparsi tutti i siti,
Pervenne à Linco, al gran Re de gli Sciti.
Non lungi al regio albergo entra in un bosco
Per non dar ne terror, ne maraviglia
A la città de’ draghi, e del lor tosco,
Là dove il morso à lor toglie, e la briglia:
Quivi gli alberga, insin che l’aer fosco
Scacci l’Aurora candida, e vermiglia;
Poi và co’l vaso al Re, ch’empie il terreno
Del seme de la Dea, ne vien mai meno.
Quell’humiltà, ch’à tanta monarchia
Conviensi innanzi à Linco il Greco osserva,
Poi dice; alto Signor la patria mia
È la città prudente di Minerva.
Trittolemo è il mio nome, e qui m’invia
La Dea, che ne nutrisce, e ne conserva,
Acciò ch’empia il tuo regno di quel grano,
Ch’è proprio nutrimento al corpo humano.
E per empire il mondo in ogni parte
Del nobil gran, che Cerere possiede,
Non hò varcato il mar con remi, ò sarte,
Ne per la terra m’hà condotto il piede:
D’andar su’l carro suo m’insegnò l’arte
La Dea, che per ben publico mi diede.
E, perche alcun non tema de lor toschi,
Legati ho i draghi suoi ne’ vicin boschi.
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Di quà dal monte Imavo hoggi per tutto
Ho la tua terra ingravidata, e sparsa,
Onde del più lodato, e nobil frutto
Al grande imperio tuo non fia mia scarsa:
E, perche m’hà la notte qui condutto,
Fin, che la nova luce sia comparsa,
Ti chiedo albergo, e lieti farò poi
Diman di la dal monte i Regni tuoi.
E questo vaso d’or per farti accorto,
Che ’l il mio parlar maraviglioso, e vero,
Ch’è detto Pirodoro, e meco porto
Darà del mio parlar giuditio intero.
Ch’in questa loggia, ov’hora è il tuo diporto,
Voglio, che ’l ciglio tuo grave, e severo
Conosca, che più biada egli hà nel fondo,
Che non fà di bisogno à tutto ’l mondo.
Tosto rivolta il vaso, e versa l’esca,
Ch’elesse l’huom dopo le prime ghiande,
La pioggia allhor del gran più ogn’hor rinfresca,
Tanto n’acquista l’or, quanto ne spande.
Tal, che forza è, che ’l monte in terra cresca,
E che per ogni via venga più grande.
Poi disse al Re, conosci al gran, ch’aspergo,
Che sol per lo tuo ben ti chiedo albergo.
L’Imperador come insensato resta,
Quando vede cader la ricca pioggia,
E che ’l vaso di piover non s’arresta,
Anzi, c’hà piena già mezza la loggia:
Abbraccia il Greco, e fagli honore, e festa,
E seco à mensa il pon, seco l’alloggia,
E spesso dice, tutto il mio thesoro
Non potria mai pagar quel Pirodoro.
Io la tua Dea ringratio, e te non manco;
Che si grato qui fai meco soggiorno,
Ma tu dei di ragione esser già stanco,
Essendo homai per tutto andato intorno:
Và dunque, e posa il travagliato fianco,
Fin, che l’Aurora apporta il novo giorno.
Cosi andò ’l Greco à ritrovar le piume,
E à pena entro vi fu, che chiuse il lume.
Vide l’Imperador, mentre fè parte
Il vaso d’oro à lui di tanto seme,
Che fe stupido ogn’un, che in quella parte
Era, e de grani in lui fondò la speme.
Hor teme, come sian le voci sparte,
Che i principi, e la plebe uniti insieme
No’l chiamino lor Dio d’accordo uniti,
E non gli dian l’imperio de gli Sciti.
Et oltre, che si fe questo sospetto
Signor del suo discorso empio, e profano,
Troppo avaro pensier gl’ingombrò ’l petto
D’haver quel vaso d’or, che rende il grano.
Come ode, che ciascun possiede il letto,
Le ricche piume sue lascia pian piano.
E d’or s’ammanta i ben tessuti stami
Tutti di soli adorni, e di ricami.
Questo superbo, e glorioso Scita
Eletto per impresa il Sole havea,
Et ogni spoglia sua ricca, e gradita,
Di richi Soli, e varij risplendea.
Non havea voce alla sua impresa unita,
Ma troppo chiaramente si vedea,
Che volea dir, che ne la terra mole
Fra gli altri lumi regij egli era il Sole.
In man quel corto, e aguzzo ferro prende,
Che suol cinto portar dal destro lato,
E per torsi il sospetto, che l’offende,
E per haver quel vaso si pregiato,
Sicuro và, che ’l Greco non l’intende,
A l’ocioso sonno in preda dato,
E à l’innocente acciar muto minaccia,
Che ’l cor gli passi, e l’homicidio faccia.
Trittolemo non sol d’amore accese
Gli huomini per la sua fertile pioggia,
Ma ogn’arme, e sasso, e legno, che l’intese,
E vide il ben promesso in quella loggia.
Hor quel pugnal, ch’in honorate imprese
Solea servire il Re, che ’l Greco alloggia,
Amando quel Signor cortese, e saggio
S’astien per quanto ei può di fargli oltraggio.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||quinto.|88}}</noinclude><poem>
Stà duro il ferro a l’empia, e ingiusta mente,
E non vuol obedir, se non lo sforza,
Alza egli il braccio infame, et impudente
Perche ’l misero acciar fera per forza:
Ma l’alma alunna sua santa, e clemente
Al Re crudel cangiò l’humana scorza,
E ’n quel, che ’l Re lasciò del Re l’aspetto,
Lasciò il pugno il pugnal cader su’l letto.
Cadde il pugnale, e ’l suo ferir fu vano,
Ch’oprò la Dea, ch’à lui soccorso diede,
Che tutti i diti à l’homicida mano
Fur tolti in un momento, e si fer piede.
Il volto, che fu già fero, et humano,
La figura di pria più non possiede.
Fugge l’human da lui, rimane il fero,
E si fa l’animal detto Cervero.
La vaga altera, et ben fregiata vesta
Da tanti soli illuminata, et arsa,
Tutta dal capo al piè s’incarna, e inesta
In quella forma novamente apparsa,
E secondo di raggi era contesta,
Ne riman tutta anchor fregiata, e sparsa,
E anchor lo Scita, e Barbaro costume
Mostra l’andar superbo, e ’l fiero lume.
Come la fertil Dea l’hà fatto belva
Fà, che l’alunno suo quindi diloggia,
E ratto và ne la vicina selva,
E dona à i draghi il volo, e in aria poggia.
Lascia Linco i suoi commodi, e s’inselva,
Vive al Sole, à la neve, et à la pioggia.
A gli animai, che puote, anchor fa danno,
E vive di rapina, e da tiranno.
Quì fe Callioppe punto al dotto canto,
E con giudicio ben pensato, e saggio
Dier le Ninfe à le Dee del monte santo
E d’arte, e d’armonia lode, e vantaggio.
Di questo si sdegnar le vinte tanto,
Ch’à l’uno, e à l’altro choro onta, et oltraggio
Disser, via più che mai crude, et acerbe,
De la lor vanagloria anchor superbe.
E sì moltiplicar nel loro orgoglio,
Che dopo haverle sopportate assai,
lo fui sforzata à far quel, che non soglio,
E dir, se non restavan mute homai
In si misero stato, in tal cordoglio
lo le farei cader, che più già mai
Scior non potriano à la lor lingua il nodo,
Per farsi honor con si orgoglioso modo.
Esse con folle, et impudente volto
Ridon del grido mio, ch’altier minaccia,
Poi con pensier più scelerato, e stolto
Per volerne ferire alzan le braccia.
Cade il braccio à l’ingiù libero, e sciolto,
Ma non però, ch’à noi danno alcun faccia.
Vede una, mentre anchora alza le pugna,
Uscir le penne fra la carne, e l’ugna.
Ritrova come meglio vi rimira,
Che per tutta la man la piuma cresce,
E quanto il dito in dentro si ritira,
Tanto la penna in fuor s’allunga, et esce,
E per tutto, ove gli occhi intende, e gira
L’aereo acquista, e ’l terreo ogni hor discresce,
E quel, che più le par c’habbia del mostro,
È, che vede le labbra esser già rostro.
Color ceruleo à tutte il corpo impiuma,
Color dipinto, e vario il braccio impenna:
La coscia, e il petto hà la più debil piuma,
Il braccio, e l’ala hà la più forte penna.
Mentre ogn’una s’affligge, e si consuma,
E ferir con la mano il seno accenna,
Il petto con la man più non offende,
Ma per le scosse braccia in aria pende.
La penna inespugnabil lor nemica
Sotto un corpo l’asconde aereo, e poco,
Tanto, ch’entra ciascuna in una Pica,
Orgoglio anchor d’ogni silvestre loco:
Favella hor più, che mai, se ben s’intrica,
E gloria ha del suo dir garrulo, e roco;
Et anchor vana, insipida, e loquace,
D’imitar l’huom si studia, e si compiace.
</poem>
[[en:Metamorphoses (tr. Garth, Dryden, et al.)/Book V]]
[[es:Las metamorfosis: Libro V]]
[[fr:Les Métamorphoses/Livre V]]
[[la:Metamorphoses (Ovidius)/Liber V]]<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Subito scuote l’ali, et alza il grido,
Trema per tutto il mare, e s’apre, e mugge,
E rende polveroso il cielo, e ’l lido,
E le biade, e le piante atterra, e strugge.
E vede in Grecia appresso al Regio nido
Lei, che dal suo furor con molte fugge,
La toglie in grembo, e volta à Greci il tergo,
E torna con la preda al patrio albergo.
Cresce per l’aria il foco, ch’entro il coce
Mentre nel grembo suo la stringe, e porta.
L’infelice fanciulla alza la voce,
Che si conosce abbandonata, e morta.
Intanto il vento rapido, e veloce
Con preghi, e con lusinghe la conforta,
Tanto, che fa piegarla à piacer suoi,
E la fa prima sposa, e madre poi.
Madre la fè di Calaino, e Zeto,
Fanciulli di fattezze alme, e leggiadre,
Che nel bel volto Gioviale, e lieto,
E in ogni membro assimigliar la madre.
Ma non fu il materno alvo si indiscreto,
Che non gli assimigliasse in parte al padre.
Diè lor simile à Borea il volo, e ’l corso,
E due grand’ali à lor pose su’l dorso.
Nacquer ben da principio senza penne,
Come gli altri fanciulli ignudi, e belli,
Ma come à quella età da lor si venne,
Che suol dare à le tempie i primi velli;
La piuma come il padre ogn’uno ottenne,
E cominciò à spuntar come à gli augelli,
Tal, che ne’ primi lor giovenil’anni
Batter non men del padre in aria i vanni.
Fatto havea fabricar Giasone intanto
(Tutto havendo à la gloria acceso il zelo)
La nave al mondo celebrata tanto,
Che posta fu fra gli altri segni in cielo,
Per gire ad acquistar quel ricco manto,
Onde il Frisseo Monton d’oro hebbe il pelo.
È ver, che Pelia il zio con finto core
Gli havea l’alma infiammata à quest’honore.
Ch’esser dovea Giason de la sua morte
Cagione, à Pelia un dì Temi rispose.
Ond’egli per fuggir la fatal sorte
Il suo nipote al dubbio honor dispose.
Era Giason tanto eloquente, e forte,
Ch’à pena il suo gran core à Greci espose,
Che si deliberò d’unirsi seco
Tutta la gioventù del regno Greco.
Fra quai scelse cinquanta cavalieri,
Contando se per uno, i più perfetti.
Hor sentendosi forti, atti, e leggieri
Questi alati di Borea giovinetti,
Appresentati anch’essi arditi, e fieri
Se n’andar con Giason fra gli altri eletti
A quello acquisto glorioso, e degno
Per l’incognito mar su’l primo legno.
</poem>
[[en:Metamorphoses (tr. Garth, Dryden, et al.)/Book VI]]
[[es:Las metamorfosis: Libro VI]]
[[fr:Les Métamorphoses/Livre VI]]
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Subito scuote l’ali, et alza il grido,
Trema per tutto il mare, e s’apre, e mugge,
E rende polveroso il cielo, e ’l lido,
E le biade, e le piante atterra, e strugge.
E vede in Grecia appresso al Regio nido
Lei, che dal suo furor con molte fugge,
La toglie in grembo, e volta à Greci il tergo,
E torna con la preda al patrio albergo.
Cresce per l’aria il foco, ch’entro il coce
Mentre nel grembo suo la stringe, e porta.
L’infelice fanciulla alza la voce,
Che si conosce abbandonata, e morta.
Intanto il vento rapido, e veloce
Con preghi, e con lusinghe la conforta,
Tanto, che fa piegarla à piacer suoi,
E la fa prima sposa, e madre poi.
Madre la fè di Calaino, e Zeto,
Fanciulli di fattezze alme, e leggiadre,
Che nel bel volto Gioviale, e lieto,
E in ogni membro assimigliar la madre.
Ma non fu il materno alvo si indiscreto,
Che non gli assimigliasse in parte al padre.
Diè lor simile à Borea il volo, e ’l corso,
E due grand’ali à lor pose su’l dorso.
Nacquer ben da principio senza penne,
Come gli altri fanciulli ignudi, e belli,
Ma come à quella età da lor si venne,
Che suol dare à le tempie i primi velli;
La piuma come il padre ogn’uno ottenne,
E cominciò à spuntar come à gli augelli,
Tal, che ne’ primi lor giovenil’anni
Batter non men del padre in aria i vanni.
Fatto havea fabricar Giasone intanto
(Tutto havendo à la gloria acceso il zelo)
La nave al mondo celebrata tanto,
Che posta fu fra gli altri segni in cielo,
Per gire ad acquistar quel ricco manto,
Onde il Frisseo Monton d’oro hebbe il pelo.
È ver, che Pelia il zio con finto core
Gli havea l’alma infiammata à quest’honore.
Ch’esser dovea Giason de la sua morte
Cagione, à Pelia un dì Temi rispose.
Ond’egli per fuggir la fatal sorte
Il suo nipote al dubbio honor dispose.
Era Giason tanto eloquente, e forte,
Ch’à pena il suo gran core à Greci espose,
Che si deliberò d’unirsi seco
Tutta la gioventù del regno Greco.
Fra quai scelse cinquanta cavalieri,
Contando se per uno, i più perfetti.
Hor sentendosi forti, atti, e leggieri
Questi alati di Borea giovinetti,
Appresentati anch’essi arditi, e fieri
Se n’andar con Giason fra gli altri eletti
A quello acquisto glorioso, e degno
Per l’incognito mar su ’l primo legno.
</poem>
{{Ct|f=100%|v=1|l=5|IL FINE DEL SESTO LIBRO}}
[[en:Metamorphoses (tr. Garth, Dryden, et al.)/Book VI]]
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Subito scuote l’ali, et alza il grido,
Trema per tutto il mare, e s’apre, e mugge,
E rende polveroso il cielo, e ’l lido,
E le biade, e le piante atterra, e strugge.
E vede in Grecia appresso al Regio nido
Lei, che dal suo furor con molte fugge,
La toglie in grembo, e volta à Greci il tergo,
E torna con la preda al patrio albergo.
Cresce per l’aria il foco, ch’entro il coce
Mentre nel grembo suo la stringe, e porta.
L’infelice fanciulla alza la voce,
Che si conosce abbandonata, e morta.
Intanto il vento rapido, e veloce
Con preghi, e con lusinghe la conforta,
Tanto, che fa piegarla à piacer suoi,
E la fa prima sposa, e madre poi.
Madre la fè di Calaino, e Zeto,
Fanciulli di fattezze alme, e leggiadre,
Che nel bel volto Gioviale, e lieto,
E in ogni membro assimigliar la madre.
Ma non fu il materno alvo si indiscreto,
Che non gli assimigliasse in parte al padre.
Diè lor simile à Borea il volo, e ’l corso,
E due grand’ali à lor pose su’l dorso.
Nacquer ben da principio senza penne,
Come gli altri fanciulli ignudi, e belli,
Ma come à quella età da lor si venne,
Che suol dare à le tempie i primi velli;
La piuma come il padre ogn’uno ottenne,
E cominciò à spuntar come à gli augelli,
Tal, che ne’ primi lor giovenil’anni
Batter non men del padre in aria i vanni.
Fatto havea fabricar Giasone intanto
(Tutto havendo à la gloria acceso il zelo)
La nave al mondo celebrata tanto,
Che posta fu fra gli altri segni in cielo,
Per gire ad acquistar quel ricco manto,
Onde il Frisseo Monton d’oro hebbe il pelo.
È ver, che Pelia il zio con finto core
Gli havea l’alma infiammata à quest’honore.
Ch’esser dovea Giason de la sua morte
Cagione, à Pelia un dì Temi rispose.
Ond’egli per fuggir la fatal sorte
Il suo nipote al dubbio honor dispose.
Era Giason tanto eloquente, e forte,
Ch’à pena il suo gran core à Greci espose,
Che si deliberò d’unirsi seco
Tutta la gioventù del regno Greco.
Fra quai scelse cinquanta cavalieri,
Contando se per uno, i più perfetti.
Hor sentendosi forti, atti, e leggieri
Questi alati di Borea giovinetti,
Appresentati anch’essi arditi, e fieri
Se n’andar con Giason fra gli altri eletti
A quello acquisto glorioso, e degno
Per l’incognito mar su ’l primo legno.
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}}
<poem>
{{capolettera|T}}utto ascoltato havea la saggia Dea
Il canto de la Musa altero, e degno,
E de le Dee vittoriose havea
Sommamente lodato il giusto sdegno.
Ne stà ben, ch’una donna infima, e rea
S’agguagli à gli alti Dei del santo regno.
E giusta è l’ira del divin collegio,
Se noce à quei, che ’l cielo hanno in dispregio.
Ben può, dicea, ciascun lodar le Muse
D’haver dato castigo al loro oltraggio;
Ma chi sarà, che me non danni, e accuse,
Poi ch’in si giusto sdegno anch’io non caggio?
Ogn’un già sà quanta arroganza hoggi use
Aranne, ch’osa porsi al mio paraggio.
E s’io la lascio stare in questo inganno,
Quanto lodo le Dee, tanto me danno.
In Lidia già formò l’humano aspetto
A questa Aranne il colofonio Idmone.
Questi tingea nel suo povero tetto
Di più color la spoglia del montone.
Colei, che nel suo sen le diè ricetto,
Già passat’era al regno di Plutone.
De la picciola Hippepa i padri furo,
Ch’al mondo la donar di sangue oscuro.
</poem>
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{{capolettera|T}}utto ascoltato havea la saggia Dea
Il canto de la Musa altero, e degno,
E de le Dee vittoriose havea
Sommamente lodato il giusto sdegno.
Ne stà ben, ch’ una donna infima, e rea
S’agguagli à gli alti Dei del santo regno.
E giusta è l’ira del divin collegio,
Se noce à quei, che ’l cielo hanno in dispregio.
Ben può, dicea, ciascun lodar le Muse
D’haver dato castigo al loro oltraggio;
Ma chi sarà, che me non danni, e accuse,
Poi ch’ in si giusto sdegno anch’ io non caggio?
Ogn’un già sà quanta arroganza hoggi use
Aranne, ch’ osa porsi al mio paraggio.
E s’ io la lascio stare in questo inganno,
Quanto lodo le Dee, tanto me danno.
In Lidia già formò l’humano aspetto
A questa Aranne il colofonio Idmone.
Questi tingea nel suo povero tetto
Di più color la spoglia del montone.
Colei, che nel suo sen le diè ricetto,
Già passat’era al regno di Plutone.
De la picciola Hippepa i padri furo,
Ch’al mondo la donar di sangue oscuro.
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<poem>
{{capolettera|T}}utto ascoltato havea la saggia Dea
Il canto de la Musa altero, e degno,
E de le Dee vittoriose havea
Sommamente lodato il giusto sdegno.
Ne stà ben, ch’una donna infima, e rea
S’agguagli à gli alti Dei del santo regno.
E giusta è l’ira del divin collegio,
Se noce à quei, che ’l cielo hanno in dispregio.
Ben può, dicea, ciascun lodar le Muse
D’haver dato castigo al loro oltraggio;
Ma chi sarà, che me non danni, e accuse,
Poi ch’in si giusto sdegno anch’io non caggio?
Ogn’un già sà quanta arroganza hoggi use
Aranne, ch’osa porsi al mio paraggio.
E s’io la lascio stare in questo inganno,
Quanto lodo le Dee, tanto me danno.
In Lidia già formò l’humano aspetto
A questa Aranne il colofonio Idmone.
Questi tingea nel suo povero tetto
Di più color la spoglia del montone.
Colei, che nel suo sen le diè ricetto,
Già passat’era al regno di Plutone.
De la picciola Hippepa i padri furo,
Ch’al mondo la donar di sangue oscuro.
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Ma fu ben ne la Lidia io ogni parte
Famosa nel Palladio almo artificio.
Ne’l far fil de la lana, e ’n ogni parte,
Che serve al necessario lanificio,
Tutte avanzò le donne di quell’arte
Di bontà, di splendor, d’ogni altr’officio,
Ma quanto ogni altra superò costei,
Tanto la figlia Aranne avanzò lei.
Lasciaro spesso il monte di Timolo
Con le piante vinifere Liee
Di tutti i Numi abbandonato, e solo
Le Driade, l’Amadriade, e le Napee;
Sovente abbandonaro Hermo, e Pattolo
Le risplendenti, e cristalline Dee;
Sol per veder come la dotta Aranne
L’eletissime fila insieme impanne.
Perche non sol la tela ben contesta
Facea stupire ogn’un di maraviglia,
Onde si vaga uscia più d’una vesta,
Ch’à rimirar vi si perdean le ciglia,
Ma veder come un fil con l’altro innesta,
Se fila, come il tende, e l’assottiglia,
Rendeva ogn’un, che v’havea l’occhio intento
Tutto in un punto stupido, e contento.
Stupite le Napee dicean fra loro,
Con si gran studio ella il suo studio osserva,
E mesce cosi ben la seta, e l’oro,
E tutto quel, che l’arte amplia, e conserva,
Che mostra ben che dal celeste choro
Discesa ad insegnarle sia Minerva.
Ella superba il nega, e tiensi offesa,
D’haver da si gran Dea quell’arte appresa.
Venga dicea la Dea saggia, e pudica,
S’osa di starmi al par, qui meco in prova,
Che con ogni sua industria, ogni fatica,
Troverà l’arte mia più rara, e nova.
Buona fu già la sua scientia antica,
Ma ’l mio lavor l’uso moderno approva.
E se meglio la Dea vuol, ch’io gliel mostri,
Armisi, e comparisca, e meco giostri.
Come dal monte pio Minerva scende,
E lascia l’immortale alma foresta,
E l’orgoglio d’Aranne anchora intende,
E come l’arte, e lei biasmar non resta;
D’una attempata vecchia il volto prende,
Crespa la pelle fà, calva la testa,
Curva, e debil ne và carca d’affanni,
E mostra al volto haver più di cent’anni.
Regge sopra un baston l’antico fianco,
E và, dove la vergine lavora,
E con inchino humil, debile, e stanco,
Con ogni mostra esterior l’honora;
Poi come quella, c’ha quei denti manco,
Che balbo fanno anchor l’accento fuora,
Alzando verso lei l’afflitto aspetto,
Un suono articolò non molto schietto.
Se ben l’età senil, debile, e inferma
Infiniti dispregi al vecchio apporta,
S’ha per opinion fondata, e ferma,
Che non s’hà in tutto à riputar per morta:
Perche la prova, ove si fonda, e ferma,
La fa de l’altre età più saggia, e accorta.
Si che non disprezzar, ma da l’orecchia
Al consiglio fedel di questa vecchia.
Non si può dir se non, che troppo ardisca,
Sia chi si sia quà giù nato mortale,
Che con parole indebite s’arrisca
Di chiamarsi à gli Dei celesti eguale.
Onde, perche l’error tuo non punisca,
A la vergine saggia, et immortale
Chiedi mercè, dapoi che tu non sei,
Sì come ti sei fatta, eguale à lei.
Bastiti haver nel mondo in ogni parte
Fra le genti terrene il primo honore,
In questa, che trovò tant’utile arte
La Dea de la prudenza, e del valore.
Ma cedi a l’immortal soror di Marte
Tu, che sei nata nel mortale errore,
E duolti seco homai del troppo orgoglio,
Ch’ella mercede havrà del tuo cordoglio.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||sesto.|9}}</noinclude><poem>
Guardò con torte, e disdegnate ciglia
L’allhor da lei non conosciuta Diva
La troppo ardita, e temeraria figlia
Per lo troppo saper del senno priva.
Poi con questo parlar seco s’appiglia,
Con quel furor, ch’ in lei lo sdegno avviva,
E a gran fatica ritener si puote
Di percotere a lei le crespe gote.
Pur troppo è ver, che la soverchia vita
Priva l’huom del più nobil sentimento.
Vedete questa vecchia rimbambita,
Che dar consiglio à me prende ardimento.
E ben convien, che sia del senno uscita,
Che mostra haver de gli anni più di cento.
Il consiglio del vecchio è buono, e saggio;
Ma non di quel, che vive di vantaggio.
Qualche tua pronepote, ò discendente
La voce tua fastidiosa assordi,
Ch’ io ho tanto consiglio, e tanta mente,
Che non ho punto à far de tuoi ricordi.
S’atta à giostrar del par la Dea si sente,
Le fila à figurar l’historie accordi.
Ma sò, ch’ella tal prova non desia,
Che sà, ch’ in questo affar la palma è mia.
Sdegnata Palla del soverchio orgoglio,
Che in questa insana vergine ritrova,
Minaccia, e dice, contentar ti voglio,
Minerva io sono, e vo venire in prova.
E già di questa pelle mi dispoglio,
Ch’in me tutto in un tempo è vecchia, e nova.
E quel, c’hor tengo volto antico, e schivo,
Cangio co’l mio sembiante antico, e Divo.
Come la Dea palesa il suo splendore
Con la divina sua fronte, e favella:
Le Ninfe Lidie, e le propinque nuore,
Che stupian del lavor de la donzella;
Tutte s’ inginocchiaro à fare honore
À la presa da lei forma novella,
E improviso terror ciascuna oppresse,
Se non l’altera vergine, che tesse.
È ver, ch’un’ improviso sangue tinse
Di vergogna, e rossor l’ invito volto,
E durò alquanto, e poi quel rosso estinse
Il primiero vigor nel cor raccolto.
Cosi talhor l’Aurora il ciel dipinse
D’ostro, ma quel color non durò molto,
Che tolse il rosso al cielo il Sol, ch’apparse,
E del suo natural color lo sparse.
Fà, ch’Aranne al suo fatto il corso accende,
La stolida vittoria, che la move,
E superare in quella impresa intende
La figlia incomparabile di Giove,
Più la sdegnata Dea non la riprende,
Ma vuol venire à le dannose prove.
E le vuol far veder quanto s’inganni
Con suoi perpetui, e manifesti danni.
Conchiuso c’ hanno il singular certame
L’alma inconsiderata, e la prudente,
Gli ordimenti apparecchiano, e le trame,
Et ogni altra materia appartinente.
Il più lodato poi di seta stame
Fan nel pettine entrar fra dente, e dente,
Il filo il dente incatenato lassa,
E poi per molti licci al subbio passa.
Tutto d’un sol color fan l’ordimento,
E del par fila ad ogni dente danno;
Ma la trama vi fan d’oro, e d’argento,
E d’altri assai color, vaghezza al panno.
Le calcole vicine al pavimento,
Ch’obediscono al piè sospese stanno,
Son molte, e corrispondono in quell’opra
À i molti licci, ch’obediscon sopra.
La vergine terrena, e l’ immortale
Secondo ne duelli usar si sole,
Ú combatter si dè con arma eguale,
Voller del pari haver colori, e spole.
Hor per haver la palma trionfale
Pensan formar figure uniche, e sole.
Onde ogn’una di lor molti cannelli
Veste di color varij, e tutti belli.
</poem><noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||sesto.|91}}</noinclude><poem>
Guardò con torte, e disdegnate ciglia
L’allhor da lei non conosciuta Diva
La troppo ardita, e temeraria figlia
Per lo troppo saper del senno priva.
Poi con questo parlar seco s’appiglia,
Con quel furor, ch’ in lei lo sdegno avviva,
E a gran fatica ritener si puote
Di percotere a lei le crespe gote.
Pur troppo è ver, che la soverchia vita
Priva l’huom del più nobil sentimento.
Vedete questa vecchia rimbambita,
Che dar consiglio à me prende ardimento.
E ben convien, che sia del senno uscita,
Che mostra haver de gli anni più di cento.
Il consiglio del vecchio è buono, e saggio;
Ma non di quel, che vive di vantaggio.
Qualche tua pronepote, ò discendente
La voce tua fastidiosa assordi,
Ch’ io ho tanto consiglio, e tanta mente,
Che non ho punto à far de tuoi ricordi.
S’atta à giostrar del par la Dea si sente,
Le fila à figurar l’historie accordi.
Ma sò, ch’ella tal prova non desia,
Che sà, ch’ in questo affar la palma è mia.
Sdegnata Palla del soverchio orgoglio,
Che in questa insana vergine ritrova,
Minaccia, e dice, contentar ti voglio,
Minerva io sono, e vo venire in prova.
E già di questa pelle mi dispoglio,
Ch’in me tutto in un tempo è vecchia, e nova.
E quel, c’hor tengo volto antico, e schivo,
Cangio co’l mio sembiante antico, e Divo.
Come la Dea palesa il suo splendore
Con la divina sua fronte, e favella:
Le Ninfe Lidie, e le propinque nuore,
Che stupian del lavor de la donzella;
Tutte s’ inginocchiaro à fare honore
À la presa da lei forma novella,
E improviso terror ciascuna oppresse,
Se non l’altera vergine, che tesse.
È ver, ch’un’ improviso sangue tinse
Di vergogna, e rossor l’ invito volto,
E durò alquanto, e poi quel rosso estinse
Il primiero vigor nel cor raccolto.
Cosi talhor l’Aurora il ciel dipinse
D’ostro, ma quel color non durò molto,
Che tolse il rosso al cielo il Sol, ch’apparse,
E del suo natural color lo sparse.
Fà, ch’Aranne al suo fatto il corso accende,
La stolida vittoria, che la move,
E superare in quella impresa intende
La figlia incomparabile di Giove,
Più la sdegnata Dea non la riprende,
Ma vuol venire à le dannose prove.
E le vuol far veder quanto s’inganni
Con suoi perpetui, e manifesti danni.
Conchiuso c’ hanno il singular certame
L’alma inconsiderata, e la prudente,
Gli ordimenti apparecchiano, e le trame,
Et ogni altra materia appartinente.
Il più lodato poi di seta stame
Fan nel pettine entrar fra dente, e dente,
Il filo il dente incatenato lassa,
E poi per molti licci al subbio passa.
Tutto d’un sol color fan l’ordimento,
E del par fila ad ogni dente danno;
Ma la trama vi fan d’oro, e d’argento,
E d’altri assai color, vaghezza al panno.
Le calcole vicine al pavimento,
Ch’obediscono al piè sospese stanno,
Son molte, e corrispondono in quell’opra
À i molti licci, ch’obediscon sopra.
La vergine terrena, e l’ immortale
Secondo ne duelli usar si sole,
Ú combatter si dè con arma eguale,
Voller del pari haver colori, e spole.
Hor per haver la palma trionfale
Pensan formar figure uniche, e sole.
Onde ogn’una di lor molti cannelli
Veste di color varij, e tutti belli.
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Alex brollo
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Chiude il cannello il picciolo spoletto,
E poi la spola in sen la canna abbraccia.
Elle poste à seder sopra quel letto,
Che serve à chi l’un fil con l’altro allaccia;
L’animo intende ogn’una al bello obietto
Con le vest’alte, e con l’ignude braccia
Fan, che la trama per l’ordito passe,
E su’l passato fil batton le casse.
Questa calcola, e quella il piede offende,
E mentre preme lor l’attenta schena
Fà, che ’l liccio, e l’ordito hor sale, hor scende,
E che la trama misera incatena.
La spola una man dà, l’altra la rende,
E questa, e quella man le casse mena,
E mentre il pugno hor perde, hor si riscuote,
Gira il cannello, e ’l fil disvolge, e scuote.
Per aiutar l’historia co’l colore,
Varian le spole, ove è il color riposto,
E ’n quella parte appare il fil di fuore,
Che serve à l’opra, e ’l resto stà nascosto.
Mover fa il piè la parte inferiore,
E ’l liccio intende, e fa quel, che gli è imposto.
E la trama informante in parte scopre,
Ch’al lavor giova, e tutto il resto copre.
Pingon ne l’opra historie, e questa, e quella
Varie, si come è vario il lor pensiero,
E fanvi ogni figura cosi bella,
E con cosi mirabil magistero,
Che sol manca lo spirto, e la favella
Al vivo gesto, e d’ogni parte intero.
E del vario color, che ’l panno ingombra,
Un fa il manto, un la carne, un’altro l’ombra.
Palla nel panno suo superbo, e vago,
L’alma città d’Athene adombra, e pinge,
E vi fa il promontorio Ariopago
Sacrato à Marte, ove colora, e finge
Di Giove la divina, e Regia imago,
Che con dodici Divi un’arco cinge,
E l’aere di ciascuno ha si ben tolto,
Che qual sia ciascun Dio, dichiara il volto.
Giove nel mezzo imperioso siede,
Gli altri sedono bassi, egli eminente.
Quivi il Rettor de le Nereide fiede
Il fertile terren co’l suo tridente;
E del suo grembo uscito esser si vede
Un feroce destrier bello, e possente,
E la terra arricchisce ei di quel bene,
Per dare il nome à la città d’Athene.
Di scudo, e di celata arma se stessa
Con l’hasta in man religiosa, et alma,
Tien nel petto d’acciar Medusa impressa,
Ch’ignuda à lei mostrò la carnal salma,
E per la gratia à l’huom da lei concessa
Lieta si vede riportar la palma,
Ch’ella à la terra, allhor di quel ben priva,
Fè partorir la fruttuosa Oliva.
Veggonsi in atto star gli arbitri Dei,
Che lo stupor dimostran ne le ciglia,
E coronar de la vittoria lei,
Da cui la dotta terra il nome piglia.
E per farle veder di quai trofei
Dee trionfar la temeraria figlia,
Fa quattro historie d’huomini arroganti,
Che d’agguagliarsi osaro à i Numi santi.
Hemo già Re di Tracia hebbe consorte
La bella Rodopea figlia d’un Fiume,
Questi armò di superbia il cor si forte,
Che fe adorarsi qual celeste Nume.
E questo vano error cecò di sorte
A la moglie, et à lui l’interno lume,
Ch’egli chiamar si fè Giove, e Giunone
Fè nominar la figlia di Strimone.
Sdegnato il ciel del glorioso affetto
Lor trasformar la troppa altera fronte,
E questa, e quel con glorioso aspetto
Dominò i vicin colli, e fessi un monte.
L’angul superior destro fu eletto
Per far quest’opre manifeste, e conte.
Ne l’altro incontro à questo si vedea
L’orgoglio de la misera Pigmea.
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Già questa altera madre si diè vanto
D’esser più d’ogni gratia adorna, e bella,
Nel tempio di Giunon divoto, e santo,
Di lei del maggior Dio moglie, e sorella.
A l’iraconda Dea dispiacque tanto,
Che le tolse l’effigie, e la favella,
L’allungò il collo, e ’l piè, l’impiumò poscia,
Dal rostro, che le fe fino à la coscia.
S’era à costei pur dianzi ribellato
Quanto il regno Pigmeo dominio serra.
Ond’ella havea (per racquistar lo stato)
Fatta una lega, e mossa una gran guerra.
Poi se ben le fu il pel trasfigurato,
I popoli assaltò de la sua Terra,
I quai son’alti un piede, e mezzo, ò due,
Et hoggi anchor la guerra han con le grue.
Questo il superiore angulo manco
Pinge lavor, ma il destro inferiore
Mostra, ch’Antigonea non hebbe manco
Vano superbo, e glorioso il core.
Più illustre haggio il volt’io vermiglio, e bianco,
(Disse) e di maestade, e di splendore,
E di mill’altre parti altere, e nove
De la gelosa Dea moglie di Giove.
Ma se fa la Pigmea venire un mostro
Giunon (perpetua à lei noia, e vergogna)
Ben tolse à questa anchor le perle, e l’ostro,
Per la tropp’alta gloria, ov’ella agogna,
Le fe sottil lo stinco, il collo, e ’l rostro,
E la forma le die d’una cicogna,
Ne le giovò l’allhor temuta mano
Del padre Laomedonte Re Troiano.
L’angulo inferior destro dipinge
L’ira celestial, la costei pena.
Ma il manco inferior figura, e pinge,
Come Giunon un’altro orgoglio affrena.
Quanto l’imperio Assirio abbraccia, e cinge
Fra il regno Medio, e la Tigrina arena
Cinara resse gia lieto, e felice,
Se mesto no’l rendea Giunone ultrice.
Fur già si vaghe, gratiose, e belle
Le figlie del Re Cinara, e si dive,
Quant’altra, di cui il mondo hoggi favelle
Ó per voci Romane, ò voci Argive.
Ma fur ben’empie à par d’ogni altra, e felle,
E d’ogni ben de l’intelletto prive,
Ch’osar dirsi più belle, e piu leggiadre
De la di Marte, et d’Hebe altera madre.
Troppo prende la Dea d’ira, e di sdegno,
E forza è, che lo sfoghi, è che lo scopra,
Vò sodisfare al vostro animo indegno
(Disse) secondo il fine ond’egli adopra,
E vò, ch’ogni vil’huom del vostro regno
Et ogni altro stranier vi zappi sopra.
Quel bel, c’havete al mio Nume preposto,
Vò, che ad ogni vil piè sia sottoposto.
Innanzi à le gran porte del suo tempio
Con rabbia, e con furor le corca, e stende,
E con lor troppo obbrobrioso scempio
Scale del tempio suo le forma, e rende.
Tal, che su’l sasseo dosso il buono, e l’empio
E quando entra, equand’esce, hor sale, hor scende,
Quell’uniche bellezze alme, e supreme
Ogni indiscreto piè calpesta, e preme.
Frenate alteri Heroi l’ingiusto orgoglio
Con un ben forte, e ben tenace freno,
Armate il cor d’amore, e di cordoglio,
E non d’ambitione, e di veleno,
Si che l’ira di Dio non dica, Io voglio
D’ogni huom più abietto, e vil farvi da meno,
E de l’honor vi privi, e del reame,
E faccia obietto ad ogni riso infame.
Come al misero padre si riporta,
Che l’infelici figlie son di sasso,
E che, chi và per la sacrata porta,
Pon su’l lor dosso il non pietoso passo;
Piangendo ad abbracciar la pietra morta
Corre, e resta di spirto ignudo, e casso.
Statua si fa, che si consuma, et ange,
E sù le figlie immarmorate piange.
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Havea si ben la Dea tutta distinta
Ne la bell’opra questa historia intera,
Che non l’havreste detta ombra dipinta,
Ma ben un’attion vivace, e vera.
La margine d’un fregio restò tinta
Dove ramo con ramo intrecciat’era,
Del frutto, che i pacefici in pregio hanno,
E con l’arbore sua diè fine al panno.
L’altra mostrò con bel compartimento
Ne la sua dotta, e ben intesa trama
Giove tutto à l’amor lascivo intento,
Che la figlia di Ceo vagheggia, et ama.
Ben che render no’l vuol di lei contento
La vergine, ch’Asteria il mondo chiama:
Ma Giove cangia la celeste scorza,
E si trasforma in aquila, e la sforza.
Dipinge l’altro mal, che poi l’avenne,
Che Giove seguì anchor quest’infelice,
Ma per pietà gli Dei le dier le penne,
E la cangiaro in una coturnice,
Al fin su’l mare Icario il vol ritenne,
Ma lo sdegnato Dio con mano ultrice,
Poi che ’l suo amor di novo non impetra,
La fa sopra quel mar notar di pietra.
Isola detta Ortigia in mar la forma,
E, perche à Giove il suo fuggir dispiacque,
Non sol mentre stampò per terra l’orma,
Ma poi, ch’al dorso suo la penna nacque,
Volle, ch’à galla in questa nova forma
Su’l mar fuggisse dal furor de l’acque.
Cosi notando andò senza governo
L’Ortigia un tempo, ove mandolla il verno.
Per far chiara apparir pone ogni cura
La sfrenata libidine di Giove,
E la sua troppo barbara natura,
Mentre se veste, e altrui di forme nove.
Leda nel panno poi tesse, e figura,
E fa, ch’un bianco Cigno in sen le cove,
E mostra, che l’augello è ’l maggior Nume,
Ch’asconde il nero cor con bianche piume.
Tindaro re d’Ebalia fu consorte
Di Leda, la qual Testio hebbe per padre.
Giove in forma di Cigno oprò di sorte,
Che d’un’uuovo, e tre figli la fe madre:
Fra gli altri di quell’uuovo uscì la morte
De le superbe già Troiane squadre,
Dico colei, c’hebbe si raro il volto,
Che ne fu il mondo sottosopra volto.
Vi fe colei c’hà il titol d’esser bella.
Un Mondo appresso à lei pinse, ch’ardea,
E ne la man le pose una facella,
Onde le dava il foco, e l’accendea.
Volle mostrar la stolida donzella,
Che dal pensier Venereo, che rendea
Non saggio il Re del regno alto, e giocondo,
La ruina nascea del basso mondo.
I due non pinse già, che l’uuovo stesso
Diè fuora, che fu Castore, e Polluce,
C’havrebbe fatto un testimonio espresso,
Che dal divino amor nasce la luce,
Ch’ogn’un di lor fu trasformato, e messo
Nel cerchio del zodiaco, ov’anchor luce.
Ch’un voler dato al ben fu sempre in due,
E s’abbracciano anchor fra ’l cancro, e ’l bue.
Mostrò poi come Satiro si feo,
E con la bella Antiopea, che nacque
Ne l’isola di Lesbo di Nitteo
Moglie d’un Re Teban con frode giacque.
Pinse il repudio anchor del re Liceo,
A cui la moglie poi tanto dispiacque,
Che fe con altra il nuttial convito,
E lei star fe in prigion senza marito.
Gravida di due figli, fa in prigione
Starla Liceo poi, che ’l connubio scioglie,
Dipinge poi come d’Anfitrione
La forma vuol per ingannar la moglie.
Seco la casta Almena in letto il pone,
E compiace innocente à le sue voglie,
E con queste lascivie, e questi inganni
Nota i pensier di Giove empi, e tiranni.
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Dipinge poi come la bella Egina
Figlia d’Asopo andando un giorno à caccia
Ne la stagion, che la gelata brina
Ne’ più piccioli giorni il mondo aggiaccia,
Essendo da la gelida pruina
Tutta trafitta à caso alza la faccia,
Dove sù un colle in uno ombroso loco
Scorge fra tronco, e tronco ardere un foco.
Subito và la misera donzella
Per disgombrar da se l’horrido verno,
A ritrovar l’incognita facella,
Dove il foco splendea nel bosco interno.
Presa di fiamma havea forma novella
Per goder questa Egina il Re superno,
Si scalda, e stà la gelida fanciulla,
E co’l caldo di Giove il verno annulla.
Mentre, ch’ella si scalda, e maraviglia,
Come l’accesa fiamma arda si sola,
Giove la vera sua sembianza piglia,
Et ad Egina il fior virgineo invola,
Gravida lascia poi la bella figlia,
Et à l’imperio suo contento vola,
E la pittura è si distinta, e certa,
Che tutta questa fraude mostra aperta.
Mostra poi come in forma di Pastore
La bella Nimosina inganna, e gode,
L’ultimo, che dà fuor di Giove amore,
Discrive di più infamia, e di più frode,
Ch’arse (se à creder s’hà) d’un tale ardore,
Che del più rio non si ragiona, ò s’ode,
D’una arse il Re de l’anime beate,
Quale era figlia à lui, consorte al frate.
Mentre gode Proserpina la luce
Del pianeta più chiaro, e più giocondo,
S’innamora di lei l’Ethereo Duce,
Quel, che del seme suo la diede al mondo.
Quell’animal si forma ei, che conduce
Serpendo altero il suo terrestre pondo,
E dove vede lei seder su l’herba,
Serpe d’or con la testa alta, e superba.
Non teme la Regina d’Acheronte
Del serpe altier, del lucido, e de l’oro,
Che per l’imperio, c’hà di Flegetonte,
A l’Erinni comanda, e à serpi loro,
Poi che non sà, che la viperea fronte
Nasconde il Re del sempiterno choro,
Per pigliarlo, se’ può, l’attende al varco,
Ch’arricchir vuol di lui lo stigio parco.
Lieto pigliar si lascia il serpe, e prende
Piacer di lei, che se l’hà posto in seno,
Poi dal foco instigato, che l’accende
Deposto ogni vipereo empio veneno,
Con la forza celeste la distende
Sopra l’herboso, e morbido terreno,
E si vedea nel panno manifesto
Un si nefando, e obbrobrioso incesto.
Scoperti c’ha gl’ingiuriosi danni
Del maggior Dio, che l’universo move,
Pinge mill’altri furti empi, e tiranni,
E si volge à Nettuno, e lascia Giove,
Ch’anch’ei rivolto à muliebri inganni
Ogni dì si vestia di forme nove,
Si fe un’Ubin nel regno di Sicano
Dove ingannò la Dea del miglior grano.
Che tosto, ch’ei se la sentì su’l dorso,
Cominciò sù l’arena à passeggiare,
La trasse al fin contra il voler del morso
Fuor del lito Sican per l’alto mare;
E sopra un duro scoglio frenò il corso,
Per l’amoroso suo desio sfogare.
Pinge la lana poi, la seta, e l’oro
Come l’istesso Dio si fece un toro.
Che d’Eolo una leggiadra, e bella figlia
Dett’Arne, con quel pelo inganna, e porta,
Del fiume Enipeo poi la forma piglia,
Sopra il cui lito una fanciulla hà scorta
De la troppo superba, e rea famiglia
Di Salmoneo, che sola si diporta,
E di lei ne la forma d’Enipeo
Due figliuoli acquistò Pelia, e Neleo.
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Pinge più giù come nel fiume stesso
Cangiato il Re del mar sù l’aurea arena
La gran moglie d’Aloo si tira appresso,
E con l’ignude braccia l’incatena,
E come egli acquistò di quello eccesso
Due figli cosi grandi, e di tal lena,
Ch’al ciel fer guerra, e tennero in disparte
Tredici mesi impregionato Marte.
Colora come in forma d’un montone
La bella figlia inganna di Bisalto,
La qual su’l bianco suo vello si pone,
Et egli entra nel mare, e nuota in alto,
Lunge l’atterra poi da le persone,
E seco viene à l’amoroso assalto.
Finge lo stesso poi Rettor Marino
Portar Melanto in forma di Delfino.
Ma lasciato da parte il Re de l’onde,
Il biondo Apollo trasfigura, e pinge,
Che co i vaghi occhi, e con le chiome bionde
Una Ninfa Anfrisea l’infiamma, e stringe,
Tutto ei fra smorte piume il corpo asconde,
E vola, e innanzi à lei sparvier si finge,
Ella il prende, e ’l nutrisce, e ’n caccia il prova,
D’un’altra forma poi la notte il trova.
Scopre come in Thessaglia andando à caccia
Una formosa vergine Napea,
Con uno orso crudel venne à le braccia,
E s’aiuto un Leon non le porgea,
Tutta guasta l’havria l’orso la faccia.
Ma Apollo, che Leon quivi parea,
Uccise in suo favor l’horribil orso,
Poi lasciò tutto humil mettersi il morso.
Giurò già di seguir senza consorte
La legge di Diana, e di Minerva,
Costei, c’hor lieta è de l’Orsina morte,
E d’haver quel Leon, che in caccia il serva.
Ma come il sonno à lei le luci hà morte,
Di Venere il Leon la rende serva,
Si spoglia di quel pel l’amante ignoto,
E fà per forza à lei rompere il voto.
Aggiunse à questo un’altro tradimento
D’Apollo volto à l’amorose trame,
Ch’Issa, à cui già mortificato, e spento
Havea il lascivo amor santo legame,
Fingendo à lei voler guardar l’armento
In forma di pastor la rendè infame,
E ’l voto fatto à Delia romper feo
A la figlia già pia di Macareo.
Vi tesse anchor, come il Bimatre Nume
De la figliuola d’Icaro s’accende,
E si forma una vigna, e in tanto il lume
Ne l’uva chi vi fa la figlia intende,
Ella seguendo il giovenil costume
Quanta ne cape il sen, tanta ne prende,
E la porta contenta al patrio tetto,
Ma la notte quel Dio si trova in letto.
D’hedera il panno estremo un fregio serra
Fatto à grotteschi industriosi, e belli,
Dove cerchio con cerchio in un s’afferra,
Pien di semicentauri, e semiuccelli.
Poi per dar fine à la Palladia guerra
Fan paragon de figurati velli,
E se ben quel di Palla era divino
Di poco gli cedea l’Aranneo lino.
Quanto lodò la Dea d’Aranne l’arte,
Tanto dannò la sua profana historia,
Che senza offender la celeste parte,
Ben acquistar potea la stessa gloria.
Tutto straccia quel panno à parte, à parte,
De celesti peccati empia memoria,
Per non mostrare à secoli novelli
Gli eccessi de gli zij, padre, e fratelli.
Poi c’hebbe à le figure illustri, e conte
Tolto l’honor, c’havean dal vario laccio,
Si trovò in man del Citoriaco monte,
Da misurare il lin tessuto un braccio,
E due, e tre volte ne l’Arannea fronte
(Alzando più, ch’alzar si possa il braccio)
Lasciò cadere il Citoriaco arbusto
Con degno premio al suo lavoro ingiusto.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||sesto.|94}}</noinclude><poem>
Maggior non si può fare onta, ò dispetto,
Ch’opra schernir, ch’un fa, conosce, e stima.
L’infelice donzella, che negletto
Vede, e stracciato un vel di tanta stima,
E percosso si sente il volto, e ’l petto,
Prende una fune, e monta à un banco in cima.
Co’l laccio annoda il collo, et una trave,
Poi fida al lino attorto il corpo grave.
Ma pria, che soffogasse il nodo l’alma,
Soccorso à tempo à l’infelice diede
De l’alma Dea la vincitrice palma,
C’hebbe del pender suo qualche mercede.
D’herba, e venen la sua terrena salma
Sparse con presta man dal capo al piede,
Poi disse un novo corpo informa, e prendi,
E vivi venenosa, e tessi, e pendi.
A pena quel venen sopra le sparse,
Che tolse al corpo il grande, il duro, e ’l greve,
Con picciol capo, e ventre à un tratto apparse
Un’animal lanuginoso, e breve,
Un sottil piè venne ogni dito à farse,
Che pende al tetto risupino, e leve,
Dal picciol corpo il lin rende, e lo stame,
Et incatena anchor l’antiche trame.
Tutta la Lidia già freme, e risuona
D’Aranne, e de la Dea di torma, in torma,
E che la tessitrice di Meona
Essercita il suo lin sotto altra forma.
La fama, che di questo il mondo introna,
Stampa da Lidia ogn’hor più lunge l’orma.
Corre per tutto ’l mondo al Sole, e à l’ombra,
E del miser successo il mondo ingombra.
Ogni un si sbigottisce, ogni un risolve,
Che offender l’huom non dee celeste Nume,
Perch’egli ò l’offensore in forma volve,
Che segue in peggior corpo il suo costume,
Overo il fa venir cenere, e polve,
Ó sasso senza mente, e senza lume.
Si sbigottisce il nobile, e la plebe,
Eccetto Niobe allhor Regina in Thebe.
Prima, che ’l matrimonio celebrasse
Niobe co’l Re dolcissimo Anfione,
E che Meonia, e Frigia abbandonasse,
Che lei vestir della carnal prigione,
Visto più volte havea l’Arannee casse
Percoter su la spoglia del Montone,
E con piacer non poco, e maraviglia
Conobbe in altra età la patria figlia.
Ma non però la pena, che rapporta
La fama, che la Dea saggia le diede,
Del suo superbo cor la rende accorta,
De l’empia ambition, che la possiede,
Anzi tanto la gloria la trasporta,
Ch’à quei, che son de la celeste sede,
Cerca involar gl’incensi, e ’l pio costume,
Per arrogarlo al suo non vero Nume.
Chi troppo da gli Dei talvolta impetra
Di troppo alta superbia arma la fronte,
Ella un marito havea, che con la cetra
I sassi dispiccar facea dal monte,
E tanta co’l suo suon condusse pietra,
Tanto pin, tanta sabbia, e tanta fonte,
Che con rocche elevate; e forti mura
La sua Regia città rendè sicura.
Superba andava assai di questa sorte,
Ma molto più, che ’l suo terrestre velo,
E quel del soavissimo consorte
Origine trahean dal Re del cielo.
L’ameno regno suo fertile, e forte,
Sotto temperato ciel fra ’l caldo, e ’l gielo
Pien d’habitanti, e di militia, e d’arte
Nel grande orgoglio suo volse anchor parte.
L’animo le rendea non meno altero,
C’havea si raro, e nobile il sembiante,
Che non havea ne l’artico hemispero
Più venerabil volto, e più prestante,
Ma quel, che fe più indegno il suo pensiero,
E men considerato, e più arrogante,
Fur l’uscite da lei membra leggiadre,
Che felice la fer sopra ogni madre.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Felice lei se conosciuto tanto
Non havesse il suo pregio, e ’l suo favore,
E di quel, che capir può il carnal manto,
Si fosse contentata humano honore,
Si che parlando l’indovina Manto
Creduto havesse al suo fatal furore,
Che ammonendo gli heroi, la plebe, e lei
Cosi scoprì il voler de gli alti Dei.
Hoggi è quel lieto, et honorato giorno,
Che Latona diè fuor Febo, e Diana,
Onde del Sole il dì rimase adorno,
La notte de la Dea casta silvana.
Però cinga d’allor le tempie intorno
Co’l popol suo la nobiltà Thebana,
E le madri, e le mogli, e i figli invochi,
Donando i grati incensi à sacri fochi.
La Dea ne gli occhi miei s’affisa, e mira,
E passa per le luci, e ’l cor mi tocca,
E nel pensier quel, c’hò da dir, m’inspira,
E scopre il suo voler per la mia bocca.
Però la voce, l’organo, e la lira
Tutt’empia d’armonia l’Ismenia rocca,
E si servi ogni modo, ogni atto pio,
Che suol servarsi in venerare un Dio.
La fatal figlia di Tiresia à pena
Havea di questo suon l’aere cosperso,
Ch’ogni mortal, che bee l’onda Ismena,
Diè fede al suo vaticinato verso.
Già la principal piazza è tutta piena
D’invenerabil popolo, e diverso,
E v’han tre altari eretti adorni, e belli,
Uno à la madre, e l’altro à i due gemelli.
Ogni etade, ogni sesso il fato adempie,
Veste ogn’un le più ricche, e ornate spoglie.
Del verde alloro ogn’una orna le tempie,
Ó sia madre, ò sia vergine, ò sia moglie.
Di suoni, e supplicanti voci s’empie
L’aria, s’ornan le vie di fiori, e foglie.
Copron le mura i razzi, e i simulacri
Ardon d’incenso, e mirra i fuochi sacri.
Intanto vien la Imperatrice altera,
Spettabile di gemme, e d’ostro, e d’oro,
La risplendente vista alma, e severa,
Scesa parea dal sempiterno choro.
In mezzo và d’un’honorata schiera
Con maestà, con gratia, e con decoro,
Ma lo sdegno, c’havea nel lume accolto,
Togliea qualche splendore al suo bel volto.
Quando fu in mezzo à l’ampia piazza giunta
D’ogn’intorno girò l’altere luci,
E poi da invidia, e da superbia punta
Cosi diè legge à più honorati Duci.
Tu nobiltà da la tua Dea disgiunta,
Che l’ignorante mio popol conduci,
Porgi l’orecchie à me, lascia la pompa
Pria, che la greggia mia più si corrompa.
Qual folle vanità, quai pensier sciocchi
Dentro, e di fuor v’han tolto il doppio lume?
Che crediate à gli orecchi, più che à gli occhi
Nel venerare un non veduto Nume?
Non sò, che folle error l’alma à ogn’un tocchi,
Ch’à l’altar di Latona il foco allume,
Et io, visibil Diva à l’alma, e à sensi,
Anchor stò senz’altare, e senza incensi.
Facciam pur paragon di tanti, e tanti
Miei pregi con gli honor, ch’adornan lei,
Se l’origine sua vien da Giganti,
Nasce la mia dal Re de gli altri Dei:
Tantalo è ’l padre mio, che sol fra quanti
Mai furo huomini al mondo, e Semidei,
Veduto fu ne la celeste parte
A la mensa mangiar fra Giove, e Marte.
Colei, che nel suo sen già Niobe alberga,
È de le sette Pleiadi sorelle,
Atlante è l’avo mio, le cui gran terga
Sostengon tutto ’l ciel con tante stelle.
L’altro avo è quel, la cui possente verga
Dà nel ciel legge à l’alme elette, e belle,
E per maggior mio honor l’istesso Dio
Si volle in Thebe far socero mio.
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Ovunque la ricca Asia dona il letto
A l’onde Frigie, il mio nome corregge,
La region, ch’à Cadmo diè ricetto
Di Niobe, e d’Anfion serva la legge.
Ovunque volgo il mio Reale aspetto
Nel sasso, dove albergo il miglior gregge,
Tutto veggio splendor, tutto thesoro,
Ostro, perle, rubin, smeraldi, et oro.
Aggiungi à questo il mio splendor del viso,
Che mostra, co’l Divin, che vi risplende,
Ch’io de l’elette son del paradiso,
Come sà ogn’un, ch’in me le luci intende.
L’albergo è tutto gioia, e tutto riso,
Altro, che canto, e suon non vi s’intende.
La prole mia dotata d’ogni honore
Sette generi aspetta, e sette nuore.
Vi par, ch’aggiunga à l’alta gloria nostra
Quella, à cui tant’honor rendete, e fede,
Io parlo de la Dea Latona vostra,
Che si mendica al mondo il padre diede:
Che del sito, ch’al ciel la terra mostra,
Mentre egli intorno la circonda, e vede,
Negò di darne à lei tanto terreno,
Che bastasse à sgravar del parto il seno.
Darle un ricetto minimo non volse
Ne la terra, onde uscì, ne’l mar, ne’l cielo,
Sol la sorella instabil la raccolse,
Quell’isola, che poi fu detta Delo,
La qual dal volto human già si disciolse,
E piuma aerea fe del terreo pelo,
E poi si come piacque al maggior Nume,
Un mobil sasso in mar fe de le piume.
Vagar vedendo Ortigia la sorella,
E ch’ogni loco, ogni terren la scaccia,
Mobile essendo, et vagabonda anch’ella,
Vicino al lito, ove correa, si caccia:
Poi rompe in questi accenti la favella.
Sirocchia mia co’ piedi, e con le braccia
Sostienti, e nuota, e monta su’l mio tergo,
Ch’io ti darò sul mobil dorso albergo.
Ben hebbe il suo ascendente quando nacque
Ciascheduna di noi mal fortunato,
Vagabonde ambe siam, si come piacque
Al nostro infausto, inevitabil fato;
Tu vaghi per la terra, et io per l’acque,
E fermar non possiamo il nostro stato,
Ma se ’l mio mobil dorso il tuo piè preme,
Ce n’andrem per lo mar vagando insieme.
Cosi l’essule Dea vostra mendica
Da un’altra sventurata hebbe ricetto,
Vi montò sù con pena, e con fatica,
E senza altra ostitrice, e senza letto
Lucina havendo al partorir nemica,
Che tenea il pugno incatenato, e stretto,
Dopo mill’alti stridi, e mille duoli
Fece al mondo veder due figli soli.
Veder fe al mondo la settima parte
Di quella, che gli hò fatta veder’io,
Considerate dunque à parte, à parte,
Qual’è maggior, ò ’l suo splendore, ò ’l mio.
D’ogni più raro don, che ’l ciel comparte,
Che può felicitar lo stato à un Dio,
Son felice hor, sarò felice sempre,
Mentre rotin del ciel l’eterne tempre.
Chi la felicità negar presente
Può? chi può dubitar de la futura?
L’una, e l’altra sarà perpetuamente,
L’abondanza del ben mi fa sicura.
Tanto beata son, tanto possente,
Che del destin non tengo alcuna cura:
Perch’io maggiore assai son di quell’una,
A cui non può far danno la fortuna.
E quando à questo mio stato tranquillo
Voglia l’empia fortuna esser molesta,
Non potrà mai talmente convertillo.
Che non sia più del suo quel, che mi resta.
Poniam, che contra me spieghi il vessillo,
E che mi toglia anchor più d’una testa,
Non però vincitrice la farei,
Che perdendone molti anchor n’havrei.
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E faccia pur l’estremo di sua possa,
Con l’arme di Pandora, e di Bellona,
Non sarò mai si povera, e si scossa,
Com’è la vostra misera Latona,
E quando ingombri anchor l’ottava fossa
L’illustre germe de la mia corona,
Non m’aveggio però, che tanto io caggia,
Che più figli di lei sempre non haggia.
Togliete al vostro volto il verde alloro,
Ch’in cosi vano error v’orna le tempie,
Togliete à queste mura i razzi, e l’oro,
Taccia ogni suon, che l’aria assorda, et empie;
Taccia de Sacerdoti il sacro choro.
Ogni uno il dir de la Regina adempie.
Contra sua voglia ogn’un lascia, e interrompe
Le venerande, et imperfette pompe.
Ma non resta però, ch’entro col core,
E con tacito mormore non faccia
A la figlia di Ceo la turba honore,
Anchor, che le parole asconda, e taccia.
Vede la Dea, con qual profano errore
Colei da l’altar suo la pompa scaccia,
E sdegnata, e fermato il volo in Delo,
Disse à la luce gemina del Cielo.
Ecco io, che di me stessa andava altera
D’haver de i maggior lumi il mondo adorno,
D’ambi voi mia progenie illustre, e vera,
Ond’have il suo splendor la notte, e ’l giorno;
Io, che fuor, ch’à colei, che à l’altre impera,
Non cedo ne l’eterno alto soggiorno,
Son da Donna mortale, ingiusta, e rea
Posta nel mondo in dubbio, s’io son Dea.
Ne solo à l’altar mio fatt’have oltraggio
Di Tantalo la figlia empia, e rubella:
Ma à te, che sei del giorno unico raggio,
E al culto de la tua santa sorella,
Con parlare orgoglioso, e poco saggio,
Mentre rendea con pompa ornata, e bella
A noi tre l’alma Thebe il sacro voto,
Cosi diè legge al suo popol devoto.
Lasciate il sacrificio di colei,
Che partorì in Ortigia i due gemelli,
Non date incensi, come à vostri Dei,
A i due, ch’uscir di lei lumi novelli.
Sacrate à me, che son maggior di lei,
A figli miei più splendidi, e più belli.
Del nome mio fè il maggiore, e poi
I suoi figli morta’ prepose à voi.
L’ha fatto à tanto orgoglio alzare il corno
L’haver visto dotato ogni suo parto
Di qualche don, che fa un mortale adorno,
E dopo i dieci haver contato il quarto,
Che con non poca nostra ingiuria, e scorno
Me, che il lume à la notte, e al dì comparto,
Che dò la Luna à l’ombra, al giorno il Sole,
Sterile hà nominata, e senza prole.
Ben s’assomiglia al temerario padre,
Che à mensa fu del sempiterno Duce,
E poi quà giù fra le terrene squadre
I secreti del ciel diede à la luce,
Poi ch’orba osa chiamar la vera madre
De l’una, e l’altra necessaria luce,
E in non temer la dignità superna
Cerca imitar la lingua empia paterna.
Volea pregar la Dea, che del suo orgoglio
Punir volesse la Regina Ismena;
Ma disse Apollo il tuo lungo cordoglio
Altro non fa, che differir la pena.
Sopra di me questa vendetta io toglio.
Ma la Dea, che le tenebre asserena,
Disse, ella anche oltraggiato hà il nome mio,
E parte vò ne la vendetta anch’io.
Il gemino valor, che nacque in Delo
Di strali empie il turcasso, e l’arco prende,
Poi fa scendere un nuvolo dal cielo,
E vi s’asconde dentro, e in aria ascende.
Verso Ponente il novo apparso velo
Il corso affretta, e sopra Eubea già pende,
Quindi dietro à le spalle il mar si lassa,
E verso la città di Cadmo passa.
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Non lunge stà dal muro, che fondato
Fù da la cetra, e da la metrica arte
Di mura cinto un pian, che fu già prato
C’hor serve d’essercitio al fiero Marte.
Qui si vede la tela, e lo steccato,
Ingombrano i tornei quell’altra parte,
Qui il prato è da lottar, lì i cerchi, e calli,
Che servono al maneggio de cavalli.
Quei che nacquer di Niobe, e d’Anfione
Di cor, di volto, e di virtute alteri,
Eran venuti al martiale Agone
Sù i più superbi lor Regij destrieri,
Per far del lor valor quel paragone,
Ch’assicura i cavalli, e cavalieri,
E à pena fur nel destinato loco,
Che dier principio al virtuoso gioco.
Damasittone appar sù un turco bianco,
Macchiato tutto il dosso à mosche nere,
Si ferman gli altri, e ’l destro lato, e ’l manco
lngombrano in due liste per vedere.
Il cavalier ne l’uno, e l’altro fianco
In un medesmo tempo il caval fere,
E ’l morso allenta, e al corso si l’affretta,
Che non và si veloce una saetta.
Come il giovane accorto al segno giugne
Non lascia più al caval la briglia sciolta,
Ma ’l ferma, e ’l fren volge à man destra, e ’l pugne
Co’l piè sinistro, e ’n un momento il volta:
Come stampa al contrario in terra l’ugne,
Là il pinge, onde partì la prima volta;
Giugne, e ’l raffrena, e poi ne la destr’anca
Punge il destriero, e ’l fren volge à man manca.
Dove la groppa havea, volge la faccia,
E come l’altro termine rimira,
Non gli dà tempo alcun, di novo il caccia,
E come giunge al segno, il fren ritira,
Lo svolge, e invia per la medesma traccia,
Ne fin’al nono repulon respira,
Dove il ferma, che sbuffa ira, e veleno,
E sbava per superbia, e rode il fieno.
Di Spagna ad un villan preme la sella
Sifilo, ch’al fratel punto non cede,
La spoglia hà il suo caval tutta morella,
Dietro alquanto balzano hà il manco piede,
D’argento una minuta, e vaga stella
In mezzo al volto altier splender si vede,
E zappa, e rigne, e par che dica, io chieggio,
Che non ponga più indugio al mio maneggio.
Con gli sproni, e le polpe egli lo stringe,
E solleva in un punto alta la mano,
E con un salto in aria innanzi il pinge
Quanto può con un salto andar lontano:
Com’hà poi fatto un passo, il ricostringe
A gir per l’aria à racquistare il piano;
E come il mare ondeggia hor basso, hor alto,
E sempre dopo il passo il move al salto.
Con misura, e con arte il tempo ei prende,
Mentre fà, che s’alterni il salto, e ’l passo,
E ’l buon caval, che ’l suo volere intende,
Si move tutto in aria, hor tutto basso
Fin al decimo salto il corso stende,
Poi per non farlo il cavalier si lasso,
Ch’offenda il presto piè, la forte lena,
Al cavallo infiammato il salto affrena.
Alfenore vien sopra un leardo
Ginnetto, ch’argentato have il mantello,
C’hà leggiadro l’andar, superbo il guardo
Dal capo al piè mirabilmente bello.
A corvette ne vien soave, e tardo,
Poi spicca un salto in aria agile, e snello,
Tutto accolto in un gruppo, e cade, e ’mprime
L’orme del suo cader ne l’orme prime.
Ritorna poi dal salto à le corvette,
E tutto il peso à i piè di dietro appoggia,
Le ben piegate braccia in terra mette,
E dopo alquanti passi in aria poggia,
Poi quando che s’atterri, al piè permette,
Il vestigio di prima il piede alloggia,
E la corvetta à poco à poco acquista
Tanto, che giunge al capo de la lista.
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Dove giunto il destrier non fa nov’orma,
Che ’l salto, e ’l corvettar gli vien conteso
Ma tien, secondo il cavalier l’informa,
Dinanzi il destro piede alto sospeso.
E con questa al caval non nova forma
Sostien sopra tre piè tutto il suo peso.
Poi piace al cavalier, che muti stato,
Et alza il primo piè del manco lato.
Mentre la gamba manca egli tien’alta,
Fà danzarlo à man destra senza un piede,
Poi secondo la verga, e ’l piè l’assalta,
Posar la destra, e l’altra alzar si vede,
E pian pian da man destra danza, e salta,
E fa ciò, che lo sprone, e la man chiede.
Al fin il cavalier ferma il suo gioco,
E cede al quarto atteggiatore il loco.
Ismeno di più tempo, e più sicuro,
E di più nervo, e ’n quel mestier più saggio,
Ne vien montato sopra un baio oscuro,
Per dare in quel maneggio il quarto saggio.
I due Partenopei parenti furo,
Che forte, e di magnanimo coraggio
Formaro à quel corsier la spoglia, e l’alma,
Ch’in prova hor vien per riportar la palma.
In questo mezzo à la lotta sfidati
S’eran Fedimo, e Tantalo gemelli,
Et eran sù due barbari montati,
Ch’al mondo non fur mai visti i più belli:
E con le mani essendosi afferrati
Pungono i lor destrier veloci, e snelli,
E corron verso il prato stabilito
Sempre del par senza passarsi un dito.
Con un trotto disciolto s’appresenta
Sopra il caval che si vagheggia Ismeno
Poi fa, che ’l manco sprone il destrier senta,
E gira à un tratto in ver la destra il freno.
Di salto in salto il buon caval s’aventa,
Dov’egli il volge, e cinge un picciol seno,
Forma il caval il giro, e vi stà dentro,
E l’huom possiede ogni hor l’istesso centro.
In un batter di ciglio il giro abbraccia
Il buon caval, mentre obedisce, e ruota,
Già tien la groppa, ove tenea la faccia,
Et in due salti fa tutta la rota:
Pure à man destra il cavaliero il caccia,
Fin, che ’l quarto girar perfetto nota,
Ne in otto salti fa manco, ò soverchio,
Ma preme il punto ù diè principio al cerchio.
Poi verso la sinistra il fren gli tira,
E tutto à un tempo il punge co’l piè destro,
E ’l caval, che l’intende, à un tratto gira
Co’ suoi salti à man manca agile, e destro,
Et ad ogni due tempi il punto mira,
Che diè principio al suo cerchio terrestro,
Poi lo svolge à man destra, e giunge à punto
Ogni secondo salto al primo punto.
Come al fin del girar preme l’arena,
Con gli sproni, e le polpe egli lo strigne,
E ’l morso alza, e ’l caval l’intende à pena,
Che con un presto salto al ciel si spigne.
La verga il tocca allhor dietro à la schena,
Gli sproni un palmo lunge da le cigne,
E ’l caval mentre anchor in aria pende,
Una coppia di calci al ciel distende.
Ogni narice havea talmente enfiata,
Et ogni foro suo di modo aperto,
Ch’ogni sua vena si saria contata,
Ogni musculo suo tutto scoperto.
Come ristampa il piè l’arena amata,
Non gli dà tempo il cavaliero esperto,
Con gli sproni, e co’l fren l’estolle in alto,
Co i calci in aria insino al terzo salto.
E sempre che ’l caval la terra fiede,
Tien la medesma arena occulta, e oppressa,
E ne l’orma medesma pone il piede,
La quale havea con l’altro salto impressa,
E per quel, che ne giudica, e ne crede,
Chi vista prima havea la prova istessa,
Havrebbe fatto il quarto salto, e ’l quinto,
Se non havesse un dardo Ismeno estinto.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||sesto.|97}}</noinclude><poem>
Con la sorella intanto arriva Apollo,
Che l’arco tien ne l’oltraggiata palma,
Et ecco un dardo, e passa à Ismeno il collo,
E gli toglie il maneggio, il sangue, e l’alma.
Come getta il caval con un sol crollo
Da se la sua poca pietosa salma,
Si mette in fuga, anchor ch’alcun no’l tocchi,
E s’invola in un punto à tutti gli occhi.
Sipilo, che cader vede il fratello
Da l’improviso stral percosso, e morto,
Non sà dolente, s’ei smonti à vedello,
Per dargli (s’anchor vive) alcun conforto,
Ó se cerchi il sicario iniquo, e fello,
Per vendicar sopra di lui quel torto,
Et ecco mentre ei ne dimanda, e grida
Un’altro stral dal nuvolo homicida.
Passa lo strale à l’innocente il petto,
E fa caderlo appresso al suo germano,
Quel, ch’è su’l turco con pietoso affetto
Per non mancar d’officio scende al piano,
E come preme il sanguinoso letto
Un dardo vien da la nemica mano,
Gli dà nel tergo, e giunge sangue à sangue,
E dopo un tremar corto il rende essangue.
Per torre almeno Alfenore dolente
Gli altri fratelli al non veduto inganno,
Sprona il caval fra la confusa gente,
Là dove gli altri due la lotta fanno.
Il buon Ginnetto, che ferir si sente
Da l’uno, e l’altro spron l’argenteo panno,
E prova più benigno, e dolce il morso,
Fa noto à ogn’un quant’è veloce al corso.
Tanto veloci i piè mosse il leardo,
Come il doppio castigo il fianco intese,
C’havria fatto parer quel folgor tardo,
Che Pelia, Ossa, et Olimpo in terra stese:
Ma molto più di lui fu presto il dardo,
Ch’in mezzo al corso à lui le spalle offese,
Ch’in aria uscì da l’homicida nembo,
E morto il fe cadere à i fiori in grembo.
Macchia di caldo sangue i fiori, e l’herba,
E mentre batte il fianco in terra, e more,
Contra la lotta dolcemente acerba
Una saetta vien con più furore,
E passa irrevocabile, e superba
A l’un la destra poppa, à l’altro il core,
Che nel lottare in quello istesso punto
Havean petto con petto ambi congiunto.
Manda Tantalo in aria un’alto strido,
Come nel lato destro il telo il fora,
Ma non può già Fedimo alzare il grido,
Ch’in un momento il calamo l’accora.
Di quei, c’hebbero in Niobe il primo nido,
Il giorno Ilioneo godea anchora,
Il qual piangendo ambe le braccia aperse,
E questi caldi preghi al cielo offerse.
Sommi celesti Dei voi prego tutti,
E voi, che state à queste selve intorno,
Qual si sia la cagion, che v’hà condutti,
Ad oscurare à sei fratelli il giorno,
Lascia alquanto à gli aspri humani lutti
L’anima mia nel suo mortal soggiorno,
A me non già, ma al mio pietoso padre
E à l’infelice mia Regina, e madre.
Già per ben mio la vita io non vi chieggio,
Ch’altro per l’avenir non fia, che pianto,
Anzi amerei, tanto hò timor del peggio,
Di giacer morto à miei fratelli à canto.
Perch’ama il padre mio nel Regal seggio
Un suo figliuol lasciar co’l regio manto,
Prego à salvar di tanti un figlio solo,
Che fia qualche conforto al troppo duolo.
Ben commove lo Dio, che nacque in Delo,
Il prego del garzon, come l’intende,
Ma rivocar l’irrevocabil telo
Non può, ch’è già scoccato, e l’aria fende:
E mentre anchora ei prega, e guarda al cielo,
La fronte à l’infelice il dardo offende,
E l’alma, come in terra ei batte il tergo,
Co’l sangue lascia il suo terreno albergo.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Del popolo il dolor, del mal la fama
Di Niobe à l’infelici orecchie apporta,
Che la succession, ch’ella tant’ama,
Giace su l’herba insanguinata, e morta.
Subito pon la sconsolata, e grama
L’addolorato piè fuor de la porta.
E ’l padre, che l’intende, e à pena il crede,
Anch’ei vi pon lo sventurato piede.
Come la madre infuriata arriva
A l’infelice Martial diporto,
E ne la prole sua pur dianzi viva,
Vede il lume del giorno esser già morto,
Resta d’ogni virtù del senso priva,
Lo splendor vien del volto oscuro, e smorto,
E tramortita presso à i figli cade
Su le vermiglie, e dolorose strade.
Non tramortisce il misero Anfione,
Se ben si duol, che l’animo hà più forte,
Ma del pugnal la punta al core oppone,
E di sua propria man si dà la morte.
De le figlie del Re, de le persone,
Ch’arbitre hor son di cosi crudel sorte.
Piange l’huomo, e si duol con basse note,
La donna alza le strida, e si percuote.
Con acqua fresca, et altri aiuti in vita
Cerca tornar la dolorosa gente
La Regina distesa, e tramortita,
E dopo alquanto spatio si risente,
E stride, e corre, e dove il duol l’invita,
Chiama questo, e quel figlio, che non sente.
Ne piange men la disperata madre
Lo sposo morto suo, de morti Padre.
Ahi quanto questa Niobe era lontana
Da quella Niobe, c’hebbe ardire in Thebe,
Di scacciar ver tre Dei folle, e profana
Dal divin culto i nobili, e la plebe.
Questa, c’hor miserabile, et insana,
Vinta dal gran dolor vacilla, et hebe,
Invidiata già da più felici,
Hor da mover pietà ne suoi nemici.
Mostra la passion, che l’ange, e accora
Con parole insensate, e indegni gesti,
Hor sopra i figli, hor sopra il padre plora,
E trova, e bacia, e chiama hor quelli, hor questi.
Ogni empia, ogni profana al fin dà fuora
Bestemmia contra i Lumi alti, e celesti,
E rivolgendo gli occhi irati al cielo,
Cosi danna la Dea, che regna in Delo.
Qual si sia la cagion, che t’habbia mossa,
Ó trista invidia, ò vendice desio,
Latona empia, e superba, à render rossa
Quest’herba, e questi fior del sangue mio,
Ingiustissima sei quanto si possa,
Poi che sceglier non sai l’empio dal pio,
Qual ragion danna il sangue de miei figli
A fare à questi prati i fior vermigli.
S’invidia havevi à me de la mia prole,
Si regia, si magnanima, e si bella,
Dovevi contra me l’acceso Sole
Mover con la pestifera sorella.
Ver questa sventurata, c’hor si dole,
Dovean tirar la freccia ingiusta, e fella,
C’havriano à l’invidiata i giorni sui
Tolti, e gli honor senza far danno altrui.
Se desio di vendetta à cio ti spinse,
Ingiustissimo sdegno il cor t’accese,
Che ’l figlio mio la tua vendetta estinse,
Ch’innocente, e leal mai non t’offese;
E se pur la mia gloria ti costrinse,
Dovevi contra me volger l’offese,
Ch’in tutto ingiusto, è chi vendetta prende
D’un, che si stà in disparte, e non offende.
Ecco hai pur tutto havuto il tuo contento,
Satiati del mio pianto, e del mio duolo,
Poi ch’in mio danno il vital lume hai spento
Dal primo insino à l’ultimo figliuolo.
Godi da poi, che più spirar non sento
Per dargli il mio bel regno, un figlio solo,
Ridi vedendo i miei gioiosi luoghi
Mostrare il lor dolor con sette roghi.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||sesto.|98}}</noinclude><poem>
Trionfa poi c’hai vinto alta, e superba,
E siano i miei lamenti i tuoi trofei,
Anzi il mio honore anchor salvo si serba,
Che son due figli i tuoi, son sette i miei.
E sono in questa mia fortuna acerba
Maggior di te, che fortunata sei,
E anchora in queste sorti adverse, et atre
Di più figli di te mi chiamo matre.
Mentre contra la Dea Niobe ragiona,
E chiama le sue voglie ingiuste, et empie
Superba una saetta in aere suona,
Ch’ogni altra, fuor che lei di terror empie.
La freccia de la figlia di Latona
Stride, e percote Fitia ne le tempie,
La qual con viso lagrimoso, e bello
Sopra il corpo piangea d’un suo fratello.
Con vesti oscure, misere, e dolenti
Eran corse à veder tanta ruina,
Empiendo il ciel di strida, e di lamenti
Le figlie de la misera Reina;
E con diversi, e dolorosi accenti
Sopra i morti tenean la testa china,
E parlavano al corpo senza l’alma,
Battendo il petto, e ’l volto, e palma à palma.
Come la freccia ingiuriosa offende
Innanzi à la scontenta genitrice,
E morta l’innocente figlia rende,
Novello oltraggio al suo stato infelice,
D’ira maggior contra la Dea s’accende,
E la biasma, l’ingiuria, e maledice,
Et ecco à l’improviso un’altro strale
Passa Pelopia, e giunge male à male.
Co i crini sparsi il lagrimoso lume
Havea nel primo figlio intento, e fiso,
Quando battendo il dardo altier le piume
Ferille il capo, e scolorolle il viso.
Che non oltraggi più l’irato Nume
Prega Niobe Nerea con saggio aviso,
E con vive ragioni la conforta,
Che cerchi di salvar chi non è morta.
Mentre l’accorta vergine Nerea
Move alquanto la madre, e ’l cor le tocca:
L’irata man de la triforme Dea
L’arma terza mortal da l’arco scocca,
E mentre verso il ciel la fan men rea
Le ragion, c’hà la figlia escon di bocca,
Passa lo strale il core à la donzella,
E le toglie la vita, e la favella.
La sventurata madre, che si vede
Toglier dal terzo stral la terza figlia,
E che i futuri calami prevede,
Si graffia, si percote, e si scapiglia:
E mentre straccia il crine, e ’l petto fiede,
Rende del sangue suo l’herba vermiglia
Un’altra più innocente, e più fanciulla,
L’ultima, ch’era uscita de la culla.
Vede dopo costei cader la quinta,
Dopo la quinta insanguinar la sesta.
Onde, perche non sia l’ultima estinta,
La madre in tutto disperata, e mesta,
Trovandosi slacciata, inconta, e scinta,
L’asconde sotto il lembo de la vesta,
E di se falle, e de la vesta scudo,
E piange, e dice al nembo oscuro, e crudo.
Deh moviti à pietà contrario nembo,
Ch’animi si crudeli ascondi, e serri,
E prega per costei, ch’ho sotto al lembo,
Si che nova saetta non l’atterri.
Di quattordici germi del mio grembo
Salvane un sol da gli nemici ferri:
Si che non secchin l’ultima radice
Di questa sventurata genitrice.
Deh chiedi nembo pio questo per merto,
Se forse gli empi Dei celi di Delo,
D’haver tenuto il lor arco coperto
Dentro del tuo caliginoso velo.
Delia intanto à la cocca il pugno aperto
Dato havea il volo à l’infelice telo.
Fende l’irato strale il cielo, e stride,
E la coperta figlia à Niobe uccide.
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Tosto, che ne le figlie amate, e morte
Ferma la madre misera la luce,
E i dolci, e i cari suoi figli, e consorte
Vede giacer distesi, e senza luce:
Lo stupor, e ’l dolor l’ange si forte,
Che più per gli occhi suoi Febo non luce.
E lo stupore in lei si fa si intenso,
Che stupido rigor le toglie il senso.
Il crin, che sparso havea pur dianzi il vento,
Hor se vi spira, ben mover non puote,
Stassi ne’ tristi lumi il lume spento,
Le lagrime di marmo ha ne le gote.
Il palato, la lingua, il dente, e ’l mento,
Il core, il sangue, e l’altre parti ignote
Son tutti un marmo, e si di senso è privo,
Che l’imagine sua null’hà di vivo.
Da ragionar materia al mondo offerse
L’estirpata prosapia d’Anfione.
E contra Niobe ogn’un le labra aperse,
Che troppa hebbe di se presuntione.
Ma quasi il mar, la terra, e ’l ciel disperse
L’orgoglio de l’Eolia regione,
Per quel, ch’Euro, Volturno, e Subsolano
De la moglie parlar del Re Thebano.
Poi ch’à la mensa d’Eolo assai parlato
Fu de figli incolpevoli, e di lei,
E da tutti il suo orgoglio fu dannato,
Ch’osò di far se pari à sommi Dei:
Il vento Oriental tutto infiammato
Forse da soavissimi Liei,
Questa parola ingiuriosa, e sciocca
Si lasciò con grand’ira uscir di bocca.
Troppo è superbo, troppo si presume
Questo popol d’Europa altero, et empio,
Poi ch’osa torre al già beato Nume
I sacrificij, i sacerdoti, e ’l tempio.
E ben perduto havea l’interno lume
Costei, degna di questo, e maggior scempio,
Poi c’hebbe ardir di comperarsi à quella,
Che diede al mondo il Sole, e la sorella.
E del ciel maravigliomi non poco,
Che ’l motor, che la sù regge la verga,
Non dia tutta l’Europa à fiamma, e à foco,
E co i folgori suoi non la disperga,
E non le tolga il giorno, e ’l proprio loco,
E nel più alto mar non la sommerga,
Si che per l’avenir non parturisca
Chi tanto si presuma, e tanto ardisca.
Non potè sopportar Favonio altero
L’insolente parlar del suo fratello,
Ne che ’l popol del suo superbo impero
Empio nomare osasse, e à Dio rubello:
Da giovane tu parli, e da leggiero,
Gli disse con un sguardo oscuro, e fello,
E danni la mia patria ingiustamente
Più devota, e più pia de l’Oriente.
Biasmando l’alme mie, le tue condanni,
Perche colei, c’hebbe Latona à sdegno,
Fu data al giorno, et à gli humani affanni
Da la Frigia ne l’Asia entro al tuo regno.
Se le vestì la Frigia i terrei panni,
In Thebe fe l’atto profano, e indegno,
(Diss’Euro) e apprese à disprezzar i Numi
Da gli alteri d’Europa empi costumi.
Dissero allhor Favonio, Africo, e Coro,
Che senton da si barbare parole
L’Occidente biasmar la patria loro,
La patria, ch’ogni sera alberga il Sole;
Perche possa veder lo Scita, e ’l Moro,
Che ’l marmo, che co’l pianto anchor si dole,
Da l’Asia hebbe il primier manto terreno,
Facciamla andar per l’aria al patrio seno.
E cosi salverem con forza ultrice
L’honor de la contrada Occidentale,
E ogn’un vedrà, che l’Asia è la radice
Del dispregio celeste, e d’ogni male.
Sorride allhor Volturno, et Euro, e dice;
Se ’l nostro irato soffio il marmo assale,
Farem veder la statua di colei
Sù i monti d’Occidente Pirenei.
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Il superbo parlar, l’ira, e ’l furore
Multiplicò di sorte, e quinci, e quindi,
Che de l’albergo d’Eolo volar fuore
Bravando i venti Occidentali, e gl’Indi.
La superbia d’Europa in dishonore
De l’Asia, il sasso rio vuol mover’indi,
E darla al monte suo per l’aria à volo,
Se ruinar devesse il doppio polo.
Eolo per porre à quell’orgoglio il morso,
Li richiamava al regio albergo in vano,
Ma quei per l’aria havean già preso il corso,
E facean tremar Lipari, e Vulcano.
Hebber gli Orientali in lor soccorso
L’horribil Borea de la destra mano,
Ne la pugna à man manca hebber consorte
L’inventor de la peste, e de la morte.
Come l’altier Favonio entrato sente
Sirocco, et Aquilon con gli Euri in lega,
Fa chiamare in favor de l’Occidente
Afraustro da man destra, e seco il lega.
Da man sinistra Circio anchor consente
A Coro, che con caldo affetto il prega,
Disposti in tutto por la sassea fronte
Su’l patrio, ond’uscì già Sipilo monte.
Fende un meridian il mare Egeo,
Che pon fra l’Asia, e fia l’Europa il segno.
Gli aerei Venti, i quai produsse Astreo
Che di quà da tal linea hanno il lor regno,
Contra il furor del soffio Nabateo,
In favor di Favonio armar lo sdegno.
Ma quei, che verso l’Asia han lor ricetto,
Per gli Euri il soffio lor trasser dal petto.
Il caldo Noto in lega entrar non volse,
Ne il freddo opposto à lui Settentrione,
Ma di star neutro l’uno, e l’altro tolse
A guardia de la propria regione.
Poi ch’ogn’un nel suo regno si raccolse,
Prima, che si venisse al paragone,
Noto, il cui grembo, e crin continuo piove,
Fece del suo valor l’ultime prove.
Con procelle acerbissime, e frequenti
Manda ne l’aere un tempestoso grido,
E par, che dica à gli sfidati venti,
Non date noia al mio superbo lido.
Alcuno in danno mio soffiar non tenti,
S’ama sicuro star nel proprio nido.
E ’n questa guisa egli si mostra, e sforza,
Per assicurar se da l’altrui forza.
Settentrion, che ’l grido horribil sente,
E ’l tempestar, ch’assorda, e oscura il giorno,
Ch’irato offende il suo regno possente
Per dritta linea in suo dispregio, e scorno;
Con ogni suo poter se ne risente,
E soffia in dishonor del mezzo giorno.
E i neutri, che volean starsi in disparte,
Son primi à dar principio al fiero Marte,
Favonio de l’occaso Imperadore,
Che vede i due, c’han già ingombrato il cielo,
Pensando in aria alzar in lor disnore
Colei, ch’in Thebe asconde un sasseo velo,
Mostra co i colligati il suo furore
Contra lei, che sprezzò gli Dei di Delo,
E ne l’incontro un vortice, un fracasso
Fan, che per forza in aria alzano il sasso.
L’Imperador contrario Subsolano,
Ch’à punto havea disposti i suoi consorti,
Acciò che ’l soffio Hibero co’l Germano
In Asia il marmo heretico non porti,
E vegga il mondo manifesto, e piano,
Che i venti Orientali son più forti,
Soffia contra Occidente per vetare
A la statua infedel, che passi il mare.
Chi potria mai contar l’orgoglio, e l’ira,
Che la terra distrugge, e ’l cielo assorda?
Nel mondo d’ogni lato il vento spira,
Con rabbia tal d’haver l’honore ingorda,
Che nel superbo incontro à forza gira,
Mentre il nemico al suo voler discorda,
Che poi ch’aperto il passo alcun non trova,
È forza, ch’à girar l’un l’altro mova.
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Alza il rapido giro arbori, e glebe,
E van per l’aria come havesser l’ali,
Tutti inalzano al cielo intorno à Thebe
I rustici, gli aratri, e gli animali.
Le più debili case de la plebe
Cadono addosso à miseri mortali,
E fu ben forte quel palazzo, e duro,
Che restò da tant’impeto sicuro.
La superbia d’Europa, che vuol porre
L’effigie di colei nel patrio monte,
Comincia con più forza il fiato à sciorre
Contra l’opposto al suo corso orizonte,
E ’l marmo di colei, che ’l mondo abhorre,
Ha già spinto nel ciel di Negroponte.
Contrastan gli Euri, e l’infiammata guerra
Le selve, i tempij, e le cittadi atterra.
L’Occidental possanza ogn’hor rinforza
De figli superbissimi d’Astreo,
E passano Eubea tutta per forza,
E portano colei su’ l mare Egeo.
La squadra Orientale anchor si sforza
Scacciar da l’Asia il marmo ingiusto, e reo,
E mentre sopra il mar l’un l’altro assale,
Fan gir fin’à le stelle il fuso sale.
Favonio havria per por ne l’Asia il sasso,
Da Thebe fatto ’l gir verso Andro, e Tino,
Ma vuol, che drizzi à la sua patria il passo
Ver Greco à quanto il torbido Garbino:
E già fa l’Aquilon parer più lasso,
Ch’à la statua impedir cerca il camino,
Già mal suo grado altero, e pertinace,
Ver l’isola di Scio drizzar la face.
Il rapido girar, ch’in aria fanno,
Tiran per forza in su le maggior navi,
Et à l’altissimo ethere le danno,
Anchor che sian di merci onuste, e gravi.
Altezza in lor le Cicladi non hanno,
Che ’l mar non le soverchi, e non le lavi;
I vortici de venti ne lor grembi
Portano un’altro mare in seno à nembi.
Nel più profondo letto il romor sente
L’altiero Dio, che ’l mare have in governo,
E mostra il capo fuor co’l suo tridente,
E parla à quei, che fan l’horribil verno;
V’arma tanta fiducia, empi la mente,
Che dobbiate il mio nome havere à scherno,
Per havervi vestito il volto humano
La superba prosapia di Titano.
Detto havria loro anchor, dite al Re vostro,
Che l’imperio del mar non tocca à lui,
Ma ’l tridente, e ’l marin governo è nostro,
E che ’l concesse già la sorte à nui:
Regga egli in quei gran sassi il sasseo chiostro,
Dove imprigiona à tempo i venti sui,
Quivi chiuda d’Astreo l’altero figlio,
Quivi possa il suo imperio, e ’l suo consiglio.
Ma à pena egli dà fuor le prime note,
Che l’impeto de venti con tal forza
Le tempie, il volto, e ’l tergo gli percote,
Ch’à ritornar nel cupo mar lo sforza.
Tre volte fuor de l’aggirate rote
Vede portar l’immarmorata scorza,
E tre volte và giù, ne vuol per sorte,
Ch’il lor giro il rapisca, e in aria il porte.
Sparse l’alme Nereide il verde crine
Nel più basso del mare atro soggiorno,
Plangon l’irreparabili ruine,
Che struggono il lor regno intorno, intorno.
Portuno, e l’altre deità marine
Non pensan più di rivedere il giorno,
Ma che sian giunti i tempi oscuri, e felli,
Che ’l Chaos, che fu già, si rinovelli.
Strugge il furor, che l’Occidente spira,
Ovunque hà imperio la contraria parte,
E fa, che ’l primo mobile non gira,
E più veloce andar Saturno, e Marte.
Giove saper vuol la cagione, e mira
Tutte l’opre terrene in aria sparte,
E buoi, pesci, et aratri, e sassi, e travi,
E in mezzo al foco star l’onde, e le navi.
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Riguarda meglio, e vede, che la guerra
De gli Euri, e de la parte à lor contraria,
Distrugge à fatto gli huomini, e la terra,
E ’l regno salso, e ’l foco, e ’l cielo, e l’aria.
Subito in mano ogni saetta afferra,
Ch’esser più suole à noi cruda aversaria,
E, perche ogn’un del par la penna senta,
Folgori quinci, e quindi à un tratto aventa.
Il mormorar de venti è di tal suono,
E ’l soffio è si veloce, oscuro, e forte,
Che’l balen non appar, non s’ode il tuono,
Anzi gl’irati Dei soffian di sorte,
Che rimandati al cielo i fuochi sono,
E se fosser gli Dei soggetti à morte,
La patria in modo urtar superna, et alma,
C’havriano à più d’un Dio levata l’alma.
Confuso Giove stà con gli altri Dei,
Non han rimedio al lor propinquo danno,
Il folgor più non val, che i venti rei
Contra il folgorator tornare il fanno.
Contra il voler de venti Nabatei
Gl’Iberi à l’Asia già la statua danno:
Ch’ad onta del terribile Aquilone
Sopra Eritrea Libecchio al fin la pone.
Quanto l’orgoglio cresce d’Occidente,
Tanto manca la forza de nemici,
Già fan contra il voler de l’Oriente
Volar colei sù le Smirnee pendici.
Restar non può più Borea à l’insolente
Africo, che fa i marmi empi, e infelici
Volar contr’Hermo, e si il nemico infesta,
Ch’al fin su’l monte Sipilo l’arresta.
Vedendo Subsolano il marmo posto
Su’l monte patrio de la donna altera,
Mutando in un momento il suo proposto,
Fa ritirar la congiurata schiera.
S’acchetò anchor l’Imperadore opposto,
E fer l’aria restar vacua, e leggiera.
Cominciò allhora il piover de le travi,
De sassi, d’animai, d’huomini, e navi.
Fecero à gli antri lor Regij Sicani
La sera i venti al lor Signor ritorno,
Ch’irato gli afferrò con le sue mani,
E li serrò nel solito soggiorno.
Fan di natura quei leggieri, e vani
Hor pace, hor guerra mille volte il giorno,
Ne d’Eolo la prigione horrenda, e scura
Render può saggia mai la lor natura.
Ogn’un, ch’in torre ben fondata, e forte,
Ó in qualche fossa sotterranea, ò speco,
Da venti restò salvo, e dà la morte,
Trema anchor di quel tempo horrendo, e cieco;
E rende gratie à la celeste corte,
Ma molto più di tutti il Frigio, e ’l Greco:
Che san, che ’l marmo infido di colei
Piange anchor la vendetta de gli Dei.
Vedendo tutti, che ’l Divin giudicio
Sparso del sangue Regio havea le glebe,
Di novo ritornaro al sacrificio
Non sol la donna, e l’huom, c’habita in Thebe,
Ma vennero à honorare il santo officio
Da tutta Grecia i nobili, e la plebe.
Dove sacrar con canti, odori, e lumi
Tre altari à tre da Thebe offesi Numi.
E come avien, che ’l più prossimo essempio
Torna à memoria altrui le cose antiche,
Dicean ridotte in un canton del tempio
Molt’anime prudenti al cielo amiche;
Ch’ogn’un che cerca, è troppo ingiusto, et empio,
L’alme elette del ciel farsi nemiche:
E ricordavan molti essempi, e pene
Successe altrui per contraporsi al bene.
Sedea un vecchio fra quei molto prudente,
C’havea grave l’aspetto, e le parole,
Ben ch’al mondo il donò d’oscura gente
La fertil region, ch’anchor si dole
Del mostro inespugnabile, e possente,
A cui levò Bellerofonte il Sole.
Ma l’età, e la prudenza, e ’l ricco panno
Degno il facea d’ogni honorato scanno.
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Questi, secondo i vecchi han per costume
Di raccontar Ie cose de lor tempi,
Disse. di questo, e quel deriso Nume
Infiniti contar si ponno essempi:
Ma poi c’hoggi Latona, e ’l doppio lume
Honoran questi altari, e questi tempi,
Ti vò contar come nel Licio regno
Vinse la stessa madre un’altro sdegno.
Essendo il padre mio già carco d’anni,
E me vedendo esser adulto, e forte,
Ne più potendo quei soffrire affanni,
Ond’ei già migliorò la nostra sorte,
Disse. per proveder figlio à quei danni,
Che ti può dar la mia propinqua morte,
È ben, che quel riposo, onde tu vivi,
Doni al tuo vecchio padre, e te ne privi.
I vò per l’avenir darti il governo
Di quelle facultà, ch’al nostro stato
Furo acquistate dal sudor paterno
Con modo ragionevole, e lodato.
Andar convienti in un paese esterno,
Ma non fuora però del Licio stato,
Ma dove hoggi il mercante il passo intende,
Però ch’altri vi compra, altri vi vende.
Tu sai, c’ho tratto sempre quel sostegno,
Che chiede à noi la vita, e la natura,
Da quel lodato culto, utile, e degno,
Che serve à l’arte de l’agricoltura.
Manca hor de buoi quell’incurvato legno,
Cui fa la punta il vomero più dura,
Ch’al caldo Sol de la stagion, che miete,
Sentir soverchio caldo, e troppa sete.
Questa chiave è custodia al poco argento,
Che del venduto gran trassi pur dianzi:
Quest’altre son del vino, e del frumento,
Toglile tutte, e reggi per l’innanzi.
Dammi in vecchiezza mia questo contento,
Fà, che ’l tuo studio il mio consiglio avanzi,
Provedi à gli otiosi aratri i buoi,
Poi reggi il patrimonio come vuoi.
Secondo ei mi comanda, il peso io prendo
Di rinovar de buoi la mandra morta,
E sopra un picciol mio ronzino ascendo,
Come lo stato mio d’allhor comporta:
E dove ei disse, al mio camino intendo
Con una, che mi diè, prudente scorta:
Questi era agricoltor di qualche merto,
Nel rurale essercitio molto esperto.
Veggiamo in mezzo à un lago il terzo giorno
Un ben composto, et elevato altare,
Che posa sopra un piedestallo adorno
Di marmi, e di colonne illustri, e rare,
Tal, ch’à le canne à lui cresciute intorno
Più di due braccia fuor superbo appare.
Smonta del suo ronzino il Duca mio,
E s’inginocchia à venerar quel Dio.
Anch’io seguendo il suo divoto essempio
Smonto, m’inchino, e fiso intendo il lume,
E dico ver l’altar, che non hà tempio.
Qual tu ti sia non cognito à me Nume,
Fa, ch’in questo viaggio il ladro, e l’empio
Ver noi non servi il suo crudo costume.
E la stessa dò fuor parola fida,
Che sento dire à la mia saggia guida.
Ben è quel padre aventuroso, e saggio,
Che cerca provedere al rozzo figlio,
Di scorta, c’abbia à Dio volto il coraggio,
E c’honorato à lui porga consiglio.
Ch’ella è cagion, che nel mortal viaggio
Non cerca haver dal ciel l’eterno essiglio,
E nel cospetto altrui tal mostra il core,
Che ’l fa degno di laude, e d’ogni honore.
Mentre per rimontar levo alto il piede,
Per gire al mio camin con l’altrui piante,
Veggio un, che verso noi camina à piede,
E come al santo altar si vede avante,
China l’humil ginocchio, e mercè chiede,
Ma come vuol lasciar le pietre sante,
L’affiso, et à le orecchie gli appresento
Un mio novo desio con questo accento.
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S’al prego, ch’à l’altar palustre offerto
Hai co’l ginocchio humil, co’l cor devoto,
Tal dal pregato Dio sia dato il merto,
Che satisfaccia al desiato voto:
Cortese peregrin rendimi certo
De lo Dio de l’altar, s’egli t’è noto,
Et ei, che conoscea l’altare, e l’acque,
Con questa voce al mio desir compiacque.
Patrio non è di questi monti Dio
Quel de l’altar si riccamente adorno,
Quel marmo è di colei, che partorio
A la notte la Luna, il Sole al giorno.
E quando di sapere habbi desio,
Perche non gli trovar miglior soggiorno,
E perche il fabricaro in quel pantano,
Con un miracol suo te ’l farò piano.
Come seppe Giunon, che l’alma Dea,
A cui l’altar fu in quello stagno eretto,
Del suo marito grave il seno havea,
E che ’l tempo del parto era perfetto,
La terra larga, e pia fe avara, e rea,
Ne volle, ch’à la Dea desse ricetto:
Pur l’accettò l’Ortigia, et hebbe quivi
La palma fra le palme, e fra gli olivi.
Poi c’hebbe scarco il sen del nobil pondo,
Contra la sorte sua cruda, e maligna,
E dato i due più chiari lumi al mondo
Contra il geloso cor de la matrigna,
Giunon volendo pur mandarla in fondo,
La discacciò da l’isola benigna,
E fuggì ne la Licia con l’impaccio
De i due, che fatti havea fanciulli in braccio.
L’ardor del mezzogiorno, e’l lungo corso,
E ’l latte, che i fanciulli havean succiato,
L’havean di tant’humor privato il dorso,
E di si ingorda sete arso il palato,
Che corse à quel pantan per darvi un sorso,
E già il viso, e ’l ginocchio havea piegato,
Ma quando pensò far la bocca molle,
Vi fu chi se l’oppose, e che non volle.
Quivi eran molti rustici per corre
Di giunchi, e salci da legar vincigli,
Hor come veggon, ch’à lo stagno corre
Per ber la bella donna, c’hà i due figli,
Cominciar gli occhi ingordamente à porre
In quei vaghi color bianchi, e vermigli,
E vedendola sola un desir cieco
Gli prese, e gli dispose à l’atto bieco.
E di consiglio poveri, e d’ardire,
Vedendo à lei d’humor la bocca priva,
Pensar lo stagno à lei vetare, e dire
Di non lasciarla ber ne la lor riva,
Se pria non promettea di consentire
A la lor voglia obbrobriosa, e schiva.
Tanto, che le vetar le publich’acque,
Ma la richiesta in mezzo il dir si tacque.
Comincian bene à dir, tu non berai,
Se non, ma ’l resto poi dar fuor non sanno,
Che i sopr’humani in lei veduti rai
Nel mezzo del parlar tacer gli fanno.
Deh movavi pietà diss’ella homai,
Se non di me, de i due, che in sen mi stanno,
Che s’avien, che le membra io non conforti,
Mancando il latte à me, resteran morti.
Come comuni son l’aura, e la luce,
Cosi publiche son l’acque, e le sponde.
Il Sol per tutti egual nel ciel riluce,
L’aura ad ogni mortal del par risponde.
Tal, ch’ingiusto è il desio che vi conduce
A dinegar à me le ripe, e l’onde.
E quando à ber nel vostro lago io venni,
Corsi al publico dono, e non l’ottenni.
Pur se bene è comune il lago, e ’l fiume,
Supplico à voi, come se fosse vostro,
Che con cortese, e liberal costume
Vogliate compiacere al prego nostro.
Non fate, che l’ardor più mi consume
L’humor, che mantien vivo il carnal chiostro.
Che se punto il mio prego il cor vi move,
Ambrosia, e nettar non invidio à Giove.
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S’al prego, ch’à l’altar palustre offerto
Hai co’l ginocchio humil, co’l cor devoto,
Tal dal pregato Dio sia dato il merto,
Che satisfaccia al desiato voto:
Cortese peregrin rendimi certo
De lo Dio de l’altar, s’egli t’è noto,
Et ei, che conoscea l’altare, e l’acque,
Con questa voce al mio desir compiacque.
Patrio non è di questi monti Dio
Quel de l’altar si riccamente adorno,
Quel marmo è di colei, che partorio
A la notte la Luna, il Sole al giorno.
E quando di sapere habbi desio,
Perche non gli trovar miglior soggiorno,
E perche il fabricaro in quel pantano,
Con un miracol suo te ’l farò piano.
Come seppe Giunon, che l’alma Dea,
A cui l’altar fu in quello stagno eretto,
Del suo marito grave il seno havea,
E che ’l tempo del parto era perfetto,
La terra larga, e pia fe avara, e rea,
Ne volle, ch’à la Dea desse ricetto:
Pur l’accettò l’Ortigia, et hebbe quivi
La palma fra le palme, e fra gli olivi.
Poi c’hebbe scarco il sen del nobil pondo,
Contra la sorte sua cruda, e maligna,
E dato i due più chiari lumi al mondo
Contra il geloso cor de la matrigna,
Giunon volendo pur mandarla in fondo,
La discacciò da l’isola benigna,
E fuggì ne la Licia con l’impaccio
De i due, che fatti havea fanciulli in braccio.
L’ardor del mezzogiorno, e’l lungo corso,
E ’l latte, che i fanciulli havean succiato,
L’havean di tant’humor privato il dorso,
E di si ingorda sete arso il palato,
Che corse à quel pantan per darvi un sorso,
E già il viso, e ’l ginocchio havea piegato,
Ma quando pensò far la bocca molle,
Vi fu chi se l’oppose, e che non volle.
Quivi eran molti rustici per corre
Di giunchi, e salci da legar vincigli,
Hor come veggon, ch’à lo stagno corre
Per ber la bella donna, c’hà i due figli,
Cominciar gli occhi ingordamente à porre
In quei vaghi color bianchi, e vermigli,
E vedendola sola un desir cieco
Gli prese, e gli dispose à l’atto bieco.
E di consiglio poveri, e d’ardire,
Vedendo à lei d’humor la bocca priva,
Pensar lo stagno à lei vetare, e dire
Di non lasciarla ber ne la lor riva,
Se pria non promettea di consentire
A la lor voglia obbrobriosa, e schiva.
Tanto, che le vetar le publich’acque,
Ma la richiesta in mezzo il dir si tacque.
Comincian bene à dir, tu non berai,
Se non, ma ’l resto poi dar fuor non sanno,
Che i sopr’humani in lei veduti rai
Nel mezzo del parlar tacer gli fanno.
Deh movavi pietà diss’ella homai,
Se non di me, de i due, che in sen mi stanno,
Che s’avien, che le membra io non conforti,
Mancando il latte à me, resteran morti.
Come comuni son l’aura, e la luce,
Cosi publiche son l’acque, e le sponde.
Il Sol per tutti egual nel ciel riluce,
L’aura ad ogni mortal del par risponde.
Tal, ch’ingiusto è il desio che vi conduce
A dinegar à me le ripe, e l’onde.
E quando à ber nel vostro lago io venni,
Corsi al publico dono, e non l’ottenni.
Pur se bene è comune il lago, e ’l fiume,
Supplico à voi, come se fosse vostro,
Che con cortese, e liberal costume
Vogliate compiacere al prego nostro.
Non fate, che l’ardor più mi consume
L’humor, che mantien vivo il carnal chiostro.
Che se punto il mio prego il cor vi move,
Ambrosia, e nettar non invidio à Giove.
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Beneficio sarà, tal vo’ chiamarlo,
S’io nel vostro pantan spengo la sete,
E forse potrò un dì rimunerarlo
Talmente, che di me vi loderete.
Vedete ben, ch’à gran fatica io parlo
Queste poche parole afflitte, e chete,
Si le canne arse, e si lo spirto hò lasso,
Ch’aprir non ponno al debil suono il passo.
Per voi conoscerò d’haver salvata
L’alma, che più spirar non può nel petto,
Perche la vita mia stà incarcerata
Ne l’acqua, che da voi propinqua aspetto.
Ne solo à me la vita havrete data,
Ma à questi due, c’han dal mio seno il letto,
E se punto d’amor nel cor v’alloggia,
Tre vite salverà con poca pioggia.
Chi mosso non havrian le dolci note,
Che d’ogni affetto havean l’aria cospersa?
Ma l’impudente stuol mancar non puote
De la natura sua cruda, e perversa.
Quanto più preghi il rustico, più scuote
L’orecchie, e più s’oppone, e s’attraversa.
Quel, ch’egli vuol da se, rispinge, e scaccia,
Ne sà quel, che si voglia, ò perche ’l faccia.
Prega ella, et ei se ben conosce, e vede,
Che manca de ’l devero se non consente,
Perche da pria no’l volle far, si crede,
Che ne vada l’honor, s’egli si pente.
Anzi quanto la Dea più prega, e chiede,
Più diventa superbo, et insolente,
Ne gli basta negando esser selvaggio,
Che viene à le minacce, et à l’oltraggio.
Dopo l’ingiurie l’odiosa razza
Salta per tutto ’l lago, e turba l’onde,
E con piedi, e con man le rompe, e guazza,
E di mille sporcitie le confonde.
Tosto la Dea la turba infame, e pazza
Sott’altra scorza infuriata asconde.
Che quel nov’atto tanto le dispiacque,
Che le fe prolungar la sete, e l’acque.
Et alzando la man, come potea,
Impedita dal sen, che i figli porta,
Disse, à quest’union malvagia, e rea
Perpetua stanza sia quest’acqua morta.
Già tutto ottien quel, che desia la Dea,
E già l’humana effigie si trasporta
In un folle animal picciolo, e strano,
Amico de lo stagno, e del pantano,
Quanto più acquista il pesce, più l’huom perde,
E più picciol divien, fuor, che la bocca,
La schena punteggiata è tutta verde,
La pancia è del color, che ’l verno fiocca:
Non si trasforma il collo, ma si sperde
Tanto, che il novo tergo il capo tocca.
E anchor s’alcun và à ber, la sciocca turba
Salta nel morto stagno, e ’l mesce, e turba.
Hor l’animal sott’acqua si nasconde,
Hor gode sopra il ciel la testa sola,
Hor col nuoto, hor col salto ei scorre l’onde.
E se ben l’impudente è senza gola,
Ó sia sott’acqua, ò sù l’herbose sponde,
Dà fuor l’ingiuriosa sua parola,
E d’ogni intorno assorda il cielo, e ’l lido
Co’l suo pien di bestemmie, e roco grido.
Poi che ’l novo miracolo si sparse,
S’ordinò di parer di tutto il regno,
Che per placar la Dea de l’ira, ond’arse,
Di fede, e honor le si mostrasse un segno.
Tanto, ch’ove la Rana al mondo apparse,
Fabricar quell’altar soperbo, e degno,
E ogni anno nel suo giorno il popol Licio,
V’hà fatto, e farà sempre il sacrificio.
Parlato c’hebbe il fido peregrino
S’incaminò ciascuno al suo viaggio.
Si che scaldiamci al pio culto divino
Con santo, e non colpevole coraggio:
E non seguiam l’essempio contadino,
Ne de l’altier di Tantalo lignaggio,
Ma veneriam con fe l’officio santo,
Come ne profetò la fatal Manto.
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Soggiunse un, che fra lor sedea nel tempio
Di presenza, d’età grave, e di panni.
Bastar dovrebbe il raccontato essempio
A far saggi i futuri huomini, et anni:
Pur vo un’errore ancho’ io contar manco empio,
Ch’afflisse il malfattor di maggior danni,
Ch’oprò senz’altrui danno opre men felle,
E vide il corpo suo star senza pelle.
Fù Marsia in Frigia un Satiro nomato,
Fra i musici più degni il più perfetto,
Ne le canne da vento il più lodato,
O sia trombone, ò piffero, ò cornetto.
Mentre fè Apollo à buoi pascere il prato,
Hebbe di questo suon molto diletto;
E fama fu, che Febo in questa parte
Sapesse più, che non discorre l’arte.
Venne à goder dopo cent’anni, e cento
Questo Marsia, ch’io dissi in terra il lume,
Ch’à dare à flauti, et à cornetti il vento
Apprese per natura, e per costume.
E preferirsi à Febo hebbe ardimento,
Per donare à la patria un novo fiume,
Che come hebbe di questo Apollo nova,
Scese dal cielo in Frigia, e venne in prova.
Stupisce il biondo Dio tosto, ch’intende
Il dolce suon, che ’l Satiro dà fuora,
Che mentre un dolce spirto al corno ei rende,
Hor co’l suon si rallegra, hor s’ange, e plora.
Quanto più vien lodato, più s’accende
Di gloria, e nel parlar sè solo honora,
E dice à Febo, homai conoscer puoi.
Quanto avanzi il mio suono i merti tuoi.
Quanto ad Apollo il suon di Marsia aggrada,
Tanto gli spiace il suo soverchio orgoglio.
E disse à lui la tua virtù si rada
Fà, ch’ammonir d’un grande error ti voglio.
Per far, che ’l tuo valor teco non cada,
Prendi del tuo fallir teco cordoglio,
E dì con humil cor come ti penti
D’haver biasmati i miei più dolci accenti.
Ch’io giuro per quell’acqua, che mi sforza,
Che s’ostinato stai nel tuo pensiero,
Con dir, che l’arte tua sia di più forza,
Tal dar castigo al tuo parlare altero,
Che vedrai ’l corpo tuo star senza scorza.
Ma quando ti ravegga, e dica il vero,
E che del fallo tuo cerchi perdono,
Io vò giunger dolcezza al tuo bel suono.
Non vorrei dal tuo orgoglio esser costretto
Far perir l’arte tua, ch’al mondo è sola;
E quando di sentirmi habbi diletto,
Fà diventar humil la tua parola:
Che per lo stesso stagno io ti prometto
Di vento à questo corno empir la gola.
E da la cortesia di questo legno
Esser l’accento mio saprai più degno.
Le Ninfe, i Fauni, e gli altri Semidei,
E i Satiri fratelli eran d’intorno
A Marsia, che cedesse à i sommi Dei,
C’honorasse lo Dio, ch’apporta il giorno:
Vo’, che siano i suoi canti i miei trofei,
Risponde il folle, e giunge scorno, à scorno.
Irato Apollo il legno al labro accosta,
E fida al bosso altier la sua risposta.
La lingua, il labro, il legno, i diti, e ’l vento
Di tempo in tempo obedienti à l’arte
Si dolce fean ne l’aria udir concento,
Che si vedea, che da l’Etherea parte
Era disceso il nobile istrumento,
E l’autor, che le note, e ’l suon comparte;
Tal, che l’alme soggette al caldo, e al gielo
Donar l’honore al cittadin del cielo.
La Ninfa, il Fauno, e ogn’un, che ’l suon udio,
Di consenso comun chiaro risponde,
Che ’l Fauno è vinto, è vincitor lo Dio,
E ’l campo gli adornar di nova fronde.
Romper non posso il giuramento, ch’io
Pur dianzi fei per l’osservabili onde,
(Disse lo Dio pentito) e un ferro prende,
Che privar de la pelle il vinto intende.
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Soggiunse un, che fra lor sedea nel tempio
Di presenza, d’età grave, e di panni.
Bastar dovrebbe il raccontato essempio
A far saggi i futuri huomini, et anni:
Pur vo un’errore ancho’ io contar manco empio,
Ch’afflisse il malfattor di maggior danni,
Ch’oprò senz’altrui danno opre men felle,
E vide il corpo suo star senza pelle.
Fù Marsia in Frigia un Satiro nomato,
Fra i musici più degni il più perfetto,
Ne le canne da vento il più lodato,
O sia trombone, ò piffero, ò cornetto.
Mentre fè Apollo à buoi pascere il prato,
Hebbe di questo suon molto diletto;
E fama fu, che Febo in questa parte
Sapesse più, che non discorre l’arte.
Venne à goder dopo cent’anni, e cento
Questo Marsia, ch’io dissi in terra il lume,
Ch’à dare à flauti, et à cornetti il vento
Apprese per natura, e per costume.
E preferirsi à Febo hebbe ardimento,
Per donare à la patria un novo fiume,
Che come hebbe di questo Apollo nova,
Scese dal cielo in Frigia, e venne in prova.
Stupisce il biondo Dio tosto, ch’intende
Il dolce suon, che ’l Satiro dà fuora,
Che mentre un dolce spirto al corno ei rende,
Hor co’l suon si rallegra, hor s’ange, e plora.
Quanto più vien lodato, più s’accende
Di gloria, e nel parlar sè solo honora,
E dice à Febo, homai conoscer puoi.
Quanto avanzi il mio suono i merti tuoi.
Quanto ad Apollo il suon di Marsia aggrada,
Tanto gli spiace il suo soverchio orgoglio.
E disse à lui la tua virtù si rada
Fà, ch’ammonir d’un grande error ti voglio.
Per far, che ’l tuo valor teco non cada,
Prendi del tuo fallir teco cordoglio,
E dì con humil cor come ti penti
D’haver biasmati i miei più dolci accenti.
Ch’io giuro per quell’acqua, che mi sforza,
Che s’ostinato stai nel tuo pensiero,
Con dir, che l’arte tua sia di più forza,
Tal dar castigo al tuo parlare altero,
Che vedrai ’l corpo tuo star senza scorza.
Ma quando ti ravegga, e dica il vero,
E che del fallo tuo cerchi perdono,
Io vò giunger dolcezza al tuo bel suono.
Non vorrei dal tuo orgoglio esser costretto
Far perir l’arte tua, ch’al mondo è sola;
E quando di sentirmi habbi diletto,
Fà diventar humil la tua parola:
Che per lo stesso stagno io ti prometto
Di vento à questo corno empir la gola.
E da la cortesia di questo legno
Esser l’accento mio saprai più degno.
Le Ninfe, i Fauni, e gli altri Semidei,
E i Satiri fratelli eran d’intorno
A Marsia, che cedesse à i sommi Dei,
C’honorasse lo Dio, ch’apporta il giorno:
Vo’, che siano i suoi canti i miei trofei,
Risponde il folle, e giunge scorno, à scorno.
Irato Apollo il legno al labro accosta,
E fida al bosso altier la sua risposta.
La lingua, il labro, il legno, i diti, e ’l vento
Di tempo in tempo obedienti à l’arte
Si dolce fean ne l’aria udir concento,
Che si vedea, che da l’Etherea parte
Era disceso il nobile istrumento,
E l’autor, che le note, e ’l suon comparte;
Tal, che l’alme soggette al caldo, e al gielo
Donar l’honore al cittadin del cielo.
La Ninfa, il Fauno, e ogn’un, che ’l suon udio,
Di consenso comun chiaro risponde,
Che ’l Fauno è vinto, è vincitor lo Dio,
E ’l campo gli adornar di nova fronde.
Romper non posso il giuramento, ch’io
Pur dianzi fei per l’osservabili onde,
(Disse lo Dio pentito) e un ferro prende,
Che privar de la pelle il vinto intende.
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Soggiunse un, che fra lor sedea nel tempio
Di presenza, d’età grave, e di panni.
Bastar dovrebbe il raccontato essempio
A far saggi i futuri huomini, et anni:
Pur vo un’errore ancho’ io contar manco empio,
Ch’afflisse il malfattor di maggior danni,
Ch’oprò senz’altrui danno opre men felle,
E vide il corpo suo star senza pelle.
Fù Marsia in Frigia un Satiro nomato,
Fra i musici più degni il più perfetto,
Ne le canne da vento il più lodato,
O sia trombone, ò piffero, ò cornetto.
Mentre fè Apollo à buoi pascere il prato,
Hebbe di questo suon molto diletto;
E fama fu, che Febo in questa parte
Sapesse più, che non discorre l’arte.
Venne à goder dopo cent’anni, e cento
Questo Marsia, ch’io dissi in terra il lume,
Ch’à dare à flauti, et à cornetti il vento
Apprese per natura, e per costume.
E preferirsi à Febo hebbe ardimento,
Per donare à la patria un novo fiume,
Che come hebbe di questo Apollo nova,
Scese dal cielo in Frigia, e venne in prova.
Stupisce il biondo Dio tosto, ch’intende
Il dolce suon, che ’l Satiro dà fuora,
Che mentre un dolce spirto al corno ei rende,
Hor co’l suon si rallegra, hor s’ange, e plora.
Quanto più vien lodato, più s’accende
Di gloria, e nel parlar sè solo honora,
E dice à Febo, homai conoscer puoi.
Quanto avanzi il mio suono i merti tuoi.
Quanto ad Apollo il suon di Marsia aggrada,
Tanto gli spiace il suo soverchio orgoglio.
E disse à lui la tua virtù si rada
Fà, ch’ammonir d’un grande error ti voglio.
Per far, che ’l tuo valor teco non cada,
Prendi del tuo fallir teco cordoglio,
E dì con humil cor come ti penti
D’haver biasmati i miei più dolci accenti.
Ch’io giuro per quell’acqua, che mi sforza,
Che s’ostinato stai nel tuo pensiero,
Con dir, che l’arte tua sia di più forza,
Tal dar castigo al tuo parlare altero,
Che vedrai ’l corpo tuo star senza scorza.
Ma quando ti ravegga, e dica il vero,
E che del fallo tuo cerchi perdono,
Io vò giunger dolcezza al tuo bel suono.
Non vorrei dal tuo orgoglio esser costretto
Far perir l’arte tua, ch’al mondo è sola;
E quando di sentirmi habbi diletto,
Fà diventar humil la tua parola:
Che per lo stesso stagno io ti prometto
Di vento à questo corno empir la gola.
E da la cortesia di questo legno
Esser l’accento mio saprai più degno.
Le Ninfe, i Fauni, e gli altri Semidei,
E i Satiri fratelli eran d’intorno
A Marsia, che cedesse à i sommi Dei,
C’honorasse lo Dio, ch’apporta il giorno:
Vo’, che siano i suoi canti i miei trofei,
Risponde il folle, e giunge scorno, à scorno.
Irato Apollo il legno al labro accosta,
E fida al bosso altier la sua risposta.
La lingua, il labro, il legno, i diti, e ’l vento
Di tempo in tempo obedienti à l’arte
Si dolce fean ne l’aria udir concento,
Che si vedea, che da l’Etherea parte
Era disceso il nobile istrumento,
E l’autor, che le note, e ’l suon comparte;
Tal, che l’alme soggette al caldo, e al gielo
Donar l’honore al cittadin del cielo.
La Ninfa, il Fauno, e ogn’un, che ’l suon udio,
Di consenso comun chiaro risponde,
Che ’l Fauno è vinto, è vincitor lo Dio,
E ’l campo gli adornar di nova fronde.
Romper non posso il giuramento, ch’io
Pur dianzi fei per l’osservabili onde,
(Disse lo Dio pentito) e un ferro prende,
Che privar de la pelle il vinto intende.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Deh Marsia allhor dicea, deh non è tanto
L’error, ch’io fei, che merti si gran pena,
Che spogli à la mia carne il primo manto,
E ch’apra il guado ad ogni fibra, e vena.
Apollo lascia à lui fare il suo pianto,
E de la scorza il priva, e de la lena,
E tanta pelle à la sua carne invola,
Che tutto il corpo è una ferita sola.
Stilla il sangue da muscoli, e da vene,
E ’n tutto il corpo suo rosseggia, e luce,
E fan sanguigne le montane arene,
E al misero Silvan toglion la luce,
Tal, che ciascun, ch’in lui le ciglia tiene,
Distilla in pianto l’una, e l’altra luce,
I Satiri fratelli, e le Napee,
I Fauni, l’Amadriade, e l’altre Dee.
Ogni Frigio pastor, ch’in quel contorno
A pascer si trovò gregge, od armento,
Vedendo essere à lui levato il giorno,
Che facea loro udir si bel concento,
E restar del suo suon vedovo il corno,
Et ogni altro suo musico istrumento,
Concorse à lagrimarlo, e ’l ciel già chiaro
Oppose un flebil nembo al volto amaro.
Di Marsia il sangue, e Ie lagrime sparte
Da Semidei, da gli huomini, e dal cielo
Render la terra molle in quella parte,
E la terra al giovar rivolto il zelo,
Si succia il tutto, e distillando parte
Il bianco, e chiaro humor dal rosso velo,
E ne le vene sue stillato in fiume
Più basso alquanto il fà vedere il lume.
Distilla limpidissimo dal monte,
E tien di Marsia il nome, e tanto scende,
Seco tirando più d’un Frigio fonte,
Che Dori in sen l’abbraccia, e salso il rende.
Con queste historie manifeste, e conte
Parla il saggio nel tempio, e ’l volgo intende,
Fin predicendo à ogn’un malvagio, e rio,
Che per suo fin non ha il timor di Dio.
Tutti del vecchio Re piangean la morte,
De figli la fortuna adversa, e tetra,
Ma nessun di colei piangea la sorte,
Che ’l suo misero fin piange di pietra.
Pur dal fratel ne la Thebana corte
Un lungo, e mesto pianto il sasso impetra.
Di Tantalo il figliuol Pelope solo
Lagrimò ’l fato suo con questo duolo.
Quanto al mio padre pio d’obligo porto,
Tanto di voi mi doglio eterni Dei,
Poi c’hebbe il mio natal Tantalo scorto,
Ch’i giorni miei dovea far tristi, e rei,
Mi ferì ’l core, e poi che m’hebbe morto,
Varie vivande fè de membri miei,
E mi diè cibo à voi ne’ miei prim’anni,
Per tormi à queste pene, à quest’affanni.
Ma voi dal padre mio Numi invitati
A le mie carni accortivi di questo,
De membri miei, che in pezzi eran tagliati,
Di novo il corpo mio feste contesto,
Per farmi, come havean disposto i Fati,
In tutti i giorni miei dolente, e mesto,
E mandaste Mercurio al lago Averno,
Per ritor l’alma mia, ch’era à l’inferno.
Havesse almen di voi fatto ciascuno,
Come Cerere fè, che non s’accorse
Del cibo humano, e vinta dal digiuno
La mia spalla sinistra elesse, e morse,
Che se tutti i miei membri infino ad uno
Mangiati haveste, non havriano forse
Potuto unirmi un’altra volta insieme,
Per darmi in preda à le miserie estreme.
Ben che si come allhor mi rifaceste
La spalla, che mangiò la Dea Sicana,
Di dente d’elefante, e la giungeste
Con la già cotta mia persona humana:
Cosi rifatto anchor tutto m’havreste,
Perc’havessi à veder l’aula Thebana
Priva de la Reina mia sorella,
E de la sua progenie illustre, e bella.
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Priva di tutti i figli, e del consorte
Pianger la vidi: et hor, se bene è pietra,
Pensando à l’empio suo destino, e sorte,
Le lagrime dal sasso anch’hoggi impetra.
Quant’era me’ per me l’infernal corte,
Però che la prigione eterna, e tetra
Non dava à l’alma mia si gran tormento,
Quanto hor, ch’io godo il Sol, ne provo, e sento.
Cosi con duolo insolito, e infinito
De l’alme de l’imperio alto, e giocondo
Pelope si dolea, ch’in quel convito
L’havesser tolto al Re scuro, e profondo.
Come fu per la terra il caso udito,
Le città de la Grecia, e i Re del mondo,
Come suol farsi in simili dolori,
Mandar per consolarlo ambasciadori.
E Cipro, e Creta, e Rodi, e Negroponte,
E ogni altro regno, che dal mare è cinto,
E tutto quel, ch’è dentro, e fuor del ponte,
Che fra due mar fa l’Istmo di Corinto,
Mandar de l’eloquentia il miglior fonte
A consolare il Re del germe estinto,
E mancò sol di quel, che si conviene
(Chi ’l crederia?) la più prudente Athene.
Ma scusa merta la Palladia corte,
Se poca à tanto officio intese cura,
Però, ch’allhor la Barbara cohorte
Facea terrore à le Cecropie mura.
Benche dapoi da un Barbaro più forte
Fù l’Attica città fatta sicura,
Tereo gli empi scacciò Barbari audaci,
Figliuol di Marte, Imperador de Traci.
Fiaccato che ’l soccorso have le corna
A la nemica, e Barbara insolenza,
E salvato quel sen, che ’l mondo adorna
D’ogni arte liberal, d’ogni scienza;
Tereo non prima al suo regno ritorna,
Che ’l grato Re de l’Attica potenza
Per colligar più forte il Trace seco,
L’avinse sposo al sangue Regio Greco.
D’Athene il Re, che Pandion fu detto,
Hebbe due figli, Progne, e Filomena,
Di si leggiadro, e si divino aspetto,
Che non cedeano à la famosa Helena.
Tereo con Progne fè comune il letto,
E confermò la coniugal catena.
Pronuba lor Giunone esser non volse,
Ma ben con Himeneo lontan se ’n dolse,
Non vi comparse l’un, ne l’altro Nume,
Ma fra lor se ne dolsero in disparte.
L’alme tre gratie à l’infelici piume
De i don, che soglion dar, non fecer parte.
L’Erinni havendo in man l’infernal lume,
Poser nel letto il successor di Marte
Con la donzella; e lasciò il gufo il nido,
E fe sentire il suo noioso strido.
Ma come quei, che non sapeano i pianti,
Ch’uscir dovean del coniugato amore,
Con giostre, e con tornei, con suoni, e canti
Si fè in Athene à le lor nozze honore.
Tutti novi splendeano i varij manti
Di valor, d’artificio, e di colore.
Scoprì ogni donna allhora il suo thesoro,
La perla oriental, la gemma, e l’oro.
Tereo fatte le nozze non s’arresta,
Ma torna con la sposa al patrio lito,
Dove la Tracia rinovò la festa,
E salutò il suo Re fatto marito.
Con pompa coronò la Greca testa,
E nove giostre fè, novo convito.
Ah quanto intorno al bene è ’l nostro inganno,
Come spesso n’allegra il proprio danno.
Non prevedendo i minacciati scempi
De lumi, ch’à mortai volgonsi intorno,
Tereo ordinò, che ne’ futuri tempi
Fosse honorato il mal’inteso giorno,
Per tutte le città, per tutti i Tempi,
Che diè principio al nuttial soggiorno.
Iti un suo figlio dopo al lume venne,
E ’l dì del suo natal fe anchor solenne.
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Dal dì, che Progne il padre Pandione
Lasciò con Tereo, e l’Attica contrada,
La madre de la moglie di Plutone
Donata al mondo havea la quinta biada,
Cinque volte il figliol d’Hiperione
Fatta havea per lo ciel l’usata strada,
Quando Progne con modo allegro, e dolce
Cosi lusinga il suo marito, e molce.
Dolce consorte mio, s’io dolce mai
Ti fui ne l’età mia più verde, e bella,
Concedemi, ch’io possa andare homai
A riveder la mia cara sorella.
A la felice patria, ch’io lasciai;
Ó fa, ch’ove son’io, se ne venga ella.
E s’al socero tuo paresse greve,
Prometti à lui di rimandarla in breve.
Mosso il marito pio dal caldo affetto,
Onde la dolce sua consorte il prega,
Se ben non vuol, che lasci il Tracio tetto,
La seconda dimanda à lei non nega.
E, perche non gli sia dal Re disdetto,
Tanto l’amor de la consorte il lega,
Ch’in persona vuol gir sù le triremi,
Per por, se manca il vento, in opra i remi.
Come l’altro mattin surge l’Aurora,
A questa impresa il Re di Tracia accinto,
Del porto di Bizantio uscendo fuora,
Hor và dal remo, hor và dal vento spinto,
E havendo à mezzodì volta la prora,
Silibria à destra man lascia, e Perinto.
Poi co’l corso del mar veloce, e presto
Passa lo stretto, ch’è fra Abido, e Sesto.
Dal vento il buon nocchier spinto, e da l’onde
Ver l’isola di Tenedo camina,
Vi giunge, e lascia à le sinistre sponde
Troia, ch’allhor de l’Asia era Reina.
Ecco un scoglio si mostra, un si nasconde
Mentre fendendo và l’Egea marina
L’Icario acquista, poi perde l’Egeo,
E giunge al promontorio Cafareo.
Quivi à Libecchio poi volta la fronte,
E lascia Andro à man manca, e ’l camin prende
Ver l’estremo Leon di Negroponte,
E ver la dotta Achaia il corso intende.
E tanto innanzi và, ch’al Sunio monte
Il soffio di Volturno in breve il rende,
Verso Maestro poi tanto si tiene,
Che ’l porto di Pireo prende, e d’Athene.
Fù il Tracio Re dal socero raccolto
Con quella hilarità, con quello honore,
Che l’assedio chiedea, che gli havea tolto,
E ’l novo parentado, e ’l gran valore.
Poi c’hebber man’à man con lieto volto
Giunta l’Achivo, e ’l Tracio Imperadore,
Con tristo augurio trattisi in disparte,
Cosi parlò il figliuol, ch’uscì di Marte.
Se bene Amor m’havea l’alma infiammata
Quanto si potea più di rivederti,
Si per l’affinità, c’habbiam legata,
Si per li tuoi maravigliosi merti:
Non però questa la cagione è stata
Che dar m’hà fatto i lini à i venti incerti,
Che se ben’io v’havea tutto ’l mio affetto,
In Tracia mi tenea più d’un rispetto.
Quel, che mi fà lasciare in tempo il regno,
Che per varij accidenti io non devrei,
E che mi fà solcar l’onde su’l legno
Per venire à smontare à i liti Achei,
È ’l caro, fido, e pretioso pegno,
Che piacque, e piace tanto à gli occhi miei.
Progne la figlia tua la mia consorte,
Per mar mi spinge à le Palladie porte.
L’amor de le prudenti tue figliuole
M’han costretto à passar nel lito Greco,
Che la consorte mia riveder vole
L’altra figliuola tua, che restò teco.
E se mancassi de le mie parole,
lo non havrei mai più concordia seco,
Ch’io le promisi qui trarmi in persona,
E di questo pregar la tua corona.
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Se de la figlia tua cerchi il contento,
Se del genero tuo brami la pace,
Fà, ch’io possa condur co’l primo vento
L’altra figliuola tua nel regno Trace.
Mentre, che ’l Re di Tracia apre il suo intento,
E dispor cerca il Re, ch’ascolta, e tace;
Fra molte Filomena ivi risplende,
E la favella sua nel mezzo fende.
Come sà, che ’l cognato è già in Athene
Di Progne la bellissima sirocchia,
Con ricco habito, e vago à lui ne viene,
E giunge, e piega il ciglio, e le ginocchia.
Come il Re Tracio in lei lo sguardo tiene,
E le divine sue bellezze adocchia,
E de begli occhi suoi la dolce fiamma,
D’amoroso desio tutto s’infiamma.
Come talhor le belle Driadi vanno
Con la più bella assai diva di Delo,
Cosi ne và costei ricca del panno,
Ma molto più del bel corporeo velo,
Fra donzelle si splendide, che fanno
Fede fra noi de la beltà del cielo,
Ma di beltà, d’adornamento, e d’oro
Più bella è in mezzo à lor la Delia loro.
Si dan la man da questo, e da quel lato,
Si fan gl’inchini, e i santi abbracciamenti
Fra la vergine bella, e ’l suo cognato,
Come usan rivedendosi i parenti:
E poi che l’uno à l’altro hà dimandato
Di molti lor congiunti, e conoscenti,
Per man l’Attico Re di novo piglia
Il Tracio, e fa, che siede egli, e la figlia.
Quanto hà più in lei Tereo le luci intese,
Tanto più s’innamora più s’accende,
Spinto da la natura del paese,
Ch’à Venere ogni cura, ogni opra impende,
Non vuol fatiche risparmiar, ne spese,
Ma di goderla in ogni modo intende,
Se ben dovesse fare ogni atto indegno,
Se ben dovesse spender tutto ’l regno.
Troppo gli par dover esser felice,
Se può venire al desiato intento
Con quella, ch’esser può la sua beatrice,
Che sola in tutto il può render contento.
Vuol corromper la fè de la nutrice,
Quanto può Tracia dar d’oro, e d’argento,
D’ornamenti, di gemme, e d’ogni bene,
Tutto al parto vuol dar del Re d’Athene.
S’altro non può, vuol torla à la sua terra
Per forza, e darla al suo regno iracondo,
E per serbarla à se prender la guerra
Contra tutta la Grecia, e tutto ’l mondo.
Ahi, che non osa Amor, se ben s’afferra,
Quando passa per gli occhi al cor profondo.
Acceso hà il cor del Re già di tal foco,
Che ’l petto à tanta fiamma è picciol loco.
Più sopportar non può l’indugio, e spiega
Di novo al suo mandato la favella,
E per la figlia il Re conforta, e prega,
Che possa riveder la sua sorella.
Amor facondo il face, e non gli nega
Ogni forma di dir più vaga, e bella.
E mentre mostra far servitio altrui
L’infiammato amator prega per lui.
E se pur nel pregar passa l’honesto,
Sopra la moglie sua scusa il suo torto,
E dice, io non sarei tanto molesto,
S’io non havessi il suo gran pianto scorto.
Gocce di duolo sopragiunte in questo
Voler nasconder mostra il Trace accorto,
Co’l lin quel passo asconde, ond’egli vede,
E acquista à l’empio cor fingendo fede.
Ó sommi Dei, che tenebroso inferno
Ingombra un petto misero mortale,
Come gli fa si cieco il lume interno,
Che conoscer non sappia il ben dal male?
Tereo dal gesto, e dal colore esterno
È giudicato pio, santo, e leale,
Essendo empio, et ingiusto, e pien di frode,
E dal delitto acquista honore, e lode.
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Come la bella Filomena intende
Quel, ch’al padre il Re Tracio persuade,
E che condurla à veder Progne intende,
Nel medesmo voler concorre, e cade.
E quanto il virginal favor si stende,
Prega humilmente la sua maestade,
E mentre per suo bene il padre alletta,
Contra quel, ch’è suo bene, il fato affretta.
Tereo, che vede il gratioso affetto,
Onde il padre al suo fin mover procaccia,
E scorge, che la tien degno rispetto
A non legargli il collo con le braccia:
Aggiugne nove fiamme à l’arso petto,
E mille volte co’l pensier l’abbraccia,
E ’l padre esser vorria per legar lei,
Ne però i suoi pensier foran men rei.
Tante mosser ragioni hor quello, hor questa,
Che dal doppio pregar convinto fue.
Ella il ringratia, e quelle cose appresta,
Che servir denno à l’occorrentie sue,
E s’allegra per due, per due fa festa
Di quel, ch’esser dovea lugubre à due.
Tereo il ringratia, anchor via più contento
Per quel, c’hà dentro al cor lascivo intento.
Havean tanto à l’ingiù già preso il corso
I cavalli del Sol, ch’egli à gran pena
Regger più gli potea co’l duro morso,
Tant’eran presso à la bramata arena;
Quando havendo i due Re molto discorso
Chiamati furo à la superba cena,
Dove fanno à Lieo l’honor, che ponno,
Poi vanno à dar le membra in preda al sonno.
Ma il Tracio Re, se ben da quella è lunge,
Che gli havea Amor scolpita in mezzo al core;
Non però men quel desir cieco il punge,
Ma contempla lontan l’Achivo amore.
E seco imaginando si congiunge,
E havendo in mente il bel, ch’appar di fuore,
Quel, che non vede, à suo modo si finge,
E con vano pensier l’abbraccia, e stringe.
Già tolta al ciel l’Aurora havea ogni stella,
E lodava ogni augel la nova luce,
Eccetto il Lusignuol, la Rondinella,
Che sotto altro mantel godean la luce,
Quando per menar via la figlia bella
Tereo, ch’al sonno mai non diè la luce,
Vedendo essere apparso il novo lume,
Co’l medesmo pensier lasciò le piume.
Fece dapoi sentir gli ultimi accenti
Al socero, e da lui commiato prese,
Il qual nel far gli estremi abbracciamenti
Fe, che queste parole estreme intese.
Tereo, poi che à le voglie troppo ardenti
De le mie figlie il tuo parer s’apprese,
Anch’io dal voler tuo non mi diparto,
Anzi al terzo parere aggiungo ii quarto.
Ma ben ti vò pregar per quella fede,
Che ’l giusto vuol, ch’à l’huom da l’huom si porti,
E per la fè, ch’al laccio si richiede,
Ch’insieme n’hà di parentado attorti,
C’habbi di questa vergine mercede,
Si che sicura sia da gli altrui torti,
E, perche ritornar mi possa illesa,
Sia con paterno amor da te difesa.
E poi che la pietà m’have disposto
A lasciar dipartir da me costei,
Tu anchor (se ’l giusto, e ’l pio non t’è nascosto)
Tenuto à rimandarla al padre sei.
Però del volto suo quanto più tosto
Contenta i lagrimosi lumi miei.
Porga il genero pio questo conforto
A la vecchiezza mia pria, ch’io sia morto.
E tu cara mia figlia habbi rispetto
A l’età mia, che quasi al suo fin giunge,
E come satisfatto al caldo affetto
Havrai di quello amor, ch’à gir ti punge,
Ritorna incontinente al patrio tetto,
Basta, ch’una di due da me sia lunge.
Cosi dicendo le baciò la fronte,
E fè, con questo dir, d’ogni occhio un fonte.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||sesto.|105}}</noinclude><poem>
Mentre di pianto il padre il volto tinge,
Risponde al lagrimar la regia prole,
Ma il lutto, e ’l sospirar tanto la stringe,
Che non può dar risposta à le parole.
Promette il Re infedel, lagrima, e finge,
Che, pria, che scaldi il quarto segno il Sole,
Da triremi sicure, e fide scorte
Sarà renduta à le Cecropie porte.
Poi che le sparse lagrime vedute
Hanno à lor volti irruggiadar le gote,
Prega l’Attico Re, che si salute
L’altra figlia in suo nome, e ’l suo nipote.
Sciolte le mani poi, ch’eran tenute
L’una da l’altra, fer tacer le note,
E ’l sopragiunto à Pandion dolore
Porge al presagio suo maggior timore.
Monta il barbaro Re su’l miglior legno,
Ma la fanciulla Achea prima v’invia,
E sopra il palco più elevato, e degno,
Ch’è ne la poppa vuol, che seco stia.
Fece quei, che vi vuol del Greco regno
La bella Filomena in compagnia,
Montar su un’altra sventurata prora,
Da due donzelle, e la nutrice in fuora.
Poi che da cento remi il mar fu rotto,
E ’l lito indietro ribattuto, e spinto,
E fu ne l’alto mar l’arbor condotto,
Disse il barbaro altero; habbiam già vinto:
Il voto in poter nostro habbiam ridotto,
Ne tener può in officio il viso finto.
S’allegra, e ’l mostra, e differisce à pena
Quel ben, che spera, e lieto in Tracia il mena.
Gli occhi dal volto suo mai non rimove,
E gode haverla fuor d’ogni periglio,
Come gode talhor l’augel di Giove,
Che la lepre, c’havea nel curvo artiglio,
Ne l’altissimo cerro hà posta, dove
Ferma nel suo trofo l’altero ciglio;
E gode, che ’l nido alto, ove la tiene,
Nulla à la preda sua porge di spene.
Comanda à un Capitan l’empio tiranno,
Che ne la sua galea nefanda porta
La Greca compagnia, ch’in Tracia vanno
Per fare à la donzella honore, e scorta,
Che come de la notte il nero panno
Faccia l’alma del dì rimaner morta,
E co’l suo manto il mondo al mondo asconda,
I Greci ad un ad un dia in grembo à l’onda.
L’inclinato corsar sempre à far male,
Come splender nel ciel vede le stelle,
S’allontana da gli altri, e dona al sale
Gli huomini ad uno ad uno, e le donzelle.
Le tre, ch’eran nel legno principale,
Smontaro à venerar Nettuno anch’elle,
Che l’ultimo seren, ch’in mar si giacque,
Fur tolte al legno, e fur donate à l’acque.
Come prendon di notte il porto infido,
E godon di toccar l’amata terra,
Non ode Filomena alcun su’l lido
Il linguaggio parlar de la sua terra,
Chiam’alto la nutrice, e più d’un fido
Greco, che morti il mar nasconde, e serra.
Grida il Re, ch’ogni Greco in terra scenda,
E fà, che la fanciulla il grido intenda.
Per man la prende, e fa, che s’accompagne
Seco, e di darla al regio albergo dice,
E che i suoi Greci, e l’altre sue compagne
Intanto ne verran con la nutrice.
Passan con pochi passi le campagne,
E conduce la vergine infelice,
In una antica selva, ove un palazzo
Il Re tener solea per suo solazzo.
Quivi un serraglio il Re barbaro havea
Cinto di grosse, e d’alte mura intorno,
E le fanciulle belle, che potea
Trovar nel Tracio, e ne l’altrui soggiorno,
Da gli Eunuchi guardate ivi tenea,
E vi soleva andar quasi ogni giorno,
E godea per antico suo costume
Con quella, che sciegliea, l’infami piume.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><poem>
Saper fe il Re, come nel porto scese
La giunta al castellan per un suo paggio,
Il qual venne à incontrar con faci accese
Il Re con gli altri in mezzo del viaggio.
Poi che l’albergo il Re crudele ascese,
Disse, fin che non esce il solar raggio
A fare ogn’altra stella oscura, e vana,
Non è ben di turbar la tua germana.
Si che posiamci in questo albergo alquanto,
E ’l sonno à gli occhi dia quel, c’haver denno,
E volto il ciglio ver due vecchie intanto,
Di quel, c’haveano à far, lor fece cenno.
Le vecchie esperte, che conobber quanto
Il Re chiedea, passar la figlia fenno
In una stanza, ov’era un ricco letto,
Albergo antico al barbaro riccetto.
Come le luci la donzella intende
Ne l’adornate riccamente mura,
Si stà sospesa alquanto, e pensa, e prende
Maggior dentro di se noia, e paura:
Ch’ella si posi, da le vecchie intende,
Na negando ella stà, ne s’assicura.
Pur con false lusinghe tanto fanno,
Ch’ignuda al letto barbaro la danno.
Pensa il perfido Re malvagio, e rio
Goder quivi il suo furto, e farla donna,
Quivi serbarla al suo folle desio,
Ma per celarla à la Tracense donna,
Prima, che ’l biondo, e luminoso Dio
Sorga à scoprir la sua splendida gonna,
Vuol, che l’armata in mar riprenda il corso,
E vada al Re di Cipro à dar soccorso.
Cipro allhor da Sidonia havea la guerra,
E la Tracia possanza havea chiamata,
Che, come amica à la Venerea terra,
Mandasse in suo favor la Tracia armata.
Hor poi che la sua classe asconde, e serra
Ogni huom, che sà la donna esser rubata,
Vuol, che vada à trovare i Ciprij porti,
Perch’à la moglie sua non si rapporti.
Havea, prima ch’in terra il Re scendesse,
Imposto al General del Tracio legno,
Ch’alcuno al noto lito non rendesse,
S’ei non gli dava un certo contrasegno.
Ma come al segno imposto ei conoscesse,
Lasciasse incontinente il Tracio regno,
E gisse à riparare al Ciprio danno,
E stesse al suo servitio intero un’anno.
Scrive egli in Cipro, e dona il segno, e ’l foglio
A quei, che seco uscir de le triremi,
Discioglie il lin con general cordoglio
Il Capitano, e dona à l’acque i remi,
E vanno à ritentar l’ondoso orgoglio
Sol del Re, e de la donna i legni scemi.
Va l’armata ver Cipro, e mena seco
Ogn’un, salvo il Re Tracio, e ’l furto Greco.
Riferiscon le vecchie al Re contento,
Ch’ella si stà nel letto ignuda, e sola:
Corre egli à l’amoroso inganno intento,
E ’l fior virgineo à lei per forza invola.
La figlia usò con vendice ardimento
La forza in sua difesa, e la parola,
Ma sola non potè fanciulla, e ignuda,
Vincer l’età viril, tiranna, e cruda.
L’amato padre in van chiama sovente,
Sovente Progne, e più gli eterni Dei;
Ma de la moglie sua, ne del parente,
Tereo conto non tien, ne men di lei.
Come sfogati haver l’empio si sente
Gli abbracciamenti suoi lascivi, e rei,
Senza punto indugiar lascia le piume,
Acciò ch’ella si plachi, e chiuda il lume.
Come presa dal lupo humile agnella
Da pastori, e da can tosto riscossa,
Trema anchor de la gola ingorda, e fella,
E ’l giel corre, e ’l tremor per tutte l’ossa;
Qual la colomba humil, candida, e bella,
Cui volse far l’astor la piuma rossa,
Trema se bene è fuor d’ogni periglio,
E d’esser parle anchor nel crudo artiglio.
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Tal la stuprata Achea, poi che si vide
Fuor del letto saltar l’empio tiranno,
Tremava anchor de le sue braccia infide,
E la stessa sentia noia, et affanno.
Ma come meglio misera s’avide
Del tolto honor, del ricevuto danno,
Le chiome si stracciò, ferisse il petto,
E lasciò l’odioso, e infame letto.
E coperto del lino il corpo ignudo,
Già bello, e casto, et hor corrotto, e bello,
E fatto al corpo, e al lino un’altro scudo
D’un cinto, sciolto, e mal disposto vello,
Alza le meste luci al volto crudo,
Stracciando ambe le man l’aureo capello,
E scinta, inconta, lagrimosa, e trista
Con questo duolo il Re contento attrista.
Ó Barbaro crudel, Barbaro infido,
Barbaro per l’effetto infame, et empio.
Ó d’ogni osceno vitio albergo, e nido,
Hor quando s’udì mai si crudo scempio?
Questa è, crudel, la fe, che desti al fido
Socero tuo d’ogni pietade essempio,
Questa è al mio padre pio la data fede,
Quando piangendo à te fidommi, e diede?
Ahi come traditor ti soffrì il core,
Tal ver la tua cognata usar oltraggio,
La qual ne le tue man fidò il suo honore,
Che tenea il Tracio Re leale, e saggio.
Oime, non mosse il tuo cor traditore
La mia virginità, ne ’l mio lignaggio,
Poi che macchiò con vergognoso fregio
La data fede, e ’l sangue Attico regio.
Per dar luogo à un desire ingordo, e cieco
Privata m’hai di quel lieto soggiorno,
Che fatto in Tracia havrei co’l sangue Greco,
Che da parenti miei fu dato al giorno.
Hor come posso io più trovarmi seco,
Crudel, con questa macchia, e questo scorno?
Come vuoi più, che m’accarezze, e m’ame,
Se pellice di lei son fatta infame?
Hai rotto disleal quel giuramento,
Che dee servare ogn’huom fatto marito,
Benche l’hai fatto cento volte, e cento,
Costume antico al tuo Barbaro sito.
Ma questo torto, e questo tradimento
Potea ben contentar l’empio appetito
Con tante, che tu n’hai leggiadre, e belle,
Senza far questo scorno à due sorelle.
Prima mancasti perfido à te stesso,
Dopo al Re pio de l’Attica cohorte.
Tradisti me, e vi fu da te promesso,
Ch’illesa rivedrei la patria corte.
Ma non minor poi commettesti eccesso
Ver la pudica, e saggia tua consorte,
Tal, c’han privi d’honor l’empie tue voglie
Te, la cognata, il socero, e la moglie.
Ahi del tuo honor nemico, e del mio sangue,
Perche non togli à me l’aura, e l’accento?
Ond’è, che ’l corpo mio non rendi essangue?
Perche no’l doni à l’ultimo tormento?
Ma tu vedi come ei piangendo langue,
E sarebbe pietà torgli il lamento,
E non vuoi far di lui l’ultimo scempio,
Perch’usando pietà non sarest’empio.
Piacesse à Dio, che la mia miser’alma
Tolta à quel corpo havessi, che l’adombra,
Pria, che l’infame tua noiosa palma
Desse principio al duol, che ’l cor m’ingombra.
Ch’à l’altra vita gloriosa, et alma
Scarca d’error saria passata l’ombra.
Ma s’hor la togli al suo carnal legame,
Non se ne và più vergine, ma infame.
Ma se talhor gli Dei volgono i lumi
A l’opre nostre, al lor pensier secondo
Se qualche cosa son gli eterni Numi,
Se non è co’l mio honor perduto il mondo,
Spero veder de tuoi feri costumi
Portar tal pena al tuo terrestre pondo,
Che d’ogni ben, che ti contenta, privo
Havrai misero in odio d’esser vivo.
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Che ti giova accennarmi, ò farmi vezzi?
Io pur del voler tuo troppo m’accorgo,
Ma non fia mai, che te non odij, e sprezzi,
Per la troppa barbarie, ch’in te scorgo.
E quanto più m’accenni, e m’accarezzi,
Tanto fa il pianto mio più colmo il gorgo,
Che mi torni à memoria il duolo, e ’l danno
Nato dal tuo finto primiero inganno.
Ne sol non tacerò la tua menzogna,
Et ogni vitio tuo mentre son viva,
Ma deposto il rispetto, e la vergogna,
Di piazza, in piazza andrò, di riva in riva.
E con ogni acerbisssma rampogna
Scoprirò l’opra tua nefanda, e schiva,
E che tradì la tua barbarie ingrata
Il socero, la moglie, e la cognata.
Se starò chiusa in questo albergo infido,
In queste selve strane, in questi monti,
Il mio dolente, e ingiurioso strido
Moverà i sassi, gli arbori, e le fonti;
E tutti i vitij tuoi di grido in grido
Faro à quest’aere manifesti, e conti.
E pregol, s’alcun Nume in lui si cela,
Ch’ascolti il pianto mio, la mia querela.
Tre diero affetti assalto al Tracio petto,
Tutti in un punto, Amor, timore et ira.
Amor gli pone innanzi il gran diletto,
Che stà ne la beltà, chi in lei rimira.
Il timor, che non scopra il suo difetto,
A torla al mondo il cor barbaro inspira.
Accende nel suo cor l’ira da sezzo
L’ingiuria di colei, l’odio, e ’l disprezzo.
Può nel Signore ingiusto il timor tanto,
Ch’in dubbio stà, se dee sbandir l’Amore.
L’accende di colei l’ingiuria, e ’l pianto
Di desio, di vendetta, e di furore.
Il calor natural s’incentra intanto,
E fa bollire il sangue intorno al core.
Da la circonferentia al centro corre
Col foco il sangue, e à suo desio soccorre.
Mentre, che ’l foco intorno al core accese
L’ardor, ch’al corpo estremo venne manco;
Quel sangue, ch’al suo centro il corso prese,
Lasciò il volto crudel pallido, e bianco.
Ma il cor poi con l’usura il foco rese
Al volto, ne fu mai si rosso unquanco;
E de l’ira, che in lui si fè perfetta,
Rendè ogni estremità turbata, e infetta.
Poi c’hebbe l’ira accesa il furor mosso,
E fatto il senno à lui men fido, e saggio,
E ’l volto fè venir di bianco rosso,
E lampeggiargli ogni occhio come un raggio;
Privò del ferro il fodro, e corse adosso
A lei, che stridea anchor per farle oltraggio.
Ma Amor nel suo bel volto à por si venne,
E al suo crudo furor troncò le penne.
Ella, che ’l ferro in aria splender vede,
D’afflitta, e sconsolata vien contenta:
E, perche debbia ucciderla si crede,
Liberamente il collo gli appresenta.
In tanto Amor, che nel suo volto siede,
Contra il furor di Tereo un dardo aventa:
L’empio à quel colpo il suo ferir ritarda,
E d’ira arso, e d’Amore altier la guarda.
L’ira, e ’l furor di novo in lui s’accende,
E fuor d’ogni pietà la prende, e lega,
E non ascolta Amore, e non intende,
Che nel suo viso il rilusinga, e prega,
Hor mentre, ch’ella stride, e ’l vilipende,
E i vitij suoi con più superbia spiega.
Le pone un legno in bocca, onde non puote
Serrarla più, ne più formar le note.
Fà il legno il ponte, e toglie la parola
A lei, che i denti miseri non serra:
Poi non sò donde una tenaglia invola,
E la superba lingua invitta afferra,
In fuor la tira, e fin presso à la gola
Co’l ferro empio la taglia, e getta in terra;
La qual per l’orma heril s’aggira, e serpe,
Come coda suol far tronca dal serpe.
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Per questa via pensò l’empio tiranno
Vendicarsi di lei, che lo scherniva,
E per fuggir l’enorme infamia, e ’l danno,
Ch’ei n’era per haver, se si scopriva,
E per potersi lei goder qualch’anno,
Se ben senza parlar la tenea viva.
Ó giustitia di Dio, come permetti
Si nefandi pensier ne’ nostri petti.
Ó ferina lascivia, ò mente infame,
Più volte dopo (à pena il credo) ei volse
Seco sfogar le sue Veneree brame,
Se ben con varij moti ella se ’n dolse.
Sicuro il Re, che più non si richiame,
De lacci, onde era avinta, la disciolse,
La qual con muto, e lagrimoso duolo
Sparse di pianto, e sangue il petto, e ’l suolo.
A la più alta stanza al fin la guida,
E quivi à tutti gli occhi la nasconde,
Ad una vecchia poi le chiavi fida,
La qual con cenni soli ode, e risponde:
Parla accennando il Re, ch’ivi l’annida,
Perch’altri à veder lei non venga altronde.
E ch’à lei serva, e plachi il suo cordoglio,
Ma che non le dia mai l’inchiostro, e ’l foglio.
Vedendo il Re l’Aurora aprir le porte
Ne l’Oriente al raggio matutino,
Et havendo fidata la sua corte
Per soccorso di Cipro al mare, e al pino,
Quando volle tornarsi à la consorte,
Sconosciuto montò sopra un’ubino,
Coprì co’l manto il volto, e volse il tergo
Al rio serraglio, e giunse al regio albergo.
Sopra l’ubin giunse al palazzo, e scese
Con due staffieri Eunuchi, ch’indi tolse.
Come la giunta sua la moglie intese,
Con l’accoglienze debite il raccolse.
D’intorno Progne intanto i lumi intese,
E subito al parlar la lingua sciolse,
E dimandò de la sorella, e poi
Diè l’occhio anchor, s’alcun vedea de suoi.
Detto che l’hebbe, come la sua gente
A l’isola di Cipro havea mandata,
Per dar qualche soccorso al lor parente,
Ch’intorno al regno havea la Tiria armata;
Lasciando uscir più d’un sospiro ardente,
Disse, m’havea la tua sorella data
Il giusto padre tuo cortese, e pio
Per satisfare al tuo contento, e al mio.
Già possedea l’armata il mare Egeo,
E credea d’acquistar quel giorno Sesto,
Quando un Borea importuno il mar rendeo
Si grosso, che fe ogn’un turbato, e mesto.
E come piacque al fato iniquo, e reo,
Perche à calar l’antenna non fu presto,
Il pin, ch’ella premea, co’l popol Greco
Andò sott’acqua, e ogn’un sommerse seco.
I paggi, le donzelle, e gli altri Achivi,
Che seco il padre tuo mandati havea,
Furo involati al numero de vivi
Per mio perpetuo mal da l’onda Egea.
Che da che fur di lei gli occhi miei privi,
Per la rara virtù, ch’in lei splendea,
Io ne rimasi addolorato tanto
Ch’altro da indi in quà non fui, che pianto.
Con sospiri, e con lagrime accompagna
Il traditore il gesto, e la parola,
E ’l suo volto bugiardo irriga, e bagna,
E fede acquista à la mentita gola.
Da lui la mesta Progne si scompagna,
A tutti gli occhi subito s’invola,
E de le stanze sue chiusa ogni porta,
Piange morta colei, che non è morta.
Quivi ella apre la strada al suo lamento,
E chiama il nome suo più volte in vano,
E del mare, e de l’arbore, e del vento
Si duole, e del suo fato acerbo, e strano.
Ne manca d’accordar l’afflitto accento
Co’l suon, che rende il batter mano à mano.
E non fuor di ragion per lei si dole,
Ma non già con le debite parole.
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Che chiama, (ove dannar dovria il consorte)
Crudele, e ingiusto il vento il mare, e ’l fato.
Dove piange la sua mentita morte,
Pianger dovrebbe il suo più crudo stato.
Si veste tutta à bruno ella, e la corte,
Al tempio và di panni oscuri ornato,
E l’otiose essequie à la fals’ombra
Fà sù ’l tumul cantar, che nulla ingombra.
Hor che farà la tua pianta germana,
Che si stà ne la torre imprigionata,
Ch’esca non vuol de l’odiosa tana
Chi l’hà in custodia, il muro, e la ferrata.
Le manca per ridir la voce humana
Il torto, c’hà il Re fatto à la cognata:
Per farlo al fin sapere à la sirocchia,
Le servì il subbio, il fuso, e la conocchia.
Per rimaner dal gran dolor men vinta,
E fuggir l’otio, havea l’afflitta tolta
Bavella cruda, e seta usata, e tinta,
E in fil ridotta, e intorno al fuso avolta.
Poi ne fece lina tela, ove dipinta
Havea del Re l’ingiuria infame, e stolta,
E v’havea il caso suo talmente impresso,
Che chiaro si leggea tutto ’l successo.
Quanto contrario al tuo desir l’effetto
Fù nel formar l’industrioso panno,
Tu per alleggerir la pena al petto,
Ti desti tutta al subbio intorno à un’anno.
Ma pingendo il tuo mal, l’altrui difetto
Ti ricordo ogni punto il biasmo, e ’l danno,
E ’l tesser, che ’l tuo duol dovea far meno,
Ti fè irrigar di doppio lutto il seno.
Con sospiri infiniti, e amaro pianto
L’historiata tela al fin condusse:
Indi piegolla, e le fè intorno un manto,
Perche vista per via d’alcun non fusse.
Poi con cenni, e lusinghe operò tanto,
Ch’al fin la muta al suo voler ridusse,
E capace la fè, che quel presente
Portasse à la Reina ascosamente.
Lieta l’astuta vecchia il toglie, e ’l porta,
Che d’acquistarne il beveraggio crede,
E come spiritosa, e bene accorta
A la Reina il dà, ch’alcun no ’l vede,
E accenna, ch’entro v’è cosa, ch’importa,
E ’n ricompensa qualche cosa chiede.
La liberal Reina il cenno intende,
E contenta la muta, e ’l panno prende.
Come poi le sue luci apron le porte
Al miserabil verso, che discopre
L’obbrobrioso incesto del consorte,
E tutte l’altre sue malefich’opre,
Quanto entro l’ira il duol l’occupi forte,
Mostra il morto color, che ’l volto copre,
Bench’à cangiarsi il suo color stà poco,
E infiamma il viso suo d’ira, e di foco.
Ben disforgare il duol cerca, e lo sdegno,
Che dentro la consuma, e la disface,
Ma per non si scoprir non ne fa segno,
Ma frena il pianto, e ’l grido, e duolsi, e tace.
Come un rinchiuso acceso arido legno
Suol render maggior caldo à la fornace,
Cosi la doglia in lei chiusa, e ristretta
Rende più acceso il core à la vendetta.
Lo stupro fatto à la sorella amata,
Il tolto honore al sangue Attico regio,
L’haver la lingua toltale, e fregiata
La stirpe sua di cosi infame fregio
La rendon si rabbiosa, e disperata,
Che la sua vita non ha punto in pregio,
Ma cerca tutta imaginando intesa,
Che la vendetta superi l’offesa.
Havea tutto ’l zodiaco il Sol trascorso,
E dato il ghiaccio, e ’l foco al nostro lido,
Et ogni segno in quel viaggio occorso
Gli havea per trenta dì concesso il nido;
Et era giunto il dì, ch’allenta il morso
Al muliebre irragionevol grido;
Il dì, nel qual le donne insane vanno,
E ch’al bimatre Dio l’officio fanno.
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Quando l’afflitta Greca stava anchora
Rinchiusa, anzi sepolta in quella tomba,
Hor mentre il rito pio, che Bacco honora,
Per tutta la città suona, e rimbomba,
Et ogni donna del suo albergo fuora
Sentir fa il grido, il timpano, e la tromba,
E vanno tutte iubilando intorno
La notte destinata insino al giorno.
Progne, che in mente havea già stabilito
Di vendicar di sua soror lo scempio
Contra l’incestuoso, e rio marito
Con ogni modo più nefando, et empio,
Vide, che questa pompa, e questo rito
Con quel poter andar di notte al tempio,
Era un’occasion molto possente
Per esseguir la sua tropp’empia mente.
Come la notte à lei scopre le stelle,
E che l’altro Hemisperio acquista il lume,
E fan sonar le madri, e le donzelle
L’othone, e ’l bosso al solito costume;
Progne d’una cerviera illustre pelle
S’orna, e di tutto quel c’honora il Nume,
E corre con le serve al grido insano,
Co’l ferro cinto al fianco, e ’l Thirso in mano.
Per honorar l’illuminata notte
Da fiaccole, da torchi, e da lanterne,
Insieme van le caste, e le corrotte,
Ó siano cittadine, ò siano esterne.
Tanto, ch’allhora aperte havean le porte,
Et accresciuti i gridi, e le lucerne
Le infami donne del serraglio regio
Per goder l’antiquato privilegio.
Da Filomena in fuor non v’è, chi reste,
Che sola stà nel suo perpetuo affanno.
Che non corra à honorar l’allegre feste,
Ch’à l’inventor del vin le donne fanno.
Le violate femine, e l’honeste
Di quà, di là con la Reina vanno,
Per le parti di mezzo, e per l’estreme,
Che metter vuol le sue vassalle insieme.
Ver l’infame serraglio affretta il piede,
E fa cader la vitiosa porta,
E corre dove la sorella siede
Imprigionata anchor, ma senza scorta.
Come in stato si misero la vede
L’infelice Regina come accorta,
Che non si scopra, accenna, e ’l laccio rompe,
Ma segua lei con l’opportune pompe.
Le gitta intorno subito una vesta,
Per quei misterij accommodata, e buona,
E seguir fa la strepitosa festa,
E tutta la città corre, et introna.
Al tempio van per far quel, ch’à far resta,
Si fa l’officio pio, si grida, e suona,
Poi si torna à l’albergo, e sol ritiene
Progne l’afflitta giovane d’Athene.
Accortamente la trasfuga, e toglie,
E à l’infelice camera la mena,
Piangendo smanta le festive spoglie,
La bacia, e con le braccia l’incatena.
Non bacia, e non risponde à le sue voglie
L’afflitta, e sconsolata Filomena,
Ma il volto abassa lagrimoso, e smorto
Per haver fatto à la sorella torto.
E volendo scusar la carnal salma,
Ch’à forza venne à gli atti obsceni, e rei,
E che se ’l corpo errò, non peccò l’alma,
E non fe torto al sangue regio, e à lei;
In vece de la voce alza la palma,
E gli occhi estolle à sempiterni Dei,
E con più cenni misera si sforza
Giustificar, che le fu fatto forza.
Di quà, di là la prole Attica piange,
E del Re ingiusto si querela, e dole,
E scopre il mal, che la tormenta, et ange,
L’una con cenni, e l’altra con parole.
È ver, che questa, e quella il grido frange,
E cheta si lamenta, che non vole
Esser sentita, e ’l Re s’accusa intanto
Con taciturno grido, e muto pianto.
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Poi che ’l chiamar più volte empio, e scelesto,
E maledir la sorte iniqua, e fella,
Alzando Progne il volto irato, e mesto
Ruppe con più coraggio la favella.
Mai frutto alcun noi non trarrem da questo
Lamento, e duol mestissima sorella.
Ma il nostro mal (se trar ne vogliam frutto)
S’hà da sfogar co’l ferro, e non co’l lutto.
Non hai punto à temer, che non si mande
A fin da me questa vendetta tosto,
Che non è sceleraggine si grande,
Ch’io non vi trovi l’animo disposto.
Ó ch’à queste pareti empie, e nefande
Darò foco una notte di nascosto,
Si che veggiam, per satisfarsi un poco
Ardere il malfattore in mezzo al foco.
Ó gli trarrò quelle impudiche luci,
Ch’à l’amor scelerato aprir le porte,
E à l’empio Re fur consigliere, e duci,
Che facesse un’error di questa sorte:
Ó troncherò le mani infami, e truci,
Ch’offeser la cognata, e la consorte,
Che fecer torto al coniugale amore,
E con la lingua à te tolser l’honore.
Perch’altra donna più non sia tradita
Da lui, perch’impunito non ne vada,
Non resterò, ch’io gli torrò la vita
Ó co’l foco, ò co’l tosco, ò con la spada.
Mentre con questo dir l’offesa invita
A far che l’offensor punito cada
Iti si mostra, un’innocente figlio
Di Progne, e prender falle altro consiglio.
Viene à trovar la madre irata, e mesta
Iti (cosi il nomar) con lieto viso,
E per haver da lei carezze, e festa
La guarda, e madre appella, e move il riso.
La madre infuriata il guardo arresta
Nel noto volto, e con tropp’empio aviso
(Poi che rivolse gli occhi à Filomena)
Disse con maggior rabbia, e maggior pena.
Quanto simiglia al padre empio, e tiranno
Questa infin da fanciullo iniqua vista,
Quanta vuol far’anch’ei vergogna, e danno
Altrui, se gli anni mai del padre acquista.
Anch’egli renderà con forza, e inganno
La moglie, e la cognata afflitta, e trista.
Questi, sorella, è la dannosa prole
Di chi l’honor ti tolse, e le parole.
Bagna di doppio pianto allhor le gote
La sorella minor, che le soviene
Quanto bramò veder questo nipote
Quando lasciò la mal lasciata Athene.
Hor vede lui, sente le balbe note,
E vorria fargli vezzi, e si ritiene.
L’amor del sangue à ciò l’instiga, e accende,
Ma l’odio, e l’error Tracio la riprende.
E tanto più, che vede il fero aspetto,
Onde la madre ingiuriata il mira,
Che teme non le dar noia, e sospetto,
Tal che per cagion doppia si ritira.
Si gitta disperata sopra un letto,
E con doppio dolor piange, e sospira,
Dove in Grecia pensò, che quel fanciullo
Esser dovesse in Tracia il suo trastullo.
Si china intanto l’empia genitrice,
E distende al figliuol l’inique braccia,
Per far la sceleraggine infelice,
Ch’al figlio, e al genitor danno minaccia.
L’innocente figliuol si porge, e dice
Più volte madre, e poi dolce l’abbraccia,
E non sapendo il mal, ch’ella l’appresta,
La bacia, le ragiona, e le fa festa.
Come il dolce figliuol la lingua move
Ver lei vinta da l’ira, e da la doglia,
E le fa mille scherzi, e mille prove
A fin, che dolcemente ella il raccoglia;
Una nova pietà si la commove,
Che la fa lagrimar contra sua voglia,
E l’ira, che nel volto havea dipinta,
Fù da nova pietà scacciata, e vinta.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||sesto.|109}}</noinclude><poem>
Ma rivolgendo à la sorella il ciglio,
Che si duol senza lingua, e senza honore,
Non può in lei tanto la pietà del figlio,
Quanto il doppio di lei danno, e dolore.
L’instiga l’ira al primo empio consiglio,
E la nova pietà scaccia dal core,
E havendo in questa, e in quel le luci intese,
Disse in favor de le nov’ire accese.
Questi hà ben per chiamar la voce humana
Madre l’afflitta moglie di Tereo,
Ma questa non può già chiamar germana
Colei, che seco uscì d’un ventre Acheo.
E sarebbe pietà tropp’inhumana
Usare ad huom pietà malvagio, e reo,
Contra lo sposo mio di pietà ignudo
Sarà pietade ogni atto horrendo, e crudo.
Come tigre crudele al bosco porta
Il parto d’una damma, ò d’una cerva,
Cosi dove men puote essere scorta,
Porta il figliuol la madre empia, e proterva:
E à lui, che madre chiama, e la conforta
A perdonargli, e l’accarezza, e osserva,
Mentre più l’allusigna, e più la prega,
Co’l ferro baccanal la gola sega.
Bastò un sol colpo à la sua debil carne,
Hor Filomena, à cui prima ne ’ncrebbe,
Vedendo da chi il fè tal stratio farne
Scacciò quella pietà, che prima n’hebbe,
E volendo co’l grido inditio darne,
Mancò la lingua, e la sua furia accrebbe;
E corse anch’ella infuriata, e in fretta
A far di quel figliuol stratio, e vendetta.
Scopre il suo core allhor l’ingiusta madre,
E d’accordo di pasta un vaso fanno,
E le sue membra già vaghe, e leggiadre
Tagliate in mille pezzi al vaso danno,
Ch’in mensa il voglion porre innanzi al padre,
E dopo farlo accorto del suo danno,
E per lo fallo altrui si taglia, e spolpa
Il misero garzon, che non n’hà colpa.
Senza scarnarla sol lascian la testa
Perche vederla intera il padre possa,
Tutta macchiata è la stanza funesta
De l’innocente sangue, e sparsa d’ossa.
Tosto l’asconde, e chiude in una cesta
Colei, che del parlare è ignuda, e scossa.
L’altra segretamente al foco accosta
La pasta che la carne entro hà nascosta,
Ascosa stà nella macchiata cella
Serrata à chiave l’infelice muta,
E ’ntanto l’altra troppo empia sorella
L’incauto sposo suo trova, e saluta.
E con la dotta sua Greca favella
Sà far tanto co’l Re, che non rifiuta
Di far il baccanal convito seco
Secondo il patrio suo costume Greco,
Là dove suol ne l’hora matutina,
Che segile dopo il celebrato officio,
Gire à mangiare il Re con la Reina
De varij cibi offerti al sacrificio;
Ver l’infelici stanze il Re camina,
Che dier ricetto à l’empio maleficio,
Quivi s’asside à le mense nefande,
Dov’eran con l’humane altre vivande.
Restar fa ogni huom di fuor l’iniqua moglie,
E fa servire il Re da le donzelle,
Diversi cibi anch’ella in bocca toglie,
Ma non le paste insidiose, e felle.
L’incauto Re compiace à le sue voglie,
E và gustando hor queste cose, hor quelle,
Tal, che ’l misero al fin per suo consiglio,
Apre la pasta rea, ch’asconde il figlio.
Gode l’empia consorte, quando vede,
Ch’apre l’iniqua pasta, e vuol gustarne,
E l’infelice padre, che le crede,
Nutrisce se de la sua propria carne.
Del figlio intanto il miser padre chiede,
Che spesso à mensa suol diletto trarne,
Dimanda dove sia, perche non viene
Ad osservare il rito anch’ei d’Athene?
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Dissimular può à pena il petto infido
Progne, e risponde per maggior suo scorno;
Tuo figlio è teco entro al tuo proprio nido.
Dà gli occhi il vecchio incauto d’ogn’intorno
Poi ridice, io no’l veggio, ell’alza il grido;
Ben’hanno gli occhi tuoi perduto il giorno:
Può far malvagio, e rio, che sia si cieco,
Che non vegga il tuo figlio, havendol teco.
E dando forza al grido infuriato
Lascia l’usanza Greca infetta, e guasta,
E segue. Il tuo figliuolo empio hai mangiato
Secondo egli era cotto in quella pasta.
La sorella esce allhor da l’altro lato
Con la testa, ch’intera era rimasta,
La mostra al miser vecchio, e ’l braccio sciolto,
Fà, che percote il figlio al padre il volto.
Subito assalta il Re Megera, e Aletto,
E fa la mensa riversar sul suolo,
Ne potendo dar fuor, quel c’hà nel petto,
Vendicar cerca il misero figliuolo.
Lascian le Greche allhor l’iniquo tetto,
E van fuor d’un balcon per l’aria à volo,
Le quai volgendo à le lor membra il lume,
Si veggono men grandi haver le piume.
Il dolor co’l desio de la vendetta
Rendon l’offeso Re si crudo, e insano,
Ch’anch’ei fuor del balcon si lancia, e getta
Per punir quelle due co’l ferro in mano,
E mentre, che per l’arla anch’ei s’affretta,
E si sostien per non cader su’l piano,
Come à le Greche insidiose avenne,
Vede le membra sue vestir di penne.
Lascia il ferro crudel l’irato artiglio,
Et à la bocca un lungo rostro innesta,
L’armano molte penne intorno il ciglio,
Et hà l’insegne regie anchora in testa,
E dimostra il dolor, ch’egli hà del figlio
Con la sdegnata vista atra, e molesta.
Upupa alza la cresta, e bieco mira,
E mostra il cor non vendicato, e l’ira.
Nel più propinquo bosco entra, e s’asconde
La Greca, che restò senza favella,
La lingua hoggi hà spuntata, e corrisponde
In parte à la sua sorte iniqua, e fella,
Piangendo và il suo duol di fronde in fronde
Con una melodia soave, e bella.
Tien del suo incesto anchor vergogna, e cura,
E non osa albergar dentro à le mura.
Progne, che diede à la vendetta effetto,
E fu d’ogni altro error monda, e innocente,
Il nido tornò à far nel regio tetto,
E non hebbe vergogna de la gente.
Del sangue del figliuol anchora hà il petto
Macchiato, e se talhor le torna à mente,
Tanta pietà per lui la move, e ancide,
Che si querela un pezzo, e al fine stride.
Come corre à ingombrar l’Attica corte
La trista fama, e ’l miserabil caso,
E come fersi augei di varia sorte,
E del cotto fanciullo entro à quel vaso;
Occupò Pandione il duol di sorte,
Che ’l fece innanzi tempo ire à l’occaso:
E poi che fu donato à l’urna, e al foco,
Fù dato ad Eritteo lo scettro, e ’l loco.
Questi con tal prudentia il regno resse,
Tanto benigno fu, tanto cortese,
E contra ogni nemico, che l’oppresse,
Si valorosamente si difese,
Che qual titol d’honor meglio à lui stesse,
Qual fosse in lui maggior, non fu palese,
De le virtù, che si lodato il fenno,
Ó la giustitia, ò la fortezza, ò ’l senno.
Costui di quattro giovani fu padre,
E d’altrettante figlie adorne, e belle:
Fra quai ve ne fur due tanto leggiadre,
Che aggiunger non v’havria potuto Apelle.
L’amate da la Dea d’Hespero madre,
Procri sposò di queste due sorelle,
L’altra detta Orithia di maggior zelo,
Vide accender di se l’auttor del gielo.
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Ben’è maggior l’amor, che Borea accende,
Poi che ’l fa più superbo, e men leale.
Un dì mentre per l’aria il velo ei stende
Tutto di ghiaccio il crin, la barba, e l’ale,
E toglie (tanto il freddo ogni uno offende)
Quasi à gli occhi del cielo ogni mortale,
Con altre assai questa fanciulla vede,
Che fan su’l ghiaccio sdrucciolare il piede.
Mentre di rimirar gode quel gioco,
E per non le turbar non soffia, e tace,
In mezzo à tanto ghiaccio accese il foco
Nel freddo core Amor con la sua face:
E si cresce la fiamma à poco, à poco,
Che ’l giel, c’hà intorno, in pioggia si disface,
Tanto, che ’l giel, che si risolve, e fonde,
A gli occhi suoi quella fanciulla asconde.
Ritorna in Tracia à la sua patria corte,
E sentendo la fiamma ogni hor più ardente,
Si consigliò di chieder per consorte
La vergine, ond’egli arde, al suo parente.
Subito fa, che l’ambasciata porte
Fra tutti i suoi vassalli il più prudente.
Il qual con grand’honor giunto in Athene
Dimanda al Re la figlia, e non l’ottiene.
Fu in ogni tempo antico odio, e rancore
Fra ’l sangue Tracio, e l’Attico lignaggio,
Ma l’odio Greco havea fatto maggiore
Il novo fatto à Filomena oltraggio.
Tal, che ’l novo de Greci Imperadore
L’ambasciadore udì con mal coraggio,
E senza celar l’odio, ò farne scuse
Le nozze Tracie à la scoperta escluse.
L’ambasciador rapporta al Tracio vento
L’odio e ’l disprezzo da l’Imperio Greco:
E che preghi, promesse, oro, et argento
Non poter far, ch’imparentasse seco.
Guardo l’irato Borea, e mal contento
Ver Grecia con un guardo oscuro, e bieco,
E sottoposto à l’ire, et à l’offese
Cosi lo sdegno suo fece palese.
Deh perche l’arme mie poste hò in oblio,
E ’l mio poter, ch’ogni potentia sforza,
Perche vo usar contra il costume mio
Lusinghe, e preghi, in vece de la forza?
Io son pur quel temuto in terra Dio,
Che soglio al mondo far di giel la scorza:
Che quando per lo ciel batto le piume,
Cangio la pioggia in neve, e ’n ghiaccio il fiume.
Tutto à l’immensa terra imbianco il seno,
Quando in giù verso il mio gelido lembo,
E come à la mia rabbia allento il freno,
Apro il mar fino al suo più cupo grembo,
E per rendere al mondo il ciel sereno,
Scaccio da l’aere ogni vapore, e nembo:
E quando in giostra incontro, e che ’l percoto
Vinco, et abbatto il nero horrido Noto.
Quando l’orgoglio mio per l’aria irato
Scaccia i nembi vers’Austro, e soffia, e freme,
E ’l forte mio fratel da l’altro lato
Altre nubi ver me ributta, e preme,
E che questo, e quel nuvolo è sforzato
Nel mezzo del camin d’urtarsi insieme,
Io pur quel son, che con horribil suono
Fo uscirne il foco, la saetta, e ’l tuono.
Non solo il soffio mio gli arbori atterra,
Ma sia palazzo pur fondato, e forte.
E se talhor m’ascondo, e sto sotterra
Nel tetro carcer de le genti morte;
Fo d’intorno tremar tutta la terra,
S’io trovo à l’uscir mio chiuse le porte,
E fin, ch’io non essalo à l’aria il vento,
Di tremore empio il mondo, e di spavento.
Non dovea farlo mai, ne si conviene
Al mio poter d’usar lusinghe, ò preghi,
Chieder la figlia à un picciol Re d’Athene,
E dargli occasion, che me la neghi.
Non si disdice à me, ch’à tanto bene
Contra il voler di lui m’unisca, e leghi,
A me stà ben con simili persone
Usar la volontà per la ragione.
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Ben’è maggior l’amor, che Borea accende,
Poi che ’l fa più superbo, e men leale.
Un dì mentre per l’aria il velo ei stende
Tutto di ghiaccio il crin, la barba, e l’ale,
E toglie (tanto il freddo ogni uno offende)
Quasi à gli occhi del cielo ogni mortale,
Con altre assai questa fanciulla vede,
Che fan su’l ghiaccio sdrucciolare il piede.
Mentre di rimirar gode quel gioco,
E per non le turbar non soffia, e tace,
In mezzo à tanto ghiaccio accese il foco
Nel freddo core Amor con la sua face:
E si cresce la fiamma à poco, à poco,
Che ’l giel, c’hà intorno, in pioggia si disface,
Tanto, che ’l giel, che si risolve, e fonde,
A gli occhi suoi quella fanciulla asconde.
Ritorna in Tracia à la sua patria corte,
E sentendo la fiamma ogni hor più ardente,
Si consigliò di chieder per consorte
La vergine, ond’egli arde, al suo parente.
Subito fa, che l’ambasciata porte
Fra tutti i suoi vassalli il più prudente.
Il qual con grand’honor giunto in Athene
Dimanda al Re la figlia, e non l’ottiene.
Fu in ogni tempo antico odio, e rancore
Fra ’l sangue Tracio, e l’Attico lignaggio,
Ma l’odio Greco havea fatto maggiore
Il novo fatto à Filomena oltraggio.
Tal, che ’l novo de Greci Imperadore
L’ambasciadore udì con mal coraggio,
E senza celar l’odio, ò farne scuse
Le nozze Tracie à la scoperta escluse.
L’ambasciador rapporta al Tracio vento
L’odio e ’l disprezzo da l’Imperio Greco:
E che preghi, promesse, oro, et argento
Non poter far, ch’imparentasse seco.
Guardo l’irato Borea, e mal contento
Ver Grecia con un guardo oscuro, e bieco,
E sottoposto à l’ire, et à l’offese
Cosi lo sdegno suo fece palese.
Deh perche l’arme mie poste hò in oblio,
E ’l mio poter, ch’ogni potentia sforza,
Perche vo usar contra il costume mio
Lusinghe, e preghi, in vece de la forza?
Io son pur quel temuto in terra Dio,
Che soglio al mondo far di giel la scorza:
Che quando per lo ciel batto le piume,
Cangio la pioggia in neve, e ’n ghiaccio il fiume.
Tutto à l’immensa terra imbianco il seno,
Quando in giù verso il mio gelido lembo,
E come à la mia rabbia allento il freno,
Apro il mar fino al suo più cupo grembo,
E per rendere al mondo il ciel sereno,
Scaccio da l’aere ogni vapore, e nembo:
E quando in giostra incontro, e che ’l percoto
Vinco, et abbatto il nero horrido Noto.
Quando l’orgoglio mio per l’aria irato
Scaccia i nembi vers’Austro, e soffia, e freme,
E ’l forte mio fratel da l’altro lato
Altre nubi ver me ributta, e preme,
E che questo, e quel nuvolo è sforzato
Nel mezzo del camin d’urtarsi insieme,
Io pur quel son, che con horribil suono
Fo uscirne il foco, la saetta, e ’l tuono.
Non solo il soffio mio gli arbori atterra,
Ma sia palazzo pur fondato, e forte.
E se talhor m’ascondo, e sto sotterra
Nel tetro carcer de le genti morte;
Fo d’intorno tremar tutta la terra,
S’io trovo à l’uscir mio chiuse le porte,
E fin, ch’io non essalo à l’aria il vento,
Di tremore empio il mondo, e di spavento.
Non dovea farlo mai, ne si conviene
Al mio poter d’usar lusinghe, ò preghi,
Chieder la figlia à un picciol Re d’Athene,
E dargli occasion, che me la neghi.
Non si disdice à me, ch’à tanto bene
Contra il voler di lui m’unisca, e leghi,
A me stà ben con simili persone
Usar la volontà per la ragione.
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{{Ct|f=120%|v=1|t=3|ANNOTATIONI DEL QUARTO LIBRO.}}
Non crederò che voglia significar altro la favola de Alcithoe, e delle sorelle che spreggiando i sacrifici e i giuochi di Baccho, si danno all’essercitio del filare, e per pascere ancora l’intelletto, che non andasse vagando, mentre che filavano, in diverse cose inutili, incominciano à narrare delle favole; se non che conoscendo la castità figurata per Alcithoe quanto le siano fieri nemici il vino, e l’ocio, tenta spreggiando il sciocco piacere del bevere soverchiamente, e col continuo essercitio di difendersene, e conservarse, nel vigore della sua propria virtù, dove si vede con quanta vaghezza habbi l’Anguillara descritta l’arte del filare, in quella stanza, Ragiona, e in tanto industriosa e presta: che da a credere cosi ha servato il decoro di trasformarse in quella che fa quell’essercitio, come che fosse stato, come le disse una gentildonna leggendo la medesima stanza, altre volte femina.
Gli amori di Piramo, e Tisbe narrati da Alcithoe, sono con ogni maniera di leggiadria rapresentati da l’Anguillara; che le va con la felicità del suo stile, facendo ricchi di spiriti, di affetti, di conversioni, di comparatione, di descrittioni e de ogni ornamento poetico, onde si può veramente dire, che si sia, cosi in questa, come in tutte l’altre sue rapresentationi, tutto trasformato nello spirito di Ovidio, ilquale quando havesse havuto a scrivere la historia di questi dui infelici amanti in questa nostra lingua Italiana, so che non l’haverebbe potuta vestire di piu vaghi et artificiosi ornamenti, di quelli che si scoprono, nella poesia dell’Anguillara; ilquale descrive felicemente cosi la bellezza de Piramo, nella stanza; Fra i piu lodati giovani del mondo, come ancora quella di Tisbe in quella; Et s’ei tutti eccedea di quell’etade. Vaga conversione a i padri de gl’inamorati, è quella della stanza, O sfortunati padri ove tendete, come è ancor quella al muro che rafredava gli accesi desideri de i giovanetti amanti, nella stanza, Dhe perche non ti muovi a nostri preghi. Come scopre poi gli affetti cosi del giovane, come di Tisbe, mentre che attendevano l’hora, nella quale speravano di dar compimento a i loro focosi amori nella stanza, Chi potria dire ogni amorosa cura, e in quelle che seguono, si vede ancora bellissima la conversione che fa a Tisbe, dicendo Che voi far infelice aspetta ancora. Bellissima è la conversione fatta alla Luna, nella stanza Dhe Luna ascondi il luminoso corno; come è ancora quella, a Piramo poco piu oltre Dhe non dar fede misero a quel panno, bellissima, è molto affettuoso è il cordoglio del giovane che incomincia nella stanza Come recuperar la voce puote girando le sue dogliose parole, quando alla morte, quando alle stelle, quando a i cieli, quando alle fiere, quando alle vesti dell’amata Tisbe, quando al leone, e quando a se stesso. E molto vaga ancora la conversione che fa il poeta alle stelle nel voler Piramo porsi la punta della spada nel petto, nella stanza: Appoggia in terra il pomo della spada; come è ancora vaga quella a Tisbe, nella stanza: O sventurata, e dove ti conduce, insieme con l’ultime parole piene di varie affetti, molto vagamente rapresentati de gl’infelici amanti che si legono nelle stanze che seguono. Come medesimamente si vede ancora rapresentato felicmente l’epitafio di quelli infelici amanti: nella stanza: Qui stan Piramo, e Tisbe amansi e danno.
Finito che hebbe Alcithoe di narrare gl’infelici amori di Piramo e Thisbe, dovendo Leucotoe, narrare la sua novella; continuando l’Anguillara, nel dimostrare la forza del suo ingegno intorno il rapresentare, dove se gli apresenta l’occasione, rapresenta quivi molto minutamente l’essercitio donnesco del cuscire, e del lavorare, sopra la tella, con tanta vivacità che fa vergognare molte donne, che vedono che ne fa molto piu in questa parte che esse non ne fanno porre in opera; incominciando nella stanza: Conchiusa che hebbe Alcitoe la novella, e continuando nelle seguenti; fino a quella: Se ben con tanto studio e con tant’arte.
La favola di Marte, e di Venere colti da la rete artificiosa di Vulcano in adulterio; e veduti da i Dei con grandissimo piacer loro; che ci può dare altro ad intendere; se non che quel focoso desiderio naturale di stringerse insieme con la donna, figurato per Venere, essendo unito dal calore naturale figurato per Vulcano; non ne può trare quel piacere che vorrebbe, onde mentre va<noinclude></noinclude>
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{{Ct|f=120%|v=1|t=3|ANNOTATIONI DEL QUARTO LIBRO.}}
<div class=note>
Non crederò che voglia significar altro la favola de Alcithoe, e delle sorelle che spreggiando i sacrifici e i giuochi di Baccho, si danno all’essercitio del filare, e per pascere ancora l’intelletto, che non andasse vagando, mentre che filavano, in diverse cose inutili, incominciano à narrare delle favole; se non che conoscendo la castità figurata per Alcithoe quanto le siano fieri nemici il vino, e l’ocio, tenta spreggiando il sciocco piacere del bevere soverchiamente, e col continuo essercitio di difendersene, e conservarse, nel vigore della sua propria virtù, dove si vede con quanta vaghezza habbi l’Anguillara descritta l’arte del filare, in quella stanza, ''Ragiona, e in tanto industriosa e presta:'' che da a credere cosi ha servato il decoro di trasformarse in quella che fa quell’essercitio, come che fosse stato, come le disse una gentildonna leggendo la medesima stanza, altre volte femina.
{{Sc|Gli}} amori di Piramo, e Tisbe narrati da Alcithoe, sono con ogni maniera di leggiadria rapresentati da l’Anguillara; che le va con la felicità del suo stile, facendo ricchi di spiriti, di affetti, di conversioni, di comparatione, di descrittioni e de ogni ornamento poetico, onde si può veramente dire, che si sia, cosi in questa, come in tutte l’altre sue rapresentationi, tutto trasformato nello spirito di Ovidio, ilquale quando havesse havuto a scrivere la historia di questi dui infelici amanti in questa nostra lingua Italiana, so che non l’haverebbe potuta vestire di piu vaghi et artificiosi ornamenti, di quelli che si scoprono, nella poesia dell’Anguillara; ilquale descrive felicemente cosi la bellezza de Piramo, nella stanza; ''Fra i piu lodati giovani del mondo'', come ancora quella di Tisbe in quella; ''Et s’ei tutti eccedea di quell’etade''. Vaga conversione a i padri de gl’inamorati, è quella della stanza, ''O sfortunati padri ove tendete'', come è ancor quella al muro che rafredava gli accesi desideri de i giovanetti amanti, nella stanza, ''Dhe perche non ti muovi a nostri preghi''. Come scopre poi gli affetti cosi del giovane, come di Tisbe, mentre che attendevano l’hora, nella quale speravano di dar compimento a i loro focosi amori nella stanza, ''Chi potria dire ogni amorosa cura'', e in quelle che seguono, si vede ancora bellissima la conversione che fa a Tisbe, dicendo ''Che voi far infelice aspetta ancora''. Bellissima è la conversione fatta alla Luna, nella stanza ''Dhe Luna ascondi il luminoso corno''; come è ancora quella, a Piramo poco piu oltre ''Dhe non dar fede misero a quel panno'', bellissima, è molto affettuoso è il cordoglio del giovane che incomincia nella stanza ''Come recuperar la voce puote'' girando le sue dogliose parole, quando alla morte, quando alle stelle, quando a i cieli, quando alle fiere, quando alle vesti dell’amata Tisbe, quando al leone, e quando a se stesso. E molto vaga ancora la conversione che fa il poeta alle stelle nel voler Piramo porsi la punta della spada nel petto, nella stanza: ''Appoggia in terra il pomo della spada''; come è ancora vaga quella a Tisbe, nella stanza: ''O sventurata, e dove ti conduce'', insieme con l’ultime parole piene di varie affetti, molto vagamente rapresentati de gl’infelici amanti che si legono nelle stanze che seguono. Come medesimamente si vede ancora rapresentato felicmente l’epitafio di quelli infelici amanti: nella stanza: ''Qui stan Piramo, e Tisbe amansi e danno''.
{{Sc|Finito}} che hebbe Alcithoe di narrare gl’infelici amori di Piramo e Thisbe, dovendo Leucotoe, narrare la sua novella; continuando l’Anguillara, nel dimostrare la forza del suo ingegno intorno il rapresentare, dove se gli apresenta l’occasione, rapresenta quivi molto minutamente l’essercitio donnesco del cuscire, e del lavorare, sopra la tella, con tanta vivacità che fa vergognare molte donne, che vedono che ne fa molto piu in questa parte che esse non ne fanno porre in opera; incominciando nella stanza: ''Conchiusa che hebbe Alcitoe la novella'', e continuando nelle seguenti; fino a quella: ''Se ben con tanto studio e con tant’arte''.
{{Sc|La}} favola di Marte, e di Venere colti da la rete artificiosa di Vulcano in adulterio; e veduti da i Dei con grandissimo piacer loro; che ci può dare altro ad intendere; se non che quel focoso desiderio naturale di stringerse insieme con la donna, figurato per Venere, essendo unito dal calore naturale figurato per Vulcano; non ne può trare quel piacere che vorrebbe, onde mentre va<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>crescendo, s’infiamma di modo che spreggiando quella sua prima unione col calor naturale, ama di congiungerse a tempo con quello di Marte che gli è molto piu simile, per la soverchia caldezza e corrispondenza di amore che hanno insieme; congiunti dunque, si pigliano piacere insieme. Ma perche difficilmente possono star coperte le fiamme d’amore, sono scoperti dal Sole, che non è altro che la prudentia; che gli scopre al calore naturale, ilquale alterato per la indignità della cosa, fabrica loro una rete artificiosa, di pensieri secreti, piaceri lascivi, e dishoneste dilettationi; di modo che havendoli colti; gli scopre poi a tutto il mondo, con riso, e scherno d’ogn’uno, in quei vili, e dishonesti abbracciamenti. Però si dice che Venere alloggiò le furie nelle case di Marte, lequali secondo gli Astrologi, sono il Montone, e lo Scorpione che viene a dire, che quando è la Primavera, tutti gli animali sono infuriati per la gran noia; le conduce ancora nella casa dello Scorpione, segno maligno, e mortale, perche gl’innamorati senteno il piu delle volte le furie de’ noiosi e maligni pensieri; e per un breve piacere, gustano mille morti, e tal’hora sono cosi alterati dalle furie, che si danno al morte con veneno, laccio, o coltello; che Venere habbia poi sempre in odio la progenie del Sole che scopre i suoi amori non vuol dire altro, se non che quell’apetito sfrenato del coito, è nemico della prudenza; e del giudicio; conoscendo che questi gli levano con i loro avertimenti gran parte del piacere, però si suol dire che le donne amano molto piu i loro amanti in questa parte dello sfogare l’appetito, pazzi, e spensierati, che i saggi, e i prudenti. È bella a maraviglia la rapresentatione che fa l’Anguillara, del piacere del congiungerse nella stanza: ''Hor mentre ha in colmo il suo contento il tatto''. Bellissima comparatione è ancora quella sua; dicendo, ''Come se da’ Pirati alcuno è preso''.
{{Sc|La}} favola di Leucotoe, può essere intesa in modo che vi sia fra i popoli di Achemenia un luogo abondantissimo d’incenso; chiamato di questo nome; è amato dal Sole, che piglia la simiglianza della madre per godere dell’amor suo, perche si trasforma il Sole nella complessione giovevole, per nodrire le verghe dell’incenso; congiungendose di maniera con l’humidità della terra; che piantandovisi delle piante, subito pigliano, e crescono; si vede quivi con quanta vaghezza il poeta volgare descrive gli affetti dell’amore del Sole, non senza bellissimi giri di Astrologia; ne’ quali spende ingeniosamente alcune stanze; vaga ancora è la conversione che fa al medesimo Sole nella stanza: ''L’hore del sonno in pensier passi'' e in pianti come medesimamente vaga la descrittione de’ modi delle corti in quella, ''Della gente confusa, et indistinta'' e nella seguente. Chi vide mai piu bella comparatione, e piu ingeniosa di quella ''Come se al cavo specchio il Sole da il lume''.
{{Sc|La}} metamorfosi di Clitia, non significa altro che l’infelicità de gl’inamorati, i quali alterati sovente dalla gelosia si ragirano intorno la cosa amata temendo di perderla, come l’helitropio si ragira intorno i raggi del Sole.
La favola di Daphnide, proposta da Minea; che fu per gelosia dalla Ninfa Thalia trasformato in sasso, non si trova descritta da alcuno autore, ancora che Theocrito, e {{Ac|Publio Virgilio Marone|Virgilio}} piangono la sua dura sorte, Diodoro ancora scrive di Daphnide figliuolo di Mercurio che fu privo della luce de gli occhi per gelosia da una Ninfa; che è il medesimo che trasformarlo in sasso, non essendo molto differente l’huom cieco, dall’huomo di Pietra; meno si trova la favola di Scithone, che fu tal’hora maschio, e talhora femina; ancora che si legga di un Scithone signore in Thracia ilquale havendo una figliuola detta Pallene desiderata da molti, invitò tutti quelli che l’amavano à combattere con esso lui, promettendo quello che rimaneva vittorioso, havrebbe per mogliera sua figliuola; ma non potendo poi Scithone sostenire per la sua molta età la pugna, per compiacere la figliuola, fece combatter insieme Clito, e Dima giovani valorosi; promettendola al vincitore, essendo poi la giovane piu inclinata a Clito che all’altro operò, che quello guidava la carretta di Dima; lasciasse l’Asse della caretta senza alcuna fermezza, onde correndo l’infelice giovane cade morto, e Clito vittorioso godè dell’amore di Pallene, dopo che fuggì dalle mani di Scithone che la voleva abrucciare, insieme col corpo di Dima coperta da una folta pioggia; non ha alcuna simiglianza questa con la novella che intendeva di narrar Minea, ma l’ho voluta porre, perche si vede quanto si può addurre di questa favola senza autore.
{{Sc|Meno}} si trova la trasformatione di Celmo amato da Giove in un diamante, per sdegno della madre, ne come fossero creati, de i fonghi i cureti dalle pioggie ancora che alcuni habbino voluto fingere, che fossero spenti, per il dispregio della religione, dalle pioggie, e che fussero<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||75}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>poi rinovati di fonghi a fin che la religione non venisse meno. Ma non essendo questa loro fittione sostentata da alcuna autorità, credero che non sia da farvi sopra molto fondamento. Gli amori poi di Croco, e di Smilace, che furono ambidoi conversi in fiori, non havendo potuto goderse insieme, meno si legono in alcuno certo autore. Si legge bene di Salmace fonte di Caria; è questa qualità gli fu data a preghi di Hermafrodito figliuolo di Mercurio, e di Venere, giovane bellissimo, il quale essendo entrato nel fonte di Salmace ninfa; fu di modo stretto da essa, che di dui corpi se ne fece un solo che havea l’uno, e l’altro sesso, onde vedendose Hermafrodito huomo, e donna chiese in gratia a i suoi genitori che divenissero simili a lui tutti quelli che si bagnavano in quel fonte, e l’ottenne, e da indi in poi vedendose gli effetti di quell’aque era chiamato da ogni uno quel luogo infame.
{{Sc|La}} secreta intelligentia di questa favola, secondo alcuni è che nelle matrici delle donne sono sette le stanze che ricoglino il seme dell’huomo, tre dalla parte destra, che producono i maschi, e tre dalla sinistra che producono le femine et una nel mezzo, laquale riccogliendo il seme ha forza di produre l’uno e l’altro sesso insieme, e per questa cagione vogliono dire che Hermafrodito nascesse di Mercurio, havendo Venere raccolto il seme in quella stanza di mezzo, e pero sono chiamati e sono Hermafroditi tutti quelli che sono concetti nella medesima stanza. Altri hanno voluto dire che viene detto questo di Mercurio perche fra gli altri pianeti, è maschio con i maschi, e femina con le femine, onde quelli che l’hanno al nascer in ascendente, che non habbi l’oppositione d’altro pianeta, sono molto vaghi del piacere dell’uno, e dell’altro sesso.
{{Sc|Le}} sorelle Thebane che dispregiano i sacrifici di Baccho cangiate in vespertigli, crederò che siano quegli infelici che non gustano il soavissimo liquore del vino, ne fanno giamai lucidi, e vivaci i suoi spiriti col suo sapore, però i loro spiriti a simiglianza di Vespertigli non soportano il lume, anzi vanno sempre vagando per le tenebre delle cose vili, e basse.
{{Sc|Vaga}} descrittione è quella dell’Anguillara, delle passioni, e travagli humani, che sono nell’entrata dell’inferno nella stanza: ''V’è la crudel vendetta, e ’l mesto pianto;'' e nelle seguenti, come è ancora vaga la comparatione della stanza Qual da piu regioni l’acque de i fiumi, insieme con quell’altra poco piu giu della stanza; ''Qual s’una Ninfa al vento il tergo volta''.
{{Sc|L’allegoria}} della favola di Athamante, è che Frisso et Helle figliuoli di Neifile, per opra di Ariete che nodriva Friso fuggirono di consentimento del padre col thesoro, e le cose di piu valore l’odio de Ino loro matrigna; laquale sdegnata fece una congiura di tutti i baroni del regno contra Athamante come distruttore del thesoro reale, salì Athamante come prima se n’avide in tanta furia, che amazzò tutti i figliuoli partoriti da Ino: laquale fuggendo con Melicerta; si gettò nel mare, onde diedero nome a i dui scogli sopra i quali furono posati i loro corpi, chiamati l’uno Leucotoe, e l’altro Palemone overo perche furono trasformati per opera di Venere in questi dui Dei Marini Ino in Matuta, e Melicerte in Portuno. Altri per il thesoro che portorono Frissa, et Helle fuggendo l’ira d’Ino con buona licentia del padre hanno voluto dire che fosse un montone co ’l vel d’oro, come cosa piu verissimile, e che Helle cadendo nell’aque, diede nome a quella parte di mare che si chiama hoggi di Helesponto e che giungendo Frisso salvo a Oeta Re de Colchi essendo stato amichevolmente raccolto da esso, consacrò a Marte il suo montone d’oro, che viene a dire che i Re saggi dedicano i loro thesori, alle guerre, per esser Marte Dio della guerra.
{{Sc|Le}} compagne de Ino che la seguirono mentre fuggiva l’ira di Athamante trasformate in sassi per havere sparlato cosi liberamente di Giunone, ci fa conoscere che dobbiamo star cheti, e non sparlare de i Re, e de i principi grandi che possono a voglia loro farci divenire muti, e freddi come sassi.
{{Sc|La}} trasformatione di Cadmo, e della mogliera sua, ambidoi vecchi in serpenti, da che essendo scacciati del regno d’Amphione, e da Tetho, fuggirono nella Schiavonia, significa che quanto piu invecchiamo tanto piu divenimo prudenti; perche questi animali co ’l testimonio del sacro evangelio sono figurati per la prudentia dicendoci il nostro Servatore; siate prudenti come i serpenti, e semplici come colombe, vagamente descrive l’Anguillara il lamento di Cadmo, nella stanza, ''Ohime poi disse, ohime superno Iddio'', come è ancora descritta vagamente la tras-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>formatione di amboi quei vecchi in serpenti.
{{Sc|La}} favola di Danae corrotta da Giove in pioggia d’oro, ci da ad intendere che questo tanto stimato metallo sforza le altissime mura, i castissimi petti, la fede, l’honore, e tutte quelle cose che sono di maggior pregio, e stima in questa vita.
{{Sc|Perseo}} che sopra il Pegaseo va all’impresa di Medusa significa l’huomo che si lascia guidare dal desiderio della fama, il qual ha sempre appresso di se lo scudo di Pallade che non è altro che la prudentia, con la quale fa sovente bisogno che andiamo misurando gli andamenti de i nostri nemici, per poterse acortamente difender cosi da gli sforzi, come dalle insidie loro; significano poi i Talari di Mercurio la prestezza, e la vigilanza, con la quale dovemo dar esecutione alle cose maturamente discorse, e rissolute.
{{Sc|Taglia}} Perseo il capo crinito de’ serpenti a Medusa, quando togliemo noi la forza alle machinationi, e sforzi fatti contra di noi dalla prudenza de gl’inimici; i quali fuggono poi vedendo i suoi laidi pensieri nello scudo della nostra constantia, e del nostro valore; come fuggiva Medusa vedendo la sua faccia spaventevole; tenuta da essa per bellissima prima che Minerva la cangiasse di quella maniera, che del sangue del capo di Medusa, ne nascessero i serpenti in Libia, vuol significare che l’insidie, e le macchinationi nell’animo de gl’inimici generano veneno alle volte piu crudele che quello de’ serpenti.
{{Sc|Sotto}} la trasformatione di Atlante in un monte vogliono alcuni che vi sia nascosa l’historia che Perseo havendo vinta Medusa ricchissima Reina, con le ricchezze e thesori suoi havesse poi assalito il regno di Atlante, e constrettolo a fuggire ne i monti. Che Atlante poi sostenghi il cielo con le sue spalle vogliono alcuni che sia stato detto, per essere stato grandissimo Astrologo, e che con questa scientia venghi a sostener il cielo, overo per essere stato inventore dell’Astrologia come altri vogliono.
{{Sc|La}} liberatione di Andromeda vogliono molti, come è ancora da credere, che la sia mera historia; vedendose ancora le reliquie del sasso dove fu legata al lido di toppe terra della Palestina, per essere divorata dal mostro marino di eccessiva grandezza. L’ossa delquale come smisurate furono, come narra Plinio, mostrate in Roma da Marco Scauro nella sua edilità. Che dessero poi Perseo, Andromeda, Cefeo, e Cassiope il nome ad alcune stelle dalla parte del Settentrione, si vede col testimonio delle parole di Cicerone nelle Tusculane dicendo: non serebbero nominati gli stellati Cefeo, la mogliera, la figliuola, e ’l genero, se la divina cognitione delle cose celesti non havesse dato i loro nomi all’errore della favola. ha quivi l’Anguillara fatto molto honorata concorrenza all’Ariosto.
{{Sc|Bellissima}} è la descrittione della Metamorfosi d’Atlante in monte dell’Anguillara contenuta nella stanza, ''Come in quel viso, in quei Viperei Toschi'' e dalla seguente. Come è ancor bella la conversione a Giove nella stanza, ''O sententia di Giove, o sommo padre''. Si vede ancora quanto legiadramente habbi invitato Ovidio descrivendo Andromeda esposta al mostro Marino, come siano proprie le comparationi delle stanze {{Sc|Si come legno in mar c’ha in poppa il vento}} etc. e ''Qual se l’augel di Giove in terra vede''.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude>
{{Ct|f=120%|v=1|t=3|ANNOTATIONI DEL QUINTO LIBRO.}}
<div class=note>
{{Sc|La}} zuffa di Fineo con Perseo è mera historia, però non vi si può raccorre altra Allegoria, che quella che si scopre nella descrittione de ’l fatto, nondimeno si potrà bene andar raccogliendo qualche artificiosa descrittione dell’Anguillara, che sia sparsa per l’opera, essendone egli abondantissimo, come sarebbe questa de ’l tirare dell’arco di Licuba, che è molto vaga, e propria; che incomincia nella stanza, ''E ben mostrò l’Amor non esser finto'' come è bella ancora, e raccolta in pochi versi la descrittione de quelli che fanno le forze di Hercole in quei ''Monta sopra una statua, e veder parmi''. Fineo e quelli che rimasero cangiati in falsi poi, possiamo dire che sono quelli che malignamente e pieni d’invidia vanno ad assalire la Virtù, la quale non più presto, è scoperta da gli animi bassi, e vili, che a viva forza si vedono assimiglianza di pietre rimanere freddi, e duri di maniera che non sono piu atti, a poter esequire piu alcuna di quelle malignità, alle quali erano spinti, da ’l caldo desiderio di offenderla; Trasforma la vertù medesimamente in Arbori quelli che non le danno fede, come non dava Polidete a quella di Perseo, però per suo castigo fu trasformato in una selce.
{{Sc|Che}} Minerva habbia sempre accompagnato Perseo nell’Impresa di Medusa, ci dà ad intendere che la Prudentia non si scompagna giamai da ’l valore, nelle grandi imprese, che ella salisse poi al monte Parnaso per vedere il fonte di Aganipe, e le nove sorelle, ci fa medesimamente conoscere, che la sapientia, ama di trattenerse, con la Gloria, che è la Musa Clio; co ’l piacere che si trahe dall’honesto; come significa, Euterpe; ama di essere ancora in compagnia lieta, e che ritrovi, ogn’hora vaghi concetti e nuovi come fa Thalia. Ama ancora la soavità dell’harmonia che è Melpomene; come è ancora Terpsicore la delettatione, ch’ella si piglia del sapere, et Erato l’Amore ch’ella ha sempre alle vere scientie; e Polimnia quel soavissimo canto che rende i poeti immortali; et Urania, quella celeste felicità ch’ella gode, fra gli alti suoi concetti e divini. Come ancora è Caliope la bellezza inestimabile della scientia si trattiene molto Minerva con queste nove sorelle, come che non può quasi stare senza esse, ne esse possono essere senza Minerva; sono le Muse ancora tenute per la musica harmoniosa delle Otto sphere del Cielo, e la nona è quell’harmonia generale che formano tutte insieme. Contendono le Nove figliuole di Pierio, con le Muse co ’l Canto, e sono trasformate in Gaze le quali imitano la voce ma non però l’ingegno dell’huomo, a simiglianza delle figliuole di Pierio, sono alcuni ignoranti che spinti da un soverchio desiderio di divenir Poeti si danno a fare versi, scioccamente; e pensano cosi se compiacciono di se stessi, di esser tenuti perfettissimi compositori ancora da gli altri, ma quando poi vengono al paragone de i veri Poeti subito diventano Gaze che non fanno altro che imitare la voce altrui. Non sono molto differenti da questi, poi quelli che simigliano Pireneo, che tenea di rinchiudere et isforzare le Muse nel suo Palazzo; quando tentano con belle librerie, e con apparenze di dotti, dar’a credere che posseggono bene le muse, che non sono altro che le scienze, e non le hanno però altramente che ne i libri; perche non hanno bevuto, come doverebbero, volendo esser tali, quali amano di essere tenuti, al Fonte Cutalio. Vagha descrittione del suono della Cethera, o del iuto è quella della stanza, ''Percote, hor solo un nervo, hor molti insieme'' come è ancora vaga quest’altra descritta in de ’l tirare dell’arco; nella stanza, ''Lo stral nel nervo incocca, e insieme acorda''.
{{Sc|L’allegoria}} del rubamento fatto da Plutone, di Proserpina figliuola di Cerere; è che le ricchezze, delle quali Plutone è Dio, vengono da i frutti della terra, e specialmente da ’l formento; ruba Plutone Proserpina e la conduce all’inferno e questo, è quando si vien a far il raccolto; e che si ripone il formento, nelle fosse sotterra, come s’accostuma in Sicilia dove fu rubata Proserpina figliuola di Cerere che non è altro che l’abondanza; essendo il Paese di Sicilia abondantissimo di formento; e guardiano dell’inferno casa di Plutone Cerbero che è un cane fierissimo da tre teste, il quale non ci figura altro che l’Avaro diligentissimo guardiano delle cose riposte, le tre teste sue, sono le tre sue conditioni, l’una quando desidera l’oro con ogni maniera di sceleragine; l’altra, è quando con grandissime fatiche e sudori, mette le ricchezze insieme; e le tiene rinchiuse guardandole con ogni diligentia, e non se ne serve gia mai per suo beneficio, ne meno a beneficio d’altri, la terza è poi quando ha per heredità de suoi maggiori le ricchezze, e non ha ardire di toccarle; ma le tiene sempre nascose, e sotterrate senza alcun comodo suo;<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||89}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>o d’altri. Hà Cerbero alcuni serpenti intorno il collo; e l’Avaro hà alcuni continui pensieri venenosi e mordaci dell’Avaritia, che non lo lasciano mai. Le ruote del Carro di Plutone, co ’l quale ruba Proserpina, non sono altro poi che i continui giri di quelli che desiderano aricchire; sono tre, perche significano la fatica, il pericolo, e la instabilità della fortuna, intorno l’arricchire, e impoverire. Ha Proserpina per sentenza di Giove da star sei mesi nel centro della terra co ’l marito, et sei mesi di sopra con la madre; perche il formento seminato stà sei mesi sotto terra prima che incominci a mostrare la spica; et sta sei altri mesi con la madre sopra la terra, prima che ritorni sotterra, seminato da i lavoratori. e se tal’hora non nasce per esser soverchiamente affaticato il terreno, e di modo che ’l sia vuoto dell’humore che ha virtu di produrre; Cerere all’hora spezza gli instromenti rusticali, conoscendo che sono stati adoperati in vano; per questa cagione è poi persuasa da Giove a mangiare il papavero, che ha vertù di far dormire, che è, che fa bisogno all’hora lasciare riposare il terreno fino che ripigli vigore dandose al riposo del dormire.
{{Sc|Narrano}} alcuni che ’l Rubamento di Proserpina non è favola, ma historia antichissima; e fra gli altri Theodontio dicendo che Cerere fu figliuola di Saturno, e mogliera de ’l Re Sicano, e fu Donna di grande ingegno, perche vedendo i popoli dell’Isola di Sicilia andar vagabondi per le selve per le valli: e per i monti, et che vivevano solamente di ghiande, e di pomi selvatici senza alcuna legge; fu la prima che ritrovasse l’Agricoltura in quell’Isola, e giongesse i buoi sotto l’aratro, e incominciasse a sparger il seme in terra, e ricogliesse i frutti; Onde gli huomini poi si diedero a partire i terreni, ad habitar insieme, et a vivere piu humanamente. come servir {{Ac|Publio Virgilio Marone|Vergilio}}: ''Con l’aratro, da Cerere, la terra; Fu pria solcata, e sparsi in essa; i semi, ricolti i frutti; e date leggi a chi erra; Tutti son doni suoi, tutti suoi premi''. Hebbe la Reina Cerere Proserpina sua figliuola Giovane bellissima; la quale fu per la sua singolare belleza rubata da Orco Rè de i Molossi; che la prese poi per mogliera.
{{Sc|La}} favola di Stelle, trasformato in uno stellione, ci da essempio che non dobbiamo farse scherno delle cose celesti, come hanno ardire di fare alcuni spiriti maligni, et heretici che non havendo rispetto ne a Dio, ne alla Religione, mettono ogn’hora le loro boche in Cielo, biasimando i Santissimi riti della Chiesa Catholica.
{{Sc|La}} trasformatione di Ascalapho figliuolo di Acheronte in un Barbagianni, per haver’accusata Proserpina, di havere mangiati tre grani di pomo granato; onde per legge, de i Fati, non poteva piu liberarse dall’inferno ci da essempio quanto dobbiamo fuggire l’occasione di haver ad accusare alcuno, per esser questo ufficio di huomo maligno, et odiato; per non divenire quell’infelice Barbagianni apportatore in ogni luogo di tristissimo augurio, come figliuolo di Padre che è privo di ogni Allegrezza; e si come questo questo uccello sotto un gran Mantello di piume rinchiude un picciolo corpo; cosi gli accusatori maligni sotto lunghi giri di parole vane, il piu delle volte chiudono poche cose vere, sode, e probevoli. come quelli che non fanno che stridere, come stride questo animale, e si come stride, e si come questo ama di far il suo tardo, e picciolo volo per le sepolture, de morti cosi gli accusatori, con i loro falsi riporti, e maligne accuse, non solamente offendono i vivi ma ancora, tendono a roinare le facoltà de i morti, facendo ogni opra di far rompere testamenti, e contratti, di quelli che sono passati all’altra vita per privar i veri heredi della loro propria heredità. Si vede in questa favola la bellissima sententia morale propria dell’Anguillara, dove dice: ''Non è chi sia nel mondo peggio visto''.
{{Sc|Le}} sirene poi che sono tre secondo alcuni Parthenopea, Leucosia e Ligia; trasformate in mostri marini, sono secondo Palefatto le meretrici, le quali per la loro infame abitudine, si possono dire veramente mostri; e i nomi loro ci danno lume delle loro arti, perche Partheno voce greca, significa vergine, onde le meretrici che fanno l’humore della maggior parte de gli huomini, che sono piu inclinati ad amare, la Virginità, o la Castità, o almeno l’honestà che non sono, una dishonestà, e sfacciata lascivia; si fingono, per coglierli pure dongelle, overo femine Caste con tenire gli occhi bassi, arrossire, a ogni parola, meno che honestà che si dica loro; e non si lasciando toccare cosi di prima gionta lascivamente; usano queste et altre simile arti per coglierli nelle loro rethi, e farse maggiormente amare, e desiderare. L’altra si chiama Leucosia, che vuol dire bianco figurato per la purità dell’animo, finta accortamente dalle Meretrici per coprire l’arte, laqual’è odiata generalmente da ogn’uno. La terza et detta Ligia, che s’interpreta giro, e viene a significare i lacci, le Reti, e le pregioni nelle quali tengono avilupati gli infelici inamorati; habitano a i lidi de ’l mare, perche le parti Maritime sono piu date alla lascivia, che quelle<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro|}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>che sono fra terra; per questa cagione hanno finto i Poeti Venere, essere nata de la piuma del mare: hanno voci, e canti soavissimi che adormentano i miseri che passano per là, e adormentati gli affogano, privando de i tutti i beni quelli che danno nelle loro mani. Vanno le Sirene cercando Proserpina, che significa l’abondanza; perche le Meretrici non s’hanno giamai metter freno alle loro dishonestissime voglie, anzi le vogliono contentare abondevolmente, solo Ulisse fugge le loro insidie; perche la sola prudenza fa spregiare le dannose arti delle meretrici, chiudendo l’orecchie a i canti loro.
{{Sc|Dopo}} che Cerere rimasse contenta di goder la figliuola, per sententia di Giove, sei mesi dell’anno, per pigliare qualche riposo dopo havere scorso tutto il mondo cercandola; si fa narrare ad Arethusa la sua trasformatione in fonte, essendo seguitata da Alpheo fiume che era inamorato di lei, che ci dà altro questa trasformatione, se non che la Castità fuggendo la lascivia, e conosciuta chiara, e limpida, come l’acque chiare di un fonte dove nella descrittione dell’Amore, d’Alpheo, e della fuga di Arethusa, si vede quanto felicemente habbi descritta, l’Anguillara l’arte d’el nuotare; nella stanza ''Le braccia, e i piedi a tempo incurva, e scuote'', e nella seguente come ancora ha propriamente la comparatione del Cane nella stanza ''Come l’ingordo Veltro ardito, e presto''.
{{Sc|La}} favola di Trittolemo secondo Philocoro è mera historia; essendo stato Trittolemo antichissimo Re di Athene e diede occasione di fingere questa favola, perche nel tempo di una grandissima carestia gli fu dal popolo amazzato suo Padre che vedendo morire tutte le genti di fame; dava egli solo abondantissimamente da mangiare al figliuolo, Onde egli fuggendo sopra una nave, che haveva per insegna un serpe, et essendo capitato in paesi lontani, e molto abondanti, ritornò lieto nella patria carico di formento, e sollevò il popolo da quella estrema Carestia; e ne caccio Linceo che haveva occupato quel paese, ripigliando esso l’Imperio di quello stato al quale mostrò ancora l’uso di coltivare la terra e di far i sacrificij a Cerere, la quale relegò Linceo ne i Boschi, come indegno di vivere, e dominare fra le genti, havendo voluto far morire quei popoli dalla Fame, e dapoi far morire ancora, l’apportatore della salute di quel Regno.
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<noinclude><pagequality level="1" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||111}}</noinclude>
{{Ct|f=120%|v=1|t=3|ANNOTATIONI DEL SESTO LIBRO.}}
La contentione che nacque fra Pallade, e Aranne intorno il tessere, e ricamare, ci da essempio che non dobbiamo giamai per eccellenza che paia che sia in noi, aguagliarse, gonfij dallo spirito della superbia, a Dio, et insoperbirse di modo, che non riconoscendo il tutto da esso, la sua bontà divina mossa dal giusto sdegno, habbia, facendoci traboccare, in qualche gran miseria, a farci conoscere, che non siamo che debili, piccioli, e vili animali, allontanati che siamo dalla gratia sua; e che non sapiamo far cosa alcuna, ne intelletiva, ne mecanica, qua giù, che non la sia fragile come una tela de Ragno; come s’avide Aranne, quando essendo stata vinta da Minerva, fu trasformata in cosi picciolo, e vile animaluccio; che continuando nella sua ostinatione non cessa di tessere le sue vane, e inutili tele, forse per suo castigo, dandose per aventura ancora a credere di essere in contentione con quella invittissima Dea; laqual è dipinta con l’occhio fosco, con una lunghissima asta in mano, e con lo scudo di Christallo, e con il corpo di corazza che hà dinanti di rilevo il capo di Medusa; l’occhio fosco, è il continuo pensiero che tiene l’huomo prudente, ne i discorsi delle cose humane, facendose l’occhio fosco quando s’ha il pensiero fisso in qualche oggetto, che ci preme; l’hasta lunga ci da a credere, et a conoscere per verità espressa, che non può essere prudente, chi non mira le cose molto di lontano, e maggiormente ne i maneggi di guerra; dovendose riparare all’insidie de nimici, e tenerle molto con l’hasta lunga luntane da noi; lo scudo di Christallo, è per iscoprire l’inimico che ci sopragiunge all’improviso, e scoprendolo tutto a un tempo sapersene difendere. Il Capo di Medusa nel petto non è che la prudentia nelle nostre attioni, et operationi, laquale dovemo per sempre havere nel petto, viva, e pronta; come la si scopre nel rilevo.
Contende Minerva con Nettuno intorno il nome ad Athene, e rimane vincitrice, quando per sententia de gli Dei hebbe percossa la terra, e che n’uscì l’Oliva, si come per la percossa, di Nettuno medesimamente ne uscì il cavallo; che è l’animale che serve molto alla guerra; come ancora l’Oliva significa Pace; dandoci a vedere, che le città, et le adunanze de gli huomini amano molto meglio la pace, che non fanno la guerra; onde le fu poi posto il nome di Athene da essa Pallade, chiamata dalle voci greche di questo nome. Ricamò Pallade ancora la pazzia di Hemo, e di Rodope che hebbero ardire di farse chiamare l’un Giove, e l’altra Giunone, onde furono trasformati in dui Monti; sogliono i Monti essere figurati per la superbia de gli huomini di picciola fortuna, che hanno l’animo gonfio di superbia, ma non hanno poi forze di far che gli effetti l’accompagni, come quelli che sono immobili per le loro poche forze, come i Monti. Tendono tutti i Ricami di Pallade a far avertita Aranne che non voglia contendere con essa lei, perche non le succeda quello che successe ad Antigone, che volendo preporre la sua bellezza, a quella di Giunone, fu dalla Dea trasformata in una Cicogna, che è uno de i piu sozzi uccelli, che si vedano. Narrano l’Historie che havendo Hercole amazzato Laomedonte del quale era figliuola Antigone, la giovane fuggì nelle cannuccie di Camandro. E vi se trattenne molti giorni per non essere amazzata da Hercole come gli altri suoi fratelli, e sorelle; onde questa sua fuga diede colore a questa favola amando le Cicogne di habitare le cannuccie. Depinse Pallade nell’angolo dell’opera sua poi la trasformatione delle figliuole del re Cinira, lequali insoperbite per la loro molta bellezza, hebbero ardire di aguagliarse a Giunone, e per questo furono da esse trasformate ne i gradi del suo tempio, che sono calpestati da ogni uno, perche chi s’inalza con l’ali della soperbia, serà humiliato con la sferza della depressione. Bella e sententiosa è la conversione dell’Anguillara, nella stanza Frenate altieri Heroi l’ingiusto orgoglio.
Finita l’opera di Minerva Aranne incominciò la sua, dalla trasformatione di Asterie figliuola di Ceo, laquale essendo amata da Giove, per goder dell’amor suo, si trasformò in Aquila; et ingravidolla di Hercole, havendo poi fatta una congiura Asterie contra Giove, fu dal furore de lo sdegnato Iddio trasformata in una Coturnice, e dapoi nell’Isola Ortigia. Questa trasformatione è tolta dall’historia che narra che essendo vinto Ceo, et amazzato da Giove; fu presa Asterie ancora da esso, e perche l’Aquila è insegna di Giove, hanno finto che per goderla Giove s’era trasformato nell’Aquila portata nella vittoria contra Ceo: segue la trasformatione di Giove in Cigno per godere dell’Amore di Leda, laquale non ci da altra Alegoria se non che la dolcezza delle parole, e la soavità del Canto, sono potentissimi mezzi per haver vittoria di qual si<noinclude><references/></noinclude>
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La contentione che nacque fra Pallade, e Aranne intorno il tessere, e ricamare, ci da essempio che non dobbiamo giamai per eccellenza che paia che sia in noi, aguagliarse, gonfij dallo spirito della superbia, a Dio, et insoperbirse di modo, che non riconoscendo il tutto da esso, la sua bontà divina mossa dal giusto sdegno, habbia, facendoci traboccare, in qualche gran miseria, a farci conoscere, che non siamo che debili, piccioli, e vili animali, allontanati che siamo dalla gratia sua; e che non sapiamo far cosa alcuna, ne intelletiva, ne mecanica, qua giù, che non la sia fragile come una tela de Ragno; come s’avide Aranne, quando essendo stata vinta da Minerva, fu trasformata in cosi picciolo, e vile animaluccio; che continuando nella sua ostinatione non cessa di tessere le sue vane, e inutili tele, forse per suo castigo, dandose per aventura ancora a credere di essere in contentione con quella invittissima Dea; laqual è dipinta con l’occhio fosco, con una lunghissima asta in mano, e con lo scudo di Christallo, e con il corpo di corazza che hà dinanti di rilevo il capo di Medusa; l’occhio fosco, è il continuo pensiero che tiene l’huomo prudente, ne i discorsi delle cose humane, facendose l’occhio fosco quando s’ha il pensiero fisso in qualche oggetto, che ci preme; l’hasta lunga ci da a credere, et a conoscere per verità espressa, che non può essere prudente, chi non mira le cose molto di lontano, e maggiormente ne i maneggi di guerra; dovendose riparare all’insidie de nimici, e tenerle molto con l’hasta lunga luntane da noi; lo scudo di Christallo, è per iscoprire l’inimico che ci sopragiunge all’improviso, e scoprendolo tutto a un tempo sapersene difendere. Il Capo di Medusa nel petto non è che la prudentia nelle nostre attioni, et operationi, laquale dovemo per sempre havere nel petto, viva, e pronta; come la si scopre nel rilevo.
Contende Minerva con Nettuno intorno il nome ad Athene, e rimane vincitrice, quando per sententia de gli Dei hebbe percossa la terra, e che n’uscì l’Oliva, si come per la percossa, di Nettuno medesimamente ne uscì il cavallo; che è l’animale che serve molto alla guerra; come ancora l’Oliva significa Pace; dandoci a vedere, che le città, et le adunanze de gli huomini amano molto meglio la pace, che non fanno la guerra; onde le fu poi posto il nome di Athene da essa Pallade, chiamata dalle voci greche di questo nome. Ricamò Pallade ancora la pazzia di Hemo, e di Rodope che hebbero ardire di farse chiamare l’un Giove, e l’altra Giunone, onde furono trasformati in dui Monti; sogliono i Monti essere figurati per la superbia de gli huomini di picciola fortuna, che hanno l’animo gonfio di superbia, ma non hanno poi forze di far che gli effetti l’accompagni, come quelli che sono immobili per le loro poche forze, come i Monti. Tendono tutti i Ricami di Pallade a far avertita Aranne che non voglia contendere con essa lei, perche non le succeda quello che successe ad Antigone, che volendo preporre la sua bellezza, a quella di Giunone, fu dalla Dea trasformata in una Cicogna, che è uno de i piu sozzi uccelli, che si vedano. Narrano l’Historie che havendo Hercole amazzato Laomedonte del quale era figliuola Antigone, la giovane fuggì nelle cannuccie di Camandro. E vi se trattenne molti giorni per non essere amazzata da Hercole come gli altri suoi fratelli, e sorelle; onde questa sua fuga diede colore a questa favola amando le Cicogne di habitare le cannuccie. Depinse Pallade nell’angolo dell’opera sua poi la trasformatione delle figliuole del re Cinira, lequali insoperbite per la loro molta bellezza, hebbero ardire di aguagliarse a Giunone, e per questo furono da esse trasformate ne i gradi del suo tempio, che sono calpestati da ogni uno, perche chi s’inalza con l’ali della soperbia, serà humiliato con la sferza della depressione. Bella e sententiosa è la conversione dell’Anguillara, nella stanza Frenate altieri Heroi l’ingiusto orgoglio.
Finita l’opera di Minerva Aranne incominciò la sua, dalla trasformatione di Asterie figliuola di Ceo, laquale essendo amata da Giove, per goder dell’amor suo, si trasformò in Aquila; et ingravidolla di Hercole, havendo poi fatta una congiura Asterie contra Giove, fu dal furore de lo sdegnato Iddio trasformata in una Coturnice, e dapoi nell’Isola Ortigia. Questa trasformatione è tolta dall’historia che narra che essendo vinto Ceo, et amazzato da Giove; fu presa Asterie ancora da esso, e perche l’Aquila è insegna di Giove, hanno finto che per goderla Giove s’era trasformato nell’Aquila portata nella vittoria contra Ceo: segue la trasformatione di Giove in Cigno per godere dell’Amore di Leda, laquale non ci da altra Alegoria se non che la dolcezza delle parole, e la soavità del Canto, sono potentissimi mezzi per haver vittoria di qual si<noinclude><references/></noinclude>
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{{Sc|La}} contentione che nacque fra Pallade, e Aranne intorno il tessere, e ricamare, ci da essempio che non dobbiamo giamai per eccellenza che paia che sia in noi, aguagliarse, gonfij dallo spirito della superbia, a Dio, et insoperbirse di modo, che non riconoscendo il tutto da esso, la sua bontà divina mossa dal giusto sdegno, habbia, facendoci traboccare, in qualche gran miseria, a farci conoscere, che non siamo che debili, piccioli, e vili animali, allontanati che siamo dalla gratia sua; e che non sapiamo far cosa alcuna, ne intelletiva, ne mecanica, qua giù, che non la sia fragile come una tela de Ragno; come s’avide Aranne, quando essendo stata vinta da Minerva, fu trasformata in cosi picciolo, e vile animaluccio; che continuando nella sua ostinatione non cessa di tessere le sue vane, e inutili tele, forse per suo castigo, dandose per aventura ancora a credere di essere in contentione con quella invittissima Dea; laqual è dipinta con l’occhio fosco, con una lunghissima asta in mano, e con lo scudo di Christallo, e con il corpo di corazza che hà dinanti di rilevo il capo di Medusa; l’occhio fosco, è il continuo pensiero che tiene l’huomo prudente, ne i discorsi delle cose humane, facendose l’occhio fosco quando s’ha il pensiero fisso in qualche oggetto, che ci preme; l’hasta lunga ci da a credere, et a conoscere per verità espressa, che non può essere prudente, chi non mira le cose molto di lontano, e maggiormente ne i maneggi di guerra; dovendose riparare all’insidie de nimici, e tenerle molto con l’hasta lunga luntane da noi; lo scudo di Christallo, è per iscoprire l’inimico che ci sopragiunge all’improviso, e scoprendolo tutto a un tempo sapersene difendere. Il Capo di Medusa nel petto non è che la prudentia nelle nostre attioni, et operationi, laquale dovemo per sempre havere nel petto, viva, e pronta; come la si scopre nel rilevo.
{{Sc|Contende}} Minerva con Nettuno intorno il nome ad Athene, e rimane vincitrice, quando per sententia de gli Dei hebbe percossa la terra, e che n’uscì l’Oliva, si come per la percossa, di Nettuno medesimamente ne uscì il cavallo; che è l’animale che serve molto alla guerra; come ancora l’Oliva significa Pace; dandoci a vedere, che le città, et le adunanze de gli huomini amano molto meglio la pace, che non fanno la guerra; onde le fu poi posto il nome di Athene da essa Pallade, chiamata dalle voci greche di questo nome. Ricamò Pallade ancora la pazzia di Hemo, e di Rodope che hebbero ardire di farse chiamare l’un Giove, e l’altra Giunone, onde furono trasformati in dui Monti; sogliono i Monti essere figurati per la superbia de gli huomini di picciola fortuna, che hanno l’animo gonfio di superbia, ma non hanno poi forze di far che gli effetti l’accompagni, come quelli che sono immobili per le loro poche forze, come i Monti. Tendono tutti i Ricami di Pallade a far avertita Aranne che non voglia contendere con essa lei, perche non le succeda quello che successe ad Antigone, che volendo preporre la sua bellezza, a quella di Giunone, fu dalla Dea trasformata in una Cicogna, che è uno de i piu sozzi uccelli, che si vedano. Narrano l’Historie che havendo Hercole amazzato Laomedonte del quale era figliuola Antigone, la giovane fuggì nelle cannuccie di Camandro. E vi se trattenne molti giorni per non essere amazzata da Hercole come gli altri suoi fratelli, e sorelle; onde questa sua fuga diede colore a questa favola amando le Cicogne di habitare le cannuccie. Depinse Pallade nell’angolo dell’opera sua poi la trasformatione delle figliuole del re Cinira, lequali insoperbite per la loro molta bellezza, hebbero ardire di aguagliarse a Giunone, e per questo furono da esse trasformate ne i gradi del suo tempio, che sono calpestati da ogni uno, perche chi s’inalza con l’ali della soperbia, serà humiliato con la sferza della depressione. Bella e sententiosa è la conversione dell’Anguillara, nella stanza ''Frenate altieri Heroi l’ingiusto orgoglio''.
{{Sc|Finita}} l’opera di Minerva Aranne incominciò la sua, dalla trasformatione di Asterie figliuola di Ceo, laquale essendo amata da Giove, per goder dell’amor suo, si trasformò in Aquila; et ingravidolla di Hercole, havendo poi fatta una congiura Asterie contra Giove, fu dal furore de lo sdegnato Iddio trasformata in una Coturnice, e dapoi nell’Isola Ortigia. Questa trasformatione è tolta dall’historia che narra che essendo vinto Ceo, et amazzato da Giove; fu presa Asterie ancora da esso, e perche l’Aquila è insegna di Giove, hanno finto che per goderla Giove s’era trasformato nell’Aquila portata nella vittoria contra Ceo: segue la trasformatione di Giove in Cigno per godere dell’Amore di Leda, laquale non ci da altra Alegoria se non che la dolcezza delle parole, e la soavità del Canto, sono potentissimi mezzi per haver vittoria di qual si<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>voglia bellissima Donna; però fingono Giove essere trasformato in Cigno per havere goduto con l’artifitio delle parole, e con la soavità della voce dell’amata Leda; segue poi Aranne come si trasformò in Satiro per godere dell’amore di Antiope havendola poi lasciata gravida di Amphione, e di Zetho che ci mostra in quante forme si lascia cangiare l’huomo, da questo naturale desiderio del congiungimento, seguendo la trasformatione del medesimo in Amphitrione per godere dell’amata Alcmena; tutti effetti che sogliono fare gli arditi inamorati per dar compimento a i loro focosi desiderij; ben ce ne da un chiaro essempio il palafreniere che l’accocò al Re de i Longobardi, si cangiò ancora in fuoco per godere dell’Amore di Egina; significa questa trasformatione in fuoco per haverla ingravidata di quella stirpe valorosa d’Achille, e di Pirrho che furono fiamme del valore. Si trasformò ancora in un Pastore per ingannar sotto il falso aspetto l’incauta Nimosina; come si trasformò ancora in Serpe per cogliere Proserpina. È scritta molto felicemente questa trasformatione dall’Anguillara, come la descritione del Serpe, e della maniera che si lasciò ingannare Proserpina. Nella stanza: ''Non teme la Reina d’Acheronte'', e nella seguente.
{{Sc|Finito}} che hebbe Aranne di tessere le trasformationi di Giove, si voltò a quelle di Nettuno come quando si trasformò in un Cavallo di Anda per godere di Cerere havendola tolta sopra il dorso, e portatola in un scoglio; e come si trasformò in toro anchora per godere Arne, laquale havendo partorito in una stalla de Buoi in Metapomo, diede cagione alla favola della trasformatione nel Toro. Si trasformò ancora nel fiume Enipeo, come scrive Homero, per rubare Tiro figliuola di Salmoneo vaga di passeggiare sovente alle sponde di quel fiume, sopra il quale il medesimo Iddio rubò Iphi, e n’hebbe della sua gravidanza ismisurati Giganti, Ephialte, e Otho che furono fulminati da Giove, perche n’hebbero ardire di far guerra al Cielo. Ingannò Nettuno ancora Teophane havendola trasformata in una Pecora, e se stesso in un Montone per godere dell’amor suo, ingannando i Proci, i quali furono poi trasformati in Lupi, perche havevano voluto amazzare la Pecora, essendo proprio del Lupo, di assalire la Pecora; ingannò Nettuno ancora Melanto in forma di Delfino; tutti effetti che si vegono continoamente ne i lascivi, per condure a fine i loro dishonestissimi appetiti.
{{Sc|La}} trasformatione di Apollo poi in uno Sparaviere, per ingannare l’amata Ninfa, ci da ad intendere, che ’l lascivo non è molto differente da questo uccello, in procacciare cosi il dar compimento alle bramose sue voglie, ogn’hora con nova preda come quello procaccia di satisfar’alla fame con nuove ripresaglie. Si trasformò ancora in Leone per far’acquisto della figliuola di Macareo, Vergine votata, e sacrata a Diana; che significa che fa bisogno che l’inamorato sia forte, et ardito come il Leone, se vuole violare la Vergine amata, trovandola lontana da i pensieri amorosi. Depinge ancora Aranne nel suo lavoro come Bacco trasformato in uva gode della figliuola d’Icaro, che non significa altro, se non che ’l vino bevuto alquanto lietamente ha forza di metter in qual si voglia animo casto, pensieri meno che honesti.
{{Sc|L’Acconito}} colto nel monte Citoriaco è sparso sopra Aranne, trasformata in Ragno, è quello sdegno che ingombra quelli che vegono spregiare, e distruete l’opera sua, fatta con molta industria, e con lunga fatica, come era la tessitura d’Aranne.
{{Sc|La}} Favola della superba Niobe trasformata in Sasso; e nella medesima Alegoria di molte altre dette di sopra di quelli che si sono voluti, come soperbi aguagliare a i Dei, onde sono rimasi privi di quelle cose dellequali piu si gloriavano, e insoperbivano; come si gloriava Niobe della sua felicità, nel generare, havendo havuto sette figliuoli, e altrotante figliuole, de’ quali tutti rimase privi dalle saette d’Apollo, e da quelle di Cinthia; Amphione Marito di Niobe, che col suo suono edificò le mura di Thebe, ci da a conoscere, che la soavità delle parole proprie, e che esprimano bene quello che l’huomo vuol dire, pronontiate poi quando dolcemente, e quando con vehemente efficacia, hà forza di ridurre gli huomini da una vita ferina, e tutta bestiale, a una lieta, e civile, che non è altro poi che edificare le mura delle città, riducendo gli huomini a vivere quietamente insieme. Si vede poi con quanta vaghezza habbi descritto l’Anguillara che ’l tenere le dita delle mani incrocichiate, overo il pugno chiuso dove una donna partorisse, si rende molto difficile il parto, come Lucina voleva rendere quello di Latona, nella stanza: {{Sc|Cosi l’essule Dea vostra, mendica}}, con non meno vaghezza, e felicità, et arte ha descritti diversi maneggi de’ Cavalli; che fa vedere con la sua penna quello istesso che si vede<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||113}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>con gran piacere far’a i cavalieri migliori quando montano sopra ben creati, e ben’intendenti cavalli, di maniera che la penna quivi fa conoscere, che ha molto maggior forza che non hanno i penelli, iquali guidati ancora da artificiosa, et essercitatissima mano non saperebbero rapresentare cosi vivamente il maneggio d’un cavallo, come lo rapresenta l’Anguillara, nella stanza: Damasithone appar su un Turco bianco, e nelle seguenti, oltre che vi depinge ancora i veri segni, e mantelli, de i buoni, e generosi cavalli: come è anchora vagamente descritta la contentione de Venti, e i danni che facevano al mare, et alla terra con i loro soffij sdegnosi.
Diede materia alla favola de i Villani trasformati in Rane; una zuffa che fu fatta appresso un stagno fra i Rodiani, e i Licij, perche essendo andati quelli di Delo che s’erano mossi in favore de i Rodiani, a pigliare l’acqua, anzi intorbidandola, e difendendola facevano ogn’opra che non godessero di quell’acqua; sdegnati i Delij gli amazzorono tutti nello stagno; finita quella guerra ritornando poi allo stagno, e non vedendo alcun vestigio de i Villani morti, e sentendovi solamente le rocche voci delle Rane, si diedero a credere che le Rane fussero le anime de i Villani amazzati, e con questa loro credenza diedero occasione a questa favola; descrive l’Anguillara molto ingeniosamente la natura delle Rane, nella stanza, ''Hor l’animal sotto acqua si nasconde'', come ancora ha descritta la sua trasformatione in quello di sopra. La natura de i Villani è descritta felicemente ancora nella stanza: ''Chi mosso non havrian le dolci note''.
{{Sc|La}} favola di Marsia ci da ad intendere, che quando vogliamo contendere con Iddio, non lo temendo come deve esser temuto; la sua omnipotenza ci fa presto conoscere che siamo piu flussibili che non è un fiume, togliendoci tutte le forze co ’l privarci della gratia sua; di modo che cadendo in terra il nostro vigore; si converte nell’acqua del fiume laquale non si ferma giamai; come non si potiamo fermar noi, quando siamo spicati da Dio che solo è la fermezza nostra.
{{Sc|La}} favola di Tantalo, ci dimostra l’huomo avaro, che intento ad adunare Thesoro, non lascia a dietro alcuna maniera di fatica, per satisfar’al desiderio suo; onde si dà all’agricoltura, e seminando il grano amato da esso, piu che se gli fosse figliuolo per l’utile che ne trahe, il lascia mangiare a i corpi celesti, i quali accompagnando il sole, il vengono a mangiare e dopo a ridurre in spiche sua prima forma. Il castigo di Tantalo è il medesimo che hanno gli avari che sono nelle ricchezze fin’alla golla, e non le godono, et hanno tutte le maniere de commodi, e non se ne fanno valere; però a simiglianza di Tantalo moiono di fame, e di sete.
{{Sc|La}} favola di Terreo, e di Progne, Philomena, e Iti, e le loro trasformationi, sono tolte dalla historia, perche Terreo come quello che era di natura fiero non pigliava cosa alcuna che per forza, per questo era detto figliuolo di Marte, isforzò la cognata; e non hebbe mai ardire considerando la sua grandissima sceleragine di apresentarse alla mogliera la quale stava di continuo stridendo, e ramaricandosi vestita di nero dell’infortunio della sorella; il che diede occasione alla favola che la fusse trasformata in hirondine, come anchora la sorella nel lusignolo che ci da a conoscere quanto piu il vitio tenta di soprimere la vertù, tanto piu ella s’inalcia, e fa conoscere la sua dolcezza perche havendola Terreo priva della lingua, perche non iscoprisse la sua sceleragine; le fu provisto da’ cieli della piu soave, e dolce favella, e del piu dilettevole canto che si possi udire. La trasformatione poi di Terreo in Upupa uccello vile, e che si pasce di sterco, significa che l’huomo empio, creduele e scelerato, non si pasce che di vivande immonde, sozze, e stomachevoli. Iti poi cangiato in Fagiano significa la semplicità, e innocentia del fanciullo come quello che non era colpevole delle sceleragini; essendo il Fagiano uccello incauto, e semplice. Si vede nella descritione di questa favola molte belle sententie, comparationi, conversioni, vage descrittioni, e spiriti affettuosi dell’Anguillara, sparsi giuditiosamente in questa trasformatione; come ne gli ultimi versi della stanza, Terreo fatte le nozze non s’arresta. Bella è la composizione della stanza: ''Come presa dal lupo humile agnella''. Come è vaga ancora la conversione della stanza: ''O Barbaro crudel, Barbaro infido''. E ’l grido sententioso della stanza: ''O Ferina lascivia, ò mente infame''. Vaga la comparatione della stanza: ''Come Tigre crudele al bosco porta'', come è vaga ancora la descritione dello sdegno di Borrea nella stanza: ''Dhe perc’hò l’arme mie poste in oblio''.
{{Sc|Il}} rubamento di Orithia fatto da Borrea, e il piacere, allegoricamente, che si ruba con la prestezza, non si lasciando fuggire l’occasione; Calai Zeto, che cacciano le Arpie dalla tavola di Fineo è il cieco dall’avaritia, che ha accecati tutti i suoi figliuoli, non potendo il cieco avaro, haver<noinclude><references/></noinclude>
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Diede materia alla favola de i Villani trasformati in Rane; una zuffa che fu fatta appresso un stagno fra i Rodiani, e i Licij, perche essendo andati quelli di Delo che s’erano mossi in favore de i Rodiani, a pigliare l’acqua, anzi intorbidandola, e difendendola facevano ogn’opra che non godessero di quell’acqua; sdegnati i Delij gli amazzorono tutti nello stagno; finita quella guerra ritornando poi allo stagno, e non vedendo alcun vestigio de i Villani morti, e sentendovi solamente le rocche voci delle Rane, si diedero a credere che le Rane fussero le anime de i Villani amazzati, e con questa loro credenza diedero occasione a questa favola; descrive l’Anguillara molto ingeniosamente la natura delle Rane, nella stanza, ''Hor l’animal sotto acqua si nasconde'', come ancora ha descritta la sua trasformatione in quello di sopra. La natura de i Villani è descritta felicemente ancora nella stanza: ''Chi mosso non havrian le dolci note''.
{{Sc|La}} favola di Marsia ci da ad intendere, che quando vogliamo contendere con Iddio, non lo temendo come deve esser temuto; la sua omnipotenza ci fa presto conoscere che siamo piu flussibili che non è un fiume, togliendoci tutte le forze co ’l privarci della gratia sua; di modo che cadendo in terra il nostro vigore; si converte nell’acqua del fiume laquale non si ferma giamai; come non si potiamo fermar noi, quando siamo spicati da Dio che solo è la fermezza nostra.
{{Sc|La}} favola di Tantalo, ci dimostra l’huomo avaro, che intento ad adunare Thesoro, non lascia a dietro alcuna maniera di fatica, per satisfar’al desiderio suo; onde si dà all’agricoltura, e seminando il grano amato da esso, piu che se gli fosse figliuolo per l’utile che ne trahe, il lascia mangiare a i corpi celesti, i quali accompagnando il sole, il vengono a mangiare e dopo a ridurre in spiche sua prima forma. Il castigo di Tantalo è il medesimo che hanno gli avari che sono nelle ricchezze fin’alla golla, e non le godono, et hanno tutte le maniere de commodi, e non se ne fanno valere; però a simiglianza di Tantalo moiono di fame, e di sete.
{{Sc|La}} favola di Terreo, e di Progne, Philomena, e Iti, e le loro trasformationi, sono tolte dalla historia, perche Terreo come quello che era di natura fiero non pigliava cosa alcuna che per forza, per questo era detto figliuolo di Marte, isforzò la cognata; e non hebbe mai ardire considerando la sua grandissima sceleragine di apresentarse alla mogliera la quale stava di continuo stridendo, e ramaricandosi vestita di nero dell’infortunio della sorella; il che diede occasione alla favola che la fusse trasformata in hirondine, come anchora la sorella nel lusignolo che ci da a conoscere quanto piu il vitio tenta di soprimere la vertù, tanto piu ella s’inalcia, e fa conoscere la sua dolcezza perche havendola Terreo priva della lingua, perche non iscoprisse la sua sceleragine; le fu provisto da’ cieli della piu soave, e dolce favella, e del piu dilettevole canto che si possi udire. La trasformatione poi di Terreo in Upupa uccello vile, e che si pasce di sterco, significa che l’huomo empio, creduele e scelerato, non si pasce che di vivande immonde, sozze, e stomachevoli. Iti poi cangiato in Fagiano significa la semplicità, e innocentia del fanciullo come quello che non era colpevole delle sceleragini; essendo il Fagiano uccello incauto, e semplice. Si vede nella descritione di questa favola molte belle sententie, comparationi, conversioni, vage descrittioni, e spiriti affettuosi dell’Anguillara, sparsi giuditiosamente in questa trasformatione; come ne gli ultimi versi della stanza, Terreo fatte le nozze non s’arresta. Bella è la composizione della stanza: ''Come presa dal lupo humile agnella''. Come è vaga ancora la conversione della stanza: ''O Barbaro crudel, Barbaro infido''. E ’l grido sententioso della stanza: ''O Ferina lascivia, ò mente infame''. Vaga la comparatione della stanza: ''Come Tigre crudele al bosco porta'', come è vaga ancora la descritione dello sdegno di Borrea nella stanza: ''Dhe perc’hò l’arme mie poste in oblio''.
{{Sc|Il}} rubamento di Orithia fatto da Borrea, e il piacere, allegoricamente, che si ruba con la prestezza, non si lasciando fuggire l’occasione; Calai Zeto, che cacciano le Arpie dalla tavola di Fineo è il cieco dall’avaritia, che ha accecati tutti i suoi figliuoli, non potendo il cieco avaro, haver<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione}}</noinclude><section begin="s1" />
<noinclude><div class=note></noinclude>haver pensier’alcuno che non sia cieco dal soverchio desiderio di adunare ricchezze. Le Arpie sozze che gli levano le vivande, di modo che non può mangiare, sono i continui, e pungentissimi stimoli del risparmio, che non lo lasciano gustare ne cibo, ne bevanda; sono cacciati questi stimoli da gli animi grandi, e liberali; ma non restano però come prima veggono partiti quelli che i cacciano, di ritornare a i loro costumati cibi del misero Fineo. Quanto sia odiata da Dio, da gli huomini, e dal mondo l’infame avaritia, non è alcuno che non lo conosca, come nemica d’ogni humana felicità e radice de tutti i mali, come scrisse l’Apostolo.
</div>
<section end="s1" /><section begin="s2" />
{{Ct|f=120%|v=1|t=2|LIBRO SETTIMO}}
{{FI
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}}
<poem>
{{capolettera|G}}ià per lo novo mar la nova nave
Havea la vela, il vento, e ’l mare inteso,
E con soffio hor tropp’aspro, hor più soave
Sopra la Tracia havea quel regno preso,
Nel qual Fineo senz’occhi, e d’anni grave
Era da l’empie Arpie continuo offeso.
E già con ricchi doni, e lieto volto
V’era stato Giason visto, e raccolto.
Dove i figli di Borea alati, e snelli
Per satisfare à tanto obligo in parte,
Scacciati haveano i rei virginei augelli,
Co’ quai venner ne l’aria al fiero Marte.
E i venti havendo havuti hor buoni, hor felli,
E posto in opra hor l’anchore, hor le sarte,
Eran ne l’Asia scesi in quel lido,
Ch’era al bel vello albergo antico, e fido.
Hor mentre allegri al Re de’ Colchi vanno,
E che Giasone il suo pensier palesa,
E tutti intorno al Re con preghi stanno,
Che lor conceda il vello, e la contesa,
E ch’ei rimembra le fatiche, e ’l danno,
Che lor succeder può da questa impresa,
Medea figlia del Re, che vede, e intende
L’ardito cavalier, di lui s’accende.
</poem>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" /></noinclude><section begin="s1" />haver pensier’ alcuno che non sia cieco dal soverchio desiderio di adunare ricchezze. Le Arpie sozze che gli levano le vivande, di modo che non può mangiare, sono i continui, e pungentissimi stimoli del risparmio, che non lo lasciano gustare ne cibo, ne bevanda; sono cacciati questi stimoli da gli animi grandi, e liberali; ma non restano però come prima veggono partiti quelli che i cacciano, di ritornare a i loro costumati cibi del misero Fineo. Quanto sia odiata da Dio, da gli huomini, e dal mondo l’infame avaritia, non è alcuno che non lo conosca, come nemica d’ogni humana felicità e radice de tutti i mali, come scrisse l’Apostolo.
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{{Ct|f=120%|v=1|t=2|LIBRO SETTIMO}}
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}}
<poem>
{{capolettera|G}}ià per lo novo mar la nova nave
Havea la vela, il vento, e ’l mare inteso,
E con soffio hor tropp’aspro, hor più soave
Sopra la Tracia havea quel regno preso,
Nel qual Fineo senz’occhi, e d’anni grave
Era da l’empie Arpie continuo offeso.
E già con ricchi doni, e lieto volto
V’era stato Giason visto, e raccolto.
Dove i figli di Borea alati, e snelli
Per satisfare à tanto obligo in parte,
Scacciati haveano i rei virginei augelli,
Co’ quai venner ne l’aria al fiero Marte.
E i venti havendo havuti hor buoni, hor felli,
E posto in opra hor l’anchore, hor le sarte,
Eran ne l’Asia scesi in quel lido,
Ch’era al bel vello albergo antico, e fido.
Hor mentre allegri al Re de’ Colchi vanno,
E che Giasone il suo pensier palesa,
E tutti intorno al Re con preghi stanno,
Che lor conceda il vello, e la contesa,
E ch’ei rimembra le fatiche, e ’l danno,
Che lor succeder può da questa impresa,
Medea figlia del Re, che vede, e intende
L’ardito cavalier, di lui s’accende.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
L’accompagnò l’ambasciatore Acheo
Co i cavalier de l’isola più degni.
Ma come Telamone, e ’l buon Peleo
L’arme, e i soldati han posto in punto, e i legni,
Pensa tornarsi al suo Signore Egeo.
Come il primo Austro in aere alberghi, e regni
E fà imbarcar l’industriose genti
Per tornare al suo Re co’ primi venti.
</poem>
{{Ct|f=100%|v=1|L=5px|''IL FINE DEL SETTIMO LIBRO.''}}
[[es:Las metamorfosis: Libro VII]]
[[fr:Les Métamorphoses/Livre VII]]
[[la:Metamorphoses (Ovidius)/Liber VII]]
{{Ct|f=120%|v=1|t=3|ANNOTATIONI DEL SETTIMO LIBRO.}}
<div class=note>
{{Sc|Iasone}} domò i Tori nel Regno di Colco che haveano i piedi di Metallo, e spiravano fuoco dalle narice, questa favola è tratta dall’historia perche havendo Pelia Re di Thesaglia, inteso dall’Oracolo, che si sarebbe sempre conservato nel Regno, se nelli sacrificij che si facevano à Nettuno, non fusse trovato alcuno che vi andasse ò ritornasse scalzo, perche avenendo questo doveva esser certo che era vicino alla morte, avenne che andando Iasone in fretta a que’ sacrifici, lasciò una scarpa nell’arena del fiume Anauro; e non s’arrestò per questo di andarvi dove fu veduto da Pelia, con grandissimo suo dispiacere; che dopò come pieno di sospetto della vita sua, per fuggir il destino predettogli dall’oracolo; deliberò di mandar Iasone, a procaciarse con le proprie fatiche, qualche dominio, Regno, o ricchezze lontane; conosciuto il nipote la intentione del Zio, fece una scelta de cinquanta de i primi giovani di quelle parti, e fece una nave lunga chiamandola Argo, e s’imbarcò con tutti i suoi, e navigò in Colco. Era Iasone bellissimo giovane, onde come prima lo vide Medea figliuola del re de Colchi s’inamorò fieramente di lui, e desiderando d’haverlo per marito venne a conventione con esso lui, che se le prometteva di sposarla, ch’ella gli havrebbe mostrata la via di vincere i Tori, che erano i Baroni del Regno di suo padre; ancor che fossero forti, e ben firmati in quel paese, per havere fintamente i piedi di metallo, e fossero molto soperbi spirando aere focoso dalle narici: e di amazzare ancora il fiero Dragone che guardava il vello d’oro, che non era altro che ’l sopraintendente del governo del Regno che haveva ogni diligente cura delle ricchezze, i cui denti seminati, che non sono altro, che le cagioni della sua morte; messero l’armi in mano a quei popoli l’un contra l’altro di maniera che fecero con la loro uccisione, il camino piu piano a Iasone di occupare quel Regno, e impadronirsi delle sue ricchezze. Il vello d’oro allegoricamente, significa la virtù, che si come l’oro, è precioso sopra ogni metallo cosi la virtùavanza di precio di gran lunga tutte le cose humane. La quale s’acquista dall’huomo nobile, figurato per Iasone, per opera della persuasione che significa Medea, che gli fa conoscere che non vi è altra via che ’l possi condurre alla felicità, che quella dell’impadronirse della virtu; ma per essere l’acquistarla cosa molto difficile essendo circondata e guardata da molte difficultà, fa bisogno vincere con fatiche, e sudori gli stimoli della carne, che sono molto fondati in noi, figurati per i Tori havendo i piedi di metallo; gettano poi aere focoso dalle narici, che significa le fiamme della libidine che del continuo si spicano da i medesimi stimoli, ma sopra tutto fa bisogno vincere il Dragone figurato per la superbia; la quale fa gran resistentia a quelli che tentano amicarse la virtù; come Reina de tutti i vicij, figurati per i denti seminati, e vinta; far che s’azzuffino insieme e s’amazzino di modo che ci rimanghi libero il passo, per divenire viruosi.
{{Sc|Felicemente}} descrive l’Anguillara gli affetti che si vanno ragirando intorno il cuore dell’inamorata Medea nella stanza, ''E par che voglia dir s’hò dal cuor bando'' e nelle seguenti. Esone ringiovanito per opra di Medea significa l’huomo che si spoglia de i vitij ne’ quali era già<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" />{{RigaIntestazione||settimo|113}}</noinclude><poem>
Mentre ella tiene in lui ferma la luce,
E sente quel, ch’il padre gli rammenta,
Ch’à manifesta morte si conduce,
Se di quel vello d’or l’impresa tenta;
Pensa di farsi à lui soccorso, e duce,
Perche tanta beltà non resti spenta,
Et aiutar quel cavaliero esterno
Contra il nemico à lui pensier paterno.
Poi c’hebbe con gran gloria, honore, e canto
Frisso sacrato à Giove il ricco vello,
Dove si fece il sacrificio santo,
Apparse un’arbor d’or pregiato, e bello:
Subito appese il pretioso manto
Frisso à l’apparso d’oro albor novello,
Alzando à Giove poi le luci, e ’l zelo
Mandò con questa voce i preghi al cielo.
Tu sai, quanta avaritia alberghi, e regni
Fra noi mortali ò Re del sommo choro,
E quanti rei pensier, quant’atti indegni
Faccia l’huom tutto ’l dì sol per quest’oro.
Perche mortale alcun mai non disegni
D’involar questo tuo nobil thesoro,
E perche in honor tuo qui sempre penda,
Manda qualchun, che ’l guardi, e che ’l difenda.
Non fu già il suo pregar d’effetto vano,
Ch’à pena il suono estremo al prego diede,
Ch’ivi apparver due tori, à cui Vulcano
Havea fatto di ferro il corno, e ’l piede.
Ben’opra esser parea de la sua mano,
Che ’l foro, onde lo spirto essala, e riede,
D’inestinguibil foco ogni hora ardea,
Simile à quel de la montagna Etnea.
D’eterno foco un drago anchora apparse,
Di veneno, e di sguardo oscuro, e fosco.
È ver, ch’alcun mai non uccise, od arse,
E non curò d’oprar fiamma, ne tosco,
Se non s’alcuno in van volle provarse
D’involar l’aureo pregio à l’aureo bosco.
E per far Giove il loco più sicuro,
Tutto cinse il giardin d’un fatal muro.
Le chiavi ad Eta Re de Colchi porse,
Che fu padre à Medea, con questa legge,
Che s’à quei mostri alcun chiedea d’opporse,
Per torre il don, che ’l ricco albergo regge,
Per porlo più del raro acquisto in forse,
Giurasse sopra il libro, che si legge
Sopra il divino altar, di far la prova,
Che Cadmo fe ne la sua patria nova.
Quando al fonte il dragon spense di Marte
Quel, c’hor l’herboso suol serpendo preme,
Palla, e ’l fratello la metà in disparte
Poser de denti insidiosi insieme,
E dopo il Re de la beata parte
Ad Eta diede il periglioso seme
Per sicurtà del bel giardin, ch’asconde
Il pretioso vello, e l’aurea fronde.
Et havea ben qualche rimordimento
Che si nobil guerrier restasse morto,
Ma troppo egli facea contra il suo intento,
Se privo di quel don gli rendea l’horto.
Però pria che gli desse il giuramento,
Del seme, e del periglio il fece accorto,
Ma scortol poi d’ogni timore ignudo,
Con occhio il fe giurar nemico, e crudo.
Ma se suarda Giason con crude ciglia
Il Re d’ira infiammato, e di dispetto;
Lo guarda, e l’ode l’infiammata figlia
Con occhio dolce, e con pietoso affetto.
Brama ei veder di lui l’herba vermiglia,
Ella il brama goder consorte in letto.
Egli il vorria veder restar senz’alma,
Ella di quell’impresa haver la palma.
Mentre con sommo suo diletto il vede,
Passa per gli occhi al cor l’imagin bella,
Là dove giunta imperiosa siede,
E scaccia l’alma fuor de la donzella,
La qual nel viso pallido fa fede,
Com’ella dal suo cor fatt’è rubella;
E mostrar cerca al bello amato volto,
Come l’imagin sua l’have il cor tolto.
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Mentre ella tiene in lui ferma la luce,
E sente quel, ch’il padre gli rammenta,
Ch’à manifesta morte si conduce,
Se di quel vello d’or l’impresa tenta;
Pensa di farsi à lui soccorso, e duce,
Perche tanta beltà non resti spenta,
Et aiutar quel cavaliero esterno
Contra il nemico à lui pensier paterno.
Poi c’hebbe con gran gloria, honore, e canto
Frisso sacrato à Giove il ricco vello,
Dove si fece il sacrificio santo,
Apparse un’arbor d’or pregiato, e bello:
Subito appese il pretioso manto
Frisso à l’apparso d’oro albor novello,
Alzando à Giove poi le luci, e ’l zelo
Mandò con questa voce i preghi al cielo.
Tu sai, quanta avaritia alberghi, e regni
Fra noi mortali ò Re del sommo choro,
E quanti rei pensier, quant’atti indegni
Faccia l’huom tutto ’l dì sol per quest’oro.
Perche mortale alcun mai non disegni
D’involar questo tuo nobil thesoro,
E perche in honor tuo qui sempre penda,
Manda qualchun, che ’l guardi, e che ’l difenda.
Non fu già il suo pregar d’effetto vano,
Ch’à pena il suono estremo al prego diede,
Ch’ivi apparver due tori, à cui Vulcano
Havea fatto di ferro il corno, e ’l piede.
Ben’opra esser parea de la sua mano,
Che ’l foro, onde lo spirto essala, e riede,
D’inestinguibil foco ogni hora ardea,
Simile à quel de la montagna Etnea.
D’eterno foco un drago anchora apparse,
Di veneno, e di sguardo oscuro, e fosco.
È ver, ch’alcun mai non uccise, od arse,
E non curò d’oprar fiamma, ne tosco,
Se non s’alcuno in van volle provarse
D’involar l’aureo pregio à l’aureo bosco.
E per far Giove il loco più sicuro,
Tutto cinse il giardin d’un fatal muro.
Le chiavi ad Eta Re de Colchi porse,
Che fu padre à Medea, con questa legge,
Che s’à quei mostri alcun chiedea d’opporse,
Per torre il don, che ’l ricco albergo regge,
Per porlo più del raro acquisto in forse,
Giurasse sopra il libro, che si legge
Sopra il divino altar, di far la prova,
Che Cadmo fe ne la sua patria nova.
Quando al fonte il dragon spense di Marte
Quel, c’hor l’herboso suol serpendo preme,
Palla, e ’l fratello la metà in disparte
Poser de denti insidiosi insieme,
E dopo il Re de la beata parte
Ad Eta diede il periglioso seme
Per sicurtà del bel giardin, ch’asconde
Il pretioso vello, e l’aurea fronde.
Et havea ben qualche rimordimento
Che si nobil guerrier restasse morto,
Ma troppo egli facea contra il suo intento,
Se privo di quel don gli rendea l’horto.
Però pria che gli desse il giuramento,
Del seme, e del periglio il fece accorto,
Ma scortol poi d’ogni timore ignudo,
Con occhio il fe giurar nemico, e crudo.
Ma se suarda Giason con crude ciglia
Il Re d’ira infiammato, e di dispetto;
Lo guarda, e l’ode l’infiammata figlia
Con occhio dolce, e con pietoso affetto.
Brama ei veder di lui l’herba vermiglia,
Ella il brama goder consorte in letto.
Egli il vorria veder restar senz’alma,
Ella di quell’impresa haver la palma.
Mentre con sommo suo diletto il vede,
Passa per gli occhi al cor l’imagin bella,
Là dove giunta imperiosa siede,
E scaccia l’alma fuor de la donzella,
La qual nel viso pallido fa fede,
Com’ella dal suo cor fatt’è rubella;
E mostrar cerca al bello amato volto,
Come l’imagin sua l’have il cor tolto.
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Mentre ella tiene in lui ferma la luce,
E sente quel, ch’il padre gli rammenta,
Ch’à manifesta morte si conduce,
Se di quel vello d’or l’impresa tenta;
Pensa di farsi à lui soccorso, e duce,
Perche tanta beltà non resti spenta,
Et aiutar quel cavaliero esterno
Contra il nemico à lui pensier paterno.
Poi c’hebbe con gran gloria, honore, e canto
Frisso sacrato à Giove il ricco vello,
Dove si fece il sacrificio santo,
Apparse un’arbor d’or pregiato, e bello:
Subito appese il pretioso manto
Frisso à l’apparso d’oro albor novello,
Alzando à Giove poi le luci, e ’l zelo
Mandò con questa voce i preghi al cielo.
Tu sai, quanta avaritia alberghi, e regni
Fra noi mortali ò Re del sommo choro,
E quanti rei pensier, quant’atti indegni
Faccia l’huom tutto ’l dì sol per quest’oro.
Perche mortale alcun mai non disegni
D’involar questo tuo nobil thesoro,
E perche in honor tuo qui sempre penda,
Manda qualchun, che ’l guardi, e che ’l difenda.
Non fu già il suo pregar d’effetto vano,
Ch’à pena il suono estremo al prego diede,
Ch’ivi apparver due tori, à cui Vulcano
Havea fatto di ferro il corno, e ’l piede.
Ben’opra esser parea de la sua mano,
Che ’l foro, onde lo spirto essala, e riede,
D’inestinguibil foco ogni hora ardea,
Simile à quel de la montagna Etnea.
D’eterno foco un drago anchora apparse,
Di veneno, e di sguardo oscuro, e fosco.
È ver, ch’alcun mai non uccise, od arse,
E non curò d’oprar fiamma, ne tosco,
Se non s’alcuno in van volle provarse
D’involar l’aureo pregio à l’aureo bosco.
E per far Giove il loco più sicuro,
Tutto cinse il giardin d’un fatal muro.
Le chiavi ad Eta Re de Colchi porse,
Che fu padre à Medea, con questa legge,
Che s’à quei mostri alcun chiedea d’opporse,
Per torre il don, che ’l ricco albergo regge,
Per porlo più del raro acquisto in forse,
Giurasse sopra il libro, che si legge
Sopra il divino altar, di far la prova,
Che Cadmo fe ne la sua patria nova.
Quando al fonte il dragon spense di Marte
Quel, c’hor l’herboso suol serpendo preme,
Palla, e ’l fratello la metà in disparte
Poser de denti insidiosi insieme,
E dopo il Re de la beata parte
Ad Eta diede il periglioso seme
Per sicurtà del bel giardin, ch’asconde
Il pretioso vello, e l’aurea fronde.
Et havea ben qualche rimordimento
Che si nobil guerrier restasse morto,
Ma troppo egli facea contra il suo intento,
Se privo di quel don gli rendea l’horto.
Però pria che gli desse il giuramento,
Del seme, e del periglio il fece accorto,
Ma scortol poi d’ogni timore ignudo,
Con occhio il fe giurar nemico, e crudo.
Ma se suarda Giason con crude ciglia
Il Re d’ira infiammato, e di dispetto;
Lo guarda, e l’ode l’infiammata figlia
Con occhio dolce, e con pietoso affetto.
Brama ei veder di lui l’herba vermiglia,
Ella il brama goder consorte in letto.
Egli il vorria veder restar senz’alma,
Ella di quell’impresa haver la palma.
Mentre con sommo suo diletto il vede,
Passa per gli occhi al cor l’imagin bella,
Là dove giunta imperiosa siede,
E scaccia l’alma fuor de la donzella,
La qual nel viso pallido fa fede,
Com’ella dal suo cor fatt’è rubella;
E mostrar cerca al bello amato volto,
Come l’imagin sua l’have il cor tolto.
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<noinclude><pagequality level="1" user="" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
E par, che voglia dir, s’ ho dal cor bando,
Per dar luogo à l’imago, ov’ il lum’ergo,
Novo ricorso, e patria ti dimando
In quella luce, ov’io mi specchio, e tergo.
Perch’io non vada eternamente errando,
Donami entro al tuo seno un novo albergo.
Se in bando io son per te, giusto è il mio grido,
Se chieggo in ricompensa un novo nido.
Oime, ch’ in tutto io son fuor del mio core,
E pur penso, discorro, et argomento,
E bramo à l’amor mio gratia, e favore,
Perche del suo desio resti contento.
Questi son de’ miracoli d’Amore.
Ch’io son priva de l’alma, e veggio, e sento.
Queste son cose pur troppo alte, e nove,
Ch’io vivo fuor del core, e non sò dove.
Hor come la fanciulla accesa scorge,
Con che guardo nemico il padre crudo
Su’l libro il giuramento al Greco porge,
Perche resti il suo cor de l’alma ignudo;
Maggior l’amor, maggior la pietà sorge,
E pensa farsi à lui riparo, e scudo.
Per salvar quelle membra alme, e leggiadre,
Pensa d’opporsi à quel, che debbe al padre.
Per lo giorno seguente la battaglia
Promette il Re, poich’ei n’è tanto vago,
E porlo dentro à la fatal muraglia,
Contra i tori fatali, e contra il drago.
Ben s’era accorto il guerrier di Thessaglia,
Ch’accesa era Medea de la sua imago.
E per trarne favor, gratia, e consiglio,
Mostrò sempre ver lei cortese il ciglio.
Per allhor si licentia ei da la corte,
Prima dal vecchio Re, poscia da lei.
E le dice pian pian, ben la mia sorte
Felice sopra ogn’un chiamar potrei,
S’io potessi haver voi per mia consorte,
E condurvi mia donna à regni Achei.
Però date favore al desir nostro,
Poi come piace à voi, me fate vostro.
Non può celar le piaghe alte, e profonde,
Ne l’aspra passion, che la tormenta
Medea; ma senza favellar risponde
Co i modi, e co i sospir, ch’ella è contenta.
Partiti l’un da l’altro, ella s’asconde
Ne la camera sua, ch’altri non senta,
E datasi à l’amore in preda in tutto,
Cosi dà varco à le parole, e al lutto.
Misera, qual fu mai si gran cordoglio,
Che possa al dolor mio far paragone?
Ch’io son sforzata, e faccia quel, ch’io voglio,
D’opormi à la pietade, e à la ragione.
Ben di ragione, e di pietà mi spoglio,
Se ’l valor del magnanimo Giasone
Lascio perir, ben’ hò di tigre, e d’orso
Il cor, s’ io posso, e non gli dò soccorso.
La sua beltà, la sua fiorita etate,
La nobiltà, il valor, l’ingegno, e l’arte,
E tante altre virtù, che ’l ciel gli ha date,
Che ’l fanno à nostri tempi un novo Marte,
L’amor promesso, e le parole grate,
Ond’io di tanto ben debbo haver parte,
Ogni più crudo cor dovrian far pio,
Di drago, e d’aspe, e maggiormente il mio.
E quando ei fosse anchor mortal nemico
Di me, del padre mio, de la mia gente,
Per sangue sparso suo, per odio antico,
Per qual si voglia passion di mente;
Di tante gratie havendo il cielo amico,
Dovrebbe questo cor trovar clemente,
Che non mandasser tanto ben sotterra
I tori, e ’l drago, e i figli della terra.
Hor s’egli è ver, ch’ ei m’ami, come ha detto,
D’un’ amor si sollecito, e si forte,
Che mi giudica degna di quel letto,
C’ha destinato per la sua consorte:
Se non amo anch’io lui di pari affetto,
S’ io non l’ involo à l’evidente morte;
Non son più ingrata, perfida, e crudele,
Che mai s’udisse in tragiche querele?
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Alex brollo
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E par, che voglia dir, s’ ho dal cor bando,
Per dar luogo à l’imago, ov’ il lum’ergo,
Novo ricorso, e patria ti dimando
In quella luce, ov’io mi specchio, e tergo.
Perch’io non vada eternamente errando,
Donami entro al tuo seno un novo albergo.
Se in bando io son per te, giusto è il mio grido,
Se chieggo in ricompensa un novo nido.
Oime, ch’ in tutto io son fuor del mio core,
E pur penso, discorro, et argomento,
E bramo à l’amor mio gratia, e favore,
Perche del suo desio resti contento.
Questi son de’ miracoli d’Amore.
Ch’io son priva de l’alma, e veggio, e sento.
Queste son cose pur troppo alte, e nove,
Ch’io vivo fuor del core, e non sò dove.
Hor come la fanciulla accesa scorge,
Con che guardo nemico il padre crudo
Su’l libro il giuramento al Greco porge,
Perche resti il suo cor de l’alma ignudo;
Maggior l’amor, maggior la pietà sorge,
E pensa farsi à lui riparo, e scudo.
Per salvar quelle membra alme, e leggiadre,
Pensa d’opporsi à quel, che debbe al padre.
Per lo giorno seguente la battaglia
Promette il Re, poich’ei n’è tanto vago,
E porlo dentro à la fatal muraglia,
Contra i tori fatali, e contra il drago.
Ben s’era accorto il guerrier di Thessaglia,
Ch’accesa era Medea de la sua imago.
E per trarne favor, gratia, e consiglio,
Mostrò sempre ver lei cortese il ciglio.
Per allhor si licentia ei da la corte,
Prima dal vecchio Re, poscia da lei.
E le dice pian pian, ben la mia sorte
Felice sopra ogn’un chiamar potrei,
S’io potessi haver voi per mia consorte,
E condurvi mia donna à regni Achei.
Però date favore al desir nostro,
Poi come piace à voi, me fate vostro.
Non può celar le piaghe alte, e profonde,
Ne l’aspra passion, che la tormenta
Medea; ma senza favellar risponde
Co i modi, e co i sospir, ch’ella è contenta.
Partiti l’un da l’altro, ella s’asconde
Ne la camera sua, ch’altri non senta,
E datasi à l’amore in preda in tutto,
Cosi dà varco à le parole, e al lutto.
Misera, qual fu mai si gran cordoglio,
Che possa al dolor mio far paragone?
Ch’io son sforzata, e faccia quel, ch’io voglio,
D’opormi à la pietade, e à la ragione.
Ben di ragione, e di pietà mi spoglio,
Se ’l valor del magnanimo Giasone
Lascio perir, ben’ hò di tigre, e d’orso
Il cor, s’ io posso, e non gli dò soccorso.
La sua beltà, la sua fiorita etate,
La nobiltà, il valor, l’ingegno, e l’arte,
E tante altre virtù, che ’l ciel gli ha date,
Che ’l fanno à nostri tempi un novo Marte,
L’amor promesso, e le parole grate,
Ond’io di tanto ben debbo haver parte,
Ogni più crudo cor dovrian far pio,
Di drago, e d’aspe, e maggiormente il mio.
E quando ei fosse anchor mortal nemico
Di me, del padre mio, de la mia gente,
Per sangue sparso suo, per odio antico,
Per qual si voglia passion di mente;
Di tante gratie havendo il cielo amico,
Dovrebbe questo cor trovar clemente,
Che non mandasser tanto ben sotterra
I tori, e ’l drago, e i figli della terra.
Hor s’egli è ver, ch’ ei m’ami, come ha detto,
D’un’ amor si sollecito, e si forte,
Che mi giudica degna di quel letto,
C’ha destinato per la sua consorte:
Se non amo anch’io lui di pari affetto,
S’ io non l’ involo à l’evidente morte;
Non son più ingrata, perfida, e crudele,
Che mai s’udisse in tragiche querele?
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Ma se da l’amor mossa, ond’io tutta ardo,
E dal valor, ch’in lui tanto commendo,
Con pietoso occhio il mio Giason riguardo,
E la mirabil sua beltà difendo,
Ver l’affetto paterno il piè ritardo,
La paterna pietà del tutto offendo.
Ch’un, che vuol torgli, à favorire io vegno,
Il più ricco thesor, c’habbia nel regno.
Misera, à che risolvo il dubbio core?
Quanto ci penso più, più mi confondo.
Favorirò chi quel vuol torci honore,
Che celebri ne fa per tutto il mondo?
Un, che con ogni suo sforzo, e valore,
Per privar l’arbor d’or del ricco pondo,
Vien si da lungi. e s’empie il suo desio,
Perpetuo scorno fia del padre, e mio?
Che farò dunque misera? io conosco
Quanta sia la pietà, che debbo al padre.
Ma soffrirò, ch’in bocca entrino al tosco
Si delicate membra, e si leggiadre?
Soffrirò, che di ferro armate, e bosco
Le fresche de la terra uscite squadre
Voltin l’arme in suo danno? ò ’l fatal toro
L’alzi su’l corno al ciel per salvar l’oro?
Non è, misera me, saggio consiglio
D’una figlia d’un Re, d’una donzella,
S’io vengo à favorir d’Esone il figlio,
E toglio al padre mio gioia si bella.
Perche terrò cur’io del suo periglio,
S’egli ha ver noi la mente empia, e rubella?
Misera, il mio dover conosco, e veggio,
Pur approvo il migliore, e seguo il peggio.
Seguane quel, che vuol, vò dargli aita
Contra il mio honor, contr’Eta, e contra il regno,
E non voglio veder toglier la vita
A si lodato giovane, e si degno.
E poi vò seco, ove il suo amor m’invita,
Gir per l’ignoto mar su’l novo legno;
E per eterna mia gioia, e riposo
Vò far Grecia mia patria, e lui mio sposo.
Ma come ardirò mai solcar quel mare,
Ú son le navi misere condotte?
Ú si sogliono i monti insieme urtare?
Dove da venti son gittate, e rotte?
Dove si sente Scilla ogn’hor latrare?
Ú l’avara Cariddi i legni inghiotte?
Perderò l’honor mio con questo inganno,
Per gire al certo mio periglio, e danno?
A che tanto timor, tanto cordoglio
Potrà morso si fral tenermi in freno?
Se tener de l’honor conto io non voglio,
Debbo io stimar la vita, che val meno?
Non ho da temer mar, vento, ne scoglio,
Pur ch’io mi trovi al mio Giasone in seno.
E se pur debbo al timor dar ricetto,
Debbo temer di lui, ch’egli è ’l mio obbietto.
Dunque per un non giusto, e van desio
Debbo fare al mio sangue il cor rubello?
Abbandonare il mio genitor pio?
La mia germana? e ’l mio caro fratello?
Lasciar l’antico, e regio albergo mio?
Et un regno si fertile, e si bello?
Per gir fra genti strane in un paese,
Dove le note mie non sieno intese?
Anzi son questi miei paesi ignudi
Di quei beni, onde ricca è l’altra parte.
Costumi regnan qui barbari, e crudi,
Quivi ogni fatto illustre, ogni degna arte,
Quivi son le cittadi, e i dotti studi,
Ch’empion le nostre anchor barbare carte.
E se le cose grandi insieme adeguo,
Le grandi non lascio io, le grandi seguo.
Che fai, cieca? che fai? vuoi tu dar fede
Ad un, cui mai non hai parlato, ò visto?
Ad un, che forse il tuo connubio chiede,
Perche gl’insegni à far del vello acquisto?
Pensa (e non lasciar pria la patria sede)
Quanto sarà il tuo stato acerbo, e tristo,
S’egli nel regno patrio ti raccoglie
Da fanciulla impudica, e non da moglie.
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Ma non promette un tanto ignobil’atto
La sua virtute, e ’l suo nobil sembiante.
Gli farò replicar più volte il patto,
E vorrò haverne il giuramento avante.
Chiamerò testimonij à mio contratto
L’alme de le contrade eterne, e sante:
E temer non dovranno i voti miei,
Ch’ei manchi à se medesmo, e à sommi Dei.
Mentre risolve à questo il dubbio petto,
Se l’appresenta il debito, e l’honore,
La paterna pietate, e ’l patrio affetto,
E dan vittoria al suo pensier migliore.
Le ricordan (se viene questo effetto)
Quel, che diran di lei le regie nuore.
Sarà (se per tal via si fa consorte)
La favola del volgo, e d’ogni corte.
Havea l’amor già ributtato, e vinto,
E già fermato havea nel suo pensiero,
Se ben dovea Giason restarne estinto,
Di darsi in tutto à la ragione, e al vero.
E havendo al casto fin l’animo accinto,
Fuor del palazzo havea preso il sentiero,
Per visitare à piedi il tempio santo
D’Hecate, ond’hebbe già l’arte, e l’incanto.
Non have ne gli incanti in tutto ’l mondo,
Maggiore alcun mortal dottrina, e fede
Di lei, c’hor face il suo terrestre pondo
Verso il tempio portar dal proprio piede.
Intanto, più che mai bello, e giocondo
Giason, che vien dal tempio, incontra, e vede.
Humile ei la saluta; e fa, ch’anch’ella
Gli rende l’accoglienza, e la favella.
Qual, se l’ingegno human gran foco ammorza,
S’avien, che un sol carbon viva, e si copra,
Poi gli apra il vento la cinerea scorza,
Tanto che in fiamma il suo splendor si scopra,
Racquista il vivo ardor, l’antica forza,
E come pria divora i legni, e l’opra:
Tal l’ascosa scintilla à l’alma vista
Di lei l’antico suo vigore acquista.
Come vede il suo amato, e l’aura sente
Del dolce suon de la soave voce,
S’infiamma il foco occulto, e si risente,
E come già facea, la strugge, e coce.
Tal, ch’ella al casto fin più non consente,
Ma si dà in preda à quel, che più le noce,
E tanto più, che quel, ch’à ciò la chiama,
Tutto giura osservar quel, ch’ella brama.
Gli porge accortamente un vel da parte,
Dove eran chiuse alcune herbe incantate,
E poi gl’insegna le parole, e l’arte,
E ’n qual maniera denno esser usate.
Sparir l’altro mattin Saturno, e Marte
Havean del biondo Dio le chiome ornate,
Quando Giason di quella guerra vago
Comparse contra i tori, e contra il drago.
Convengon tutti i popoli d’intorno
A rimirar l’insolito periglio,
Stà in mezzo il Re di scettro, e d’ostro adorno
Con empio core, e disdegnato ciglio.
Compar di ferro intanto il piede, e ’l corno
Contra d’Esone il coraggioso figlio.
La fiamma de’ due tori empia, e superba
Abbrucia l’aria, e strugge i fiori, e l’herba.
Come risuona, e freme una fornace,
Mentre maggiore in lei l’ardor risplende,
Come freme la calce, che si sface
Mentre che l’acqua in lei l’ardore accende;
Cosi mentre la fiamma empia, e vorace
De’ tori il campo, e d’ogn’intorno offende
Nel petto, ond’ha il principio, e ’l proprio nido,
Con perpetuo esshalar rinforza il grido.
Zappan co’l piede il polveroso sito,
E fan correr per l’ossa à Greci il gielo,
E ’l ciel di lungo empiendo alto muggito,
Fanno arricciare à gli Argonauti il pelo.
Poi corron contra il giovinetto ardito,
Per torlo sù le corna, e darlo al cielo.
Gli attende il Greco, e dice i versi intanto,
E getta contra lor l’herba, e l’incanto.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|116}}</noinclude><poem>
Verso il forte Giason veloci vanno,
E danno ogni hor per via più forza al corso,
Ma giunti appresso à lui fermi si stanno,
Che ’l canto di Medea lor pone il morso
Vist’ei, che non gli posson più far danno,
Lor palpa dolce la giogaia, e ’l dorso,
E tanto ardito hor gli combatte, hor prega,
Ch’à l’odioso giogo al fin gli lega.
Con lo stimolo i tori instiga, e preme,
E co’l vomero acuto apre la terra,
E l’uno, e l’altro bue ne mugghia, e geme:
Ma il crudo giogo à lor l’orgoglio atterra.
Giason vi sparge il venenoso seme,
E poi con novo solco il pon sotterra.
S’ingravida il terren, ne molto bada,
Che manda fuor la mostruosa biada.
Ornati di metallo il capo, e ’l fianco,
Molti uscir de la terra huomini armati,
D’aspetto ogn’un si fier, di cor si franco,
Che di Bellona, e Marte parean nati.
A Greci fer venir pallido, e bianco
Il volto, poi ch’i ferri hebber chinati,
Tutti ristretti in ordine, e in battaglia
Contra il guerriero invitto di Thessaglia.
Ma à più d’ogni altro fè pallido il viso
A la figlia del Re, se ben sapea,
Che non potea da loro essere ucciso,
Se de l’incanto suo memoria havea.
Si stà Giason raccolto in sù l’aviso,
E poi secondo gl’insegnò Medea,
Un sasso in mezzo à l’inimico stuolo
Aventa, e rompe tutti un colpo solo.
Come in mezzo del campo il sasso scende,
E ’l verso ei dice magico opportuno,
L’un fratel contra l’altro in modo accende,
Che fan di lor due campi, dov’era uno.
L’infiammata Medea, che non intende,
Che debbia il vecchio Eson vestir di bruno,
Più d’un verso adiutor dice con fede,
Secondo l’arte sua comanda, e chiede.
L’incanto, che il lor primo intento guasta,
Infiamma al fiero Marte ambe le schiere,
Tal, che l’un contra l’altro il ferro, e l’hasta
Con gridi, e con minaccie abbassa, e fere;
E con tal’odio, e rabbia si contrasta,
Che fan vermiglie l’herbe, e le riviere:
E i miseri fratei di varia sorte
Per le mutue percosse hanno la morte.
Un percosso di stral sù l’herba verde
Cade, quei di spunton, questi di spada,
Tanto, che tutta al fin la vita perde
La già superba, et animata biada.
L’animoso Giason, che vuole haver de
L’impresa il sommo honor, prende la strada
Verso il troncon, che di doppio oro è grave,
Contra il crudo dragon, ch’in guardia l’have.
Il venenoso drago alza la testa
Quando vede venir l’ardito Greco,
Co’l ferro ignudo in pugno, e che s’appresta
Per lo vello de l’oro à pugnar seco;
Gli và superbo incontra, et ei l’arresta,
E con l’herbe, e co i versi il rende cieco.
Gl’incanti, e le parole tanto ponno,
Che danno il miser drago in preda al sonno.
S’allegran gli Argonauti, e fanno honore
Al lor Signor vittorioso, e degno,
E mostra aperto ogn’un nel volto il core,
Ogn’uno il valor suo loda, e l’ingegno.
Corre secondo il patto il vincitore,
E toglie il ricco pregio à l’aureo legno:
No’l soffre volentier quel, ch’ivi regge,
Ma non vuol contraporsi à la sua legge.
La barbara fanciulla anch’ella brama
D’honorare, e abbracciar l’amato Duce,
Ma l’honestà da questo la richiama,
Ne vuol, che l’amor suo scopra à la luce.
Poco dopò con quel, ch’ella tant’ama,
Su’l legno ascosamente si conduce:
Spiega Giasone al vento il lino attorto,
E prende tutto lieto il patrio porto.
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Verso il forte Giason veloci vanno,
E danno ogni hor per via più forza al corso,
Ma giunti appresso à lui fermi si stanno,
Che ’l canto di Medea lor pone il morso
Vist’ei, che non gli posson più far danno,
Lor palpa dolce la giogaia, e ’l dorso,
E tanto ardito hor gli combatte, hor prega,
Ch’à l’odioso giogo al fin gli lega.
Con lo stimolo i tori instiga, e preme,
E co’l vomero acuto apre la terra,
E l’uno, e l’altro bue ne mugghia, e geme:
Ma il crudo giogo à lor l’orgoglio atterra.
Giason vi sparge il venenoso seme,
E poi con novo solco il pon sotterra.
S’ingravida il terren, ne molto bada,
Che manda fuor la mostruosa biada.
Ornati di metallo il capo, e ’l fianco,
Molti uscir de la terra huomini armati,
D’aspetto ogn’un si fier, di cor si franco,
Che di Bellona, e Marte parean nati.
A Greci fer venir pallido, e bianco
Il volto, poi ch’i ferri hebber chinati,
Tutti ristretti in ordine, e in battaglia
Contra il guerriero invitto di Thessaglia.
Ma à più d’ogni altro fè pallido il viso
A la figlia del Re, se ben sapea,
Che non potea da loro essere ucciso,
Se de l’incanto suo memoria havea.
Si stà Giason raccolto in sù l’aviso,
E poi secondo gl’insegnò Medea,
Un sasso in mezzo à l’inimico stuolo
Aventa, e rompe tutti un colpo solo.
Come in mezzo del campo il sasso scende,
E ’l verso ei dice magico opportuno,
L’un fratel contra l’altro in modo accende,
Che fan di lor due campi, dov’era uno.
L’infiammata Medea, che non intende,
Che debbia il vecchio Eson vestir di bruno,
Più d’un verso adiutor dice con fede,
Secondo l’arte sua comanda, e chiede.
L’incanto, che il lor primo intento guasta,
Infiamma al fiero Marte ambe le schiere,
Tal, che l’un contra l’altro il ferro, e l’hasta
Con gridi, e con minaccie abbassa, e fere;
E con tal’odio, e rabbia si contrasta,
Che fan vermiglie l’herbe, e le riviere:
E i miseri fratei di varia sorte
Per le mutue percosse hanno la morte.
Un percosso di stral sù l’herba verde
Cade, quei di spunton, questi di spada,
Tanto, che tutta al fin la vita perde
La già superba, et animata biada.
L’animoso Giason, che vuole haver de
L’impresa il sommo honor, prende la strada
Verso il troncon, che di doppio oro è grave,
Contra il crudo dragon, ch’in guardia l’have.
Il venenoso drago alza la testa
Quando vede venir l’ardito Greco,
Co’l ferro ignudo in pugno, e che s’appresta
Per lo vello de l’oro à pugnar seco;
Gli và superbo incontra, et ei l’arresta,
E con l’herbe, e co i versi il rende cieco.
Gl’incanti, e le parole tanto ponno,
Che danno il miser drago in preda al sonno.
S’allegran gli Argonauti, e fanno honore
Al lor Signor vittorioso, e degno,
E mostra aperto ogn’un nel volto il core,
Ogn’uno il valor suo loda, e l’ingegno.
Corre secondo il patto il vincitore,
E toglie il ricco pregio à l’aureo legno:
No’l soffre volentier quel, ch’ivi regge,
Ma non vuol contraporsi à la sua legge.
La barbara fanciulla anch’ella brama
D’honorare, e abbracciar l’amato Duce,
Ma l’honestà da questo la richiama,
Ne vuol, che l’amor suo scopra à la luce.
Poco dopò con quel, ch’ella tant’ama,
Su’l legno ascosamente si conduce:
Spiega Giasone al vento il lino attorto,
E prende tutto lieto il patrio porto.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="1" user="" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Come la nave vincitrice torna
Con lo vello de l’or per tanto mare,
Di Thessaglia ogni madre il crine adorna,
E porta incenso, e mirra al sacro altare.
Indorano à le vittime le corna
I vecchi padri, e fan l’altar fumare,
E al ciel dan gratie, che da tai perigli
Habbia salvati i coraggiosi figli.
Ogni ordine, ogni etate al tempio venne
A venerare il santo sacrificio,
Eccetto il vecchio Eson, che gli convenne
Mancar per li troppi anni à tanto officio.
La decrepita età per forza il tenne
Rinchiuso ne l’antico alto edificio.
E fu cagion, che ’l suo pietoso figlio
Prendesse à tanto mal questo consiglio.
Rivolto à la dolcissima consorte,
Scoperse il suo pensier con questo suono.
Del vecchio padre mio già saggio, e forte
Ne l’arme, e ne’ consigli esperto, e buono,
Per esser troppo prossimo à la morte
Le forze antiche, e le sententie sono
Perdute, e fuor del senno; et io vorrei
Dare una parte à lui de gli anni miei.
Se bene i merti tuoi son tanti, e tanti,
Che debitor perpetuo mi ti chiamo,
Se posson tanto i tuoi stupendi incanti
(Ma che non ponno?) un’altra gratia io bramo.
Vorrei de gli anni miei donare alquanti
A quel, cui debbo tanto, e cui tant’amo:
Si che levato à lui lo schivo aspetto
Di vigore abondasse, e d’intelletto.
Non potè udir la moglie senza sdegno,
Ne senza lagrimar gli accenti sui.
Passa la tua pietà poi disse il segno,
Se ben giusto è ’l desio d’aiutar lui;
Non stimo al mondo alcun di te più degno,
Ne gli anni à te vò tor per dargli altrui.
A l’arte maga, ad Hecate non piaccia,
Ch’à gli anni illustri tuoi tal torto io faccia.
Ma farò ben non men gradite prove,
Per adempir pensier si giusto, e pio,
Poi ch’à maggior pietate Eson mi move,
Che non fè mai l’amor del padre mio.
Se la triforme Dea quella in me piove
Gratia, ch’è proprio aiuto al tuo desio;
Io porrò lui fra quei, che ponno, e sanno,
Senza ch’à gli anni tuoi faccia alcun danno.
Tre volte il biondo Dio, che ’l mondo aggiorna,
Havea nascosto il luminoso raggio;
Tre volte havea la Dea di stelle adorna,
Fatto sopra i mortali il suo viaggio;
E già congiunte havea Cinthia le corna,
E dava del suo lume il maggior saggio;
Quando Medea lasciò l’amate piume
Et al propitio uscì notturno lume.
Discinta, e scalza, e con le chiome sparte
Sopra gli homeri inconti ella uscì sola
Ne l’hora, ch’è ne la più alta parte
Del ciel la notte, e in ver l’Hesperia vola,
Quando più grato il suo favor comparte
Il sonno, e ch’à mortai la mente invola,
Quando per nostro commodo, e quiete
Ne sparge i sensi del liquor di Lete.
Ne l’huom, ne altro animale il piè non porta,
Muto, et attorto stà l’aureo serpente;
Humido tace l’aere, e l’aura è morta,
Ne una fronde pur mover si sente;
Soli ardon gli astri, à cui la maga accorta
Tre volte alzò le man, gli occhi, e la mente;
E tre co’l fiume viro il crin cosperse,
E tre senza parlar le labbra aperse.
Con le ginocchia al fin la terra preme,
E di novo alza à la parte alta, e bella
La mente, e gli occhi, e le man giunte insieme,
E con sommesso suon cosi favella.
Porgete aiuto à l’arte, ond’hoggi ho speme
Di rendere ad Eson l’età novella,
Tu fida notte, e voi propinqui Numi
Di monti, e boschi, e d’onde salse, e fiumi.
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Alex brollo
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Come la nave vincitrice torna
Con lo vello de l’or per tanto mare,
Di Thessaglia ogni madre il crine adorna,
E porta incenso, e mirra al sacro altare.
Indorano à le vittime le corna
I vecchi padri, e fan l’altar fumare,
E al ciel dan gratie, che da tai perigli
Habbia salvati i coraggiosi figli.
Ogni ordine, ogni etate al tempio venne
A venerare il santo sacrificio,
Eccetto il vecchio Eson, che gli convenne
Mancar per li troppi anni à tanto officio.
La decrepita età per forza il tenne
Rinchiuso ne l’antico alto edificio.
E fu cagion, che ’l suo pietoso figlio
Prendesse à tanto mal questo consiglio.
Rivolto à la dolcissima consorte,
Scoperse il suo pensier con questo suono.
Del vecchio padre mio già saggio, e forte
Ne l’arme, e ne’ consigli esperto, e buono,
Per esser troppo prossimo à la morte
Le forze antiche, e le sententie sono
Perdute, e fuor del senno; et io vorrei
Dare una parte à lui de gli anni miei.
Se bene i merti tuoi son tanti, e tanti,
Che debitor perpetuo mi ti chiamo,
Se posson tanto i tuoi stupendi incanti
(Ma che non ponno?) un’altra gratia io bramo.
Vorrei de gli anni miei donare alquanti
A quel, cui debbo tanto, e cui tant’amo:
Si che levato à lui lo schivo aspetto
Di vigore abondasse, e d’intelletto.
Non potè udir la moglie senza sdegno,
Ne senza lagrimar gli accenti sui.
Passa la tua pietà poi disse il segno,
Se ben giusto è ’l desio d’aiutar lui;
Non stimo al mondo alcun di te più degno,
Ne gli anni à te vò tor per dargli altrui.
A l’arte maga, ad Hecate non piaccia,
Ch’à gli anni illustri tuoi tal torto io faccia.
Ma farò ben non men gradite prove,
Per adempir pensier si giusto, e pio,
Poi ch’à maggior pietate Eson mi move,
Che non fè mai l’amor del padre mio.
Se la triforme Dea quella in me piove
Gratia, ch’è proprio aiuto al tuo desio;
Io porrò lui fra quei, che ponno, e sanno,
Senza ch’à gli anni tuoi faccia alcun danno.
Tre volte il biondo Dio, che ’l mondo aggiorna,
Havea nascosto il luminoso raggio;
Tre volte havea la Dea di stelle adorna,
Fatto sopra i mortali il suo viaggio;
E già congiunte havea Cinthia le corna,
E dava del suo lume il maggior saggio;
Quando Medea lasciò l’amate piume
Et al propitio uscì notturno lume.
Discinta, e scalza, e con le chiome sparte
Sopra gli homeri inconti ella uscì sola
Ne l’hora, ch’è ne la più alta parte
Del ciel la notte, e in ver l’Hesperia vola,
Quando più grato il suo favor comparte
Il sonno, e ch’à mortai la mente invola,
Quando per nostro commodo, e quiete
Ne sparge i sensi del liquor di Lete.
Ne l’huom, ne altro animale il piè non porta,
Muto, et attorto stà l’aureo serpente;
Humido tace l’aere, e l’aura è morta,
Ne una fronde pur mover si sente;
Soli ardon gli astri, à cui la maga accorta
Tre volte alzò le man, gli occhi, e la mente;
E tre co’l fiume viro il crin cosperse,
E tre senza parlar le labbra aperse.
Con le ginocchia al fin la terra preme,
E di novo alza à la parte alta, e bella
La mente, e gli occhi, e le man giunte insieme,
E con sommesso suon cosi favella.
Porgete aiuto à l’arte, ond’hoggi ho speme
Di rendere ad Eson l’età novella,
Tu fida notte, e voi propinqui Numi
Di monti, e boschi, e d’onde salse, e fiumi.
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E voi tre volti, ch’un sol corpo havete
Ne la triforme Dea, non meno invoco.
E voi, che con la Luna aurea splendete
Lumi del ciel dopo il diurno foco,
A l’humil prego mio favor porgete,
Che cercar possa ogni opportuno loco,
Si ch’io ritrovi ogni radice, et herba,
Che può rendere à l’huom l’etade acerba.
Porgi à noi santa Dea propitio il braccio
Tu, ch’à noi maghi e l’herbe, e l’arte insegni,
Si che per l’alta impresa, c’hora abbraccio,
Possa cercare i necessarij regni.
Io pur co’l tuo favor le nubi scaccio
Dal cielo, e scopro i suoi siderei segni.
Co’l tuo favor (quando il contrario adopro)
Tutti i lumi del ciel co i nembi copro.
Nel mar (s’io voglio) hor placo, hor rompo l’onde,
Fò la terra mugghiar, tremare i monti,
E facendo stupir le stesse sponde,
Tornar fo i fiumi in sù ne’ proprij fonti.
S’io chiamo Borea in aria, ei mi risponde,
E gli Austri, e gli Euri al mio voler son pronti:
E quando l’arte mia loro è contraria,
Dal ciel gli scaccia, e fa tranquilla l’aria.
L’ombra fo da sepolcri uscir sotterra:
E tal l’incanto mio forz’hà, che puote
Luna tirar te co’l tuo carro in terra,
Se ben del rame il suon l’aria percote.
Onde mi cercan gli huomini far guerra,
Per impedir le mie possenti note,
Le note, onde pur dianzi tanto fei,
Ch’ottenni tutti in Colco i voti miei.
Co i versi, e co’l favor, che mi porgeste,
Fei, ch’à Giason non nocque il foco, e’l toro,
E quelle, che di terra armate teste
Usciro, uccider fei tutte fra loro.
Fei, che ’l sonno abbassò l’altere creste
Al drago, e diedi al Greco il vello, e l’oro,
Et hor co i versi, e co’l favor, ch’io chiamo,
Spero venire à fin di quel, ch’io bramo.
E tosto io l’otterrò, che chiaro veggio
Propitio al desir mio l’ardor soprano,
E che l’etheree stelle à quel, ch’io chieggio,
Non han mostrato il lor splendore in vano,
Poi che scorgo dal ciel venir quel seggio,
Che puote il corpo mio condur lontano.
Un carro nel formar di questi accenti
Tirato in giù venia da due serpenti.
Con larghe rote in terra il carro scende
Dal mondo glorioso de le stelle.
Medea di novo al ciel gratie ne rende,
Alzando gli occhi à l’alme elette, e belle.
E poi lieta, e sicura il carro ascende,
Allenta il fren, percote l’aurea pelle
Con la sferza opportuna, ch’ivi trova,
E fa de l’ali lor la nota prova.
Al notturno maggior di Delia lume
Per la Thessaglia fertile, e gioconda
Fa battere al dragon l’aurate piume,
E tutta la trascorre, e la circonda.
Et hor prende dal monte, et hor dal fiume
L’herba, che brama, e in quelle parti abonda,
De le quai con la barba altra n’elice,
Altra ne taglia, e vuol senza radice.
E ’n Tempe, e ’n Pindo, e ’n Ossa il carro feo
Scender, dove de l’herbe in copia colse,
E dopo verso Anfriso, et Enipeo,
E verso gli altri fiumi il carro volse.
Non lasciò immune Sperchio, ne Peneo,
E tante herbe trovò, quante ne volse:
E poi lasciando adietro il fiume, e ’l monte,
Ver l’albergo d’Eson drizzò la fronte.
Quando l’herbe opportune ella hebbe colte,
Secondo l’arte sua comanda, e vuole,
E che l’hebbe su’l carro in un raccolte
Con le propitie, e debite parole,
L’ombre del basso mondo oscure, e folte
L’havean nove fiate ascoso il Sole,
E l’herbe, e i fiori, ond’era il carro adorno,
Fer questa maraviglia il nono giorno.
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Alex brollo
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E voi tre volti, ch’un sol corpo havete
Ne la triforme Dea, non meno invoco.
E voi, che con la Luna aurea splendete
Lumi del ciel dopo il diurno foco,
A l’humil prego mio favor porgete,
Che cercar possa ogni opportuno loco,
Si ch’io ritrovi ogni radice, et herba,
Che può rendere à l’huom l’etade acerba.
Porgi à noi santa Dea propitio il braccio
Tu, ch’à noi maghi e l’herbe, e l’arte insegni,
Si che per l’alta impresa, c’hora abbraccio,
Possa cercare i necessarij regni.
Io pur co’l tuo favor le nubi scaccio
Dal cielo, e scopro i suoi siderei segni.
Co’l tuo favor (quando il contrario adopro)
Tutti i lumi del ciel co i nembi copro.
Nel mar (s’io voglio) hor placo, hor rompo l’onde,
Fò la terra mugghiar, tremare i monti,
E facendo stupir le stesse sponde,
Tornar fo i fiumi in sù ne’ proprij fonti.
S’io chiamo Borea in aria, ei mi risponde,
E gli Austri, e gli Euri al mio voler son pronti:
E quando l’arte mia loro è contraria,
Dal ciel gli scaccia, e fa tranquilla l’aria.
L’ombra fo da sepolcri uscir sotterra:
E tal l’incanto mio forz’hà, che puote
Luna tirar te co’l tuo carro in terra,
Se ben del rame il suon l’aria percote.
Onde mi cercan gli huomini far guerra,
Per impedir le mie possenti note,
Le note, onde pur dianzi tanto fei,
Ch’ottenni tutti in Colco i voti miei.
Co i versi, e co’l favor, che mi porgeste,
Fei, ch’à Giason non nocque il foco, e’l toro,
E quelle, che di terra armate teste
Usciro, uccider fei tutte fra loro.
Fei, che ’l sonno abbassò l’altere creste
Al drago, e diedi al Greco il vello, e l’oro,
Et hor co i versi, e co’l favor, ch’io chiamo,
Spero venire à fin di quel, ch’io bramo.
E tosto io l’otterrò, che chiaro veggio
Propitio al desir mio l’ardor soprano,
E che l’etheree stelle à quel, ch’io chieggio,
Non han mostrato il lor splendore in vano,
Poi che scorgo dal ciel venir quel seggio,
Che puote il corpo mio condur lontano.
Un carro nel formar di questi accenti
Tirato in giù venia da due serpenti.
Con larghe rote in terra il carro scende
Dal mondo glorioso de le stelle.
Medea di novo al ciel gratie ne rende,
Alzando gli occhi à l’alme elette, e belle.
E poi lieta, e sicura il carro ascende,
Allenta il fren, percote l’aurea pelle
Con la sferza opportuna, ch’ivi trova,
E fa de l’ali lor la nota prova.
Al notturno maggior di Delia lume
Per la Thessaglia fertile, e gioconda
Fa battere al dragon l’aurate piume,
E tutta la trascorre, e la circonda.
Et hor prende dal monte, et hor dal fiume
L’herba, che brama, e in quelle parti abonda,
De le quai con la barba altra n’elice,
Altra ne taglia, e vuol senza radice.
E ’n Tempe, e ’n Pindo, e ’n Ossa il carro feo
Scender, dove de l’herbe in copia colse,
E dopo verso Anfriso, et Enipeo,
E verso gli altri fiumi il carro volse.
Non lasciò immune Sperchio, ne Peneo,
E tante herbe trovò, quante ne volse:
E poi lasciando adietro il fiume, e ’l monte,
Ver l’albergo d’Eson drizzò la fronte.
Quando l’herbe opportune ella hebbe colte,
Secondo l’arte sua comanda, e vuole,
E che l’hebbe su’l carro in un raccolte
Con le propitie, e debite parole,
L’ombre del basso mondo oscure, e folte
L’havean nove fiate ascoso il Sole,
E l’herbe, e i fiori, ond’era il carro adorno,
Fer questa maraviglia il nono giorno.
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Il grato odor de l’incantate foglie,
Che continuo sentir gli aurati augelli,
Fecer, che quei gittar l’antiche spoglie,
E diventar più giovani, e più belli.
A l’albergo la donna il fren raccoglie
Di quello da cui vuol dar gli anni novelli:
Non entra per allhor dentro al coperto,
Ma vuol, che sia il suo tetto il cielo aperto.
Fugge il marito, e ’l coniugal diletto,
E di due belli altari orna la corte,
De quali il destro ad Ecate fu eretto,
L’altro à l’età più giovane, e più forte.
E poi ch’à quelli ornò di sopra il letto
D’herbe, e di fior d’ogni propitia sorte,
Scelse fra molti arieti uno il più bello,
C’havea dal capo al piè d’inchiostro il vello.
Co i crini sparsi come una baccante
Prima, che co’l coltel l’ariete uccida,
Gli afferra un corno, e con parole sante
Tre volte intorno à i sacri altari il guida,
Innanzi à l’are poi ferma le piante,
Fra l’una, e l’altra Dea propitia, e fida,
E fa del sangue suo tepida, e rossa
La fatta à questo fin magica fossa.
Sopra gli altari poi fe, che ’l foco arse,
Indi di latte una gran tazza prese,
Una di mele, e su’l monton le sparse
Pria che ’l ponesse in sù le fiamme accese.
E dopo fe, che ’l vecchio Eson comparse,
E sopra l’herbe magiche il distese
Co’ versi havendo pria, che cio far ponno,
Date l’antiche membra in grembo al sonno.
Tutti i servi, e Giason fa star lontani,
Per l’innanzi d’altrui non cerca officio,
Non vuol, ch’à veder stian gli occhi profani
I misterij secreti, e ’l sacrificio.
China il ginocchio pio, giunge le mani,
E gli occhi intende à l’infernal giudicio,
E mentre arde il monton sù l’altar santo,
Placa gli Stigij Dei con questo canto.
Le Stigie forze tue Plutone amiche
Rendi à la mia rinovatrice palma,
E non voler, ch’indarno io m’affatiche
Per far nova ad Eson la carnal salma,
Non voler defraudar le membra antiche
De la vecchia insensata, e miser’alma,
E se ben toglio il sangue, à le sue vene,
Non dar lo spirto anchora à le tue pene.
Mandati questi preghi alzossi, e tolse
Fatte per questo fin faci diverse,
E dove il sangue del monton raccolse,
Tutte con muto orar le tinse, e asperse.
Et accese, e locate, il canto sciolse,
Et à Pluton di novo si converse,
Tre volte humile à lui piegò il ginocchio,
E tre volte drizzogli il prego, e l’occhio.
Fatto ogni gesto pio, detto ogni carme,
Che placato rendea l’inferno, e Pluto,
A la Dea maga, et à le magich’arme
Paga con altri preghi altro tributo.
Poi prega l’altra Dea, che per lei s’arme,
E non le manchi del suo fido aiuto.
Tre volte il vecchio poi purga co’l lume
Acceso, e tre co’l zolfo, e tre co’l fiume.
Nel cavo rame intanto alto, e capace
L’acque, i fior, le radici, e l’herbe, e ’l seme,
Per lo calor, che rende la fornace,
Tutte le lor virtù meschiano insieme.
E mentre il foco, e ’l fonte il tutto sface,
S’alza la spuma, e l’acqua ondeggia, e freme,
E l’onde andando, e l’herbe hor sopra, hor sotto,
Fanno un roco romor perpetuo, e rotto.
De sassi, c’ha de l’ultimo Oriente,
E quelle arene anchor con l’herbe mesce,
Che lava l’Oceano in Occidente,
Mentre due volte il giorno hor cala, hor cresce:
E del Chelidro Libico serpente,
E del notturno humor, che stilla, et esce
Da l’alma Luna, aggiunge al cavo rame,
Con l’ala Strigia tenebrosa, e infame.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|120}}</noinclude><poem>
Del lupo ambiguo poi, che si trasforma
Fra l’herbe rare pon, che ’l bagno fanno,
Di quel, c’hor hà di lupo, hor d’huom la forma,
La qual suol prender varia ogni non’anno.
Fra tanta strana, e innumerabil torma
Di cose, ch’entro al rame si disfanno,
D’una cornice il capo al fin vi trita,
C’hà visto nove secoli di vita.
La saggia, e dotta incantatrice come
Tutte quelle sostanze hà in un ridotte,
Con cose altre infinite senza nome,
Che seco dal suo regno havea condotte,
Pria, che toglia ad Eson l’annose some,
Vuol far l’esperientia se son cotte,
D’olivo un secco ramo, e senza fronde
V’immerge, e l’herbe volge, alza, e confonde.
Ecco che ’l ramo seco il secco perde,
Tosto che ’l bagnan l’onde uniche, e dive.
Ella il trahe fuor del bagno, e ’l trova verde,
E dopò il vede ornar di fronde vive:
Ma ben la speme in lei maggior rinverde
Quando il vede fiorir d’acerbe olive,
E mentre ella vi guarda, e se n’allegra,
D’olio ogni oliva vien gravida, e negra.
L’humor, che nel bollir s’inalza, e cade,
E passa sopra l’orlo, et esce fuori,
E per la corte fà diverse strade,
Tutte le fà vestir d’herbe, e di fiori.
Fan la stagion fiorir de l’aurea etade
Il minio, il croco, e mille altri colori.
Per tutto, ov’ella sparge il succo, e ’l prova,
Nasce la primavera, e l’herba nova.
Medea, che vede maturar l’oliva,
E d’herbe, e varij fior la corte piena,
Stringe il coltello, e fere il vecchio, e priva
Del poco humor la stupefatta vena:
Poi nel grato liquor, che ’l morto aviva,
Il vecchio in tutto essangue infonde à pena,
Che ’l sacro humor, che bee la carnal salma,
In un punto il vigor gli rende, e l’alma.
Com’entra per la bocca il grato fonte,
E per dove il coltel percosso l’have,
La crespa, macilente, e debil fronte
Perde il pallore, e vien severa, e grave.
Par ch’ogni hor più le forze in lui sian pronte,
E che la troppa età manco l’aggrave.
Egli il centesimo anno havea già pieno,
E più di trenta già ne mostra meno.
Il volto de le crespe ogni hor più manca,
S’empie di succo, e acquista il primo honore.
Già tanto la canicie non l’imbianca,
Anzi più vivo ogni hor prende il colore.
La barba è mezza nera, e mezza bianca,
Già la bianchezza in lei del tutto more;
È ver, che qualche pel bianco anchor resta
Fra i novi crin de la cagnata testa.
Com’esser giunto ad otto lustri il vede,
A gli anni, c’han più nervo, e più coraggio,
La dotta Maga il fà saltare in piede
Per non lo far più giovane, e men saggio.
L’ama di quarant’anni, perche crede,
Che quel tempo ne l’huomo habbia vantaggio,
Perche l’età viril, dov’ella il serba,
È più forte, più saggia, e più superba.
Vide Lieo da l’alto eterno chiostro,
Gli occhi abbassando in ver l’Emonia corte,
Questa alta maraviglia, e questo mostro,
Che fè Medea nel padre del consorte.
Scende tosto dal cielo al mondo nostro,
Dove ottien da Medea l’istessa sorte,
E dà gli anni più belli, e più felici
A l’invecchiate Ninfe sue nutrici.
Questa maga dottrina, e questi incanti
Non opran sempre il ben, ne rendon gli anni.
E veggasi à gli poi commessi tanti
Da la cruda Medea mortali inganni.
Dati havea di Giason pochi anni avanti
Due figli à sopportar gli humani affanni
Quando volse Medea l’arte, e l’ingegno
A racquistare à lor l’oppresso regno.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|117}}</noinclude><poem>
Del lupo ambiguo poi, che si trasforma
Fra l’herbe rare pon, che ’l bagno fanno,
Di quel, c’hor hà di lupo, hor d’huom la forma,
La qual suol prender varia ogni non’anno.
Fra tanta strana, e innumerabil torma
Di cose, ch’entro al rame si disfanno,
D’una cornice il capo al fin vi trita,
C’hà visto nove secoli di vita.
La saggia, e dotta incantatrice come
Tutte quelle sostanze hà in un ridotte,
Con cose altre infinite senza nome,
Che seco dal suo regno havea condotte,
Pria, che toglia ad Eson l’annose some,
Vuol far l’esperientia se son cotte,
D’olivo un secco ramo, e senza fronde
V’immerge, e l’herbe volge, alza, e confonde.
Ecco che ’l ramo seco il secco perde,
Tosto che ’l bagnan l’onde uniche, e dive.
Ella il trahe fuor del bagno, e ’l trova verde,
E dopò il vede ornar di fronde vive:
Ma ben la speme in lei maggior rinverde
Quando il vede fiorir d’acerbe olive,
E mentre ella vi guarda, e se n’allegra,
D’olio ogni oliva vien gravida, e negra.
L’humor, che nel bollir s’inalza, e cade,
E passa sopra l’orlo, et esce fuori,
E per la corte fà diverse strade,
Tutte le fà vestir d’herbe, e di fiori.
Fan la stagion fiorir de l’aurea etade
Il minio, il croco, e mille altri colori.
Per tutto, ov’ella sparge il succo, e ’l prova,
Nasce la primavera, e l’herba nova.
Medea, che vede maturar l’oliva,
E d’herbe, e varij fior la corte piena,
Stringe il coltello, e fere il vecchio, e priva
Del poco humor la stupefatta vena:
Poi nel grato liquor, che ’l morto aviva,
Il vecchio in tutto essangue infonde à pena,
Che ’l sacro humor, che bee la carnal salma,
In un punto il vigor gli rende, e l’alma.
Com’entra per la bocca il grato fonte,
E per dove il coltel percosso l’have,
La crespa, macilente, e debil fronte
Perde il pallore, e vien severa, e grave.
Par ch’ogni hor più le forze in lui sian pronte,
E che la troppa età manco l’aggrave.
Egli il centesimo anno havea già pieno,
E più di trenta già ne mostra meno.
Il volto de le crespe ogni hor più manca,
S’empie di succo, e acquista il primo honore.
Già tanto la canicie non l’imbianca,
Anzi più vivo ogni hor prende il colore.
La barba è mezza nera, e mezza bianca,
Già la bianchezza in lei del tutto more;
È ver, che qualche pel bianco anchor resta
Fra i novi crin de la cagnata testa.
Com’esser giunto ad otto lustri il vede,
A gli anni, c’han più nervo, e più coraggio,
La dotta Maga il fà saltare in piede
Per non lo far più giovane, e men saggio.
L’ama di quarant’anni, perche crede,
Che quel tempo ne l’huomo habbia vantaggio,
Perche l’età viril, dov’ella il serba,
È più forte, più saggia, e più superba.
Vide Lieo da l’alto eterno chiostro,
Gli occhi abbassando in ver l’Emonia corte,
Questa alta maraviglia, e questo mostro,
Che fè Medea nel padre del consorte.
Scende tosto dal cielo al mondo nostro,
Dove ottien da Medea l’istessa sorte,
E dà gli anni più belli, e più felici
A l’invecchiate Ninfe sue nutrici.
Questa maga dottrina, e questi incanti
Non opran sempre il ben, ne rendon gli anni.
E veggasi à gli poi commessi tanti
Da la cruda Medea mortali inganni.
Dati havea di Giason pochi anni avanti
Due figli à sopportar gli humani affanni
Quando volse Medea l’arte, e l’ingegno
A racquistare à lor l’oppresso regno.
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Quando per la soverchia età s’accorse
Eson, ch’era mal’atto à governare,
E che Giason troppo fanciullo scorse,
Non volle quel maneggio al figlio dare,
Anzi lo scettro del suo regno porse,
Perche ’l potesse reggere, e guardare,
A Pelia suo fratel per tanto tempo,
Che ’l tenero Giason fosse di tempo.
E ’l zio poi ver Giason empio, e rubello
L’oracol, che gli diè sospitione,
Ch’uccidere il dovea più d’un coltello
Per opra d’un, ch’esser credea Giasone,
Però prima il mandò per l’aureo vello,
Per darlo in Colco al regno di Plutone,
E poi, ch’ei diede à quella impresa effetto,
Hebbe del suo valor maggior sospetto.
Mentre con modo, e con parlare honesto,
Col rispetto, c’haver si debbe al zio,
Giason chiedendo il suo, gli fù molesto,
Ei cibò ogni hor di speme il suo desio.
Dicendo, s’io no’l rendo cosi presto,
Move giusta cagion l’animo mio.
Giason di creder finge, come accorto,
Poi che gli è forza à sopportar quel torto.
Che Pelia in mano havea tutto ’l thesoro,
Ogni cittade, ogni castel più forte,
Al nipote assegnato havea tant’oro,
Quanto potea bastar per la sua corte.
Quando andò contra il drago, e contra il toro,
Perche in preda pensò darlo à la morte,
Per infiammarlo meglio à quella impresa,
Non gli mancò d’ogni honorata spesa.
S’accomodò Giason come prudente,
A l’animo del zio con finto core,
E à varij modi havea volta la mente,
Che ’l poteano ripor nel regio honore.
E con la moglie ragionò sovente
Di far morir l’ingiusto Imperadore.
La donna diede al fin contra il tiranno
Effetto al lor pensier con questo inganno.
Ne và con finte lagrime al castello
Del zio, verso il suo sposo avaro, e infido,
Dove stracciando il crin sottile, e bello,
Scopre il finto dolor con questo strido,
Oime, ch’io feci acquistar l’aureo vello
A questo ingrato, e gli diei nome, e grido,
E rea contra il fratello, e ’l padre fui,
Per haver poi tal guiderdon da lui.
Comanda il Re, ch’innanzi non gli vegna
La moglie del nipote, che si duole,
Che sà, ch’ella è qualche querela indegna,
Che fra marito, e moglie avenir suole.
Ma mentre che la lor discordia regna,
Che debbiano, comanda à le figliuole,
In qualche appartamento à lor vicino
La consorte raccor del lor cugino.
Le figlie desiose di sapere
Da Medea la cagion del suo lamento,
Ricevon lei con le sue cameriere
In uno adorno, e ricco appartamento.
Contando ella il suo duol mostra d’havere
Del ben fatto à Giason rimordimento,
E che l’ha colto in frode, e l’haria morta,
S’ella non si fuggia fuor della porta.
E riprendendo l’adulterio, e ’l vitio,
Ch’al nodo coniugal non si richiede,
Dicea mille parole in pregiuditio
De la sua lealtà, de la sua fede;
E rimembrava ogni suo benefitio,
Ogni aiuto, e consiglio, che gli diede,
E ch’à tradir colei tropp’era ingiusto,
Ch’al padre havea ringiovenito il busto.
E che tal torto far non le dovea,
Renduto havendo à Eson robusto l’anno.
E di quest’opra sua spesso dicea,
Perch’era il fondamento de l’inganno.
Tanto, che l’odio finto di Medea
Chieder fè à le fanciulle il proprio danno,
Ch’al troppo vecchio padre, e senza forza
Volesse rinovar l’antica scorza.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|122}}</noinclude><poem>
La paterna pietà, la ferma spene
Di migliorar l’imperio, e la lor sorte,
Se l’età più robusta il padre ottiene,
Se s’allontana alquanto da la morte;
Il non veder, che ’l modo, ch’ella tiene,
È per ripor nel regno il suo consorte,
Fè la mente d’ogn’una incauta, e vaga
D’ottener questa gratia da la maga.
E con preghi giovevoli, e con quanto
Sapere è in lor, pregan la donna accorta.
Non rispond’ella, e stà sospesa alquanto,
E mostra in mente haver cosa, ch’importa.
Noi non dobbiamo usar l’arte, e l’incanto,
Se non habbiamo il ciel per nostra scorta,
(Disse poco dopò) ma, s’io ben noto,
Tosto propitio fia de cieli il moto.
Quella pietà paterna, che vi move,
A me talmente ha intenerito il petto,
Che Pelia io vò vestir di membra nove,
Ringiovenirgli l’animo, e l’aspetto.
Ma vò, ch’in un monton prima si prove,
Se può l’incanto mio far questo effetto.
Pria, che ’l sangue di Pelia sparso sia,
Vi voglio assicurar de l’arte mia.
Secondo che comanda ella, s’elegge
Dove stava l’ovil fuor del castello,
Il più vecchio monton, che sia nel gregge,
Per rinovargli la persona, e ’l vello.
Intanto su’l suo dorso il forno regge
Il rame, che vuol far l’ariete agnello.
Medea fà, che di sotto il foco abonda,
E fa consumar l’herba, e fremer l’onda.
Ella di quel liquore havea portato,
Che gia fè rinverdir la secca oliva,
E n’havea tanto in quel vaso gittato,
Che dar potea al monton l’età più viva.
Poi per le corna havendolo afferrato
Del poco sangue, c’ha, le vene priva,
E come il pon nel bagno essangue, e morto,
S’aviva, e l’onda mangia il corno attorto.
Le corna attorcigliate, e gli anni strugge,
E già il monton l’etate ha più superba.
La vena il novo sangue acquista, e sugge,
Tanto, ch’in tutto ottien l’età più acerba.
Come ella il pon di fuor, lascivo fugge,
E chiede il latte, e non conosce l’herba;
Et hor si ferma, hor bela, hor corre, hor gira
Secondo il desir novo il move, e tira.
Allegrezza, e stupor subito prende,
Come vede l’agnel la regia prole.
Sparsa ella del liquor la terra rende,
E germogliar fa i gigli, e le viole.
Tal, che ’l miracol doppio ogn’una accende
A crescer le promesse, e le parole.
Dic’ella non poter condur l’altr’opra,
Fin, che la terza notte il Sol non copra.
Già il corpo oscuro, e denso de la terra
Tre volte à gli occhi loro havea fatt’ombra,
Quando volendo fare andar sotterra
Medea di Pelia ingiusto il corpo, e l’ombra,
D’ogni virtù contraria à la sua guerra
Fatta havea la caldaia ignuda, e sgombra,
E tutta piena havea la ramea scorza
D’un puro fonte, e d’herbe senza forza.
L’incanto, e ’l sonno havea co’l Re legata
La corte sua ne l’otioso letto,
E Medea con le vergini era entrata
Dove dovean dar luogo al crudo effetto.
La spada ignuda ogn’una havea portata,
Con cui passar voleano al padre il petto,
Medea mostrando il Re dal sonno oppresso,
Cosi le spinse al parricida eccesso.
Eccovi il vostro padre in preda al sonno,
E i vostri pugni quei tengon coltelli,
Ch’à lui votar l’antiche vene ponno,
S’aman, che ’l sangue suo si rinovelli.
Se de la vita ei fia più tempo donno,
S’anni robusti ei fà de gli anni imbelli,
Mirate, quanto migliorar potete
Ne gli sposi propinqui, ch’attendete.
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La paterna pietà, la ferma spene
Di migliorar l’imperio, e la lor sorte,
Se l’età più robusta il padre ottiene,
Se s’allontana alquanto da la morte;
Il non veder, che ’l modo, ch’ella tiene,
È per ripor nel regno il suo consorte,
Fè la mente d’ogn’una incauta, e vaga
D’ottener questa gratia da la maga.
E con preghi giovevoli, e con quanto
Sapere è in lor, pregan la donna accorta.
Non rispond’ella, e stà sospesa alquanto,
E mostra in mente haver cosa, ch’importa.
Noi non dobbiamo usar l’arte, e l’incanto,
Se non habbiamo il ciel per nostra scorta,
(Disse poco dopò) ma, s’io ben noto,
Tosto propitio fia de cieli il moto.
Quella pietà paterna, che vi move,
A me talmente ha intenerito il petto,
Che Pelia io vò vestir di membra nove,
Ringiovenirgli l’animo, e l’aspetto.
Ma vò, ch’in un monton prima si prove,
Se può l’incanto mio far questo effetto.
Pria, che ’l sangue di Pelia sparso sia,
Vi voglio assicurar de l’arte mia.
Secondo che comanda ella, s’elegge
Dove stava l’ovil fuor del castello,
Il più vecchio monton, che sia nel gregge,
Per rinovargli la persona, e ’l vello.
Intanto su’l suo dorso il forno regge
Il rame, che vuol far l’ariete agnello.
Medea fà, che di sotto il foco abonda,
E fa consumar l’herba, e fremer l’onda.
Ella di quel liquore havea portato,
Che gia fè rinverdir la secca oliva,
E n’havea tanto in quel vaso gittato,
Che dar potea al monton l’età più viva.
Poi per le corna havendolo afferrato
Del poco sangue, c’ha, le vene priva,
E come il pon nel bagno essangue, e morto,
S’aviva, e l’onda mangia il corno attorto.
Le corna attorcigliate, e gli anni strugge,
E già il monton l’etate ha più superba.
La vena il novo sangue acquista, e sugge,
Tanto, ch’in tutto ottien l’età più acerba.
Come ella il pon di fuor, lascivo fugge,
E chiede il latte, e non conosce l’herba;
Et hor si ferma, hor bela, hor corre, hor gira
Secondo il desir novo il move, e tira.
Allegrezza, e stupor subito prende,
Come vede l’agnel la regia prole.
Sparsa ella del liquor la terra rende,
E germogliar fa i gigli, e le viole.
Tal, che ’l miracol doppio ogn’una accende
A crescer le promesse, e le parole.
Dic’ella non poter condur l’altr’opra,
Fin, che la terza notte il Sol non copra.
Già il corpo oscuro, e denso de la terra
Tre volte à gli occhi loro havea fatt’ombra,
Quando volendo fare andar sotterra
Medea di Pelia ingiusto il corpo, e l’ombra,
D’ogni virtù contraria à la sua guerra
Fatta havea la caldaia ignuda, e sgombra,
E tutta piena havea la ramea scorza
D’un puro fonte, e d’herbe senza forza.
L’incanto, e ’l sonno havea co’l Re legata
La corte sua ne l’otioso letto,
E Medea con le vergini era entrata
Dove dovean dar luogo al crudo effetto.
La spada ignuda ogn’una havea portata,
Con cui passar voleano al padre il petto,
Medea mostrando il Re dal sonno oppresso,
Cosi le spinse al parricida eccesso.
Eccovi il vostro padre in preda al sonno,
E i vostri pugni quei tengon coltelli,
Ch’à lui votar l’antiche vene ponno,
S’aman, che ’l sangue suo si rinovelli.
Se de la vita ei fia più tempo donno,
S’anni robusti ei fà de gli anni imbelli,
Mirate, quanto migliorar potete
Ne gli sposi propinqui, ch’attendete.
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Del padre infermo la vita, e l’etade
Alberga ne la vostra armata palma,
Hor se in voi regna punto di pietade,
S’amor punto per lui vi punge l’alma,
Pietose verso lui le vostre spade
Privin del sangue rio l’antica salma.
La prima à quei conforti il colpo invia,
Et empia vien per voler esser pia.
È ver, che volge in altra parte gli occhi
Ne vuol veder ferir l’audace mano.
L’altre con questo essempio alzan gli stocchi
Togliendo gli occhi al colpo empio, e profano.
Come fan sangue i parricidi, e sciocchi
Ferri, resta l’incanto, e ’l sonno vano;
Si sveglia il padre, e vede i colpi crudi,
E le figlie d’intorno, e i ferri ignudi.
D’alzar la carnal sua ferita spoglia
Cerca per sua difesa, e dice, ò figlie
Qual nova crudeltà v’arma la voglia
A far del sangue mio l’arme vermiglie?
Tosto, ch’egli dà fuor l’ira, e la doglia,
E per difesa cerca, ove s’appiglie,
Vien fredda ogni fanciulla come un ghiaccio,
E trema à tutte il ferro, il core, e ’l braccio.
Medea, che quelle vede afflitte, e smorte,
Che far vacar doveano la corona,
D’età, di membra, e d’animo più forte,
Mentre bravando il Re non s’abbandona,
Gli fora il collo, e datogli la morte,
Ardita il prende sù la sua persona,
Et à le meste figlie dà coraggio
E dice, che ’l farà robusto, e saggio.
L’anchor credule vergini per quello,
Che vider del decrepito montone,
Ch’essendo morto uscì del rame agnello,
E per lo rinovato in prima Esone,
Credendo, che rifar giovane, e bello,
Debbia il lor Re la moglie di Giasone,
L’aiutano à portar con questa speme,
Dove nel cavo rame il fonte freme.
La Maga, che quel Re ne l’onde vede,
Ch’occupava al suo sposo il regio manto,
Per non dar tempo à la vendetta chiede
Il veloce dragon con novo incanto.
Pon sopra il carro il fugitivo piede,
E lascia le nemiche in preda al pianto,
Che i ferri havean, che fur nel padre rei,
Presi per vendicarsi sopra lei.
Non porge orecchie à l’alte strida, e à l’onte
Medea, che le fanciulle à l’aria danno,
Ma drizza il volto ad Otri à l’alto monte,
Che dal diluvio già non hebbe danno.
Dove Cerambo andò con altra fronte,
Quando il vestir le penne, e non il panno,
Dargli à le Ninfe allhora i vanni piacque,
Che potesse fuggir l’ira de l’acque.
Vede l’Eolia Pitane in disparte,
Là dove fè il dragon di marmo il dorso,
E vaga di veder quindi si parte,
E ver la selva d’Ida affretta il corso.
Dove fè Thioneo con subit’arte
D’un toro un cervo, e al figlio diè soccorso,
E per torlo à la morte, e à l’altrui forza
Ascose il furto suo sott’altra scorza.
In quella arena poi le luci intese,
Che diè sepolcro al padre di Corito,
E dove sbigottì (quando s’intese)
Di Mera il latrar novo il monte, e ’l lito.
Corse da poi dove le corna prese
Ogni donna, e fè udir l’alto muggito
D’Euripilo nel vago, e fertil campo,
Allhor, ch’indi partissi Hercole, e ’l campo.
Passò dove gli horribili Telchini
Hebber si fiero l’occhio, empio l’aspetto,
Ch’in Rodi, ov’eran magici indovini,
Tutto quel, che vedean, rendeano infetto.
Cangiavan gli animali, i faggi, e i pini,
E ciò, ch’à gli occhi lor si facea obbietto.
Giove al fin gli hebbe in odio, e gli disperse,
E nell’onde fraterne gli sommerse.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|124}}</noinclude><poem>
Sopra Cea passò dopo, e le sovenne
D’Alcidimante la felice morte,
Che quando la figliuola hebbe le penne,
Al vital corso havea chiuse le porte.
E se di donna una colomba venne,
Non lagrimò la sua cangiata sorte.
Ver quella Tempe poi passar le piacque,
C’hebbe nome dal Cigno, che vi nacque.
Appresso à Tempe, ov’hoggi è l’Hirio lago,
Arde Fillio d’amor de l’Hiria prole,
D’un garzon di si bella, e rara imago,
Che dispone il suo amante à quel, che vole.
Se vede d’uno augello il suo amor vago,
Fillio và con tant’arte à l’ombra, e al Sole,
Che lieto al fine il trova, il segue, e ’l prende,
Et al dolce amor suo domato il rende.
Per servare al suo imperio honore, e fede,
Orsi, tori, leoni abbatte, e lega.
Vede un tratto il fanciullo un toro, e ’l chiede,
Sdegnato finalmente Fillio il nega.
Ver la cima d’un monte affretta il piede
L’irata prole d’Hiria, e più no’l prega,
E dice à Fillio, anchor darmi vorrai
Quel, che t’hò dimandato, e non potrai.
Si getta, come è in cima, giù del monte,
Per veder de’ suoi dì gli estremi affanni.
Si credea ogn’un, che la virginea fronte
Cader dovesse in terra, e finir gli anni;
Ma le penne à venir fur troppo pronte,
Che ’l fero un Cigno, e diero à l’aria i vanni.
Pianse la madre, e si stracciò le chiome,
E fe piangendo il lago, e diegli il nome.
Verso il Pleuro poi prese la strada,
Dove Combea, la qual nacque d’Ofia,
De’ figli hebbe à temer l’ira, e la spada,
Ma si fece un’augello, e fuggì via.
Scoprì dapoi la Calaurea contrada,
Sacra à la Dea, che parturiti havia
A la notte, et al giorno il maggior lume,
Dove la moglie, e ’l Re vestir le piume.
Si volge poi dove i Cillenij stanno,
E dove un cieco amor si accese il petto
A Menefron, che, come i bruti fanno,
Con la madre volea commune il letto.
Vide Cefiso poi, che piangea il danno
Del nipote, c’havea cangiato aspetto,
Ch’un dì fe, che tant’ira Apollo assalse,
Che ’l fe una Foca, e diello à l’onde salse.
Lascia adietro Cefiso, e ’l camin piglia
Ver l’albergo d’Eumelio, e vede dove
Egli ne l’aria già pianse la figlia;
Poi ver Corinto i draghi instiga, e move.
Quivi à quel luogo ella chinò le ciglia,
Che la Grecia arricchì di genti nove.
La pioggia empì di funghi il monte, e ’l piano,
Poi si fece ogni fungo un corpo humano.
Al regio albergo poi volge la fronte,
Dove l’ingrato suo consorte vede
La figliuola sposar del Re Creonte,
E à lei mancar de la promessa fede.
Le voglie à la vendetta accese, e pronte
Rende l’ira, che l’ange, e la possiede,
E fà portar da figli al regio nido
A la sposa novella un dono infido.
La Maga i figli suoi chiama in disparte,
E d’oro una bella arca in man lor pone,
E insegna loro il modo à parte à parte
Di presentarla in nome di Giasone.
Quivi era dentro fabricato ad arte
(Che smorzato parea) più d’un carbone,
Che come vedea l’aria, s’accendea,
E pietre, e muro, e sino à l’acqua ardea.
Com’han dato i figliastri à la matrigna
L’arca, dove il presente era riposto,
Ritornano à la madre empia, e maligna
Correndo, come à lor da lei fu imposto.
Apre la sposa l’arca, e ’l foco alligna
Co’l velen, che nel dono era nascosto,
Ch’arde il palazzo, e lei con mille, e mille,
E manda al ciel le fiamme, e le faville.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|119}}</noinclude><poem>
Sopra Cea passò dopo, e le sovenne
D’Alcidimante la felice morte,
Che quando la figliuola hebbe le penne,
Al vital corso havea chiuse le porte.
E se di donna una colomba venne,
Non lagrimò la sua cangiata sorte.
Ver quella Tempe poi passar le piacque,
C’hebbe nome dal Cigno, che vi nacque.
Appresso à Tempe, ov’hoggi è l’Hirio lago,
Arde Fillio d’amor de l’Hiria prole,
D’un garzon di si bella, e rara imago,
Che dispone il suo amante à quel, che vole.
Se vede d’uno augello il suo amor vago,
Fillio và con tant’arte à l’ombra, e al Sole,
Che lieto al fine il trova, il segue, e ’l prende,
Et al dolce amor suo domato il rende.
Per servare al suo imperio honore, e fede,
Orsi, tori, leoni abbatte, e lega.
Vede un tratto il fanciullo un toro, e ’l chiede,
Sdegnato finalmente Fillio il nega.
Ver la cima d’un monte affretta il piede
L’irata prole d’Hiria, e più no’l prega,
E dice à Fillio, anchor darmi vorrai
Quel, che t’hò dimandato, e non potrai.
Si getta, come è in cima, giù del monte,
Per veder de’ suoi dì gli estremi affanni.
Si credea ogn’un, che la virginea fronte
Cader dovesse in terra, e finir gli anni;
Ma le penne à venir fur troppo pronte,
Che ’l fero un Cigno, e diero à l’aria i vanni.
Pianse la madre, e si stracciò le chiome,
E fe piangendo il lago, e diegli il nome.
Verso il Pleuro poi prese la strada,
Dove Combea, la qual nacque d’Ofia,
De’ figli hebbe à temer l’ira, e la spada,
Ma si fece un’augello, e fuggì via.
Scoprì dapoi la Calaurea contrada,
Sacra à la Dea, che parturiti havia
A la notte, et al giorno il maggior lume,
Dove la moglie, e ’l Re vestir le piume.
Si volge poi dove i Cillenij stanno,
E dove un cieco amor si accese il petto
A Menefron, che, come i bruti fanno,
Con la madre volea commune il letto.
Vide Cefiso poi, che piangea il danno
Del nipote, c’havea cangiato aspetto,
Ch’un dì fe, che tant’ira Apollo assalse,
Che ’l fe una Foca, e diello à l’onde salse.
Lascia adietro Cefiso, e ’l camin piglia
Ver l’albergo d’Eumelio, e vede dove
Egli ne l’aria già pianse la figlia;
Poi ver Corinto i draghi instiga, e move.
Quivi à quel luogo ella chinò le ciglia,
Che la Grecia arricchì di genti nove.
La pioggia empì di funghi il monte, e ’l piano,
Poi si fece ogni fungo un corpo humano.
Al regio albergo poi volge la fronte,
Dove l’ingrato suo consorte vede
La figliuola sposar del Re Creonte,
E à lei mancar de la promessa fede.
Le voglie à la vendetta accese, e pronte
Rende l’ira, che l’ange, e la possiede,
E fà portar da figli al regio nido
A la sposa novella un dono infido.
La Maga i figli suoi chiama in disparte,
E d’oro una bella arca in man lor pone,
E insegna loro il modo à parte à parte
Di presentarla in nome di Giasone.
Quivi era dentro fabricato ad arte
(Che smorzato parea) più d’un carbone,
Che come vedea l’aria, s’accendea,
E pietre, e muro, e sino à l’acqua ardea.
Com’han dato i figliastri à la matrigna
L’arca, dove il presente era riposto,
Ritornano à la madre empia, e maligna
Correndo, come à lor da lei fu imposto.
Apre la sposa l’arca, e ’l foco alligna
Co’l velen, che nel dono era nascosto,
Ch’arde il palazzo, e lei con mille, e mille,
E manda al ciel le fiamme, e le faville.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Mentre danna Giason la fiamma ultrice,
E duolsi, e ripararvi si procaccia,
Da lunge appar Medea, ch’onta gli dice,
E di maggior vendetta anchor minaccia,
E l’uno, e l’altro suo figlio infelice
Con la nefanda man gli uccide in faccia.
Corre egli à sfogar l’ira, che lo strugge,
Dice ella i versi, e ’l carro ascende, e fugge.
Verso Athene fa gir l’aeree rote
La maga, dove poco prima avenne,
Che Perifa, e Fineo con la nipote
Vestir di Polipemone le penne.
Medea con grati modi, e dolci note
Da Egeo, ch’ivi reggea, l’albergo ottenne.
Il qual veduto il suo leggiadro aspetto,
Sposolla, e fe comune il regno, e ’l letto.
Già questo Re fuor de la sua contrada
Etra sposò, che nacque di Pitteo,
E ingravidolla, e le lasciò una spada
Per lo figliuol, che poi nominar Teseo.
Nove volte nel ciel l’usata strada
Fornita la nipote havea di Ceo,
Quand’ella aperse il ventre, e si fe madre
Di Teseo, c’hebbe adulto il don del padre.
Venne poi Teseo un cavalier si forte,
Che ne sonava il nome in ogni parte,
E per ogni città, per ogni corte
Da tutt’era stimato un novo Marte.
Tentato c’hebbe un tempo la sua sorte,
Per conoscere il padre, al fin si parte,
E havendo per camin pugnato, e vinto,
Da ladri assicurò l’Ismo, e Corinto.
Non come figlio al padre s’appresenta,
Che vuol veder, s’ei l’ha in memoria prima.
Tosto, che ’l nome suo fa, che ’l Re senta,
Ch’à lui viene un guerrier di tanta stima,
D’ogni accoglienza, e honor regio il contenta,
E ’l pon de la sua corte in sù la cima,
E quei promette à lui pregi, et honori,
Che può nel regno suo donar maggiori.
Non sà però il Re, che ’l guerrier, c’have
Ne la sua corte si famoso, e degno,
Sia quella prole, ond’Etra lasciò grave,
A cui la spada sua diede per segno:
Pur vedendolo affabile, e soave,
Ricco di forza, d’animo, e d’ingegno,
Ogni favor gli fa con lieto ciglio,
Ne più faria sapendo essere il figlio.
Vide Medea co’l suo non falso incanto,
Che ’l cavalier, ch’al Re tanto piacea,
Dovea portar d’Athene il regio manto,
Tosto che ’l vecchio Egeo gli occhi chiudea.
La qual cosa à Medea dispiacque tanto,
Che già del Re d’Athene un figlio havea,
Che per salvare al figlio il regio pondo,
Pensò questo guerrier levar del mondo.
E disse verso il Re per arte ho visto
Quel, che del cavalier chiede la sorte,
E del bel regno tuo far deve acquisto,
Come ti toglie il Sol l’avara morte:
E rende il core al Re turbato, e tristo,
Che ben vedea, ch’un cavalier si forte
Se de’ gradi il rendea promessi adorno,
Potea torgli à sua voglia il regno, e ’l giorno.
E se ben non vedea nel bello aspetto
Alcuno inditio, alcun segno d’inganno,
Pur come vecchio accorto, e circospetto,
Si volle assicurar da tanto danno.
Mentre per dare à questa impresa effetto
Molti discorsi il Re pensoso fanno,
Medea, che pria v’havea l’animo inteso,
Tutto sopra di se tolse quel peso.
Quando venne di Scithia al lito Argivo
Medea per migliorar fortuna, e terra,
Havea portato un tosco il più nocivo,
Che nascesse giamai sopra la terra.
Nel regno d’ogni bene ignudo, e privo
Prima questo venen vivea sotterra,
E poi per nostro mal, come al ciel piacque,
Nel miglior mondo in questa forma nacque.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|126}}</noinclude><poem>
Quand’Hercole passar volle à l’inferno
Per torre à Pluto l’anima d’Alceste,
Dapoi c’hebbe varcato il lago Averno
Per gire ù piangon l’anime funeste,
Perc’hebbe il suo valor Cerbero à scherno,
Quel mostro, ch’ivi abbaia con tre teste,
Per forza incatenollo Hercole, e prese,
E strascinollo al nostro almo paese.
Mentre quel mostro egli strascina, e tira
Per lo mondo à cui splende il maggior lampo,
E ’l can vuol pur resistere, e s’adira,
E per tre gole abbaia, e cerca scampo,
La bava, che gli fa lo sdegno, e l’ira,
Del suo crudo veneno empie ogni campo.
Di quella spuma poi l’herba empia, e fella
Nacque, c’hoggi Aconito il mondo appella.
Mesce questo venen, c’havea nascosto
Con un liquor di Bacco almo, e divino,
E ad un ministro il suo volere imposto
Mostra la morte al Re del peregrino.
Poi che fu Egeo con gli altri à mensa posto,
E c’hebbe in man Teseo la coppa, e ’l vino,
Gli occhi à lo stocco il Re di Teseo porge,
E ’l conosce per suo come lo scorge.
Subito il Re dal cavaliero impetra,
Che non accosti al vino anchor le labbia,
E gli dimanda, s’ei mai conobbe Etra,
E come quella spada acquistat’habbia.
Il cavalier dal labro il vino arretra,
E si palesa al Re, che d’ira arrabbia:
Contra la moglie corre, e sfodra l’arme,
Et ella verso il ciel s’alza co’l carme.
Di novo al Re s’inchina ei come figlio,
Stupido del volar de la matrigna.
L’abbraccia il padre con pietoso ciglio,
E dice, ben ne fu Palla benigna,
Da poi che te salvò dal rio consiglio
De la noverca tua cruda, e maligna,
Che per veder regnar la prole sua,
Ascose entro à quel vin la morte tua.
Quanto ella dotta sia ne l’arte maga,
Il vol, che prese al ciel, te ne fa segno,
E de la morte tua soverchio vaga,
Per far del mio reame il figlio degno,
Mi disse, che per arte era presaga,
Ch’eri venuto à tormi il giorno, e ’l regno,
E ch’à schivar questa maligna sorte,
Non v’haveva altra via, che la tua morte.
Ma l’alma Attica Dea m’aperse gli occhi,
E scoprir femmi il suo crudele inganno,
Mostrando à gli occhi miei l’aurati stocchi,
Che te dal rio venen salvato m’hanno.
Hor poi che ’l cielo anchor non vuol, che scocchi
Contra alcun di noi due l’ultimo danno,
Vò, che con più d’un dono, e sacrificio
Riconosciamo un tanto beneficio.
Finito c’han di dar quel cibo al seno,
Ch’à le vene supplir può per quel giorno,
Gli mostro il Re d’Athene il sito ameno,
E tutta la città dentro, e d’intorno.
Dove l’ingegno Greco alto, e sereno
Hà d’ogni alta scientia il mondo adorno,
Con questo, e ogni altro segno il padre brama,
Ch’ei vegga quanto il pregia, e quanto l’ama.
Come la nova Aurora à predir venne,
C’havea sul carro il Sol già posto il piede.
Il sacrificio preparato ottenne
Dal Re, e da gli altri la promessa fede.
Scanna il coltel l’ariete, e la bipenne
Fra l’uno, e l’altro corno il toro fiede:
E rendon gratie al ciel con questa offerta
Che lor la maga fraude habbia scoperta.
Siede al convito poi co’l figlio Egeo,
Con gli huomini più illustri, e più discreti.
Hor come il soavissimo Lieo
Fatti hà gli spirti lor più vivi, e lieti
Da pareggiare il Re di Thebe, et Orfeo
Comparsero i dottissimi poeti,
E al suono un de la lira, un de la cetra
L’alte lodi cantò del figlio d’Etra.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|120}}</noinclude><poem>
Quand’Hercole passar volle à l’inferno
Per torre à Pluto l’anima d’Alceste,
Dapoi c’hebbe varcato il lago Averno
Per gire ù piangon l’anime funeste,
Perc’hebbe il suo valor Cerbero à scherno,
Quel mostro, ch’ivi abbaia con tre teste,
Per forza incatenollo Hercole, e prese,
E strascinollo al nostro almo paese.
Mentre quel mostro egli strascina, e tira
Per lo mondo à cui splende il maggior lampo,
E ’l can vuol pur resistere, e s’adira,
E per tre gole abbaia, e cerca scampo,
La bava, che gli fa lo sdegno, e l’ira,
Del suo crudo veneno empie ogni campo.
Di quella spuma poi l’herba empia, e fella
Nacque, c’hoggi Aconito il mondo appella.
Mesce questo venen, c’havea nascosto
Con un liquor di Bacco almo, e divino,
E ad un ministro il suo volere imposto
Mostra la morte al Re del peregrino.
Poi che fu Egeo con gli altri à mensa posto,
E c’hebbe in man Teseo la coppa, e ’l vino,
Gli occhi à lo stocco il Re di Teseo porge,
E ’l conosce per suo come lo scorge.
Subito il Re dal cavaliero impetra,
Che non accosti al vino anchor le labbia,
E gli dimanda, s’ei mai conobbe Etra,
E come quella spada acquistat’habbia.
Il cavalier dal labro il vino arretra,
E si palesa al Re, che d’ira arrabbia:
Contra la moglie corre, e sfodra l’arme,
Et ella verso il ciel s’alza co’l carme.
Di novo al Re s’inchina ei come figlio,
Stupido del volar de la matrigna.
L’abbraccia il padre con pietoso ciglio,
E dice, ben ne fu Palla benigna,
Da poi che te salvò dal rio consiglio
De la noverca tua cruda, e maligna,
Che per veder regnar la prole sua,
Ascose entro à quel vin la morte tua.
Quanto ella dotta sia ne l’arte maga,
Il vol, che prese al ciel, te ne fa segno,
E de la morte tua soverchio vaga,
Per far del mio reame il figlio degno,
Mi disse, che per arte era presaga,
Ch’eri venuto à tormi il giorno, e ’l regno,
E ch’à schivar questa maligna sorte,
Non v’haveva altra via, che la tua morte.
Ma l’alma Attica Dea m’aperse gli occhi,
E scoprir femmi il suo crudele inganno,
Mostrando à gli occhi miei l’aurati stocchi,
Che te dal rio venen salvato m’hanno.
Hor poi che ’l cielo anchor non vuol, che scocchi
Contra alcun di noi due l’ultimo danno,
Vò, che con più d’un dono, e sacrificio
Riconosciamo un tanto beneficio.
Finito c’han di dar quel cibo al seno,
Ch’à le vene supplir può per quel giorno,
Gli mostro il Re d’Athene il sito ameno,
E tutta la città dentro, e d’intorno.
Dove l’ingegno Greco alto, e sereno
Hà d’ogni alta scientia il mondo adorno,
Con questo, e ogni altro segno il padre brama,
Ch’ei vegga quanto il pregia, e quanto l’ama.
Come la nova Aurora à predir venne,
C’havea sul carro il Sol già posto il piede.
Il sacrificio preparato ottenne
Dal Re, e da gli altri la promessa fede.
Scanna il coltel l’ariete, e la bipenne
Fra l’uno, e l’altro corno il toro fiede:
E rendon gratie al ciel con questa offerta
Che lor la maga fraude habbia scoperta.
Siede al convito poi co’l figlio Egeo,
Con gli huomini più illustri, e più discreti.
Hor come il soavissimo Lieo
Fatti hà gli spirti lor più vivi, e lieti
Da pareggiare il Re di Thebe, et Orfeo
Comparsero i dottissimi poeti,
E al suono un de la lira, un de la cetra
L’alte lodi cantò del figlio d’Etra.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Tu desti al sacrificio, invitto, e degno
Teseo quel toro, il cui furore, e scorno
Prima il Cretense, e poi il Palladio regno
Distrutto havea co’l periglioso corno.
Salvasti Cremion da un’altro sdegno
A quella belva ria togliendo il giorno,
Ch’al cinghial Calidonio, e d’Erimanto
Vestì già nel suo grembo il carnal manto.
Liberasti Epidauro dal sospetto
Di Perifeta figlio di Vulcano.
Tu passasti à Procuste il crudo petto,
Che contra il seme human fu si inhumano:
Che s’un’huom troppo corto havea nel letto
Via più lungo il rendea con l’empia mano;
E s’havea troppo smisurato il busto
La sega per lo letto il facea giusto.
La destra tua in Eleusi il sangue agghiaccia
Di Cercion co’l suo honorato telo.
Fa, che quel Sini anchor sepolto ghiaccia,
Che soleva à due pin piegar lo stelo,
E legate c’havea d’un’huom le braccia
A le due cime ir le lasciava al cielo;
E godea di veder con questo aviso
Sù due pini in due parti un’huom diviso.
Tu per gire ad Alcatoe, al Lelegeo
Muro, hai fatto ad ogn’un libero il passo,
Quel ladro ucciso havendo iniquo, e reo,
Che poi nel mar fu trasformato in sasso.
Sciron fra il nostro, e ’l lito Megareo
Fea de l’alma, e de beni ignudo, e casso
L’incauto, et innocente peregrino,
Dandol co’l piè dal monte al Re marino.
Ma tu v’andasti, e da l’istesso monte
Desti co’l piede à lui l’istessa fossa,
Di cui sbattute fur dal salso fonte
Più giorni in qua, e in là l’horribili ossa.
Alfin con l’ossa sue prese altra fronte
Nel mar stesso, ov’hebbe la percossa,
E anchor più d’un superbo, et aspro scoglio
Fà fede del suo nome, e del suo orgoglio.
E s’io vorrò contare à parte à parte
Tutto il ben, che m’apporta il tuo valore,
Non potrò mai con ogni sforzo, et arte
Supplire al tuo da me debito honore.
La spada usasti tu per me di Marte,
Io la cetra d’Apollo in tuo favore,
Ma l’arme del tuo Marte oprato ha tanto,
Che aggiunger non vi può d’Apollo il canto.
Mentre hai tanti per me colpi sofferti,
Fù lo scudo di Marte il tuo riparo,
Mentre, ch’io canto, e celebro i tuoi merti,
Con lo scudo di Bacco io mi riparo.
Hor se i disagi tuoi fur varij, e certi,
E ’l mio d’hoggi conforto, e vario, e chiaro,
Veggio, se ben son d’appagarti vago,
Che più ti debbo quanto più t’appago.
Mentre il divin Poeta, e ’l carme, e ’l legno
Dà maggior lume à gesti di Teseo,
E commenda l’ardir, l’arte, e l’ingegno,
Onde tante alte imprese al mondo feo,
Et ogni fatto suo celebre, e degno
Fà pianger di dolcezza il vecchio Egeo,
E la città Palladia in ogni loco,
È tutta suono, e canto, e festa, e gioco.
Un vecchio secretario del consiglio
S’appresenta, ove il Re con Teseo siede,
E fatto riverentia al padre, e al figlio,
Solo udienza al Re secreta chiede,
E fa talmente à lui pensoso il ciglio,
Ch’ogn’un, che guarda, manifesto vede
Mentr’ei si turba alquanto, e ascolta, e tace,
Ch’ei dice cosa al Re, che non gli piace.
Pur la gioia, che puote al volto impetra,
E finge come pria la mente lieta,
E comanda à la lira, et à la cetra,
Coe per festa d’ogn’un non stia più cheta:
Poi prende per la mano il figlio d’Etra,
E ’l mena nella stanza più secreta,
Dove discorron quell’aviso insieme,
Che diede il secretario, e ch’al Re preme.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="1" user="" />{{RigaIntestazione||settimo.|121}}</noinclude><poem>
Ah quanto scarsi, e brevi ha i suoi contenti
Quella felicità, che ’l mondo apporta.
Come son pronti i miseri accidenti
A perturbarla, e farla in tutto morta.
Quel, che credea con tanti ben presenti
Chiusa ad ogni infortunio haver la porta,
Ha nova, che ’l Cretense Imperatore
Il regno gli vuol tor, l’alma, e l’honore.
Minosso il Re de la Saturnia terra
Hebbe un figliuolo Androgeo al mondo raro,
Famoso ne la lotta, e ne la guerra
Per l’atletica impresa illustre, e chiaro.
Dove il Palladio muro Athene serra,
Del suo valor non volle essere avaro,
Anzi con tanto honor la lotta vinse,
Che vi fu per invidia chi l’estinse.
Il Re d’Athene provido, et accorto
Mandò queste parole al padre irato,
Se nel mio regno Androgeo è stato morto,
Tosto, che quel, ch’errò sarà trovato,
Farò condurlo al tuo Cretense porto,
Che dal tuo tribunal sia castigato,
Ne mancherò d’ogni opportuno officio,
Che si ritrovi, e mandi al tuo giudicio.
Se bene à questa scusa ei par, che stesse,
Mandò secretamente alcuni sui,
Ch’investigasser ben, chi tolto havesse
Un figlio cosi raro al mondo, e à lui.
E dopo qualche dì par, ch’intendesse,
Che ben ch’Egeo desse la colpa altrui,
Havea lo stesso Re modo tenuto,
Che fosse Androgeo suo donato à Pluto.
E dato havendo à questo inditio fede,
E volto à la vendetta il giusto sdegno,
L’ambasciator de la Palladia sede
Fece licentiar del Ditteo regno,
E senza dargli termine, e gli diede
Da passare in Athene un picciol legno,
E con quel tristo aviso era in quel punto
Lo scacciato lor nuntio al porto giunto.
Chiedendo udienza per l’ambasciatore
Fè il secretario il Re pensoso, e mesto,
Dicendo, che per quel, ch’apparea fuore,
Era per riferir peggio di questo.
Intanto l’oltraggiato Imperatore
Fà con ogni suo sforzo d’esser presto,
E sapendo il poter del suo nemico
Cerca ogni Re vicin tirarsi amico.
E se ben di pedoni, e cavalieri,
E di triremi, e navi era si forte,
Che potea far senz’huomini stranieri
Terrore, e danno à le Cecropie porte:
Pur come fanno i providi guerrieri
Mandò persone nobili, et accorte,
Per collegar quei regni in quella guerra,
Che ’l potean far più forte in mare, e ’n terra.
Fra gli altri elesse un saggio cavaliero,
Ch’andasse à collegar le forze d’Arne.
Un pezzo stette in dubbio ei nel pensiero,
Come difficultà mostrasse farne:
E poi rispose un servo fido, e vero,
(Se ben deve obedir) quando tornarne
Può danno al suo Signor troppo evidente,
Non dee mancar di dir quel, ch’ei ne sente,
Non fu mai nation più avara, e infida,
Ne si può trar da loro altro, che danno,
Non sol micidial, ma parricida,
Ma, che contra se stessa usa l’inganno.
Se ’l soldo tuo la lor militia affida,
E quei tanto prudenti Attici il sanno,
E fanno à lor veder de l’oro il lampo,
Ecco in un dì te morto, e rotto il campo.
Siton fu già Signor di quella parte,
Che vuoi, ch’io cerchi collegarti amica,
E sostenendo un periglioso Marte
Da molta gente barbara nemica,
Mentre le forze patrie egli comparte,
E assicurar lo Stato s’affatica,
Il luogo più importante si consiglia
Fidare ad Arne, à la sua propria figlia.
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2024-11-06T08:14:28Z
Alex brollo
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/* Trascritta */
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|121}}</noinclude><poem>
Ah quanto scarsi, e brevi ha i suoi contenti
Quella felicità, che ’l mondo apporta.
Come son pronti i miseri accidenti
A perturbarla, e farla in tutto morta.
Quel, che credea con tanti ben presenti
Chiusa ad ogni infortunio haver la porta,
Ha nova, che ’l Cretense Imperatore
Il regno gli vuol tor, l’alma, e l’honore.
Minosso il Re de la Saturnia terra
Hebbe un figliuolo Androgeo al mondo raro,
Famoso ne la lotta, e ne la guerra
Per l’atletica impresa illustre, e chiaro.
Dove il Palladio muro Athene serra,
Del suo valor non volle essere avaro,
Anzi con tanto honor la lotta vinse,
Che vi fu per invidia chi l’estinse.
Il Re d’Athene provido, et accorto
Mandò queste parole al padre irato,
Se nel mio regno Androgeo è stato morto,
Tosto, che quel, ch’errò sarà trovato,
Farò condurlo al tuo Cretense porto,
Che dal tuo tribunal sia castigato,
Ne mancherò d’ogni opportuno officio,
Che si ritrovi, e mandi al tuo giudicio.
Se bene à questa scusa ei par, che stesse,
Mandò secretamente alcuni sui,
Ch’investigasser ben, chi tolto havesse
Un figlio cosi raro al mondo, e à lui.
E dopo qualche dì par, ch’intendesse,
Che ben ch’Egeo desse la colpa altrui,
Havea lo stesso Re modo tenuto,
Che fosse Androgeo suo donato à Pluto.
E dato havendo à questo inditio fede,
E volto à la vendetta il giusto sdegno,
L’ambasciator de la Palladia sede
Fece licentiar del Ditteo regno,
E senza dargli termine, e gli diede
Da passare in Athene un picciol legno,
E con quel tristo aviso era in quel punto
Lo scacciato lor nuntio al porto giunto.
Chiedendo udienza per l’ambasciatore
Fè il secretario il Re pensoso, e mesto,
Dicendo, che per quel, ch’apparea fuore,
Era per riferir peggio di questo.
Intanto l’oltraggiato Imperatore
Fà con ogni suo sforzo d’esser presto,
E sapendo il poter del suo nemico
Cerca ogni Re vicin tirarsi amico.
E se ben di pedoni, e cavalieri,
E di triremi, e navi era si forte,
Che potea far senz’huomini stranieri
Terrore, e danno à le Cecropie porte:
Pur come fanno i providi guerrieri
Mandò persone nobili, et accorte,
Per collegar quei regni in quella guerra,
Che ’l potean far più forte in mare, e ’n terra.
Fra gli altri elesse un saggio cavaliero,
Ch’andasse à collegar le forze d’Arne.
Un pezzo stette in dubbio ei nel pensiero,
Come difficultà mostrasse farne:
E poi rispose un servo fido, e vero,
(Se ben deve obedir) quando tornarne
Può danno al suo Signor troppo evidente,
Non dee mancar di dir quel, ch’ei ne sente,
Non fu mai nation più avara, e infida,
Ne si può trar da loro altro, che danno,
Non sol micidial, ma parricida,
Ma, che contra se stessa usa l’inganno.
Se ’l soldo tuo la lor militia affida,
E quei tanto prudenti Attici il sanno,
E fanno à lor veder de l’oro il lampo,
Ecco in un dì te morto, e rotto il campo.
Siton fu già Signor di quella parte,
Che vuoi, ch’io cerchi collegarti amica,
E sostenendo un periglioso Marte
Da molta gente barbara nemica,
Mentre le forze patrie egli comparte,
E assicurar lo Stato s’affatica,
Il luogo più importante si consiglia
Fidare ad Arne, à la sua propria figlia.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Ma i Barbari sapendo quanto importe
L’argento, e l’or con gli aversarij loro,
Quel luogo hebber da lei sicuro, e forte
Per forza di promesse, e di thesoro.
Cosi aprì lor la vergine le porte
Via più, che de l’honor, vaga de l’oro.
E fu cagion, che ’l padre disperato
Perdè poco dapoi l’alma, e lo stato.
È ver, che pria, che ’l Re perdesse il lume,
Qualche pena cader ne vide in lei,
Che fu dal capo à i piè con nere piume
Vestita dal giudicio de gli Dei.
Ma non perdè l’antico suo costume
Ne i vitij de la patria avari, e rei.
Ch’anch’hoggi invola in questa forma nova
Medaglie, anella, e tutto l’or, che trova.
Chi Putta, e chi Monedula l’appella,
Et è alquanto minor de la Cornacchia;
E l’humana imitar cerca favella,
E rispondendo altrui cinguetta, e gracchia.
Et ogni cosa d’or lucida, e bella
Prende nel becco, e poi vola, e s’immacchia.
Si che non chieder gente in tuo favore,
Ch’è più vaga de l’or, che de l’honore.
Con la favella il Re saggio, e co’l ciglio
Approvò ciò, che ’l cavalier gli disse,
E dando affetto al suo fedel consiglio,
Volle, ch’altrove à questo officio gisse.
Ne volle il campo suo porre in periglio,
Ch’infido, e avaro barbaro il tradisse.
Ben che fu tanto il popol, che s’offerse,
Che quasi la sua armata il mar coperse.
E Cinno, e Sciro, e l’isola Anafea
Si collega con Creta, e in Creta sorge;
E con Micon, Cimolo, e Astipalea
Paro, che ’l più bel marmo al mondo porge.
La nave, il galeone, e la galea
Solcar per tutto il mar Greco si scorge.
E tutto il mondo si collega, e viene,
Altri in favor di Creta, altri d’Athene.
Che Didima, et Oliaro, et Andro, e Tino
Non vollero con Creta collegarsi,
Anzi in favor de l’Attico domino
Per honesta cagion vollero armarsi.
Ma quel, che regge il popol formicino,
Quasi la guerra addosso hebbe à tirarsi,
Per la risposta, e per la poca pieta,
C’hebbe al morto figliuol del Re di Creta.
Non sol non vò contra il mio patrio regno
(Disse) porger favore al Re Ditteo,
Ma voglio haver capital’odio, e sdegno
Contra ciascun, c’havrà nemico Egeo:
E se per questo mar vorrà il suo legno
Passar come nemico al lito Acheo,
Con quanto i legni miei nel mar potranno,
Farò à l’armata sua vergogna, e danno.
Chi havrà rispetto à l’amicitia, e al sangue,
Non troverà questa risposta strana;
Ma quel, che per Androgeo irato langue,
La trovò molto barbara, e villana:
Pur vuol pria vendicar la prole essangue,
E poi gir contra l’isola inhumana,
Che la pietà del suo figliuol lo sforza
A provar prima altrove la sua forza.
A pena havea l’ambasciatore Egina
Lasciato, e volta al suo Signor la vela,
Ch’una Galea la cognita marina
Solcando vien con la gonfiata tela,
E quanto più si mostra, e s’avicina,
Tanto più l’altra s’allontana, e cela.
Quest’era Attica vela, e anch’ella il corso
V’havea rivolto à dimandar soccorso.
Cefalo figlio d’Eolo era venuto
D’Athene al Re d’Egina à questo effetto;
E se bene homai vecchio era, e canuto
Havea anchor bello il già si bello aspetto.
Ei da’ figli del Re fu conosciuto,
Et abbracciato con amico affetto,
Et fattogli ogni festa, ogni accoglienza
L’appresentaro à la real presenza.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|122}}</noinclude><poem>
In mezzo và, come Signor sovrano,
Di Clito, e Buti figli di Pallante,
E d’oliva un bel ramo havendo in mano
Tosto, ch’egli si vede al Re davante,
China il ginocchio, e ’l ciglio tutto humano,
E d’amore, e pietà sparso il sembiante,
Con un parlar humil, facondo, e grato
Scopre il desio de l’Attico Senato.
Se per le tue maravigliose prove
Si gloria il Re del ciel d’esser tuo padre:
Non men di quel, che se n’allegra Giove,
S’allegra, e gloria Achea d’esser tua madre.
Hor se l’amor di lei punto ti move,
Ti fà saper, che le Cretensi squadre
Han collegata già la terra tutta,
Perche la patria tua resti distrutta.
Hor, perche spera, che sarai quel figlio,
Ch’esser si dè ver la sua madre pio,
A te mi manda l’Attico consiglio,
Per che tu sappi il Cretico desio.
E ti prega, che mandi il tuo naviglio
Armato in compagnia del legno mio,
E salvar cerchi la materna terra
Da l’odiosa, e minacciata guerra.
Volea con dir più lungo, e più facondo
Cefalo porgli in gratia il patrio loco,
Ma il Re, che di natura era iracondo,
Che fu concetto di fiamma, e di foco,
Vò (disse) contra Creta, e tutto il mondo
Dar le mie genti al bellicoso gioco,
E contra ogn’un, che s’appresenta, e viene
Per fare oltraggio à la mia patria Athene.
Voi non havete aiuto à dimandarme,
Ma à prender ben da voi quel, che vi pare,
Legni, munitioni, huomini, et arme,
E tutto quel, che ’l mio regno può dare.
Ne potevate in tempo alcun trovarme,
Che meglio vi potessi accomodare.
Che come piacque à la celeste corte,
Non hebbi mai più gente, ne si forte.
L’ambasciador de la Palladia parte
Renduto c’hebbe gratie al Re cortese,
Cosi augumenti il ciel sempre il tuo Marte,
(Disse) e porga ogni aiuto à le tue imprese,
Come poi, che lasciai l’onde, e le sarte,
Tutto quel, che dett’hai, vidi palese.
Ch’una tal gioventù mi venne incontro,
Ch’io non vidi giamai più bello scontro.
È ver, ch’un’altra volta, ch’io vi venni,
Da molti fui ben visto, e ben raccolto,
Et in memoria poi sempre gli tenni,
E v’ho scolpita anchor l’effigie, e ’l volto.
Hor quando il lito tuo bramato ottenni,
Hor à questo, hor à quello il lume ho volto,
E n’ho guardati mille ad uno ad uno,
Ne’ de gli amici miei ritrovo alcuno.
Il Re, c’havea ben’in memoria gli anni,
Ne’ quai vi venne Cefalo, e partisse,
Si ricordò de suoi mortali affanni,
E diede à l’aere un gran sospiro, e disse.
Vò rimembrare i miei passati danni,
Perche possi saper quel, ch’avenisse
Di quegli amici, ond’hai cercato tanto,
Non senza d’ambedue dolore, e pianto.
Ma se sarà il principio amaro, e tristo,
Sarà tanto più il fin lieto, e giocondo,
Che talmente dal ciel fu al mal provisto,
Ch’accrebbe al mio baston l’honore, e’l pondo.
Tosto, che ’l Re del ciel fè di me acquisto,
E che la madre mia mi diede al mondo,
Fù sempre la gelosa mia matrigna
Ver la mia madre Egina empia, e maligna.
E, perch’à starsi in quest’isola venne,
Che d’Enopia da lei fu detta Egina,
L’odio, che Giuno ogn’hor ver lei ritenne,
Sfogò sopra quest’isola meschina.
Dove il tuo amico, come à gli altri avenne,
Fù condannato à l’ultima ruina
Da un’atra peste si maligna, e cruda,
Ch’ogni anima restò del corpo ignuda.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Passato l’Equinottio dopo il verno,
Tutto ingombrar gli Austri infelici il cielo,
E fer la terra un tenebroso inferno,
E posero à le stelle, e al Sole il velo.
Quell’humido, c’havean le nubi interno,
Risolver non potea lo Dio di Delo,
Tal, che ’l misero mondo stava sotto
Un’aere oscuro, fetido, e corrotto.
Quattro volte havea Delia il suo viaggio
Finito contra il ciel per l’orme antiche,
E gli Austri ascoso havean l’Aprile, e ’l Maggio,
E fatte in tutto inutili le spiche.
E s’ascondeano, e se scopriano il raggio
Del Sol l’ombre à la terra poco amiche,
Sempre à l’aer facean maggior la guerra,
E contra il desiderio de la terra.
Se chiedono i mortai l’Aquilo, e ’l Sole,
Rinforza l’Austro, il nuvolo, e la pioggia:
Se ’l Sole appar men caldo, che non suole,
Per nostro maggior mal si mostra, e poggia.
E faccia pur il tempo quel, che vuole,
Sempre in danno del mondo ei cangia foggia;
E fa il vapor nel ciel si vario, e misto,
Che l’aere è ogn’hor più putrido, e più tristo.
Poi che con soffio ardente humido, e poco
Il suo putrido fiato Austro hebbe tratto,
E per l’humidità, che vinse il foco,
Restò del tutto l’aere putrefatto;
Quel fetor, che vi crebbe à poco à poco,
Mostrò la forza sua tutta in un tratto.
E ’l videro i mortali afflitti, e imbelli
A la strage de cani, e de gli augelli.
Cade la lana al misero montone,
Senza che ’l rovo gliele ’nvoli, ò porti,
E bela, e duolsi, e ’l capo in terra pone,
Ve ’l pongon gli animai di lui più forti.
Per ogni via le fiere, e le persone
Si veggono languir, poi caggion morti.
Ara il bifolco, e innanzi à gli occhi suoi
Vede cader l’un dopo l’altro i buoi.
Il feroce corsier non rigne, e freme,
Gli è mancato il vigor, non ha più core;
Nel presepio si stà languido, e geme
La morte, che venir dee fra poch’hore.
Non s’adira il cinghial, quand’altri il preme,
Ne mostra con le zanne il suo furore;
Ma con suono egro alquanto alza le strida,
E lascia, che ’l percota, e che l’uccida.
Il già placato, e miserabil’angue
Vien da maggior venen battuto, e vinto;
L’aura, ch’infetta il corpo interno, e ’l sangue,
Ne lo stupor tiengli ogni senso avinto.
Ogni huomo, ogni animal s’infetta, e langue,
E giace infermo, e resta in breve estinto.
E tanto è l’animal, che morto cade,
Ch’i campi di defunti empie, e le strade.
Giaccion per ogni suol (chi fia, che ’l creda?)
Ne il can n’osa mangiar, ne il lupo ingordo.
E par, ch’al lezzo ogn’un conosca, e veda,
Ch’ogni corpo è di peste infetto, e lordo.
Gli augei rapaci, et usi à simil preda
Dal naso han tutti il medesmo ricordo.
L’astore, e ’l nibbio, e lo sparviere, e ’l corbo
Sente, e fugge il fetor, che rende il morbo.
Distesi per li campi i corpi stanno,
E corrotti dal tempo, che gli strugge,
Un fetor si malvagio à l’aere danno,
Che ’l cerca ogn’un fuggir, ne alcuno il fugge
Pero, ch’in ogni parte ove si vanno,
D’infiniti il fetore il ciel si sugge.
Tal, che l’aere per tutto è ogn’hor men puro,
E più contagioso, e men sicuro.
Ma se per le campagne, e per le ville
Giaccion sparsi i bifolci, e gli animali,
Ne le città più grandi à mille à mille,
Vanno al sepolcro i miseri mortali.
Di mille roghi al ciel van le faville,
I quai bastano à pena à principali.
E quei che restan vivi in varij lochi
Pugnan per li sepolcri, e per li fochi.
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<noinclude><pagequality level="1" user="" />{{RigaIntestazione||settimo.|123}}</noinclude><poem>
Soverchio ardore intorno al cor raccolto
Arde, e combatte il corpo interno, e ’l core,
E ne dà inditio manifesto il volto,
E l’acceso color, ch’appar di fuore.
La lingua è grossa, et aspra, e ’l dir non sciolto,
E ’l foco sempre in lui si fà maggiore,
Che l’aura australe, e ria, ch’in favor prende,
Non gli dà refrigerio, ma l’accende.
Tanto l’ardore al fin rinforza, e cresce,
Che getta il panno, e ’l lin, che ’l tien coperto,
Poi l’annoian le piume, e del letto esce,
E giace sù la terra al cielo aperto,
Ne molto in terra stà, che gli rincresce
E vuol gire à trovar fresco più certo,
Che ’l terreo humor non fe il suo caldo meno,
Ma ben scaldò co’l foco egli il terreno.
Un cerca il fonte, un’altro cerca il fiume,
Per rimedio del caldo, e de la sete;
Ma perde alcun pria, che vi giunga il lume,
E dà le membra à l’ultima quiete.
Altri vi giunge, e mentre ber presume
La sua salute, bee l’onda di Lethe:
Che ’l troppo freddo, e non propitio rio
Sparge nel suo pensier l’eterno oblio.
Spinto nel fiume ignudo aItri si getta,
Da l’ardor, da la sete, e da la rabbia,
Dove si muore, e l’onde agli altri infetta,
E toglie l’acque infami à l’altrui labbia.
Tal che non resta di sospetto netta
Ne la casa, ne l’acqua, ne la sabbia:
E sono in tante parti i morti sparsi,
Che non v’è luogo mondo ove ritrarsi.
Se l’amicitia, ò ’l sangue, ò l’or richiede
Qualchun, che d’Esculapio imita l’arte,
Et ei parla à l’infermo, e ’l tocca, e ’l vede,
Col medesimo mal da lui si parte.
E quanto serve alcun con maggior fede,
Tanto più tosto vien del morbo in parte.
Onde fugge ciascun star loro appresso,
E cerca più, che può, salvar se stesso.
Ciascuno al proprio ben cerca consiglio:
Sangue, amicitia, ò imperio alcun non stringe.
Il certo, e inevitabile periglio
Fà conoscer quel, ch’ama, e quel, che finge.
Lascia il servo, il padrone, il padre il figlio,
Tal che molti il disagio al fin ne spinge.
Prova ognun varij antidoti, e d’usare
Cibi acri, odori esperti, et herbe amare.
Non han più tanto à cor gl’ingordi avari
L’utile, e cercan sol fuggir quel danno:
Non han pegni si nobili, e si cari,
Che no’l disprezzin, se sospetto n’hanno.
S’un morto hà in dito pretiosi, e rari
Gemmati anelli, e poi gli heredi il sanno,
Lascian, ch’altri gli toglia, e n’habbia cura,
Se tanto folle è alcun, che s’assicura.
Entra per ogni casa il morbo, e strugge
Di gente moltitudine infinita,
Che l’aura, che per forza il petto sugge,
Gli attosca, e chiama à l’ultima partita.
Tal ch’ogn’un’odia il proprio albergo, e ’l fugge,
Per più d’un huom, che vi lasciò la vita.
E, perche la cagion non sanno, ogn’uno
Dà la colpa à l’albergo, e non à Giuno.
Danno à l’animo tristo ogni contento,
Ogni piacer, che san trovar più grato,
E, per far gratia al cor di meglior vento,
Ne vanno al monte, à l’aere più purgato:
Ma ne trovan per tutto e cento, e cento
Morti nel pian, nel monte, e in ogni lato.
Per tutto Atropo à l’huom tronca lo stame,
Ne luogo san trovar, se non infame.
Abbandonato il divin culto, e ’l tempio
Resta, e sol l’hà in custodia Apollo, e Giove,
Benche diventa pio tal’hor qualch’empio,
E corre à Dio per far l’ultime prove,
E mentre cerca di salvar lo scempio
Del figlio il padre, e le sue preci move,
Nel mezzo del pregar diventa muto,
E dà innanzi à l’altar lo spirto à Pluto.
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Soverchio ardore intorno al cor raccolto
Arde, e combatte il corpo interno, e ’l core,
E ne dà inditio manifesto il volto,
E l’acceso color, ch’appar di fuore.
La lingua è grossa, et aspra, e ’l dir non sciolto,
E ’l foco sempre in lui si fà maggiore,
Che l’aura australe, e ria, ch’in favor prende,
Non gli dà refrigerio, ma l’accende.
Tanto l’ardore al fin rinforza, e cresce,
Che getta il panno, e ’l lin, che ’l tien coperto,
Poi l’annoian le piume, e del letto esce,
E giace sù la terra al cielo aperto,
Ne molto in terra stà, che gli rincresce
E vuol gire à trovar fresco più certo,
Che ’l terreo humor non fe il suo caldo meno,
Ma ben scaldò co’l foco egli il terreno.
Un cerca il fonte, un’altro cerca il fiume,
Per rimedio del caldo, e de la sete;
Ma perde alcun pria, che vi giunga il lume,
E dà le membra à l’ultima quiete.
Altri vi giunge, e mentre ber presume
La sua salute, bee l’onda di Lethe:
Che ’l troppo freddo, e non propitio rio
Sparge nel suo pensier l’eterno oblio.
Spinto nel fiume ignudo aItri si getta,
Da l’ardor, da la sete, e da la rabbia,
Dove si muore, e l’onde agli altri infetta,
E toglie l’acque infami à l’altrui labbia.
Tal che non resta di sospetto netta
Ne la casa, ne l’acqua, ne la sabbia:
E sono in tante parti i morti sparsi,
Che non v’è luogo mondo ove ritrarsi.
Se l’amicitia, ò ’l sangue, ò l’or richiede
Qualchun, che d’Esculapio imita l’arte,
Et ei parla à l’infermo, e ’l tocca, e ’l vede,
Col medesimo mal da lui si parte.
E quanto serve alcun con maggior fede,
Tanto più tosto vien del morbo in parte.
Onde fugge ciascun star loro appresso,
E cerca più, che può, salvar se stesso.
Ciascuno al proprio ben cerca consiglio:
Sangue, amicitia, ò imperio alcun non stringe.
Il certo, e inevitabile periglio
Fà conoscer quel, ch’ama, e quel, che finge.
Lascia il servo, il padrone, il padre il figlio,
Tal che molti il disagio al fin ne spinge.
Prova ognun varij antidoti, e d’usare
Cibi acri, odori esperti, et herbe amare.
Non han più tanto à cor gl’ingordi avari
L’utile, e cercan sol fuggir quel danno:
Non han pegni si nobili, e si cari,
Che no’l disprezzin, se sospetto n’hanno.
S’un morto hà in dito pretiosi, e rari
Gemmati anelli, e poi gli heredi il sanno,
Lascian, ch’altri gli toglia, e n’habbia cura,
Se tanto folle è alcun, che s’assicura.
Entra per ogni casa il morbo, e strugge
Di gente moltitudine infinita,
Che l’aura, che per forza il petto sugge,
Gli attosca, e chiama à l’ultima partita.
Tal ch’ogn’un’odia il proprio albergo, e ’l fugge,
Per più d’un huom, che vi lasciò la vita.
E, perche la cagion non sanno, ogn’uno
Dà la colpa à l’albergo, e non à Giuno.
Danno à l’animo tristo ogni contento,
Ogni piacer, che san trovar più grato,
E, per far gratia al cor di meglior vento,
Ne vanno al monte, à l’aere più purgato:
Ma ne trovan per tutto e cento, e cento
Morti nel pian, nel monte, e in ogni lato.
Per tutto Atropo à l’huom tronca lo stame,
Ne luogo san trovar, se non infame.
Abbandonato il divin culto, e ’l tempio
Resta, e sol l’hà in custodia Apollo, e Giove,
Benche diventa pio tal’hor qualch’empio,
E corre à Dio per far l’ultime prove,
E mentre cerca di salvar lo scempio
Del figlio il padre, e le sue preci move,
Nel mezzo del pregar diventa muto,
E dà innanzi à l’altar lo spirto à Pluto.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Ó quanti dal principio al santo choro
Corser d’accordo al pio culto divino,
E mentre il braccio alzava il vaso, e l’oro,
Per gittar sù le corna al toro il vino,
Nel più bel del mirar molti di loro
Fur trasportati à l’ultimo destino,
E prima, che sentisse il bue la scure,
Mandar l’alme à le parti inferne, e scure.
Pagando anch’io per la mia patria il voto,
Per tre teneri figli, e per me stesso,
Prima, che ’l Sacerdote almo, e devoto
Ferisse il capo al bue, che m’era appresso,
Il toro, che del mal non era voto,
Cadde innanzi à l’altar dal morbo oppresso,
E fuggir fe i ministri, e gli altri tutti,
Ch’al tempio il sacrificio havea condutti.
Qual fosse allhor, ò quale esser dovea,
Ben puoi da te pensar l’animo mio.
Ovunque gli occhi afflitti io rivolgea,
Nel gire, e nel tornar dal loco pio,
Giacer per tutto il popolo scorgea,
Al qual m’elesse Re l’eterno Dio:
E quanto più mi rivolgea d’intorno,
Tanto più in odio havea la luce, e ’l giorno.
Come cade la ghianda ben matura
In copia tal da l’arbor, che la forma,
Che chi vi và per quanto il bosco dura,
È sforzato à posar su’l frutto l’orma:
Cosi i figli animati di Natura
Caggion senza la parte, onde han la forma,
In copia tal, che l’huom, che vavvi, e riede,
È sforzato à posar sopr’essi il piede.
Molti prigioni fur da me salvati,
Che dovean per giustizia haver la morte,
E fur dal mio consiglio condannati
A dover sepelir le genti morte.
Da quei sù varij carri eran portati
Gl’infelici mortai fuor de le porte,
Senza altra pompa, ò funerale ammanto,
Senza altra compagnia, senz’altro pianto.
De’ quali altri restavan non sepolti,
Altri sù varij roghi havean ricetto,
Pugnando i pochi vivi per li molti
Morti, c’havean portati à questo effetto.
E tanti corpi haveano ivi raccolti
Per dargli al foco, e al sempiterno letto,
Ch’era à tanti sepolcri il mondo poco,
E l’arbore era scarso à tanto foco.
Sì che se gli occhi tuoi veder non ponno
Gli amici, che v’havesti già più d’uno,
Vien, che fur dati al sempiterno sonno
Da lo sdegno implacabile di Giuno.
Hor se tu vuoi saper com’io son donno
Del popol, che vist’hai tant’opportuno
Per dar soccorso à l’Attiche contese,
Con brevi note io te’l farò palese.
Vinto io da si nefando, e strano mostro,
Privo di speme, e carco di spavento
Alzo Ie luci al glorioso chiostro,
E mando al ciel questo pietoso accento.
Padre del ciel se mai nel mondo nostro
Degnasti darti al nuttial contento,
S’è ver, che de la tua stirpe divina
Mi desti al mondo, et à la madre Egina;
Ó rendimi quell’alme, onde m’hai privo,
Ó me insieme con lor dona à la tomba.
Parlando à pena à questo punto arrivo,
Che con un chiaro lampo il ciel rimbomba,
E dove io son fra mille morti vivo,
Un folgor vien da la paterna fromba,
E par, che dica il tuono alto, e veloce,
Il cielo ha dato applauso à la tua voce.
Allegro alquanto il buono augurio io prendo,
Che dal ciel manda il Re de gli alti Dei,
E mentre novi preghi al cielo io rendo,
Che rispondan gli augurij à voti miei,
In una antica quercia i lumi intendo,
Ch’ivi piantar de boschi Dodonei.
E quello, ch’io vi scorsi, e che v’ottenni,
Fù cagion, che felice in tutto io venni.
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Alex brollo
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="1" user="" />{{RigaIntestazione||settimo.|124}}</noinclude><poem>
Scorsi un campo infinito di formiche
Portar per una via molt’aspra, e stretta
Co’l picciol corpo i frutti de le spiche
A la città, ch’occulta haveano eletta;
E con eguali, et utili fatiche
Havendo al ben comun la mente eretta,
Secondo la lor legge, e ’l lor governo,
Si provedean per la stagion del verno.
Deh dammi, io dissi allhor, sommo Monarca,
Di gente una republica si grande,
E cosi industriosa, e cosi parca,
Come questa de l’arbor de le ghiande,
Come questa del grano avara, e carca,
Ch’appresta per lo verno le vivande.
Et ecco senza vento alcun si vede
Tremar quell’arbor da la cima al piede.
Come il tronco tremar sento, e la fronde,
Mi s’arriccia ogni pelo, e tremo anch’io,
E dopo nasce, io non saprei dir donde,
Non sò, che di speranza al mio desio.
Bacio la terra, e ’l tronco intanto asconde
Il Sol la luce à l’hemisperio mio,
E ristorato il corpo, e spento il lume,
Mi dò in custodia al sonno, et à le piume.
Tosto, che ’l sonno ha tolto à la natura
Co i sensi il lume interior, ch’intende,
Con quella speme, ch’à le vacue mura
Novi abitanti d’hora in hora attende,
Vien ne la fantasia confusa, e scura
Quel tronco, ù la formica hor sale, hor scende,
E gli stessi animai, c’huomini agogno,
Mi mostra sù lo stesso arbore il sogno.
Veggio tremar dapoi l arbor robusto
Senza che forza altrui gli faccia guerra,
E fa tanto crollare i rami, e ’l fusto,
Che fa cadere ogni formica in terra,
Et ecco ogni animale un’altro busto,
Un’altro volto, un’altra forza afferra,
Si fa maggiore, e perde il nero velo,
Et alza il novo tronco, e gli occhi al cielo.
Di più alti pensier l’alma si veste,
E d’aspetto più nobile, e più vago,
Fin tanto, che la sua terrena veste
Prende de sommi Dei la vera imago.
E quante son le trasformate teste,
Tante han di servir me l’animo vago.
Mi chiaman Re, mi fan l’honor, che ponno,
Tal che per l’allegrezza io scaccio il sonno.
Mentre mi vesto, e de gli Dei mi doglio,
Che mostrano al fantastico pensiero,
Quando non vegghio, tutto quel, ch’io voglio,
Ma non al lume vigilante, e vero;
Sento maggior, che mai l’humano orgoglio,
Ch’ingombra il regio albergo, e ogni sentiero,
Tal, ch’io temo sognarmi, e non mi fido
Di me, tanto alza l’huom per tutto il grido.
Mentre io comando (e anchor mi maraviglio)
Che s’apran per veder fenestre, e porte,
Foco, se n’entra solo, il terzo figlio,
Là, dove io mi vestia con poca corte;
E con allegro, e stupefatto ciglio,
Padre esci ne la sala, e ne la corte,
(Mi dice) ch’un miracolo vedrai
Maggior, che fosse al mondo udito mai.
Io gli dò fede, e lascio, che mi guidi,
Senza ch’altro da lui di questo ascolti.
E veggio i sogni esser leali, e fidi
A gli huomini infiniti ivi raccolti.
E come prima nel sognar gli vidi,
Gli habiti raffiguro, e anchora i volti.
Hor tosto, ch’io mi mostro, e ogn’un mi vede,
Fà ver me riverente il ciglio, e ’l piede.
Quei, ch’erano più degni, e meglio ornati
Di presenza, e di modi più prestanti,
Innanzi al mio cospetto appresentati,
Parlar per tutti gli altri circonstanti,
E co i modi più gravi, e più honorati,
Giurando con le man sù i libri santi,
Mi chiamar Re con ogni riverenza,
E promiser per tutti ubidienza.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|124}}</noinclude><poem>
Scorsi un campo infinito di formiche
Portar per una via molt’aspra, e stretta
Co’l picciol corpo i frutti de le spiche
A la città, ch’occulta haveano eletta;
E con eguali, et utili fatiche
Havendo al ben comun la mente eretta,
Secondo la lor legge, e ’l lor governo,
Si provedean per la stagion del verno.
Deh dammi, io dissi allhor, sommo Monarca,
Di gente una republica si grande,
E cosi industriosa, e cosi parca,
Come questa de l’arbor de le ghiande,
Come questa del grano avara, e carca,
Ch’appresta per lo verno le vivande.
Et ecco senza vento alcun si vede
Tremar quell’arbor da la cima al piede.
Come il tronco tremar sento, e la fronde,
Mi s’arriccia ogni pelo, e tremo anch’io,
E dopo nasce, io non saprei dir donde,
Non sò, che di speranza al mio desio.
Bacio la terra, e ’l tronco intanto asconde
Il Sol la luce à l’hemisperio mio,
E ristorato il corpo, e spento il lume,
Mi dò in custodia al sonno, et à le piume.
Tosto, che ’l sonno ha tolto à la natura
Co i sensi il lume interior, ch’intende,
Con quella speme, ch’à le vacue mura
Novi abitanti d’hora in hora attende,
Vien ne la fantasia confusa, e scura
Quel tronco, ù la formica hor sale, hor scende,
E gli stessi animai, c’huomini agogno,
Mi mostra sù lo stesso arbore il sogno.
Veggio tremar dapoi l arbor robusto
Senza che forza altrui gli faccia guerra,
E fa tanto crollare i rami, e ’l fusto,
Che fa cadere ogni formica in terra,
Et ecco ogni animale un’altro busto,
Un’altro volto, un’altra forza afferra,
Si fa maggiore, e perde il nero velo,
Et alza il novo tronco, e gli occhi al cielo.
Di più alti pensier l’alma si veste,
E d’aspetto più nobile, e più vago,
Fin tanto, che la sua terrena veste
Prende de sommi Dei la vera imago.
E quante son le trasformate teste,
Tante han di servir me l’animo vago.
Mi chiaman Re, mi fan l’honor, che ponno,
Tal che per l’allegrezza io scaccio il sonno.
Mentre mi vesto, e de gli Dei mi doglio,
Che mostrano al fantastico pensiero,
Quando non vegghio, tutto quel, ch’io voglio,
Ma non al lume vigilante, e vero;
Sento maggior, che mai l’humano orgoglio,
Ch’ingombra il regio albergo, e ogni sentiero,
Tal, ch’io temo sognarmi, e non mi fido
Di me, tanto alza l’huom per tutto il grido.
Mentre io comando (e anchor mi maraviglio)
Che s’apran per veder fenestre, e porte,
Foco, se n’entra solo, il terzo figlio,
Là, dove io mi vestia con poca corte;
E con allegro, e stupefatto ciglio,
Padre esci ne la sala, e ne la corte,
(Mi dice) ch’un miracolo vedrai
Maggior, che fosse al mondo udito mai.
Io gli dò fede, e lascio, che mi guidi,
Senza ch’altro da lui di questo ascolti.
E veggio i sogni esser leali, e fidi
A gli huomini infiniti ivi raccolti.
E come prima nel sognar gli vidi,
Gli habiti raffiguro, e anchora i volti.
Hor tosto, ch’io mi mostro, e ogn’un mi vede,
Fà ver me riverente il ciglio, e ’l piede.
Quei, ch’erano più degni, e meglio ornati
Di presenza, e di modi più prestanti,
Innanzi al mio cospetto appresentati,
Parlar per tutti gli altri circonstanti,
E co i modi più gravi, e più honorati,
Giurando con le man sù i libri santi,
Mi chiamar Re con ogni riverenza,
E promiser per tutti ubidienza.
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Mentre per gire al tempio i passi io movo,
Per ringratiar la corte alma, e divina,
Veggo piena ogni via del popol novo,
Che ’l novo Re saluta, e gli s’inchina.
A pena dove porre il piede io trovo,
Tanto è ’l popol, che guarda, e che camina,
E si grida, e fa festa, e tutto quello,
Ch’un popol fa, ch’elegge un Re novello.
Dato l’honore al santo sacrificio,
Per compartir le facultà del regno
Distribuisco ogni grado, ogni officio,
E ’l più nobile honor dono al più degno:
Poi dividendo il campo, e l’edificio,
Frà confino, e confin fò porre il segno,
E fo, ch’ogn’un del mio compartimento
Secondo il grado suo resta contento.
Considerando poi chi furo, e come
Hebber dal prego mio gli humani accenti,
Per dimostrar l’origine co’l nome,
Gli chiamai Mirmidon da lor parenti.
Et à queili di pria travagli, e some
Hanno applicate anchor l’avare menti:
Son parchi, e cauti, e dati à le fatiche,
E cupidi de frutti de le spiche.
E secondo eran providi, et accorti
Nella buona stagion per tutto l’anno,
Cosi sono hoggi industriosi, e forti,
Et acquistare, e custodir ben sanno.
D’anni eguali, e di cor ne’ vostri porti
In soccorso d’Egeo teco verranno,
I quai ne l’arme han tanto ordine, et arte,
Ch’oserian contra il campo andar di Marte.
Con queste, et altre cose il Re cortese
Con Cefalo passar cercava il giorno,
Finch’à la mensa splendida si prese
Tutto quel, che può dar la copia, e ’l corno.
Quindi poi che Lieo lieto ogn’un rese,
Donar le membra al morbido soggiorno,
E le fidaro à l’otiose piume,
Fin ch’à splender nel ciel venne un sol lume.
Ma poi che la fanciulla di Titone
Venne à dar bando à l’ombre oscure, e felle,
E fece, che fuggiro il paragone
Del maggior foco tutte l’altre stelle;
Saltaro prima in piè Buti, e Clitone,
E s’ornar de le vesti altere, e belle,
E giro à trovar Cefalo, ch’intanto
Il corpo adorno fea del ricco manto.
Da questi, e da molti altri accompagnato
Al regio albergo il nuntio si trasporta,
Ma essendo anchor dal sonno il Re gravato,
A tutti si tenea chiusa la porta.
Hor mentre attende, ch’Eaco sia levato,
E per la sala regia si diporta,
Ecco entra in sala Foco il terzo figlio
Del Re, per gire à lui, com’apra il ciglio.
Peleo con Telamone erano intenti,
Gli altri figli del Re d’età maggiori,
A proveder quell’armi, e quelle genti,
Le quai per questo affar credean migliori,
Perche potesser gir co i primi venti
In favor de gli Achivi ambasciatori.
Hor, come Foco appar, si vede avante
Con Cefalo i due figli di Pallante.
Poi che ’l grato saluto, e l’accoglienza
Fè quinci, e quindi il debito opportuno,
E Foco udì, ch’à la real presenza
Non ammetteva il sonno anchora alcuno,
Si posero à seder, non però senza
Servare il grado, e l’ordine d’ogn’uno.
E stando à ragionar, fermò lo sguardo
Foco, ove in man teneva un paggio un dardo.
E, perche il giudicò superbo, e bello,
E non conobbe l’albero, e ’l colore,
Chiamò quel paggio, e volle in mano havello,
E riguardar da presso il suo splendore;
E forte il ritrovò lucido, e snello.
Poi volse il guardo à l’Attico Signore,
E non sapendo l’arme esser fatale,
Lodò con questo suon l’ignoto strale.
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D’ogni arme atta à la caccia io mi diletto,
E che più noce à l’animal selvaggio,
E di diverse forme io sò l’effetto,
E qual conviensi al corno, al cerro, e al faggio:
Hor mentre à gli occhi miei dò per obbietto
Quel dardo, che vi serba il vostro paggio,
Trovo, ch’al ferro, à la figura, e al legno
No’l potrebbe Diana haver più degno.
Il ferro è di si raro, e bel lavoro,
Et ha per quel, ch’appar, tempra si dura:
Tal mostra leggiadria l’intaglio, e l’oro,
Che farebbe à Vulcan scorno, e paura.
Non può l’amante del primiero alloro,
Che scopre tutto il ben de la natura,
Legno veder di più vaghezza adorno
In quante selve godon del suo giorno.
Questo avanza il corgnal, l’olivo, e ’l bosso,
Ne solo ammorza il bel d’ogni altra trave,
Ma può star di durezza à par de l’osso,
Et à par de le perle il lume c’have:
In quanto al peso, ch’io giudicar posso,
Non è troppo leggier, ne troppo grave.
In somma questo dardo have ogni parte,
Che s’appartiene à la natura, e à l’arte.
Quel, che ’l fece venir d’arbore strale,
Ha molto ben la forza, e ’l legno inteso;
Perche nel ver la sua grossezza è tale,
Che corrisponde à la lunghezza, e al peso:
E appunto in quella parte ha posto l’ale,
Che ’l tengon nel volar meglio sospeso.
E per quel, che ’l giudicio mio ne vede,
Tutto è proportion dal capo al piede.
Rispose Buti allhor, questo suo dardo
Tutte le lodi tue vince d’assai,
Ch’oltre à quel, che la man conosce, e ’l guardo,
Un’altra have virtù, che tu non sai:
È men sicuro il folgore, e più tardo
Di lui, che non s’aventa indarno mai;
E quale il fato sia, ch’al dardo arrida,
Non si suol mai tirar, che non uccida.
Allhor più caldo di saper desio
Accese à Foco il giovenil pensiero,
Chi l’autor fosse, od huom mortale, ò Dio
Che ’l fece andar di quell’arbore altero.
Tu vuoi, ch’io rinovelli il pianto mio,
Disse non senza pianto il cavaliero,
E piacesse à gli Dei, che privo sempre
Stato foss’io da le sue dure tempre.
Et anchor, che Ia vista di quell’arme
Del mio passato ben mi renda accorto,
E del danno, ch’io n’hò, faccia attristarme,
Per tutto ovunque vò, sempre la parto.
Però, che la virtù del fatal carme,
Che fe, ch’à quel, che trahe, non fa mai torto,
Mi persuade à trarla in ogni impresa
Meco per altrui danno, e mia difesa.
E se ben nel contar chi fosse il Nume,
Che ’l legno mi donò, c’ha si bel manto,
Sarò sforzato à far d’ogni occhio un fiume,
E non potrò contarlo senza pianto;
Vò compiacerti, et ancho aprirti il lume
A la forza del fato, e de l’incanto,
Ond’hebbe il dardo quel valore interno,
Che fu cagion del mio dolore eterno.
Non sò, se mai l’orecchie ti percosse
Di Procri il nome figlia d’Eritteo,
Sorella di colei, che Borea mosse
A rapirla pel forza al lito Acheo.
Costei, qual la cagion di ciò si fosse,
Amore, e ’l padre suo mia moglie feo.
E in vero, à par de la bella Orithia,
Più degna esser rapita era la mia.
Per la rara beltà, che seco nacque,
Ch’ogni dìcon l’età più crebbe in lei,
Fui chiamato felice poi, che piacque
Al ciel di darla à desiderij miei.
E in vero era felice: ma dispiacque
Fortuna si propitia à sommi Dei.
Ne voglion, ch’un nel basso mondo nato
Possa al paraggio lor dirsi beato.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Dal giorno de le nozze il Re di Delo
Trenta volte dal Gange uscì sotterra,
Et altrettante à la sua luce il velo
Co’l corpo oscuro suo pose la terra,
Quando donando il primo albore al cielo
L’Aurora diè principio à la mia guerra,
Che vide à caso me ne’ colli Himeti
A diversi animai tender le reti.
Come nel volto mio le luci intende
Colei, ch’alluma l’aere oscuro, e cieco,
D’amoroso desio di me s’accende,
E mi rapisce à forza, e mena seco.
Indi à l’albergo suo mesto mi rende,
E vuol de l’amor mio godersi meco,
Et io (se lece in questo à dire il vero)
Mi mostro acerbo al suo dolce pensiero.
Con pace de la Dea bella sia detto,
Se ben di gigli, e rose ha il volto adorno,
Se ben quel lume ha il suo divino aspetto,
Ch’in ciel si mostra à l’apparir del giorno,
Contrasto à l’amoroso suo diletto,
E fuggo il suo dolcissimo soggiorno:
Che volto solo à Procri era il mio amore,
E Procri in bocca havea, Procri nel core.
Mentre con le più candide parole,
E co’l più dolce affettuoso modo
Me nominando il suo bene, e ’l suo Sole
Mi vuol legar co’l più soave nodo:
Rispondo, che ’l mio debito non vuole,
Ch’al coniugal’amor, ch’in terra godo,
Che d’un più forte laccio il cor m’ha attorto,
Per compiacere à lei faccia quel torto.
Poi che la Dea tentò più giorni in vano
Per varie vie d’indurmi à le sue voglie,
Et io non volli mai rendermi humano,
Per non far torto à la mia casta moglie:
Distese con furor l’irata mano,
Et afferrò le mie terrene spoglie,
Et renduto, che m’hebbe al Greco lido,
Mi fe tutto attristar con questo grido.
Habbiti la tua Procri, e spregia ingrato
Chi t’ama, e torna à tuoi propinqui guai,
Che, se non mente al mio giudicio il fato,
Non la vorresti haver veduta mai.
Poi che m’hebbe la Dea cosi parlato,
Invisibil seguimmi ovunque andai,
E solo allhor visibil mi si rese,
Che ’l mio geloso cor le fei palese.
La Dea, ch’è prima à illuminare il cielo,
E che senza partir da me disparse,
Co’l suo verso fatal di tanto gielo
L’infiammato mio core offese, e sparse,
Che per timor del cor l’ardente zelo
Si strinse, e chiuse, e più mi nocque, e m’arse
Tanto, che ’l foco, e ’l giel fe dubbia l’alma,
Chi havesse di lor due nel cor la palma.
Quella stessa beltà, che ’l cor m’accende,
Di gelata paura anchor l’agghiaccia,
E fa temer, che ’l bel, ch’in lei risplende,
Anche altrui, come à me, diletti, e piaccia:
E di maggior timor costretto il rende
Il parlar de la Dea, che l’ombre scaccia,
Che dice, c’havrò l’alma amara, e trista
Per haver la mia Procri amata, e vista.
Pur se mi dava il suo splender sospetto,
Che non prendesse il cor di mille amanti,
E che non desse à l’adulterio effetto,
Trovando al gusto suo qualchun fra tanti;
Per lei faceano fede al dubbio petto
I bei costumi suoi pudichi, e santi.
Ne volean, che facesse il suo cor saggio
Al suo sposo, al suo honor si infame oltraggio.
Pur quello essere stato in Oriente
Rapito da chi ’l mondo imperla, e dora,
Innanzi agli occhi mi ponea sovente
Il minacciato danno da l’Aurora.
Tanto, che dal timor vinta la mente
In tutto uscì de l’intelletto fuora,
E venir femmi à le dannose prove,
Che fan, che l’occhio mio perpetuo piove.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|126}}</noinclude><poem>
Ne la mente più sana un desir folle
Mi cade di di tentar la mia consorte,
S’ella à preghi d’altrui si rende molle
Con ricchissimi doni d’ogni sorte.
Hor mentre al modo io penso, al vel si tolle
L’Aurora, et al mio lume apre le porte,
E discoperto à me di novo il volto,
Con questo suon fà il mio pensier più stolto.
Se ben de l’amor tuo crudel non godo,
E sei ver me tropp’aspro, e troppo altero,
Non però vò mancar di darti il modo,
Che dar può effetto al tuo novo pensiero:
Perche provi, se Procri osserva il nodo
D’Himeneo, vò cangiarti il volto vero.
Et ecco il viso, l’habito, e ’l costume
Mi cangia, e pon lo specchio innanzi al lume.
Trovo cangiato il volto, ma non l’anno,
Vago d’un bel color vermiglio, e bianco.
Ella si veste l’invisibil panno,
Ma non resta però d’essermi al fianco.
Mentre io mi guardo, e penso al novo inganno,
Veggio sotto il mantel dal lato manco
Pendermi un picciol zaino: io gli apro il seno,
E di scatole, e gioie il trovo pieno.
Sicuro di non esser conosciuto
A l’Attica città drizzò le piante,
E fo dar fuore il nome, ch’è venuto
Un, c’ha portate gioie di Levante.
Come al palazzo regio fu saputo,
Fui fatto à la Reina andare avante.
Bench’à lei, à le figlie, e à le donzelle
Non fei mostra però de le più belle.
Da la corte paterna io trovo lunge
La moglie mia, che si lamenta, e piange
Nel mio vedovo albergo, e ’l cor le pugne
Gelosia de la Dea, che l’ombre frange.
E come un peregrino al porto giunge,
Che sappia de le parti esser del Gange,
L’accoglie con cortese, e honesto invito,
E nova chiede à lui del suo marito.
Hor come sà, ch’un gioiellier novello
È giunto d’Oriente à liti Achei,
Mi fa chiamare entro al mio proprio hostello
Con casta cortesia da servi miei.
E con un volto addolorato, e bello
Mentre vede i bei sassi Nabatei
Con un’accorto aviso modo trova,
Che diede à me di me medesmo nova.
Il dolce sguardo, il modo, e la parola,
Era tutto prudentia, e castitate.
Ne creder, che fidar volesse sola
A l’età mia la sua più bella etate;
Seco havea quivi una superba schola
Di serve d’una nobil qualitate.
Hor rispondendo à quel, ch’ella mi chiede,
Cosi fo di me stesso io stesso fede.
Quel gentil cavalier, di cui dimande,
Se mi rimembra, ben giamai non vidi:
Questo è ben ver, che ne le nostre bande
S’odon del caso suo famosi gridi.
La Dea, che ’l primo albor nel mondo spande,
Ragionan, che ’l rapì ne’ vostri lidi.
E par, che di beltà ciascuno il lode,
E che piace à l’Aurora, e che se ’l gode.
Se ben lo stesso havea sentito altronde,
Che ’l mondo quei, che ’l vider, n’havean pieno,
Come ode, che ’l mio dire al ver risponde,
Tutto irriga di pianto il volto, e ’l seno.
Come io veggio in tal copia abondar l’onde;
Posso à pena tenere il pianto in freno,
Tal io conobbi in lei ver me l’affetto,
Tanta per lei pietà mi prese il petto.
Ben che la luce lagrimosa, e trista
Mostrasse il volto afflitto, e sconsolato,
Non havea il mondo più gioconda vista
Del suo pietoso viso addolorato.
L’amorosa pietà co’l dolor mista
Rendean l’aspetto suo si vago, e grato,
Che mentre fortunata hebbe la stella,
Non sò, s’io la vedessi mai si bella.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
La donna, più che puote, asconde il pianto;
L’affreno io, più che posso, che non piova.
Mira ella, e pregia le mie gemme intanto,
Et io faccio abondar la merce nova.
Poi dico, fa scostar Madama alquanto
La compagnia, che qui teco si trova,
Però, che merce tal qui dentro annido,
Ch’ad ogni man non la concedo, e fido.
Ogni più favorito occhio, e più degno,
Ch’à veder s’era fatto innanzi un poco,
Al primo, che li diè la donna segno
Si ritirò da parte, e cangiò loco.
Io scopro immantinente un’altro legno,
E splender fo di varie gemme un foco,
C’havrebbon fatta divenire humana
A bei preghi d’Amor Palla, e Diana.
Ella le mira, e poi del pregio chiede,
Secondo hor questa, hor quella in man le viene.
E dice, mentre le vagheggia, e vede,
Che saria troppo spesa al Re d’Athene.
Un mio caldo sospir l’aria allhor fiede,
E dico, ch’una donna il mio cor tiene,
Che s’ella amasse me, com’io l’adoro,
Le potrebbe comprar tutte senz’oro.
Vergognosa ella abbassa il viso, e ’l ciglio,
Com’io do fuor gli ultimi accenti miei,
E ’l suo misto color divien vermiglio.
Pur non credendo ch’io dicessi à lei,
M’aveggio, che fra se prende consiglio,
Come possa saper, chi sia costei,
Apre le labbra, e dimandarne agogna:
Pur la ritiene il fren de la vergogna.
La donna curiosa di natura
Di sapere i pensier d’ogni altra donna,
Vorrebbe dimandar, ne s’assicura
Chi sia costei, che del mio core è donna.
Io per farla più vaga di tal cura,
A più superbe gioie apro la gonna,
Con dir se si mostrasse al mio cor grata,
Vorrei ch’andasse anchor di queste ornata.
Poi le soggiungo, voi la conoscete,
Come à voi propria le portate affetto:
È ver, ch’io vò tener le labbra chete,
Per più d’un ragionevol mio rispetto.
E le fo sempre più crescer la sete
Di trarmi il nome incognito del petto.
Tanto, che al fin mi prega, et usa ogni opra,
Che ’l nome de la donna io le discopra.
Rispondo al fine, è forza, ch’io m’arrenda,
E ch’io scopra l’ardor, che mi consume,
Ma, perche maraviglia non vi prenda,
C’habbia à tropp’alto obbietto alzato il lume,
Vò, che sappiate in parte, ond’io discenda,
Senza scoprirvi il mio paterno Nume.
Diè quest’alma à soffrir la state e’l verno
Un Re, che non v’è ignoto, e vive eterno.
E ben al gran valor veder si puote
Di gemme, e gioie, ch’io mi porto à canto,
E forse anchora à gli atti, et à le note,
Com’io non son quell’huom, che mostra il manto.
Ma il grand’amor, che m’ange, e mi percote,
Fà, che sotto quest’habito m’ammanto,
E celo sconosciuto la mia doglia,
Per palesarmi à lei, quando il ciel voglia.
La vidi à questo dir cangiarsi un poco,
E conobbi, c’havea qualche timore,
Che quel, che discoprir le volea, foco,
Non osasse tentar lei del suo honore.
Ma essendo dubbia al mio parlar diè loco,
Per conoscer l’obbietto del mio amore,
Fin, che le feci udir, che dal suo sguardo
Scoccato havea al mio cor Cupido il dardo.
Ben le veggio turbar co’l cor l’aspetto,
Come il mio dire à questo punto arriva:
E se non, ch’io l’havea pur dianzi detto,
Ch’era la stirpe mia reale, e diva,
Credo, c’havrebbe senza altro rispetto
La luce mia de la sua vista priva.
Pure havendo riguardo al mio lignaggio,
Cercò con questo dir farmi più saggio.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|127}}</noinclude><poem>
Ignoto cavalier, che ’l sangue mio
Cerchi macchiar co’l dono, e con l’inganno:
E per dar luogo al tuo folle desio
Hai mentito fin hor la stirpe, e ’l panno;
Tornati pur al tuo regno natio,
Dove à l’honore altrui potrai far danno:
Pero che sei (se credi) in tutto cieco
Dar questa maechia al sangue regio Greco.
Perche la stirpe mia pudica, e monda
D’ogni macchia, che seco infamia apporte,
Non vuol, ch’ad altro amore il mio risponda,
Ch’à quel del mio dolcissimo consorte.
E ben ch’altri hor se ’l goda, e me ’l nasconda,
E forse al suo desio chiugga le porte,
Vo però casta à lui servarmi, e quale
Conviensi à la mia stirpe alma, e reale.
Prendi pur quelle gioie, e quelle serba
Ad altra, che dia luogo al tuo appetito.
La regia stirpe tua diva, e superba
Altra disponga al tuo lascivo invito:
Ch’io sarò sempre ad ogni voglia acerba
Da quella in fuor del mio dolce marito.
A lui voglio servar, pudica, e fida
Quanta gioia d’amor meco s’annida.
Ó pensier curioso, ò mente insana,
Perche de la sua fè non ti contenti?
Havria potuto Pallade, e Diana
Risponder più pudichi, e grati accenti?
Perche l’inganno tuo non s’allontana?
Perche di novo la combatti, e tenti?
Che non ti parti? e con la vera gonna
Non torni à goder poi si rara donna?
Mentre i diamanti, i rubini, e i camei
Rinchiudo entro al lor nido, anchor rispondo,
Che s’ella compiacesse à desir miei,
Più ricca donna non havrebbe il mondo.
E se ben figlia ella è del Re d’Achei,
Io di tant’oro, e tante gioie abondo,
Che de le cose più rare, e più belle
Avanzeria la madre, e le sorelle.
E che per starsi splendida in Athene
Havria sempre da me de l’oro in copia,
E che potrebbe haver sicura spene,
Che non glie ne farei patire inopia.
Ma che del suo contento, e del suo bene
Non ne potea voler più, ch’essa propia.
E con queste parole, et altre assai
Io mi procaccio, misero, i miei guai.
Ogn’hor più il mio parlar libero, e sciolto
L’orecchie, e ’l core à la mia donna fiede,
Tanto, ch’ella le luci alza al mio volto,
E mi contempla ben dal capo al piede.
Poi riguardando al zaino, ove raccolto
È ’l mio ricco thesor, che più non vede,
Getta un sospiro, e di parlar pur tenta,
Comincia à dir, poi tace, e si spaventa.
Mentre corrotto il suo santo costume
Veggio, e ’l pensier già si pudico, e saggio,
Incontrando con lei lume con lume,
Scorgo, che ’l suo lampeggia, come un raggio.
In quel, ch’io stò per far d’ogni occhio un fiume,
Dar cerca ella al suo dir forza, e coraggio,
E dice al fin con un dir rotto, e cheto,
Che d’esser giuri à lei fido, e secreto.
Come ho scoperto, quanto agevolmente
Può cangiar donna casta il san pensiero,
L’invisibil mia Dea, ch’era presente,
Mi trasformò nel mio volto primiero.
Tal, ch’ella à pena aprì la ’nfame mente,
Ch’io le comparsi il suo marito vero.
Chinò ciascun di noi le ciglia basse,
Ne sò chi più di noi si vergognasse.
La vergogna, e lo sdegno ambi i cuor prende:
Ma fatto del mio cor signor lo sdegno,
AIza l’irata voce, e la riprende.
Dunque verresti donna à l’atto indegno,
A l’atto, che la donna infame rende,
Per premio anchor, che n’acquistassi un regno?
Allenta ella al mio dir al pianto il freno,
E di lagrime sparge il volto, e ’l seno.
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L’insidioso poi sposo, et albergo,
Vinta da la vergogna, hà in odio, e lassa,
E havendo à noia ogni huom, lor volge il tergo,
Et à servir la Dea triforme passa.
Com’io son senza lei, di pianto aspergo
L’afflitta luce addolorata, e bassa.
E quanto più di me fugge ella il guardo,
Tanto io di lei più m’innamoro, et ardo.
La trovo al fin ne’ boschi, ove Diana
Corre dietro alla belva empia, e veloce.
Tosto, ch’ella mi vede, e s’allontana,
La seguo ovunque và con questa voce.
Renditi donna homai benigna, e humana
Al foco, che m’infiamma, e che mi coce,
Fù il mio l’errore; e cosi affermo, e sento,
E ti chiedo perdono, e me ne pento.
Tutto l’error commesso è stato il mio,
E ’l conosco, e ’l confesso, e ’l sento, e ’l ploro;
Ne sò trovar pensier si santo, e pio,
Che resistesse à si nobil thesoro:
E ’n questo error sarei caduto anch’io
Per men copia di gemme, e per manc’oro.
Si che non mi fuggir, ma meco godi
I dolci d’Himeneo connubij, e nodi.
Il confessato errore, il prego, e’l pianto
Co’l mezzo de le Ninfe, e de gli amici
Con l’indurata mia moglie fer tanto,
Che scacciò dal suo cor le voglie ultrici.
E tornata al connubio amato, e santo,
Menammo i nostri dì lieti, e felici:
Ma non sofferse il mio maligno fato,
Ch’io stessi molto in si felice stato.
Mentre restar fè la mia luce priva
Del suo divin splendor la mia consorte,
Ottenne un don da la sua santa Diva,
Forse il più singular de la sua corte,
D’una natura un can si fiera, e viva,
Ch’in caccia à ogni animal dava la morte.
Era d’ogni animale empio, et acerbo
Più forte, più veloce, e più superbo.
Le donò anchor co’l can feroce, e snello
Quel dardo altier, che tien quel paggio in mano,
Ch’avanza al volo ogni veloce augello,
E per mio mal mai non si lancia in vano.
Ma poi, che l’amor mio leggiadro, e bello
Gratia mi fe del bel sembiante humano,
Volendo del suo amor segno mostrarme,
Mi fe don di quel veltro, e di quell’arme.
Ó nova maraviglia, e non più intesa,
Che dal don de la Dea Silvana nacque.
Troppa audacia in Beotia s’havean presa
Nel voler profetar le Dee de l’acque.
S’un volea il fin saper d’alcuna impresa
L’oracol de le Naiade no’l tacque,
Tanto, ch’ogn’un v’havea più fede, e speme,
Che ne’ risponsi pij de l’alma Theme.
La Dea, che vede abbandonato il tempio
In tutto dal Senato, e da la plebe,
Per donare à futuri huomini essempio
Nel fertil pian de la non fida Thebe
Scender fà un mostro, ch’importuno, et empio
Tutte del sangue human sparge le glebe.
Gli huomini, e gli animai divora, e strugge,
Ne alcun l’osa ferir, ma ogn’uno il fugge.
Era una Volpe oltre ogni creder fella,
Di lupo il dente havea, cerviero il guardo,
E in esser fiera, cruda, agile, e snella,
Avanzava il leon, la tigre, e ’l pardo.
Scorrea Beotia, e ’n questa parte, e in quella
Si presta, ch’era il folgore più tardo.
Struggea di fuor le gregge, e i fieri armenti,
E dentro à le città l’humane genti.
L’oppresse allhor città prendon consiglio
D’unire, e reti, e cacciatori, e cani,
E liberar dal mostruoso artiglio
Le mandre fuor, dentro i collegij humani.
Anch’io chiamato al pubblico periglio,
De la lassa, e del dardo armo le mani.
E m’appresento al general concorso
Co’l fatal can, che vince ogni altro al corso.
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Tendiam le reti, e compartiam le lasse,
D’occupar passi ogn’un si studia, e sforza,
Perche del mostro altier priva si lasse
De l’alma ria la mostruosa scorza.
In tanto i bracchi con le teste basse
Cercan del fiuto lor mostrar la forza,
Già scoperta è la fera, e si risente,
E contra i cani ingordi adopra il dente.
Come il fero animal mostra la fronte,
E questo, e quel mastino affronta, e fiede,
Chi corre per lo pian, chi scende il monte,
Altri à cavallo, altri co’l proprio piede.
E và per vendicar gli oltraggi, e l’onte
Contra l’auttor de le dannose prede.
Altri gli lascia il veltro, altri l’assale
Ó co’l dardo, ò con l’hasta, ò con lo strale.
Stà il mostro altier talmente in su l’aviso,
Et è si presto, si veloce, e snello,
Che non si lascia mai corre improviso,
Ma s’aventa, e ferisce hor questo, hor quello.
Rende à questo, e quell’huom sanguigno il viso,
Rende à questo, e quel can sanguigno il vello.
E cosi bene assalta, e si difende,
Ch’egli percote ogn’un, ne alcun l’offende.
Quando tanto abondar vede la folta,
E d’esser d’ogni aiuto ignuda, e sola,
La fatal volpe in fuga il piede volta,
E ’n pochi salti à tutti i can s’invola.
Il cane, e l’huom si drizza à la sua volta,
E chi fa udire il suon, chi la parola.
E à quei, ch’i passi guardan d’ogni intorno,
Dan segno altri co’l grido, altri co’l corno.
Dopo molto fuggir, l’iniqua, e fella
Belva verso quel luogo affretta il passo,
Dove co’l can, che Lelapo s’appella,
E co’l dardo fatale io guardo il passo.
Il can con flebil suon s’ange, e flagella,
E si prova, e si duol ch’andar no’l lasso.
Io stò à mirar la fuga, e ’l mostro intento,
E come veggio il tempo, il cane allento.
Hor qual sarà de due più presto, e forte?
Qual de due l’impresa havrà la palma?
L’uno, e l’altro dal fato havea la sorte,
L’uno, e l’altro ha fatal la spoglia, e l’alma.
Questo per dar, quel per fuggir la morte
Affretta più, che può, la carnal salma.
E saltan con fatal prestezza, e possa
Ogni rete, ogni macchia, et ogni fossa.
In mezzo al campo un picciol colle siede
D’arbori, e d’ogni impaccio ignudo, e netto,
Io pongo in fretta in su la cima il piede,
E del corso de due prendo diletto.
La belva hor gira, hor s’allontana, hor riede,
Perche il cane à trascorrer sia costretto:
E spesso, in quel, che’l mostro il camin varia,
Prenderlo il can se ’l crede, e morde l’aria.
Ecco, che già da presso io gli riguardo,
Dopo più d’una corsa, e più d’un giro,
Io tosto al laccio accomodo del dardo
La mano, e prendo ogni vantaggio, e tiro.
Hor mentre và lo stral presto, e gagliardo,
Farsi la volpe, e ’l can di marmo miro.
Par, che ’l can segua, e d’abboccar si strugga,
E ch’ella à più poter si stenda, e fugga.
Era fatal il mostro, e ’l veltro, ch’io
Lasciai, la sua virtù dal fato tolse,
E, perche anchor fatal fù il dardo mio,
Far vincitore il fato alcun non volse,
Ma ’l cane, e ’l mostro periglioso, e rio
In mezzo al corso in duri sassi volse:
E sol salvò dal rio marmoreo sdegno
Con la stessa virtù l’acciaio, e ’l legno.
Se bene il rimirar mi spiacque assai
Si nobil cane un sasso alpestre, e duro,
Sentij sommo piacer, quando trovai
Esser dal marmo il mio dardo sicuro.
Misero me, di quello io m’allegrai,
Che il mio bel tempo fece ombroso, e scuro.
Ó me beato, se rendean que’ marmi
Co’l mio misero can pietra quell’armi.
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Più felice huom non havea allhora il mondo,
Ch’oltre, ch’io del bel dardo andava altero,
Godea quel viso angelico, e giocondo,
Ch’era de gli occhi miei l’obbietto vero.
Era l’amor reciproco, e secondo
Al giusto d’ambedue fido pensiero.
Felice andava ognun de la sua sorte,
Io de la moglie, et ella del consorte.
Io de le belle Dee di Cipro, e Delo,
Havrei spregiato il coniugal diletto;
Non havrebbe ella per lo Re del cielo,
Ne per lo biondo Dio cangiato il letto.
Cosi tutto quel ben, che porge il zelo
D’amor, godea ciascun con pari affetto.
Ne so, se ’l ciel, che ’l nostro ben comparte,
Possa di maggior bene altrui far parte.
Spesso nel bosco à caccia andar solea
Ne l’apparir del mattutino raggio.
Ne de miei servi alcun meco voleva,
Ne di cani, ò di reti alcun vantaggio.
Mi facea il dardo sol, che meco havea,
Sicuro andar da qual si voglia oltraggio.
Ne mi togliea dal boscareccio assalto,
Se non dapoi, che ’l Sol vedea tropp’alto.
Ne l’hora, che più caldo il Sol percote,
E che quasi i suoi raggi à piombo atterra,
E fa l’ombre drizzar verso Boote,
E del più grande incendio arde la terra,
Io mi ritiro in parte, ove non puote
Ferirmi per la selva, che mi serra;
E l’Aura, onde lo spirto, e ’l fresco prendo,
Spesso con questo suon chiamo, et attendo.
Mentre il più caldo giorno il mondo ingombra,
E l’aere, e ’l bosco non si move, e tace,
Et io son corso à riposarmi à l’ombra,
Per fuggir da l’ardor, che mi disface,
Aura ogni noia dal mio petto sgombra
Tu, che sei il mio riposo, e la mia pace,
Venga il conforto mio, venga quell’Aura,
Che d’ogni noia il mio petto ristaura.
Tu il mio contento sei, tu la mia speme,
Aura la vita mia da te dipende.
Quell’alma, che mi regge, e mi mantiene,
Da te lo spirto, e ’l refrigerio prende.
Però contenta il mio cor di quel bene,
Che per l’ardor, c’hora il consuma, attende.
Vienne Aura, al mio desir propitia, et alma,
E fa del tuo favor lieta quest’alma.
Mentre con dolce, e affettuoso accento,
Chiamo l’Aura propitia al mio soggiorno,
Perche co’l fresco suo placido vento
Scacci l’ardor da me del mezzo giorno:
Si stà un pastore ad ascoltarmi intento
Da le macchie nascosto, c’hò d’intorno,
E sente chiamar l’Aura, e in pensier cade,
Ch’ella sia qualche Ninfa, che m’aggrade.
Quanto l’Aura chiamar più spesso m’ode
Con lusingha si dolce, e si soave,
E darle tanto honore, e tanta lode,
Più crede à quel pensier, che preso l’have.
E com’huom pien d’invidia, e pien di frode,
Per farmi d’ogni affanno infermo, e grave,
A la città dal bosco si trasporta,
E à la mia donna il falso amor rapporta.
Cosa credula è Amore, ella se’l crede;
E come seppi poi, dal dolor vinta,
E da la gelosia de la mia fede,
S’atterra tramortita, e quasi estinta.
E tosto, che ’l vigor primo le riede,
Chiama la fede mia bugiarda, e finta.
Straccia per gelosia le bionde chiome
D’un vano in tutto, e senza membra nome.
È ver, che talhor dubita, e si porge
Da se medesma alquanto di conforto,
Ne vuol (se l’occhio proprio non lo scorge)
Creder, ch’io l’habbia mai fatto quel torto.
E però ascosamente, come sorge
L’Aurora, e ch’io mi torno al mio diporto,
Mi vuol seguire, e starsi ascosa in loco,
Che ’l vero habbia à scoprir di questo foco.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||settimo.|129}}</noinclude><poem>
L’Aurora rapportato al mondo havea,
Che già gli augei del Sol battean le piume,
E sol nel ciel Lucifero splendea,
E stava per coprire anch’egli il lume:
Quand’io con l’arma à me fedele, e rea;
Che fu fatata dal triforme Nume,
Ne vò à trovar le solitarie selve,
Per dar la morte à l’infelici belve.
Come la preda al mio desir risponde,
E dal più alto punto il Sol mi vede,
Io fo, che rombra al suo splendor m’asconde,
E che la lingua la dolce Aura chiede:
Et ecco un mormorar di frasche, e fronde
Le lasse orecchie mi risveglia, e fiede.
Alzo la testa affaticata, e stanca,
E sento, che ’l romor punto non manca.
Credo io, misero me, che il romor nasca,
Poi che nel ciel non soffia aura, ne vento,
Da selvaggio animal, ch’ivi si pasca.
E, perche verso me calare il sento,
Là, dove mormorar odo la frasca,
Subito il dardo di Diana avento.
Et ecco à le mie orecchie si trasporta
L’amata voce, e dice, Oime son morta.
Come odo di colei la voce, ond’ardo,
Corro come insensato incontro al grido,
E trovo, che ’l mio crudo, e ingiusto dardo
Passato à Procri ha il petto amato, e fido.
Et abbassando al lume offeso il guardo
Alzo piangendo un doloroso strido.
Qual fato soavissima consorte
M’ha tratto à darti co’l tuo don la morte.
Io toglio à la ferita il crudo telo,
E straccio in fretta la sanguigna vesta,
E avolgo intorno à la percossa il velo,
Perche non esca il sangue, che le resta.
Poi co’l più caldo, e affettuoso zelo
La supplico con voce amara, e mesta,
Che lasciar non mi voglia, e viva, e m’ame,
Se ben sono homicida ingiusto, e infame.
Ella del sangue priva, e de la forza
Alza ver me l’indebilita luce,
E di parlarmi s’affatica, e sforza,
E cosi il suo timor dona à la luce.
Poi che lasciar vuol la terrena scorza
Quell’alma, che ne gli occhi anchor mi luce,
Come passata à l’altra vita io sono,
Contenta l’ombra mia di questo dono.
Se ’l dolce più d’ogni altro almo, e beato,
Che ’l soave Himeneo si porta seco,
Al desir tuo fu mai giocondo, e grato,
Mentre il nodo d’amor t’avinse meco;
S’altro mai fei, ch’al tuo felice stato
Gioia aggiungesse, mentre io vissi teco;
Non soffrir, che già mai nel nostro letto
L’Aura s’unisca al tuo carnal diletto.
L’ultime note sue m’aprir la mente,
Che de l’amor de l’Aura hebbe timore,
E che pensò, chiamandola io sovente,
Che m’infiammasse il cor novello amore,
E quivi era venuta ascosamente,
Che con l’Aura volea cormi in errore.
Bench’io talmente al ver la lingua sciolsi,
Che ’l non vero sospetto al suo cor tolsi.
Ma, che frutto traggo io da le mie note,
Se ben l’hanno il timor del petto tolto?
Ella sempre più manca, e più che puote,
Tiene il languido lume à me rivolto.
Intanto con maniere alme, e devote
Spira l’alma infelice nel mio volto.
E ’l corpo già si bello, e si giocondo
Resta ne le mie braccia immobil pondo.
Mentre stillar fa in lagrime ogni lume
Con questo dir l’ambasciator d’Athene,
Il Re, che già lasciate havea le piume,
Con maestà fuor del suo albergo viene,
Per gire al tempio à venerare il Nume,
Come à lo splendor regio si conviene.
Vanno i Re saggi ogni mattina al tempio,
Per farsi altrui di ben’oprare essempio,
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||130}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>invecchiato, e ringiovanisse nella virtù dando orecchie alla persuasione; le favole delle figliuole di Pelia, che amazzorono il padre, desiderose di ringiovanirlo, di Filio, di Hirte, di Alcidimante, sono poste piu presto per descriver poeticamente i luoghi dove passò Medea, che perche se n’habbi a trar’alcuna allegoria, essendo come sono poste ancora obliquamente, ne si trovando gli Autori che le hanno descritte a pieno.
{{Sc|Il}} dono di Medea mandato a Creusa, ci mostra i tradimenti di quelli, che sotto specie di amorevolezza ci vanno procacciando malignamente la morte; come a tempi nostri habbiamo veduto rinovata la inventione di Medea fatta per dar la morte a Creusa; & tanto piu sceleratamente, quanto quella non posse che ’l fuoco nella sua picciola cassetta, e questi oltra il fuoco, hanno rinchiusi in una palla di metallo, con fuochi artificiati alcuni piccioli scopietti, che feriscono da tutte le parti, perche come prima è tocca la mistura della palla dal fuoco è di modo acconcia, dall’inventore di questa scelerata inventione, la palla accomodata in una picciola scatola; e legata a simiglianza di Tramesso con una lettera sopra, e la soprascrittione della quale è volta a quello, nel quale tentavasi che facesse l’effetto suo quell’abominevole inventione, onde come prima è tagliato lo spago, il fuoco spezza la palla, e tutto a un tempo spara i piccioli scopietti; e mal per quelli, che hanno la scatola in mano, o che vi sono presenti, perche essendo state mandate ad alcuni per amazzarli con questa horribile inventione di queste scatole acconcie di questa maniera, a Vinetia, Mantoa, Regio, Modena, e Fiorenza si sono veduti sceleratissimi effetti, perche hanno feriti, & amazzati alcuni, ma quasi tutti innocenti, e pochi di quelli per cagion de i quali erano state mandate.
{{Sc|Egeo}} che libera Theseo suo figliuolo giovane d’infinito valore havendo riconosciuto lo Stocco suo, dal mortifero veneno composto dalla crudelissima Medea, della spiuma che usciva dalle bocche di Cerbero; ci da à conoscere che la prudentia il piu delle volte schifa, e fugge le maligne operationi della crudeltà; a fin che non rimanghi spento il valore. Come ci da a conoscere ancora che non s’ha alcuna consolatione in questo mondo, che non sia meschiata da qualche grave dispiacere, come si vede in Egeo, che mentre lieto godeva di udire cantare le lodevoli, e gloriose imprese del figliuolo, gli sopragionge la nuova che ’l Re di Creta gli vuol torre il regno; per intorbidare una sua tanta contentezza come ben descrive questo miscuglio di felicità, e infelicità l’Anguillara nella stanza, ''Ah quanto scarsi, e brevi ha i suoi contenti''.
{{Sc|Arne}} trasformata in Puta, per havere data la fortezza consignatale dal padre a memici, corrotta da una quantità d’oro, & che continua ancora divenuta uccello nel medesimo desiderio dell’oro, e dell’argento rubandone dove ne può havere, pur che sia quantità che la possi portare co i piedi e col becco, significa che l’avaritia che una volta è impressa nell’animo basso, e vile non si cangia giamai per cangiamento d’habiti, di luoghi, e di dignità.
{{Sc|Le}} Formiche cangiate in huomini a preghi di Eaco, per riempire la città di Egina vuota per la peste, significano che essendo vuota di lavoratori da campagna, la città per vigore di quella maligna influentia, Eaco ne procacciò da diverse parti, di modo che la ritornò nella primiera sua felice coltivatione, propriamente sono gli huomini di campagna diligenti assimigliati alle formiche, perche riponeno l’estate i formenti, gli ogli, i vini, e tutti i frutti della terra, come fanno le formiche tutte le cose necessarie per il loro vivere dell’invernata. Descrive quivi molto propriamente gli effetti della peste l’Anguillara; propriamente è ancora descritta la comparatione nella stanza, ''Come cade la ghianda ben matura''.
{{Sc|La}} descritione di Cephalo, e di Procri, è mera historia; però non vi si scopre quello che si conosce vero apertamente per molti essempi, e di che siamo ancora avertiti dalle sacre littere, che l’huomo non doverebbe giamai procacciar di saper piu di quello che se gli convenghi sapere, perche incorrerà sempre nell’errore che incorse Cephalo, che passò da una vita felice, a una misera, e piena d’infelicità; havendo voluto far maggiore prova che non gli era lecito di fare della sua amatissima Procri; è cantata cosi felicemente questa historia dall’Anguillara, che non vi è che desiderarvi vedendovisi spiegati tutti quelli affetti che possono occorrer in un simil accidente, come ancora vi si veggono molte belle proprietà delle Donne, come quella nella stanza, ''La Donna curiosa di Natura'' e molte belle conversioni, come quella che fa il Poeta a Cephalo, nella stanza,<noinclude><references/></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>''O pensier curioso, ò mente insana''; come è ancora vagamente descritto l’assalto del desiderio del gioire nel cuore delle Donne, e l’amore della castità, e come vinta da questo nell’arenderse voleva, e non voleva a un tempo compiacer ’l marito, che le era inanti sotto finta forma; e al fine quando consente descrive le medesime parole che possono scoprire un simil’affetto di maniera che contende quivi molto vagamente con una vertuosa emulatione di aguagliarse almeno all’Ariosto se non di avanzarlo.
{{Sc|Il}} dono che fece Diana poi a Procri del Cane, e del Dardo che non feriva giamai in vano; con il quale amazzò il fiero mostro che scorreva la Beotia; significa il cane la fedeltà, che deve sempre la casta moglie in tutti i tempi al marito, non si lasciando vincere da alcuna sorte di passione a fargli alcuna maniera di dishonore; non essendo animale alcuno piu fedel’all’huomo del Cane. Il dardo poi, che non ferisse mai in vano, e che amazza, e spegne la dishonesta lascivia, figurata per il mostro, che è una Volpe, perche l’amore dishonesto va sempre con inganni come va la Volpe; hà il dente di Lupo, perche ferisce di modo l’honore con rabbia come fa il lupo, che vi rimane sempre il segno: ha poi l’occhio del Cerviero perche mira lontanissimo come possi condur’a fine le sue dishoneste voglie, e poi crudele perche con quella furia arabiata trahe di maniera gli huomini fuori della ragione, che non lasciano di commeter qual si voglia abominevole crudeltà; e poi agile perche gli alterati da questa passione vanno per tetti, e per luoghi pericolosissimi con ogni securezza d’animo.
{{Sc|Che}} Cephalo poi amazzasse la cara mogliera con il dardo che non feriva mai in vano, che veniva spinta dalla gelosia a vedere qual fosse quell’aura chiamata con tanta instantia dal marito significa che la poca prudentia guida altri il piu delle volte a cercare quello che non vorrebbero trovare; onde vi rimangono poi morti dalla passione che rinchiudono in se stessi, di haver follemente creduto all’altrui parole, e dal dardo della continentia.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Ma poi che fu scoperto il crudo inganno,
Onde acquistò le fraudolenti cene,
E ’l morbo intento al destinato danno
Gli rendè più che mai vote le vene.
Contra il proprio suo corpo empio, e tiranno
Fè de le membra sue le canne piene,
Tanto ch’al fin lasciò lo spirto ingiusto,
Da denti proprij il lacerato busto.
Si che non sol Proteo se stesso asconde,
E si veste quel pel, che più gli è grato.
Ma come havete inteso il Re de l’onde
Concesse à l’Amor suo lo stesso fato.
Ma perche cerco io trarne essempi altronde?
Non soglio anch’io cangiar figura, e stato?
Ma il mio poter tant’oltre non si stende,
E solo il volto mio tre forme prende.
Perche in tutto talhor forma ho d’un fiume,
Tal volta in un serpente io stommi avolto;
Talhor celo entro un toro il divin lume,
Ond’è, c’hoggi d’un corno ho privo il volto.
Volea anchor dire il Calidonio Nume,
E forse come, e quando gli fu tolto;
Ma in questa il cor gli si commosse tanto,
Che non potè tenere in freno il pianto.
</poem>
{{Ct|f=100%|v=2|L=5px|IL FINE DELL'OTTAVO LIBRO.}}{{FI
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[[en:Metamorphoses (tr. Garth, Dryden, et al.)/Book VIII]]
[[es:Las metamorfosis: Libro VIII]]
[[fr:Les Métamorphoses/Livre VIII]]
[[la:Metamorphoses (Ovidius)/Liber VIII]]<noinclude></noinclude>
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{{Ct|f=120%|v=1|t=2|L=5px|LIBRO OTTAVO}}
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}}
<poem>
{{capolettera|G}}ià fiameggiava l’amorosa stella,
E la vaga fanciulla di Titone
Si mostrava à mortai lucente, e bella;
Et Eolo aperta havea l’atra prigione
Al vento opposto à l’artica facella,
Che gelosa nel ciel suol far Giunone,
Quando si tolse Cefalo à le sponde;
E fidò i lini à vento, i legni à l’onde.
Havendo humile il mar, propitio il vento
Solca con tal prestezza la marina,
Che discoperto il lito in un momento
Al desiato porto si avicina.
E fa l’Attico Re restar contento
Del soccorso de l’isola d’Egina.
Fa ’l popol tutto honor con lieto grido
A quei, che per lor ben scendon su ’l lido.
Cefalo à pena ha preso il novo porto,
Che ’l veditor, che da la rocca scorge,
Fà con più segni il Re co ’l volgo accorto,
Che nova armata à gli occhi suoi si porge.
E fa ’l popol venir pallido, e smorto,
Che la classe nemica esser s’accorge.
Già tutti i merli e tutti i torrioni
Son pieni di bandiere, e di pennoni.
Si scopron tuttavia novelle antenne
Dal veditor de le più alte mura,
Et ei pon nove frasche, e nove penne,
E rende à la città maggior paura.
Teseo, ch’al patrio sen pur dianzi venne,
Come comanda il Re, si prende cura
Del governo de l’arme, e ’n ogni parte
Cerca dispor le genti al fiero Marte.
Non molto andò, che con un’altro segno
Quel, che stà ne la rocca più eminente,
Fà noto al Re, ch’ogni scoperto legno
Si comincia à piegar verso occidente.
Minos pensò nel Megarense regno
Assicurar l’armata, e la sua gente.
E ’n quella parte dismontare in terra,
La qual credea acquistar con minor guerra.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Prima vuol vendicar sopra di Niso,
Che ’l baston di Megara ha ne la palma,
Androgeo, che gli fu con fraude ucciso,
Dapoi, che de la lotta hebbe la palma.
Però, c’havuto havea per certo aviso,
Ch’ei procacciò, ch’egli perdesse l’alma.
Ne men del Re d’Athene invidioso
Cercò di darlo à l’ultimo riposo.
Ma s’inganna d’assai, s’al primo crede
Fargli patir la destinata pena.
Che se ben facilmente ei porrà il piede
Su l’odiosa, e traditrice arena,
Non potrà torre al Re la regia sede,
Ne sfogar quel desio, che in Grecia il mena,
Se non gli toglie un crin, c’hebbe dal fato
Per sicurtà del corpo, e de lo Stato.
Ma non essendo noto al Re Ditteo
La mirabil virtù del crin fatale,
Volle smontar nel lito Megareo,
E porre assedio à la città reale.
Venne in soccorso del Re Niso Egeo,
Ma riportò la palma trionfale
Il saggio Re di Creta, che l’astrinse
A fare un crudo fatto d’arme, e ’l vinse.
D’Athene il cauto Re prudente, e saggio
Perduta havendo homai tutta la spene,
Vedendo del nemico il gran vantaggio,
Co ’l Re di Creta à questo accordo viene.
Promette à lui di fargli ogni anno homaggio
Di sette illustri giovani d’Athene,
Acciò che per l’havuto in Grecia torto,
Si vendichi su lor del figlio morto.
Non però di Megara il Re s’arrende,
Ma vuol veder di quella pugna il fine,
Tanta fiducia, e sicurtà gli rende
Del regno, e de la vita il fatal crine.
Partirsi il Re di Creta non intende,
Se no ’l condanna à l’ultime ruine,
E già visto sei lune il mondo havea,
Ne l’un, ne l’altro Re ceder volea.
Dentro à Megara un’alta torre sorge,
Che fa d’altezza ad ogni altezza scorno,
Che la terra ineguale, e ’l campo scorge
Liquido, e salso à molte miglia intorno.
La cui parete de la cetra porge
Il suon del biondo Dio, ch’alluma il giorno.
Già quando ivi s’aggiunse pietra à pietra,
Trasse à se il suon de l’Apollinea cetra.
Quando fe fare Alcatoe quella torre,
Chiamò fra gli altri Apollo à dargli aiuto:
Il qual volendo un sasso in alto porre,
Appoggiò à la parete il suo liuto.
Subito il muro il suon gli venne à torre,
E sol fra gli altri sassi non fu muto;
Ma da marmo, ò d’acciar percosso alquanto
Puro rendea di quella cetra il canto.
Il Re, che de la chioma altero andava,
Hebbe una figlia d’un leggiadro aspetto,
La qual del suon, che l’alta torre dava,
Spesso prender solea sommo diletto.
Però sovente in cima vi montava,
E dava luogo al giovenile affetto
Là dove percotea marmi con marmi,
Et unia con quel suon la voce, e i carmi.
Ma poi, che ’l Re Ditteo mosse la guerra
Per vendicar l’ucciso Androgeo al padre,
Vi salia per veder fuor de la terra
Le patrie urtarsi, e le nemiche squadre.
E già del campo altier ch’Alchatoe serra,
A molte sopraveste auree, e leggiadre,
Conosceva i più illustri cavalieri,
E quei, che ne la pugna eran più fieri.
L’eran già noti gli habiti, e i cavalli,
Le divise, i color, l’argento, e l’oro,
Che facean fregio à lucidi metalli,
E sapea i nomi, i gradi, e pesi loro.
Ma ne’ conflitti, e martiali balli
Quel, che d’Euro nacque, e d’un toro,
Più le piacea d’ogni altro invitto duce,
Ne mai toglier da lui sapea la luce.
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||132}}</noinclude><poem>
Se ’l ben fregiato acciar d’oro, e d’argento
Gli armava il petto, il volto, e ogni altra parte,
E di prudenza armato, e d’ardimento
Spingea il caval ne l’aversario Marte,
Ne facea cader tanti in un momento,
Con tanta sicurtà, fortezza, et arte,
Che ’l giudicava à gli atti, e à la persona
Il fratel formidabil di Bellona.
Snodava il braccio nel lanciare un dardo
Con una leggiadria tanto spedita,
E ’l facea gir si ratto, e si gagliardo
Senza incommodo alcun de la sua vita,
Che colei, che v’havea fermo lo sguardo,
Sentia sempre nel cor nova ferita:
E tutto quel, ch’uscia dal suo valore,
Contra lei novo strale era d’amore.
Scilla (cosi havea nome la donzella)
Mentre à l’arco ei talhor fea curvo il corno,
Onde uscian si veloci le quadrella,
Ch’al folgore del ciel fatto havrian scorno,
Pareale à la maniera adorna, e bella
Veder tirar l’apportator del giorno,
D’ogni atto suo sentiasi il cor conquiso,
Ma molto più s’havea scoperto il viso.
S’ella il vedea tal hor reggere il morso
Nel maneggiarlo, al suo forte destriero,
Murato gliel parea veder su ’l dorso,
Tanto vi stava sù costante, e fiero.
Ó che ’l voltasse, ò chel pingesse al corso,
Ó ch’al salto il movesse atto, e leggiero,
Vedea il destrier servir d’ogni atto à pieno,
Tanto ben s’intendean gli sproni, e ’l freno.
D’ogni maniera sua godea talmente,
(In modo n’era vaga, e ne stupiva),
Che più non possedea sana la mente,
Anzi si l’havea Amor del senno priva,
Che vinta dal desio soverchio ardente,
Spesso in questo parlar le labbra apriva.
Deh, perche non poss’io metter le piume,
Per goder più da presso il tuo bel lume.
Perche non ho per accostarmi l’ale
A la tua ambrosia, à la tua dolce bocca?
Perche non son quel freno, ò quello strale,
Che la tua bella man sostiene, e tocca?
Perche non lece al mio stato mortale
Di potermi gittar da questa rocca?
Ne tanto mi dorria, ch’io ne morrei,
Quanto, che ’l mio desir non empierei.
Perche non lece à la mia regia sorte
Movere il piè per lo nemico campo?
Perche le guardie, e le serrate porte,
Fanno al cupido Amor trovare inciampo?
Che s’io potessi te far mio consorte,
Per cui tutta di ghiaccio ardo, et avampo,
Io spregierei l’amata patria, e ’l padre
Per introdur le tue nemiche squadre.
Oime, debb’io dolermi, ò rallegrarmi
De la dubbiosa guerra, che ci fai?
Mi duol, che contra me tu movi l’armi,
Che del mio proprio cor più t’amo assai.
Ma per qual’altra via potea Amor darmi
Occasion, ch’io ti vedessi mai?
Non potea Amor con più prudente aviso
Mostrarmi il tuo valore, e ’l tuo bel viso.
Quanto felice havrei la sorte, e Amore,
Se ’l padre mio mancando di coraggio
Homai ceder volesse al tuo valore,
E secondo il cor tuo pagarti homaggio.
E per assicurarti del suo core
Ti desse me per pegno, e per ostaggio,
Che per dar refrigerio à tanto foco,
Troverei forse il mezzo, il tempo, e ’l loco.
Ó sopra ogni altro Re bello, et adorno
D’ogni don che può il ciel dar, più perfetto.
Ó felice colei, ch’arricchì il giorno
D’un si leggiadro, e si divino aspetto.
Se ’l Re del più beato alto soggiorno
Degno de gli occhi suoi la fece obbietto,
S’ella havea il bello eguale al bello, ond’ardo,
Meglio il cor non potea locar, ne ’l guardo.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|132}}</noinclude><poem>
Se ’l ben fregiato acciar d’oro, e d’argento
Gli armava il petto, il volto, e ogni altra parte,
E di prudenza armato, e d’ardimento
Spingea il caval ne l’aversario Marte,
Ne facea cader tanti in un momento,
Con tanta sicurtà, fortezza, et arte,
Che ’l giudicava à gli atti, e à la persona
Il fratel formidabil di Bellona.
Snodava il braccio nel lanciare un dardo
Con una leggiadria tanto spedita,
E ’l facea gir si ratto, e si gagliardo
Senza incommodo alcun de la sua vita,
Che colei, che v’havea fermo lo sguardo,
Sentia sempre nel cor nova ferita:
E tutto quel, ch’uscia dal suo valore,
Contra lei novo strale era d’amore.
Scilla (cosi havea nome la donzella)
Mentre à l’arco ei talhor fea curvo il corno,
Onde uscian si veloci le quadrella,
Ch’al folgore del ciel fatto havrian scorno,
Pareale à la maniera adorna, e bella
Veder tirar l’apportator del giorno,
D’ogni atto suo sentiasi il cor conquiso,
Ma molto più s’havea scoperto il viso.
S’ella il vedea tal hor reggere il morso
Nel maneggiarlo, al suo forte destriero,
Murato gliel parea veder su ’l dorso,
Tanto vi stava sù costante, e fiero.
Ó che ’l voltasse, ò chel pingesse al corso,
Ó ch’al salto il movesse atto, e leggiero,
Vedea il destrier servir d’ogni atto à pieno,
Tanto ben s’intendean gli sproni, e ’l freno.
D’ogni maniera sua godea talmente,
(In modo n’era vaga, e ne stupiva),
Che più non possedea sana la mente,
Anzi si l’havea Amor del senno priva,
Che vinta dal desio soverchio ardente,
Spesso in questo parlar le labbra apriva.
Deh, perche non poss’io metter le piume,
Per goder più da presso il tuo bel lume.
Perche non ho per accostarmi l’ale
A la tua ambrosia, à la tua dolce bocca?
Perche non son quel freno, ò quello strale,
Che la tua bella man sostiene, e tocca?
Perche non lece al mio stato mortale
Di potermi gittar da questa rocca?
Ne tanto mi dorria, ch’io ne morrei,
Quanto, che ’l mio desir non empierei.
Perche non lece à la mia regia sorte
Movere il piè per lo nemico campo?
Perche le guardie, e le serrate porte,
Fanno al cupido Amor trovare inciampo?
Che s’io potessi te far mio consorte,
Per cui tutta di ghiaccio ardo, et avampo,
Io spregierei l’amata patria, e ’l padre
Per introdur le tue nemiche squadre.
Oime, debb’io dolermi, ò rallegrarmi
De la dubbiosa guerra, che ci fai?
Mi duol, che contra me tu movi l’armi,
Che del mio proprio cor più t’amo assai.
Ma per qual’altra via potea Amor darmi
Occasion, ch’io ti vedessi mai?
Non potea Amor con più prudente aviso
Mostrarmi il tuo valore, e ’l tuo bel viso.
Quanto felice havrei la sorte, e Amore,
Se ’l padre mio mancando di coraggio
Homai ceder volesse al tuo valore,
E secondo il cor tuo pagarti homaggio.
E per assicurarti del suo core
Ti desse me per pegno, e per ostaggio,
Che per dar refrigerio à tanto foco,
Troverei forse il mezzo, il tempo, e ’l loco.
Ó sopra ogni altro Re bello, et adorno
D’ogni don che può il ciel dar, più perfetto.
Ó felice colei, ch’arricchì il giorno
D’un si leggiadro, e si divino aspetto.
Se ’l Re del più beato alto soggiorno
Degno de gli occhi suoi la fece obbietto,
S’ella havea il bello eguale al bello, ond’ardo,
Meglio il cor non potea locar, ne ’l guardo.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Ó me tre volte, e quattro, più beata,
S’ivi io giungessi, ove il pensiero arriva,
Ti farei noto il sangue, ond’io son nata,
E ’l foco, che ’l tuo amor nel cor m’aviva:
Chiederei con qual dote esser comprata
Potria la tua bellezza unica, e diva.
E pur, che non chiedessi il patrio regno,
D’ogni altro mio thesor ti farei degno.
E se ben già l’ardor fè vacillarmi,
Che mi fece il pensier talhor men sano,
E dissi, che per tua consorte farmi
Ti darei con la terra il padre in mano;
A tanto error giamai non potrei darmi,
Vada pur tal pensier da me lontano.
Manchin prima le nozze, e ’l mio desio,
Ch’io manchi mai d’officio al padre mio.
Ben ch’utile è tal hor di darsi vinto,
Che s’have il vincitor più dolce, e grato.
Già fù il figliuolo al Re di Creta estinto,
E la ragione è tutta dal suo lato.
Et oltre à questo in nostro danno ha spinto
Si numeroso stuol, si bene armato,
Ch’oltre, ch’à giusta causa egli s’apprende,
L’arme ha molto migliori, onde n’offende.
Se la ragion per lui spiega le carte,
E d’arme, e genti, e più fornito, e forte,
La vittoria sarà da la sua parte,
Tutto havrà in suo poter la nostra corte.
Hor perche voglio dunque, che ’l suo Marte,
E non che l’amor mio gli apra le porte?
È meglio pur, s’ei dee prender la terra,
Che l’habbia senza sangue, e senza guerra.
Ch’io temo, che qualch’un di colpa ignudo
Mentre i campi maggior la pugna fanno,
Non passi à caso à te l’elmo, ò lo scudo,
Non faccia qualche oltraggio al carnal panno.
E qual saria quell’animo si crudo,
Che per elettion ti fesse danno?
Qual mente si crudel giamai potria
Far, che l’hasta ver te non fosse pia?
Ogni ragion m’astringe, e persuade,
Ch’io ne la tua pietà fondi ogni speme,
Che per dare homai fine à tanta clade,
Me dar ti debbia, e la mia patria insieme.
Cosi vò far, ne vò, ch’à fil di spade
Siam tutti tratti à le fortune estreme.
Ma poco è questo al mio voler, che ’l padre
Mi vietà il passo, e le sue caute squadre.
Serba le chiavi ei sol saggio et accorto,
E solo à fren le mie voglie ritiene.
Cosi piacesse à Dio, che fosse morto,
Che non mi priveria di tanto bene.
Ma perche da me stessa io mi sconforto,
Se posso sopra me fondar mia spene?
Perch’altrui chieggio quel, ch’è in poter mio,
Poi che ciascuno à se medesmo è Dio?
Al voto pusillamino, e imprudente
Suol sempre ripugnar l’aspra fortuna.
S’altra sentisse al cor fiamma si ardente,
Senza riguardo havere à cosa alcuna,
Tutte le cose opposte à la sua mente
Cercheria d’estirpare ad una ad una.
E perch’à par d’ogni altra io non ardisco,
Di darmi al ferro, al foco, e à maggior risco?
Ma d’huopo à me non è foco, ne spada,
Per conseguire il fin del mio disegno.
Basta, ch’al padre mio quel crine io rada,
Che gli assicura con la vita il regno.
Quel d’ogni cosa più lodata, e rada
Può far del ben, che brama il mio cor degno.
Può la sua bella chioma aurea, e pregiata
Più d’ogni altro thesor farmi beata.
Mentre l’audace giovane discorre,
Come possa ottener le sue venture,
Il Sol, che sotto il mar s’asconde, e corre,
Lascia l’Attiche parti ombrose, e scure,
Tanto, ch’à Scilla fa lasciar la torre
La notte, alma nutrice de le cure:
E crescendo le tenebre, e l’horrore
Fer, che crebbe ancho à lei l’audacia, e ’l core.
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||133}}</noinclude><poem>
Già ne la prima, e più morta quiete
Havea sepolti i miseri mortali,
E sparso il cor d’obliviosa lete
Il pigro sonno à tutti gli animali;
E ’l Re dentro à le mura più secrete
Dava riposo à suoi diurni mali;
Quando (ò troppo empio error) muta v’arriva
Scilla, e del crin fatale il padre priva.
E coraggiosa al mal, pronta, et accorta,
Toglie le chiavi anchor, ch’ei non la sente,
E nel tempo opportuno apre la porta,
E sola và fra la nemica gente.
Per lo paterno crin, che seco porta,
Di fiducia si grande arma la mente,
Ch’al Re ne và non men calda, ch’audace,
E poi stupir con queste note il face.
Io Scilla son figlia di Niso, e vegno,
Ó d’ogni gratia Re via più c’humano,
Per dar felice effetto al tuo disegno,
E, perche più non t’affatichi in vano:
E porto per donarti meco un pegno,
Co ’l quale haver puoi la mia patria in mano.
In questo crin purpureo, ch’ lo ti mostro,
Sta il fato, e la ragion del regno nostro.
Mill’anni ti saresti affaticato,
Ne preso havresti mai la nostra terra,
Però ch’al padre mio rispose il fato.
Tu non sarai mai superato in guerra,
Mentre un purpureo crin, che ’l ciel t’ha dato,
Che fra gli altri capei s’asconde, e serra,
Saprai tener si ben chiuso, e raccolto,
Che non ti sia d’altrui troncato, ò tolto.
Ond’io, ch’altro non cerco, e non desio,
Che di gradirti, contentar ti volsi,
Me n’andai questa notte al padre mio,
E per donarlo à te l’ancisi, e tolsi,
Ch’essendo tu figliuol del maggior Dio,
Come à la tua beltà le luci io volsi,
La scorsi si mirabile, e si diva,
Che d’amore, e di te restai cattiva.
Ne da quel giorno in quà bellezza io veggio,
Se non la tua, ch’à se mi tiri, e chiami.
Hor poi, che in questo crin è ’l regal seggio
Del padre mio, del regno, che tu brami:
Prendilo, e in ricompensa altro non chieggio,
Se non, che tu mi signoreggi, e m’ami;
Cosi dicendo, stende al Re Ditteo
Con l’empio dono il braccio iniquo, e reo.
Tosto, ch’il giusto Re di Creta intende
L’enorme, e infame vitio di colei,
Turbato la discaccia, e la riprende.
Fuggi malvagia, e ria da gli occhi miei,
Fuggi da l’ira mia, da le mie tende,
Non conversar con gli huomini Dittei,
Ó del secol presente infamia, e scorno,
Celati in parte, ove non splenda il giorno.
Và, che non sol del regno alto, e giocondo
Gli Dei gli empi occhi tuoi privin per sempre,
Ma ti neghino il mare, e ’l nostro mondo,
Fin che ’l composto tuo si sfaccia, e stempre.
Stia l’alma poi nel regno atro, e profondo
Mentre rotan del ciel l’eterne tempre,
Và, che ’l tuo volto, e ’l tuo fiero costume
Giamai qua giù fra noi si scopra al lume.
Quell’isola, ch’à Giove il carnal chiostro,
L’origine, la culla, e ’l latte diede,
La nobil Creta, il fertil terren nostro,
Dove mi dier gli Dei la regia sede,
Non vedrà mai si abominevol mostro,
Senza pietà nel padre, e senza fede.
Poi comandò pien d’ira, e di dispetto,
Che la cacciasser via fuor del suo tetto.
Intanto Niso, che del crin s’accorse,
Che mentre egli dormia, gli fu troncato,
E che dinanzi à gli occhi à lui si porse
Quel che molt’anni pria predisse il fato:
Come prudente al Re di Creta corse
Con gli huomini più degni del suo stato,
Et inchinosse à lui senz’arme al fianco,
E poi gli diede in mano il foglio bianco.
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Già ne la prima, e più morta quiete
Havea sepolti i miseri mortali,
E sparso il cor d’obliviosa lete
Il pigro sonno à tutti gli animali;
E ’l Re dentro à le mura più secrete
Dava riposo à suoi diurni mali;
Quando (ò troppo empio error) muta v’arriva
Scilla, e del crin fatale il padre priva.
E coraggiosa al mal, pronta, et accorta,
Toglie le chiavi anchor, ch’ei non la sente,
E nel tempo opportuno apre la porta,
E sola và fra la nemica gente.
Per lo paterno crin, che seco porta,
Di fiducia si grande arma la mente,
Ch’al Re ne và non men calda, ch’audace,
E poi stupir con queste note il face.
Io Scilla son figlia di Niso, e vegno,
Ó d’ogni gratia Re via più c’humano,
Per dar felice effetto al tuo disegno,
E, perche più non t’affatichi in vano:
E porto per donarti meco un pegno,
Co ’l quale haver puoi la mia patria in mano.
In questo crin purpureo, ch’ lo ti mostro,
Sta il fato, e la ragion del regno nostro.
Mill’anni ti saresti affaticato,
Ne preso havresti mai la nostra terra,
Però ch’al padre mio rispose il fato.
Tu non sarai mai superato in guerra,
Mentre un purpureo crin, che ’l ciel t’ha dato,
Che fra gli altri capei s’asconde, e serra,
Saprai tener si ben chiuso, e raccolto,
Che non ti sia d’altrui troncato, ò tolto.
Ond’io, ch’altro non cerco, e non desio,
Che di gradirti, contentar ti volsi,
Me n’andai questa notte al padre mio,
E per donarlo à te l’ancisi, e tolsi,
Ch’essendo tu figliuol del maggior Dio,
Come à la tua beltà le luci io volsi,
La scorsi si mirabile, e si diva,
Che d’amore, e di te restai cattiva.
Ne da quel giorno in quà bellezza io veggio,
Se non la tua, ch’à se mi tiri, e chiami.
Hor poi, che in questo crin è ’l regal seggio
Del padre mio, del regno, che tu brami:
Prendilo, e in ricompensa altro non chieggio,
Se non, che tu mi signoreggi, e m’ami;
Cosi dicendo, stende al Re Ditteo
Con l’empio dono il braccio iniquo, e reo.
Tosto, ch’il giusto Re di Creta intende
L’enorme, e infame vitio di colei,
Turbato la discaccia, e la riprende.
Fuggi malvagia, e ria da gli occhi miei,
Fuggi da l’ira mia, da le mie tende,
Non conversar con gli huomini Dittei,
Ó del secol presente infamia, e scorno,
Celati in parte, ove non splenda il giorno.
Và, che non sol del regno alto, e giocondo
Gli Dei gli empi occhi tuoi privin per sempre,
Ma ti neghino il mare, e ’l nostro mondo,
Fin che ’l composto tuo si sfaccia, e stempre.
Stia l’alma poi nel regno atro, e profondo
Mentre rotan del ciel l’eterne tempre,
Và, che ’l tuo volto, e ’l tuo fiero costume
Giamai qua giù fra noi si scopra al lume.
Quell’isola, ch’à Giove il carnal chiostro,
L’origine, la culla, e ’l latte diede,
La nobil Creta, il fertil terren nostro,
Dove mi dier gli Dei la regia sede,
Non vedrà mai si abominevol mostro,
Senza pietà nel padre, e senza fede.
Poi comandò pien d’ira, e di dispetto,
Che la cacciasser via fuor del suo tetto.
Intanto Niso, che del crin s’accorse,
Che mentre egli dormia, gli fu troncato,
E che dinanzi à gli occhi à lui si porse
Quel che molt’anni pria predisse il fato:
Come prudente al Re di Creta corse
Con gli huomini più degni del suo stato,
Et inchinosse à lui senz’arme al fianco,
E poi gli diede in mano il foglio bianco.
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Già ne la prima, e più morta quiete
Havea sepolti i miseri mortali,
E sparso il cor d’obliviosa lete
Il pigro sonno à tutti gli animali;
E ’l Re dentro à le mura più secrete
Dava riposo à suoi diurni mali;
Quando (ò troppo empio error) muta v’arriva
Scilla, e del crin fatale il padre priva.
E coraggiosa al mal, pronta, et accorta,
Toglie le chiavi anchor, ch’ei non la sente,
E nel tempo opportuno apre la porta,
E sola và fra la nemica gente.
Per lo paterno crin, che seco porta,
Di fiducia si grande arma la mente,
Ch’al Re ne và non men calda, ch’audace,
E poi stupir con queste note il face.
Io Scilla son figlia di Niso, e vegno,
Ó d’ogni gratia Re via più c’humano,
Per dar felice effetto al tuo disegno,
E, perche più non t’affatichi in vano:
E porto per donarti meco un pegno,
Co ’l quale haver puoi la mia patria in mano.
In questo crin purpureo, ch’ lo ti mostro,
Sta il fato, e la ragion del regno nostro.
Mill’anni ti saresti affaticato,
Ne preso havresti mai la nostra terra,
Però ch’al padre mio rispose il fato.
Tu non sarai mai superato in guerra,
Mentre un purpureo crin, che ’l ciel t’ha dato,
Che fra gli altri capei s’asconde, e serra,
Saprai tener si ben chiuso, e raccolto,
Che non ti sia d’altrui troncato, ò tolto.
Ond’io, ch’altro non cerco, e non desio,
Che di gradirti, contentar ti volsi,
Me n’andai questa notte al padre mio,
E per donarlo à te l’ancisi, e tolsi,
Ch’essendo tu figliuol del maggior Dio,
Come à la tua beltà le luci io volsi,
La scorsi si mirabile, e si diva,
Che d’amore, e di te restai cattiva.
Ne da quel giorno in quà bellezza io veggio,
Se non la tua, ch’à se mi tiri, e chiami.
Hor poi, che in questo crin è ’l regal seggio
Del padre mio, del regno, che tu brami:
Prendilo, e in ricompensa altro non chieggio,
Se non, che tu mi signoreggi, e m’ami;
Cosi dicendo, stende al Re Ditteo
Con l’empio dono il braccio iniquo, e reo.
Tosto, ch’il giusto Re di Creta intende
L’enorme, e infame vitio di colei,
Turbato la discaccia, e la riprende.
Fuggi malvagia, e ria da gli occhi miei,
Fuggi da l’ira mia, da le mie tende,
Non conversar con gli huomini Dittei,
Ó del secol presente infamia, e scorno,
Celati in parte, ove non splenda il giorno.
Và, che non sol del regno alto, e giocondo
Gli Dei gli empi occhi tuoi privin per sempre,
Ma ti neghino il mare, e ’l nostro mondo,
Fin che ’l composto tuo si sfaccia, e stempre.
Stia l’alma poi nel regno atro, e profondo
Mentre rotan del ciel l’eterne tempre,
Và, che ’l tuo volto, e ’l tuo fiero costume
Giamai qua giù fra noi si scopra al lume.
Quell’isola, ch’à Giove il carnal chiostro,
L’origine, la culla, e ’l latte diede,
La nobil Creta, il fertil terren nostro,
Dove mi dier gli Dei la regia sede,
Non vedrà mai si abominevol mostro,
Senza pietà nel padre, e senza fede.
Poi comandò pien d’ira, e di dispetto,
Che la cacciasser via fuor del suo tetto.
Intanto Niso, che del crin s’accorse,
Che mentre egli dormia, gli fu troncato,
E che dinanzi à gli occhi à lui si porse
Quel che molt’anni pria predisse il fato:
Come prudente al Re di Creta corse
Con gli huomini più degni del suo stato,
Et inchinosse à lui senz’arme al fianco,
E poi gli diede in mano il foglio bianco.
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Da poi, che ’l Re giustissimo Ditteo
Le leggi impose à superati regni,
Co ’l campo, che levar subito feo,
Prese il camin verso i Cretensi legni.
Il vinto Re del popol Megareo
L’accompagnò con gli huomini più degni
Insino al porto, e tutto humile, e fido
Montar su ’l legno il vide, e torsi al lido.
Tosto, che vede dare i remi à l’onde
Colei, da cui fu al padre il regno tolto,
E ch’al suo amore il Re non corrisponde,
Ma senza lei dal lido il legno ha sciolto,
Si straccia ad ambe man le chiome bionde,
Si graffia, e si percote il petto, e ’l volto.
In parte ascosa à gli altri si ritira,
E poi cosi dà fuora il duolo, e l’ira.
Ó sordo più d’ogni crudo aspe, e fero,
Dove mi lasci, oime? son pur quell’io,
Che ti fo gir de la vittoria altero
Co ’l don, ch’io ti portai, co ’l fallo mio.
Ahi, che per satisfare al tuo pensiero,
Offesa ho la mia patria, il padre, e Dio:
Et ho preposto te per troppo amore
Al regno, al padre, et al mio proprio honore.
Oime, ch’eri venuto si discosto
Con tanto or, tante genti, e tante navi,
E ben ch’havessi à noi l’assedio posto,
Le genti, e l’oro in van perdendo andavi:
Ne mai n’havresti il regno sottoposto,
S’io non poneva in tuo poter le chiavi.
Ne ’l don, c’hor te ne fa portar la palma,
Ne tanto amor può intenerirti l’alma.
Oime, che pur dovea pietà impetrare
L’haver sol posta in te la mia speranza.
Oime crudel, qual terra, oime qual mare
Darà ricetto al viver, che m’avanza?
Debbo à la patria mia forse tornare?
Ma con che core oime, con che baldanza?
Se non v’habbiam più imperio, e s’io son quella,
Che di donna real l’ho fatta ancella?
Ma poniam, ch’anchor proprio habbia il governo,
E sia di splendor regio alta, e superba,
Come al cospetto mai n’andrò paterno,
Ver cui fui tanto infida, e tanto acerba?
Dove ogni cittadino, et ogni esterno
Contra l’eccesso mio l’odio anchor serba?
Temon tutti i propinqui un cor tant’empio,
Perch’altrui di mal far non porga essempio.
Ahi, ch’io m’ho chiusa ogni parte del mondo,
Perche sola mi fosse aperta Creta.
Hor se ’l tuo cor ver me fatto iracondo,
La tua provincia anchor mi chiude, e vieta,
Chi darà luogo al mio terrestre pondo?
Chi sarà, che ver me si mova à pieta?
Se tu, ch’altier de la vittoria vai
Per lo mio don, di me pietà non hai?
Figlio d’Europa tu già non puoi dirti,
Di sangue regio, ò di celesti Numi,
Ma ben ti parturì l’infida Sirti,
Le tigri armenie, in atri hispidi dumi.
E quando il tuo mortal formar gli spirti,
Nel ciel reggeano i più maligni lumi,
E ti diè il loro influsso infame, e crudo
Un cor d’ogni pietate in tutto ignudo.
La madre tua non t’hà spiegato il vero,
Con dir, che Giove à lei toro si finse,
E diella à Creta dal Sidonio impero,
Dove à suo modo poi sforzolla, e vinse.
Se vuoi saper di questo il fatto intero,
Con vero toro amor ligolla, e strinse,
E certo fù, che i tuoi parenti foro,
Una donna ferina, un fiero toro.
O soggette, infelici, e triste mura
Da me tradite, ò voi mesti parenti,
Godete de la mia disaventura,
De la mia sorte rea, de miei lamenti.
Deh padre offeso mio prendi homai cura,
Ch’io sia donata à gli ultimi tormenti.
Deh corra un de gli offesi à le mie strida,
E poi ch’empio è l’errore, empio m’uccida.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||134}}</noinclude><poem>
Ma tu crudel, che torni vincitore
Per mezzo mio, per l’empio error, ch’io fei,
Perche mi vuoi punir di quello errore,
Che t’orna di si rari alti trofei?
Tu ’l beneficio, e ’l mio soverchio amore
Con grato officio riconoscer dei:
M’han gli offesi à punir del mio peccato,
Ma non m’amando tu ti mostri ingrato.
Ben è degna di te la tua consorte,
Ben tu crudel di lei non men sei degno,
Poich’ambi l’alma havete d’una sorte,
Ferino ambi l’amor, ferin lo sdegno.
Le voglie di Pasife infami, e torte
La fecer ne la vacca entrar del legno,
Per sottoporsi, ò Dei, (chi fia che ’l creda?)
A fero Amor, per darsi à un toro in preda.
Già l’amor la tua madre à un toro volse,
Quando nel grembo suo ti diè ricetto.
La moglie tua non men lasciva volse
Gustar d’un Toro il coniugal diletto.
E però l’amor tuo me non raccolse
Vergine essendo, e di reale aspetto.
Che poi che sei da tal razza disceso,
Forse qualche giuvenca il cor t’ha preso.
Se la tua moglie con si raro essempio,
Ad un bue più ch’à te volse il pensiero,
Maraviglia non è, che ’l tuo cor empio
Havea più del selvaggio, e più del fero.
E fede ne può far mio duro scempio,
Ch’offerto t’ho il mio cor, dato il mio impero,
E tanto beneficio amore, e fede,
Non ha potuto in te trovar mercede.
Tu te ne vai crudel, ne ti par grave
Lasciarmi in tanta pena, affanno, e doglia:
Ma ad onta tua la tua non grata nave
Porterà anchor la mia terrena spoglia.
M’atterrò ne la poppa à qualche trave,
E ti seguiterò contra tua voglia,
E dove ti farai dal pin portare,
Vedrò trarmi anchor’io per tanto mare.
Vede fermato il legno regio alquanto,
E star piegata anchor la poggia, e l’orza,
Salta ne l’onde la donzella intanto,
Amor l’accresce l’animo, e la forza,
E con mani, e con piè s’adopra tanto,
Che giunge al legno, e tanto ivi si sforza,
Ch’appoggiata al timon tant’alto poggia,
Ch’à un legno al fin non commodo s’appoggia.
Stà intanto il padre ritirato à l’ombra
Sopra una torre ad un balcone, e guata,
E mesto dal dolor, che ’l cor gli ingombra,
Vede partir la vincitrice armata.
Hor mentre ogni navilio il porto sgombra,
Vede l’infida figlia empia, et ingrata
Come à la poppa regia appresa stasse
Per andar via con la Cretense classe.
Alzando il padre afflitto al cielo i lumi,
Dice con grande affetto; Ó sommi Dei
Se mai fur grati à vostri santi Numi
Gl’incensi, e preghi, e sacrificij miei,
Fate, che ’l corpo mio s’impenni, e impiumi,
Si ch’io possa su ’l mar punir costei.
Date à l’animo mio l’ale, e la lena,
Si ch’io le dia la meritata pena.
E spinto dal desio de la vendetta,
Che contra il sangue suo proprio l’accende,
Senza pensar fuor del balcon si getta,
E in aria ver la figlia il corso prende.
Hor mentre più si scuote, e più s’affretta,
Vede che due grand’ali allarga, e stende,
La bocca humana in rostro si trasforma,
Et ogni parte sua d’Aquila ha forma.
Ma non è la ver’Aquila, che questa
Frequenta ovunque il mare, e ’l fonte allaga,
Et à gli augelli aquatici è molesta,
Ne men, che de gli augei del pesce è vaga.
Contra la figlia và crudele, e presta,
Là dove giunta la percote, e piaga,
Co ’l rostro, e con gli artigli empia l’assalta,
Tal, ch’ella il legno lascia, e nel mar salta.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|136}}</noinclude><poem>
Ma tu crudel, che torni vincitore
Per mezzo mio, per l’empio error, ch’io fei,
Perche mi vuoi punir di quello errore,
Che t’orna di si rari alti trofei?
Tu ’l beneficio, e ’l mio soverchio amore
Con grato officio riconoscer dei:
M’han gli offesi à punir del mio peccato,
Ma non m’amando tu ti mostri ingrato.
Ben è degna di te la tua consorte,
Ben tu crudel di lei non men sei degno,
Poich’ambi l’alma havete d’una sorte,
Ferino ambi l’amor, ferin lo sdegno.
Le voglie di Pasife infami, e torte
La fecer ne la vacca entrar del legno,
Per sottoporsi, ò Dei, (chi fia che ’l creda?)
A fero Amor, per darsi à un toro in preda.
Già l’amor la tua madre à un toro volse,
Quando nel grembo suo ti diè ricetto.
La moglie tua non men lasciva volse
Gustar d’un Toro il coniugal diletto.
E però l’amor tuo me non raccolse
Vergine essendo, e di reale aspetto.
Che poi che sei da tal razza disceso,
Forse qualche giuvenca il cor t’ha preso.
Se la tua moglie con si raro essempio,
Ad un bue più ch’à te volse il pensiero,
Maraviglia non è, che ’l tuo cor empio
Havea più del selvaggio, e più del fero.
E fede ne può far mio duro scempio,
Ch’offerto t’ho il mio cor, dato il mio impero,
E tanto beneficio amore, e fede,
Non ha potuto in te trovar mercede.
Tu te ne vai crudel, ne ti par grave
Lasciarmi in tanta pena, affanno, e doglia:
Ma ad onta tua la tua non grata nave
Porterà anchor la mia terrena spoglia.
M’atterrò ne la poppa à qualche trave,
E ti seguiterò contra tua voglia,
E dove ti farai dal pin portare,
Vedrò trarmi anchor’io per tanto mare.
Vede fermato il legno regio alquanto,
E star piegata anchor la poggia, e l’orza,
Salta ne l’onde la donzella intanto,
Amor l’accresce l’animo, e la forza,
E con mani, e con piè s’adopra tanto,
Che giunge al legno, e tanto ivi si sforza,
Ch’appoggiata al timon tant’alto poggia,
Ch’à un legno al fin non commodo s’appoggia.
Stà intanto il padre ritirato à l’ombra
Sopra una torre ad un balcone, e guata,
E mesto dal dolor, che ’l cor gli ingombra,
Vede partir la vincitrice armata.
Hor mentre ogni navilio il porto sgombra,
Vede l’infida figlia empia, et ingrata
Come à la poppa regia appresa stasse
Per andar via con la Cretense classe.
Alzando il padre afflitto al cielo i lumi,
Dice con grande affetto; Ó sommi Dei
Se mai fur grati à vostri santi Numi
Gl’incensi, e preghi, e sacrificij miei,
Fate, che ’l corpo mio s’impenni, e impiumi,
Si ch’io possa su ’l mar punir costei.
Date à l’animo mio l’ale, e la lena,
Si ch’io le dia la meritata pena.
E spinto dal desio de la vendetta,
Che contra il sangue suo proprio l’accende,
Senza pensar fuor del balcon si getta,
E in aria ver la figlia il corso prende.
Hor mentre più si scuote, e più s’affretta,
Vede che due grand’ali allarga, e stende,
La bocca humana in rostro si trasforma,
Et ogni parte sua d’Aquila ha forma.
Ma non è la ver’Aquila, che questa
Frequenta ovunque il mare, e ’l fonte allaga,
Et à gli augelli aquatici è molesta,
Ne men, che de gli augei del pesce è vaga.
Contra la figlia và crudele, e presta,
Là dove giunta la percote, e piaga,
Co ’l rostro, e con gli artigli empia l’assalta,
Tal, ch’ella il legno lascia, e nel mar salta.
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Ma tu crudel, che torni vincitore
Per mezzo mio, per l’empio error, ch’io fei,
Perche mi vuoi punir di quello errore,
Che t’orna di si rari alti trofei?
Tu ’l beneficio, e ’l mio soverchio amore
Con grato officio riconoscer dei:
M’han gli offesi à punir del mio peccato,
Ma non m’amando tu ti mostri ingrato.
Ben è degna di te la tua consorte,
Ben tu crudel di lei non men sei degno,
Poich’ambi l’alma havete d’una sorte,
Ferino ambi l’amor, ferin lo sdegno.
Le voglie di Pasife infami, e torte
La fecer ne la vacca entrar del legno,
Per sottoporsi, ò Dei, (chi fia che ’l creda?)
A fero Amor, per darsi à un toro in preda.
Già l’amor la tua madre à un toro volse,
Quando nel grembo suo ti diè ricetto.
La moglie tua non men lasciva volse
Gustar d’un Toro il coniugal diletto.
E però l’amor tuo me non raccolse
Vergine essendo, e di reale aspetto.
Che poi che sei da tal razza disceso,
Forse qualche giuvenca il cor t’ha preso.
Se la tua moglie con si raro essempio,
Ad un bue più ch’à te volse il pensiero,
Maraviglia non è, che ’l tuo cor empio
Havea più del selvaggio, e più del fero.
E fede ne può far mio duro scempio,
Ch’offerto t’ho il mio cor, dato il mio impero,
E tanto beneficio amore, e fede,
Non ha potuto in te trovar mercede.
Tu te ne vai crudel, ne ti par grave
Lasciarmi in tanta pena, affanno, e doglia:
Ma ad onta tua la tua non grata nave
Porterà anchor la mia terrena spoglia.
M’atterrò ne la poppa à qualche trave,
E ti seguiterò contra tua voglia,
E dove ti farai dal pin portare,
Vedrò trarmi anchor’io per tanto mare.
Vede fermato il legno regio alquanto,
E star piegata anchor la poggia, e l’orza,
Salta ne l’onde la donzella intanto,
Amor l’accresce l’animo, e la forza,
E con mani, e con piè s’adopra tanto,
Che giunge al legno, e tanto ivi si sforza,
Ch’appoggiata al timon tant’alto poggia,
Ch’à un legno al fin non commodo s’appoggia.
Stà intanto il padre ritirato à l’ombra
Sopra una torre ad un balcone, e guata,
E mesto dal dolor, che ’l cor gli ingombra,
Vede partir la vincitrice armata.
Hor mentre ogni navilio il porto sgombra,
Vede l’infida figlia empia, et ingrata
Come à la poppa regia appresa stasse
Per andar via con la Cretense classe.
Alzando il padre afflitto al cielo i lumi,
Dice con grande affetto; Ó sommi Dei
Se mai fur grati à vostri santi Numi
Gl’incensi, e preghi, e sacrificij miei,
Fate, che ’l corpo mio s’impenni, e impiumi,
Si ch’io possa su ’l mar punir costei.
Date à l’animo mio l’ale, e la lena,
Si ch’io le dia la meritata pena.
E spinto dal desio de la vendetta,
Che contra il sangue suo proprio l’accende,
Senza pensar fuor del balcon si getta,
E in aria ver la figlia il corso prende.
Hor mentre più si scuote, e più s’affretta,
Vede che due grand’ali allarga, e stende,
La bocca humana in rostro si trasforma,
Et ogni parte sua d’Aquila ha forma.
Ma non è la ver’Aquila, che questa
Frequenta ovunque il mare, e ’l fonte allaga,
Et à gli augelli aquatici è molesta,
Ne men, che de gli augei del pesce è vaga.
Contra la figlia và crudele, e presta,
Là dove giunta la percote, e piaga,
Co ’l rostro, e con gli artigli empia l’assalta,
Tal, ch’ella il legno lascia, e nel mar salta.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Ma di Nettuno la pietosa moglie
Non la volse lasciar cader nel sale,
Anze tolse ancho à lei le prime spoglie,
E le diè per fuggir le penne, e l’ale.
Tal che co ’l volo à l’Aquila si toglie,
E fugge l’altrui sdegno, e ’l proprio male.
La segue d’ira acceso, e di dispetto
L’empio Aquilon, c’hoggi Alieto è detto.
Diero à la figlia sua di Ciri il nome
Dal crin tonduto, e poi c’hebbe le penne,
L’ornò lo istesso crin le nove chiome,
Ch’una purpurea cresta il capo ottenne.
Ha di varij color le penne, come
Le vesti havea, quando à cangiar si venne.
Le resta il padre anchora empio nemico,
E serba contra lei lo sdegno antico.
Vergogna anchor l’afflitta Scilla punge
De fatti à la sua patria oltraggi, e danni.
Scogli, e ripe deserte habita, e lunge
Mena da gli occhi humani i giorni, e gli anni.
Il Re di Creta à la sua patria giunge,
E poi, c’hà dato cosa à tanti affanni,
Con tanta gloria, e tanti altri trofei,
Non manca del suo officio à sommi Dei.
Per honorar le sue vittorie nove
Di ricchissime spoglie i muri adorna,
Va con gran pompa al santo tempio, dove
La scure à cento buoi fiacca le corna.
Ma se ben tante in lui gratie il ciel piove,
Non però lieto al regio albergo torna,
Con tanti suoi trofei fra se si dole
De la cresciuta sua biforme prole.
Si come piacque al Re, che ’l ciel possiede,
Per uno sdegno, che gli accese il petto,
Già la consorte un figlio al giorno diede,
C’havea dal mezzo in su viril l’aspetto.
Tutto il resto era bue dal fianco al piede,
Perpetuo al Re Ditteo scorno, e dispetto.
Molti anni prima il Re del santo regno
Nascer quel mostro fè per questo sdegno.
Dovendo fare una importante guerra
Il Re Ditteo volge à le stelle il zelo,
Ne vuole uscir de la Cretense terra
Senza placar co ’l sacrificio il cielo.
Alza le luci, e le ginocchia atterra,
E poi dispiega al suo concetto il velo.
Mandami un’holocausto ò sommo Dio,
Che al ciel supplisca, e al desiderio mio.
Mancar non puote Giove al cor sincero,
Al prego pio, ch’al padre il figlio porge.
Et ecco un toro candido, et altero
Fuor de la terra in un momento sorge.
Subito il Re Ditteo cangia pensiero,
Come le sue bellezze uniche scorge;
Ne vuol donarlo à l’ultimo tormento
Per migliorare il suo superbo armento.
Fe poi, che da la mandra un’altro toro
In vece di quel bello al tempio venne,
Dove al suo tempo fra le corna d’oro
Percosso, e morto fu da la bipenne.
E ne fece hostia al più beato choro
Con tutto quell’honor, che si convenne.
Si sdegnò molto il mondo de le stelle,
Ch’ei non sacrò le vittime più belle.
Si sdegna più d’ogni altro il sommo Giove
Contra il figliuolo, in caso tal non saggio,
E parla irato à Venere, e la move
A vendicare il ciel di tanto oltraggio.
Venere co ’l figliuol subito dove
Stà la moglie del Re prende il viaggio,
Ch’ambo cerca macchiar di doppio scorno,
Perch’odia anchor lo Dio ch’apporta ’l giorno.
Non sol la bella Dea port’odio al Sole,
Perche scoprì le sue Veneree voglie,
Ma cerca, quanti son di quella prole,
Gravar di nove infamie, e nove doglie.
Colei, che di bellezze uniche, e sole
Fu al Re di Creta già data per moglie,
La qual Pasife fu detta per nome,
Nacque del chiaro Dio da l’auree chiome.
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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/281
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||135}}</noinclude><poem>
Venere adunque andò contra costei,
Per darle fra le infami il primo vanto.
E perche il Re de gli huomini Dittei
Dovendo fare il sacrificio santo,
Tolse quel toro à sempiterni Dei,
C’havea più altero il cor, più bello il manto,
Gli volse far veder, ch’era stat’empio,
E ch’era me’ per lui di darlo al tempio.
Mentre nel toro altero i lumi intende
Pasife, che fe uscir di terra il cielo,
Fà Citherea, che l’arco il figlio tende,
E poi scoccar contra la donna il telo.
Del toro allhor la misera s’accende,
E loda l’occhio, il volto, il corno, e il pelo.
Già con occhio lascivo il guarda, e l’ama,
E di goder di lui discorre, e brama.
Quando s’avede al fin, che ’l proprio ingegno
Non sa dar luogo al troppo strano affetto,
Confida con un fabro il suo disegno,
Che in corte havea d’altissimo intelletto.
Compose in breve una vacca di legno
Quel si raro huom, che Dedalo fù detto,
Che da se si movea, da se muggiva,
E parea à tutti naturale, e viva.
Ordina poi l’artefice, che v’entre
L’innamorata, e misera Regina.
Mossa ella dall’amor l’ingombra il ventre,
E ’l fabro al toro incauto l’avicina.
Già il bue la guarda, e si commove, e mentre
Il legno intorno à lui mugghia, e camina,
A l’amoroso affetto il bue s’accende,
E gravida di se Pasife rende.
Quel mostro nacque poi di questo amore,
C’hor rende cosi mesto il Re di Creta.
Perche scopre il suo obbrobrio, e ’l suo disnore,
Ne può l’infamia più tener secreta.
Se non punisce lei di tanto errore,
Degna cagion gliel dissuade, e vieta,
Ne vuol di tanta infamia punir lei,
Per non sdegnar di novo i sommi Dei.
Fe far poi per nasconder tanto scorno
Da Dedalo un difficil laberinto,
Il qual di grosse, e d’alte mura intorno
In pochi dì fù fabricato, e cinto.
Com’un dentro vi gia, perdea il ritorno,
E si trovava in mille errori avinto.
Da mille incerte strade hor quinci, hor quindi,
Spint’era hor ver gl’Iberi, hor verso gl’Indi.
Come il fiume Meandro erra, e s’aggira
Co ’l suo torto canal, ch’al mare il mena,
C’hor verso ove già nacque il corso il tira,
Hor per traverso, hor ver la salsa arena;
E l’acque in mille luoghi incontra, e mira,
Che seguon lui da la medesma vena:
Cosi vanno le vie chiuse lì dentro
Hor ver l’estremo giro, hor verso il centro.
Come se ’l Tebro altier l’irata fronte
Per dritto filo in qualche ripa fiede,
Fà l’onda irata sua tornare al monte,
Tal ch’ei medesmo hor corre innanzi, hor riede;
E nel tornar la nova acqua, che ’l fonte
Manda al mar per tributo, incontra, e vede,
E và per mille strade attorte, e false
Hor verso il monte, hor verso l’onde salse:
Cosi l’accorto, e celebre architetto
Di tante varie vie fallaci, e torte
Compose il dubbio, e periglioso tetto,
Ch’à pena ei seppe ritrovar le porte.
Tosto che in ogni parte fu perfetto,
Vi fero il mostro entrar feroce, e forte.
Cosi per quelle vie cieche, e dubbiose
Il Re Ditteo la sua vergogna ascose.
Già diventato si crudele, e strano
Era il biforme toro, infame, e brutto,
Che si pascea di carne, e sangue humano,
D’ogni prigion, che quivi era condutto.
Il bue non gia per le vie dubbie in vano,
Anzi per l’uso sapea gir per tutto.
E in creta quei, ch’à morte eran dannati,
A questo carcer crudo eran donati.
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|138}}</noinclude><poem>
Venere adunque andò contra costei,
Per darle fra le infami il primo vanto.
E perche il Re de gli huomini Dittei
Dovendo fare il sacrificio santo,
Tolse quel toro à sempiterni Dei,
C’havea più altero il cor, più bello il manto,
Gli volse far veder, ch’era stat’empio,
E ch’era me’ per lui di darlo al tempio.
Mentre nel toro altero i lumi intende
Pasife, che fe uscir di terra il cielo,
Fà Citherea, che l’arco il figlio tende,
E poi scoccar contra la donna il telo.
Del toro allhor la misera s’accende,
E loda l’occhio, il volto, il corno, e il pelo.
Già con occhio lascivo il guarda, e l’ama,
E di goder di lui discorre, e brama.
Quando s’avede al fin, che ’l proprio ingegno
Non sa dar luogo al troppo strano affetto,
Confida con un fabro il suo disegno,
Che in corte havea d’altissimo intelletto.
Compose in breve una vacca di legno
Quel si raro huom, che Dedalo fù detto,
Che da se si movea, da se muggiva,
E parea à tutti naturale, e viva.
Ordina poi l’artefice, che v’entre
L’innamorata, e misera Regina.
Mossa ella dall’amor l’ingombra il ventre,
E ’l fabro al toro incauto l’avicina.
Già il bue la guarda, e si commove, e mentre
Il legno intorno à lui mugghia, e camina,
A l’amoroso affetto il bue s’accende,
E gravida di se Pasife rende.
Quel mostro nacque poi di questo amore,
C’hor rende cosi mesto il Re di Creta.
Perche scopre il suo obbrobrio, e ’l suo disnore,
Ne può l’infamia più tener secreta.
Se non punisce lei di tanto errore,
Degna cagion gliel dissuade, e vieta,
Ne vuol di tanta infamia punir lei,
Per non sdegnar di novo i sommi Dei.
Fe far poi per nasconder tanto scorno
Da Dedalo un difficil laberinto,
Il qual di grosse, e d’alte mura intorno
In pochi dì fù fabricato, e cinto.
Com’un dentro vi gia, perdea il ritorno,
E si trovava in mille errori avinto.
Da mille incerte strade hor quinci, hor quindi,
Spint’era hor ver gl’Iberi, hor verso gl’Indi.
Come il fiume Meandro erra, e s’aggira
Co ’l suo torto canal, ch’al mare il mena,
C’hor verso ove già nacque il corso il tira,
Hor per traverso, hor ver la salsa arena;
E l’acque in mille luoghi incontra, e mira,
Che seguon lui da la medesma vena:
Cosi vanno le vie chiuse lì dentro
Hor ver l’estremo giro, hor verso il centro.
Come se ’l Tebro altier l’irata fronte
Per dritto filo in qualche ripa fiede,
Fà l’onda irata sua tornare al monte,
Tal ch’ei medesmo hor corre innanzi, hor riede;
E nel tornar la nova acqua, che ’l fonte
Manda al mar per tributo, incontra, e vede,
E và per mille strade attorte, e false
Hor verso il monte, hor verso l’onde salse:
Cosi l’accorto, e celebre architetto
Di tante varie vie fallaci, e torte
Compose il dubbio, e periglioso tetto,
Ch’à pena ei seppe ritrovar le porte.
Tosto che in ogni parte fu perfetto,
Vi fero il mostro entrar feroce, e forte.
Cosi per quelle vie cieche, e dubbiose
Il Re Ditteo la sua vergogna ascose.
Già diventato si crudele, e strano
Era il biforme toro, infame, e brutto,
Che si pascea di carne, e sangue humano,
D’ogni prigion, che quivi era condutto.
Il bue non gia per le vie dubbie in vano,
Anzi per l’uso sapea gir per tutto.
E in creta quei, ch’à morte eran dannati,
A questo carcer crudo eran donati.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|135}}</noinclude><poem>
Venere adunque andò contra costei,
Per darle fra le infami il primo vanto.
E perche il Re de gli huomini Dittei
Dovendo fare il sacrificio santo,
Tolse quel toro à sempiterni Dei,
C’havea più altero il cor, più bello il manto,
Gli volse far veder, ch’era stat’empio,
E ch’era me’ per lui di darlo al tempio.
Mentre nel toro altero i lumi intende
Pasife, che fe uscir di terra il cielo,
Fà Citherea, che l’arco il figlio tende,
E poi scoccar contra la donna il telo.
Del toro allhor la misera s’accende,
E loda l’occhio, il volto, il corno, e il pelo.
Già con occhio lascivo il guarda, e l’ama,
E di goder di lui discorre, e brama.
Quando s’avede al fin, che ’l proprio ingegno
Non sa dar luogo al troppo strano affetto,
Confida con un fabro il suo disegno,
Che in corte havea d’altissimo intelletto.
Compose in breve una vacca di legno
Quel si raro huom, che Dedalo fù detto,
Che da se si movea, da se muggiva,
E parea à tutti naturale, e viva.
Ordina poi l’artefice, che v’entre
L’innamorata, e misera Regina.
Mossa ella dall’amor l’ingombra il ventre,
E ’l fabro al toro incauto l’avicina.
Già il bue la guarda, e si commove, e mentre
Il legno intorno à lui mugghia, e camina,
A l’amoroso affetto il bue s’accende,
E gravida di se Pasife rende.
Quel mostro nacque poi di questo amore,
C’hor rende cosi mesto il Re di Creta.
Perche scopre il suo obbrobrio, e ’l suo disnore,
Ne può l’infamia più tener secreta.
Se non punisce lei di tanto errore,
Degna cagion gliel dissuade, e vieta,
Ne vuol di tanta infamia punir lei,
Per non sdegnar di novo i sommi Dei.
Fe far poi per nasconder tanto scorno
Da Dedalo un difficil laberinto,
Il qual di grosse, e d’alte mura intorno
In pochi dì fù fabricato, e cinto.
Com’un dentro vi gia, perdea il ritorno,
E si trovava in mille errori avinto.
Da mille incerte strade hor quinci, hor quindi,
Spint’era hor ver gl’Iberi, hor verso gl’Indi.
Come il fiume Meandro erra, e s’aggira
Co ’l suo torto canal, ch’al mare il mena,
C’hor verso ove già nacque il corso il tira,
Hor per traverso, hor ver la salsa arena;
E l’acque in mille luoghi incontra, e mira,
Che seguon lui da la medesma vena:
Cosi vanno le vie chiuse lì dentro
Hor ver l’estremo giro, hor verso il centro.
Come se ’l Tebro altier l’irata fronte
Per dritto filo in qualche ripa fiede,
Fà l’onda irata sua tornare al monte,
Tal ch’ei medesmo hor corre innanzi, hor riede;
E nel tornar la nova acqua, che ’l fonte
Manda al mar per tributo, incontra, e vede,
E và per mille strade attorte, e false
Hor verso il monte, hor verso l’onde salse:
Cosi l’accorto, e celebre architetto
Di tante varie vie fallaci, e torte
Compose il dubbio, e periglioso tetto,
Ch’à pena ei seppe ritrovar le porte.
Tosto che in ogni parte fu perfetto,
Vi fero il mostro entrar feroce, e forte.
Cosi per quelle vie cieche, e dubbiose
Il Re Ditteo la sua vergogna ascose.
Già diventato si crudele, e strano
Era il biforme toro, infame, e brutto,
Che si pascea di carne, e sangue humano,
D’ogni prigion, che quivi era condutto.
Il bue non gia per le vie dubbie in vano,
Anzi per l’uso sapea gir per tutto.
E in creta quei, ch’à morte eran dannati,
A questo carcer crudo eran donati.
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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/282
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Quei giovani, che fur dati d’accordo
Al Re Ditteo da l’Attico consiglio,
Trovaro à preghi lor nemico, e sordo
Il Re disposto à vendicare il figlio.
Anzi tutti ove stava il mostro ingordo
Eran donati à l’ultimo periglio.
Al Minotauro il Re spietato, e fello
Commise la vendetta del fratello.
Si traggono in Athene à sorte ogni anno
Quei, che mandar si denno al Re Ditteo,
Tutti in un vaso i nomi Attici stanno,
E sonvi scritti i figli anchor d’Egeo.
Pagati dui tributi al terzo danno
Si manda con sei giovani Teseo.
Fu ne la terza lor miseria à caso
Teseo con altri sei tratto del vaso.
Egli con gli altri Greci s’appresenta
(Secondo era il costume) al Re di Creta:
E ben ch’esser Teseo conosca, e senta,
Non però il crudo Re si move à pieta.
Ne la prigion, che tanta gente ha spenta,
Che la via del ritorno asconde, e vieta,
Comanda il Re, ch’ogni giorno si serri
Un Greco, fin che ’l mostro ognuno atterri.
Ma ben secondo ei s’era convenuto
Quando già s’accordò co ’l Re d’Athene,
S’à sorte alcun di lor senz’altro aiuto
Contra il biforme bue la palma ottiene,
Farà libera Athene dal tributo,
E torneranno à le lor patrie arene.
Si che se da quel risco aman salvarsi,
Di senno, e di valor cerchin d’armarsi.
Mentre ch’innanzi al Re l’illustre Greco
Mosse la lingua sua con gran coraggio,
E ch’egli, e gli altri sei, ch’ivi havea seco,
Venian per non mancar del loro homaggio,
E che fur condannati al carcer cieco,
Venne à incontrar Teseo raggio con raggio
Con due, ch’appresso al Re sedean donzelle,
Fanciulle regie à maraviglia belle.
L’una Arianna, e l’altra Fedra è detta,
Ma Fedra è più fanciulla, e meno intende.
Scocca Amor ne la prima una saetta,
E di Teseo di subito l’accende.
Il Greco, se ben Fedra più l’alletta,
Da saggio ad Arianna il guardo rende,
Ch’è bellissima anch’ella, e v’hà più fede
Per l’amor, che già in lei conosce, e vede.
La beltà di Teseo, l’ardire, e ’l senno,
La lingua ornata, e suoi regij costumi,
Con mille rare gratie, ch’à lui denno
Quei, che più son nel ciel, benigni lumi,
Talmente arder di lui la figlia fenno,
Che non potea da lui togliere i lumi,
Di modo, ch’in amar vinse d’assai
Ogni altra, che d’amore arse giamai.
Subito, che Teseo dal Re si parte
Discorrendo fra se la dubbia sorte,
E si và imaginando il modo, e l’arte,
Che ’l può involare à la propinqua morte;
Compar la regia vergine, e in disparte
Gli dice, se vuol farla sua consorte,
Da scampar gli darà la via sicura
Dal bue biforme, e da le false mura.
Teseo promette, e prende il giuramento,
S’ella il può torre al doppio empio periglio
Di farla sposa, e dar le vele al vento,
E condurla in Achea su ’l suo naviglio.
È ver, ch’ei molto havria più il cor contento
Quando potesse Hippolito suo figlio
Leggiadro sopra ogn’altro, e valoroso
Legar con la sorella, e farlo sposo.
La poco accorta vergine à Teseo
Giura di pregar lei con ogni affetto,
Per disporla à passar nel lito Acheo,
E darla sposa al figlio, ch’egli ha detto.
Poi ch’Arianna del figliuol d’Egeo
Si tenne assicurata aperse il petto,
E ’l modo gli mostrò di salvar l’alma,
E d’uscir di quel carcer con la palma.
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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/283
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||136}}</noinclude><poem>
Gli apre, come potrà nel dubbio speco
Far la fera crudel rimaner morta.
Poi dagli avolto un fil, che ’l porti seco,
E che l’attacchi al legno de la porta,
E che mentre và dentro al carcer cieco
Lo svolga per la via fallace, e torta:
E che fatto à quel bue l’ultimo incarco,
S’avolge il fil, sarà renduto al varco.
Secondo che la vergine l’informa,
S’arma Teseo, ch’entrarvi ama primiero,
Et assicura la dannata torma,
Che vivo non vedranno il mostro altero.
Dove stà l’huom, che doppia have la forma,
Se n’entra il valoroso cavaliero,
E lega, e svolge il lin nel cieco chiostro,
Fin che giunge, ove stà l’horribil mostro.
Con l’arme, e co ’l parer de la donzella
Và contra il crudel toro il guerrier forte,
E in modo il punge, lacera, e flagella,
Ch’in breve il dona à la tartarea corte.
Poi dove il fil, ch’accumula, il rappella,
Dopo vario camin trova le porte.
Al Re co ’l capo in man del mostro riede,
E di tornarsi à la sua patria chiede.
Non spiace al Re, ne de la fè vien manco,
Che sia l’infame bue di vita privo,
Che gli parea, che ’l suo deforme fianco
Vivendo il suo disnor tenesse vivo.
Vuol, ch’ogni Greco sia libero, e franco,
E che possa tornare al lito Achivo.
Teseo raccoglie, e seco à mensa il tiene,
E del mesto tributo assolve Athene.
Dal Re, mangiato c’ha, licentia prende
Tutto à la preda sua pregiata intento,
Che di partirsi in ogni modo intende
La notte istessa, se ’l comporta il vento.
Ma pria in disparte la vergine accende
A fuggir, come vede il giorno spento,
Et à menar la sua sorella seco
Per l’effetto, che sà, su ’l legno Greco.
Come vede Arianna il giorno morto
Con la sorella sua, che dispost’have,
Lascia la terra, e ’l padre, e corre al porto,
E monta ascosamente in su la nave.
Subito, ch’esser vede il Greco accorto
Di cosi ricca merce il legno grave,
Snoda le vele al vento, e fugge via,
E prende terra à l’isola di Dia.
Fà tosto un padiglion tender su ’l lito,
Che fin, ch’apporti il giorno il novo lume,
Con l’incauta fanciulla il Greco infido
Si vuol goder l’insidiose piume.
Ella, che ’l suo amor crede un vero nido
D’ogni gentil, d’ogni real costume,
Al suo finto parlar prestando fede,
A l’empie braccia sue si donna, e crede.
Teseo, che tutto havea rivolto il core
A l’altra assai più giovane sorella,
La qual quel crudo, e traditor d’Amore
Fece parere à gli occhi suoi più bella,
Tolto c’hebbe à la vergine quel fiore,
Che la fè fin allhor nomar donzella,
E nel sonno sepolta esser la vide,
Lasciò con muto piè le tende infide.
Tacitamente al legno si trasporta,
E fa spiegar l’insidioso lino.
Il vento gonfia à lui propitio, e porta
Ver la prudente Athene il crudo pino.
Piange l’altra donzella, ei la conforta,
E non si scopre il raggio matutino,
Che la dispone à tutte le sue voglie,
E secondo il desio la fa sua moglie.
Già la stellata Dea, che ’l giorno asconde,
Splender vedea le sue tenebre alquanto:
E già l’Aurora, e le sue chiome bionde
A l’herbe, e à fior fean ruggiadoso il manto:
E volando gli augei fra fronde, e fronde
Facean del novo albor festa co ’l canto:
Ogni mortal dal placido soggiorno,
Chiamato à le fatiche era del giorno:
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|140}}</noinclude><poem>
Gli apre, come potrà nel dubbio speco
Far la fera crudel rimaner morta.
Poi dagli avolto un fil, che ’l porti seco,
E che l’attacchi al legno de la porta,
E che mentre và dentro al carcer cieco
Lo svolga per la via fallace, e torta:
E che fatto à quel bue l’ultimo incarco,
S’avolge il fil, sarà renduto al varco.
Secondo che la vergine l’informa,
S’arma Teseo, ch’entrarvi ama primiero,
Et assicura la dannata torma,
Che vivo non vedranno il mostro altero.
Dove stà l’huom, che doppia have la forma,
Se n’entra il valoroso cavaliero,
E lega, e svolge il lin nel cieco chiostro,
Fin che giunge, ove stà l’horribil mostro.
Con l’arme, e co ’l parer de la donzella
Và contra il crudel toro il guerrier forte,
E in modo il punge, lacera, e flagella,
Ch’in breve il dona à la tartarea corte.
Poi dove il fil, ch’accumula, il rappella,
Dopo vario camin trova le porte.
Al Re co ’l capo in man del mostro riede,
E di tornarsi à la sua patria chiede.
Non spiace al Re, ne de la fè vien manco,
Che sia l’infame bue di vita privo,
Che gli parea, che ’l suo deforme fianco
Vivendo il suo disnor tenesse vivo.
Vuol, ch’ogni Greco sia libero, e franco,
E che possa tornare al lito Achivo.
Teseo raccoglie, e seco à mensa il tiene,
E del mesto tributo assolve Athene.
Dal Re, mangiato c’ha, licentia prende
Tutto à la preda sua pregiata intento,
Che di partirsi in ogni modo intende
La notte istessa, se ’l comporta il vento.
Ma pria in disparte la vergine accende
A fuggir, come vede il giorno spento,
Et à menar la sua sorella seco
Per l’effetto, che sà, su ’l legno Greco.
Come vede Arianna il giorno morto
Con la sorella sua, che dispost’have,
Lascia la terra, e ’l padre, e corre al porto,
E monta ascosamente in su la nave.
Subito, ch’esser vede il Greco accorto
Di cosi ricca merce il legno grave,
Snoda le vele al vento, e fugge via,
E prende terra à l’isola di Dia.
Fà tosto un padiglion tender su ’l lito,
Che fin, ch’apporti il giorno il novo lume,
Con l’incauta fanciulla il Greco infido
Si vuol goder l’insidiose piume.
Ella, che ’l suo amor crede un vero nido
D’ogni gentil, d’ogni real costume,
Al suo finto parlar prestando fede,
A l’empie braccia sue si donna, e crede.
Teseo, che tutto havea rivolto il core
A l’altra assai più giovane sorella,
La qual quel crudo, e traditor d’Amore
Fece parere à gli occhi suoi più bella,
Tolto c’hebbe à la vergine quel fiore,
Che la fè fin allhor nomar donzella,
E nel sonno sepolta esser la vide,
Lasciò con muto piè le tende infide.
Tacitamente al legno si trasporta,
E fa spiegar l’insidioso lino.
Il vento gonfia à lui propitio, e porta
Ver la prudente Athene il crudo pino.
Piange l’altra donzella, ei la conforta,
E non si scopre il raggio matutino,
Che la dispone à tutte le sue voglie,
E secondo il desio la fa sua moglie.
Già la stellata Dea, che ’l giorno asconde,
Splender vedea le sue tenebre alquanto:
E già l’Aurora, e le sue chiome bionde
A l’herbe, e à fior fean ruggiadoso il manto:
E volando gli augei fra fronde, e fronde
Facean del novo albor festa co ’l canto:
Ogni mortal dal placido soggiorno,
Chiamato à le fatiche era del giorno:
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|136}}</noinclude><poem>
Gli apre, come potrà nel dubbio speco
Far la fera crudel rimaner morta.
Poi dagli avolto un fil, che ’l porti seco,
E che l’attacchi al legno de la porta,
E che mentre và dentro al carcer cieco
Lo svolga per la via fallace, e torta:
E che fatto à quel bue l’ultimo incarco,
S’avolge il fil, sarà renduto al varco.
Secondo che la vergine l’informa,
S’arma Teseo, ch’entrarvi ama primiero,
Et assicura la dannata torma,
Che vivo non vedranno il mostro altero.
Dove stà l’huom, che doppia have la forma,
Se n’entra il valoroso cavaliero,
E lega, e svolge il lin nel cieco chiostro,
Fin che giunge, ove stà l’horribil mostro.
Con l’arme, e co ’l parer de la donzella
Và contra il crudel toro il guerrier forte,
E in modo il punge, lacera, e flagella,
Ch’in breve il dona à la tartarea corte.
Poi dove il fil, ch’accumula, il rappella,
Dopo vario camin trova le porte.
Al Re co ’l capo in man del mostro riede,
E di tornarsi à la sua patria chiede.
Non spiace al Re, ne de la fè vien manco,
Che sia l’infame bue di vita privo,
Che gli parea, che ’l suo deforme fianco
Vivendo il suo disnor tenesse vivo.
Vuol, ch’ogni Greco sia libero, e franco,
E che possa tornare al lito Achivo.
Teseo raccoglie, e seco à mensa il tiene,
E del mesto tributo assolve Athene.
Dal Re, mangiato c’ha, licentia prende
Tutto à la preda sua pregiata intento,
Che di partirsi in ogni modo intende
La notte istessa, se ’l comporta il vento.
Ma pria in disparte la vergine accende
A fuggir, come vede il giorno spento,
Et à menar la sua sorella seco
Per l’effetto, che sà, su ’l legno Greco.
Come vede Arianna il giorno morto
Con la sorella sua, che dispost’have,
Lascia la terra, e ’l padre, e corre al porto,
E monta ascosamente in su la nave.
Subito, ch’esser vede il Greco accorto
Di cosi ricca merce il legno grave,
Snoda le vele al vento, e fugge via,
E prende terra à l’isola di Dia.
Fà tosto un padiglion tender su ’l lito,
Che fin, ch’apporti il giorno il novo lume,
Con l’incauta fanciulla il Greco infido
Si vuol goder l’insidiose piume.
Ella, che ’l suo amor crede un vero nido
D’ogni gentil, d’ogni real costume,
Al suo finto parlar prestando fede,
A l’empie braccia sue si donna, e crede.
Teseo, che tutto havea rivolto il core
A l’altra assai più giovane sorella,
La qual quel crudo, e traditor d’Amore
Fece parere à gli occhi suoi più bella,
Tolto c’hebbe à la vergine quel fiore,
Che la fè fin allhor nomar donzella,
E nel sonno sepolta esser la vide,
Lasciò con muto piè le tende infide.
Tacitamente al legno si trasporta,
E fa spiegar l’insidioso lino.
Il vento gonfia à lui propitio, e porta
Ver la prudente Athene il crudo pino.
Piange l’altra donzella, ei la conforta,
E non si scopre il raggio matutino,
Che la dispone à tutte le sue voglie,
E secondo il desio la fa sua moglie.
Già la stellata Dea, che ’l giorno asconde,
Splender vedea le sue tenebre alquanto:
E già l’Aurora, e le sue chiome bionde
A l’herbe, e à fior fean ruggiadoso il manto:
E volando gli augei fra fronde, e fronde
Facean del novo albor festa co ’l canto:
Ogni mortal dal placido soggiorno,
Chiamato à le fatiche era del giorno:
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Quando Arianna misera fu sciolta
Dal sonno, che lo spirto havea legato,
Ne del tutto anchor desta il viso volta,
Dove crede trovar l’amante ingrato.
Stende l’accesa man più d’una volta,
Poi cerca in vano anchor da l’altro lato,
In van per tutto i piè move, e le braccia,
Tal, che ’l timor del tutto il sogno scaccia.
S’alza, s’ammanta, e con furor s’aventa
Dal fatto poco pria vedovo letto,
E ’l crine, e ’l panno inconta il freno allenta
Ad ogni mesto, e doloroso affetto;
E và spinta dal duol, che la tormenta,
Stracciando il crine, e percotendo il petto,
E dando al ciel mille angosciose strida,
Dove lasciato havea la nave infida.
Guarda s’altro veder, che ’l lito puote,
Ne puote altro veder, che ’l lito istesso.
L’alte sue strida, e le dolenti note
L’amato nome in van chiamano spesso.
Quel suon nel cavo sasso entra, e percote,
E ’l sasso per pietate il chiama anch’esso.
Ella chiama Teseo, Teseo la pietra,
Ne quella, ò questa la risposta impetra.
Mentre corre per tutto, e ’l suo cordoglio
Sfoga con alte strida, alzarsi scorge
Un’aspro, incolto, e ruinoso scoglio,
Ne la cui cima arbusto alcun non sorge,
Percosso dal marin continuo orgoglio,
E curvo, e molto in fuor su ’l mar si porge.
Sù per l’erto camin montar si sforza,
E l’animo, ch’ell’ha, le dà la forza.
Quivi ella vide, ò pur veder le parve,
Che la luce anchor dubbia era del cielo,
Per gire, ù già nel ciel Calisto apparve,
Un legno haver fidato al vento il velo.
Tosto il vivo color dal volto sparve,
E cadde in terra più fredda, che ’l gielo.
L’atterra, e d’ogni senso il duol la priva,
E poi lo stesso duol la punge, e avviva.
Si leva, e con questa ira, e questo sdegno
Scopre il dolor che strugge il cor profondo;
Dove fuggi crudel? guarda, che ’l legno
Non ha il numero suo, non ha il suo pondo.
Non son si gravi i membri, ch’io sostegno,
Che debbian l’arbor tuo mandare in fondo.
Se l’alma mia crudel se ne vien teco,
Perche non fai, che ’l suo mortal sia seco?
Non dei soffrir, che vaga del suo obbietto
T’habbia l’alma à seguir fuor del suo nido.
Cosi del crudo suo noioso affetto
Fà risonar d’intorno il mare, e ’l lido.
E percote le man, percote il petto,
E co ’l gesto accompagna il debil grido.
Porta via intanto l’Austro empio, e veloce
L’Attiche vele, e la Cretense voce.
Visto poi, che la voce afflitta, e mesta
Di passar tanto in là forza non have,
Accenna con la mano, e con la vesta,
Ch’essi han lasciato in terra un de la nave.
La nave se ne và felice, e presta,
Ne vuol per cenni altrui farsi più grave:
E mentre ella più accenna, e si querela,
Vede in tutto sparir l’ingrata vela.
Gli occhi per tutto il mar raggira, e volta,
Stride, e si fiede, e ’l crin rompe, e disface.
Corre di quà, di là, chiama, et ascolta,
Hor alza il grido, hor dà l’orecchie, e tace.
Come maga suol far, quand’ebbra, e stolta,
Lo Dio, c’ha in sen, vaticinar la face,
Che sparso il crin fra varij cerchi, e segni
S’aggira, e grida, e fa mill’atti indegni.
Talhor guardando il mar su ’l sasso siede,
Con lo spirto si stupido, e si lasso,
E cosi ferma stà dal capo al piede,
Che non par men di pietra ella, che ’l sasso.
Stà cosi alquanto, e poi, che si ravvede
Ver l’albergo notturno affretta il passo,
E crede anchor trovarlo, e si conforta,
Ne la speranza in lei del tutto è morta.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||137}}</noinclude><poem>
Ma quando poi la sventurata porge
Dentro à le tende in ogni parte il lume,
E fra i duo lini anchor tepidi scorge,
Ch’ivi non gode il suo Teseo le piume,
In lei l’ira, e ’l dolor maggior risorge,
E d’ogni luce fa di novo un fiume.
Dove al fin si posar l’ingrate membra,
Si posa, e ’l suo dolor cosi rimembra.
Ó falso albergo de riposi miei,
Quanto il tuo honor, quanto il mio stato offendi:
Ó quanto ingiusto, ò quanto infido sei,
Ó quanto male al tuo debito intendi.
Hiersera à la tua fe due ne credei,
Hor, perche nel mattin due non ne rendi?
Tu manchi troppo à la ragione, e al vero,
Se ’l deposito mio non rendi intero.
Dove hai posto infedel, che più non veggio
Del deposito mio la miglior parte?
Dove, oime, per ragion ricorrer deggio
In questa inculta, e solitaria parte?
Quest’isola non hà pretorio seggio,
Anzi mancando di cultura, e d’arte,
D’ogni commercio human la credo ignuda,
E albergo d’ogni fera horrenda, e cruda.
Qui non son navi, e son cinta dal mare,
Ne qui spero rimedio à tanta doglia:
Ma poniam, ch’un nocchier vegga arrivare,
Che per pietate à l’isola mi toglia,
In qual’arena mi farò portare?
Qual terra troverò, che mi raccoglia?
Debbo tornare al monte patrio d’Ida,
Dove al fratel fui cruda, al padre infida?
Quand’io, Teseo, co ’l filo, e co ’l consiglio
Tolsi à la patria tua si dura legge,
Giurasti per lo tuo mortal periglio,
Su ’l libro pio, che su l’altar si legge,
Che mentre non prendea dal corpo essiglio
Lo spirto, che ’l mortal ne guida, e regge,
Sempre io la tua sarei vera consorte,
Ne à te mi potria torre altro, che morte.
Ma non son però tua, ben ch’ambedui
Viviam; se si può dir però, che viva
Donna sepolta dal periurio altrui,
E d’ogni human commercio in tutto priva.
Deh, perch’io anchor co ’l mio fratel non fui
Da te donato à la tartarea riva?
Che s’havessi ancho à me la vita tolta,
Saria la fede tua rimasa sciolta.
Ne solo innanzi à gli occhi m’appresento
La morte, c’ho à patir, che fia solo una;
Ma quanto stratio, e mal, quanto tormento
Può dar la crudeltate, e la fortuna.
Co ’l pensier veggio colma di spavento
Mille forme di morte, empia ciascuna.
E’l tardar suo di mal mi fa più copia,
Che non farà dapoi la morte propia.
Lupi affamati, e rei veder mi pare
Uscir di folte macchie, over sotterra,
Orsi, Tigri, e Leon, se pur cibare
Quest’isola ne suol per farmi guerra.
Dicon anchor, che suol tal volta il mare
Mandar le Foche, e le Balene in terra:
E al fin di questi, e ciascun altro male
Un sol n’ho da patir, ma non sò quale.
Ma, s’io discorro ben, non è la morte
La pena, ch’in me può cader più rea.
Quanto saria peggior l’empia mia sorte,
Se capitasse qui fusta, ò galea,
E fosse serva di si vil cohorte
Chi comandava à l’isola Dittea,
Del Re saggio Ditteo la vera prole,
Gli avi eccelsi di cui son Giove, e ’l Sole.
Che peggio haver potria, se fosse serva
De gl’infami ladron de la marina,
Colei, che ne la terra di Minerva
Insieme esser dovea moglie, e Reina.
Venga prima ogni fera empia, e proterva,
E mi condanni à l’ultima ruina,
E faccia il dente suo contento, e satio
Del miser corpo mio con ogni stratio.
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Ma quando poi la sventurata porge
Dentro à le tende in ogni parte il lume,
E fra i duo lini anchor tepidi scorge,
Ch’ivi non gode il suo Teseo le piume,
In lei l’ira, e ’l dolor maggior risorge,
E d’ogni luce fa di novo un fiume.
Dove al fin si posar l’ingrate membra,
Si posa, e ’l suo dolor cosi rimembra.
Ó falso albergo de riposi miei,
Quanto il tuo honor, quanto il mio stato offendi:
Ó quanto ingiusto, ò quanto infido sei,
Ó quanto male al tuo debito intendi.
Hiersera à la tua fe due ne credei,
Hor, perche nel mattin due non ne rendi?
Tu manchi troppo à la ragione, e al vero,
Se ’l deposito mio non rendi intero.
Dove hai posto infedel, che più non veggio
Del deposito mio la miglior parte?
Dove, oime, per ragion ricorrer deggio
In questa inculta, e solitaria parte?
Quest’isola non hà pretorio seggio,
Anzi mancando di cultura, e d’arte,
D’ogni commercio human la credo ignuda,
E albergo d’ogni fera horrenda, e cruda.
Qui non son navi, e son cinta dal mare,
Ne qui spero rimedio à tanta doglia:
Ma poniam, ch’un nocchier vegga arrivare,
Che per pietate à l’isola mi toglia,
In qual’arena mi farò portare?
Qual terra troverò, che mi raccoglia?
Debbo tornare al monte patrio d’Ida,
Dove al fratel fui cruda, al padre infida?
Quand’io, Teseo, co ’l filo, e co ’l consiglio
Tolsi à la patria tua si dura legge,
Giurasti per lo tuo mortal periglio,
Su ’l libro pio, che su l’altar si legge,
Che mentre non prendea dal corpo essiglio
Lo spirto, che ’l mortal ne guida, e regge,
Sempre io la tua sarei vera consorte,
Ne à te mi potria torre altro, che morte.
Ma non son però tua, ben ch’ambedui
Viviam; se si può dir però, che viva
Donna sepolta dal periurio altrui,
E d’ogni human commercio in tutto priva.
Deh, perch’io anchor co ’l mio fratel non fui
Da te donato à la tartarea riva?
Che s’havessi ancho à me la vita tolta,
Saria la fede tua rimasa sciolta.
Ne solo innanzi à gli occhi m’appresento
La morte, c’ho à patir, che fia solo una;
Ma quanto stratio, e mal, quanto tormento
Può dar la crudeltate, e la fortuna.
Co ’l pensier veggio colma di spavento
Mille forme di morte, empia ciascuna.
E’l tardar suo di mal mi fa più copia,
Che non farà dapoi la morte propia.
Lupi affamati, e rei veder mi pare
Uscir di folte macchie, over sotterra,
Orsi, Tigri, e Leon, se pur cibare
Quest’isola ne suol per farmi guerra.
Dicon anchor, che suol tal volta il mare
Mandar le Foche, e le Balene in terra:
E al fin di questi, e ciascun altro male
Un sol n’ho da patir, ma non sò quale.
Ma, s’io discorro ben, non è la morte
La pena, ch’in me può cader più rea.
Quanto saria peggior l’empia mia sorte,
Se capitasse qui fusta, ò galea,
E fosse serva di si vil cohorte
Chi comandava à l’isola Dittea,
Del Re saggio Ditteo la vera prole,
Gli avi eccelsi di cui son Giove, e ’l Sole.
Che peggio haver potria, se fosse serva
De gl’infami ladron de la marina,
Colei, che ne la terra di Minerva
Insieme esser dovea moglie, e Reina.
Venga prima ogni fera empia, e proterva,
E mi condanni à l’ultima ruina,
E faccia il dente suo contento, e satio
Del miser corpo mio con ogni stratio.
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Ma quando poi la sventurata porge
Dentro à le tende in ogni parte il lume,
E fra i duo lini anchor tepidi scorge,
Ch’ivi non gode il suo Teseo le piume,
In lei l’ira, e ’l dolor maggior risorge,
E d’ogni luce fa di novo un fiume.
Dove al fin si posar l’ingrate membra,
Si posa, e ’l suo dolor cosi rimembra.
Ó falso albergo de riposi miei,
Quanto il tuo honor, quanto il mio stato offendi:
Ó quanto ingiusto, ò quanto infido sei,
Ó quanto male al tuo debito intendi.
Hiersera à la tua fe due ne credei,
Hor, perche nel mattin due non ne rendi?
Tu manchi troppo à la ragione, e al vero,
Se ’l deposito mio non rendi intero.
Dove hai posto infedel, che più non veggio
Del deposito mio la miglior parte?
Dove, oime, per ragion ricorrer deggio
In questa inculta, e solitaria parte?
Quest’isola non hà pretorio seggio,
Anzi mancando di cultura, e d’arte,
D’ogni commercio human la credo ignuda,
E albergo d’ogni fera horrenda, e cruda.
Qui non son navi, e son cinta dal mare,
Ne qui spero rimedio à tanta doglia:
Ma poniam, ch’un nocchier vegga arrivare,
Che per pietate à l’isola mi toglia,
In qual’arena mi farò portare?
Qual terra troverò, che mi raccoglia?
Debbo tornare al monte patrio d’Ida,
Dove al fratel fui cruda, al padre infida?
Quand’io, Teseo, co ’l filo, e co ’l consiglio
Tolsi à la patria tua si dura legge,
Giurasti per lo tuo mortal periglio,
Su ’l libro pio, che su l’altar si legge,
Che mentre non prendea dal corpo essiglio
Lo spirto, che ’l mortal ne guida, e regge,
Sempre io la tua sarei vera consorte,
Ne à te mi potria torre altro, che morte.
Ma non son però tua, ben ch’ambedui
Viviam; se si può dir però, che viva
Donna sepolta dal periurio altrui,
E d’ogni human commercio in tutto priva.
Deh, perch’io anchor co ’l mio fratel non fui
Da te donato à la tartarea riva?
Che s’havessi ancho à me la vita tolta,
Saria la fede tua rimasa sciolta.
Ne solo innanzi à gli occhi m’appresento
La morte, c’ho à patir, che fia solo una;
Ma quanto stratio, e mal, quanto tormento
Può dar la crudeltate, e la fortuna.
Co ’l pensier veggio colma di spavento
Mille forme di morte, empia ciascuna.
E’l tardar suo di mal mi fa più copia,
Che non farà dapoi la morte propia.
Lupi affamati, e rei veder mi pare
Uscir di folte macchie, over sotterra,
Orsi, Tigri, e Leon, se pur cibare
Quest’isola ne suol per farmi guerra.
Dicon anchor, che suol tal volta il mare
Mandar le Foche, e le Balene in terra:
E al fin di questi, e ciascun altro male
Un sol n’ho da patir, ma non sò quale.
Ma, s’io discorro ben, non è la morte
La pena, ch’in me può cader più rea.
Quanto saria peggior l’empia mia sorte,
Se capitasse qui fusta, ò galea,
E fosse serva di si vil cohorte
Chi comandava à l’isola Dittea,
Del Re saggio Ditteo la vera prole,
Gli avi eccelsi di cui son Giove, e ’l Sole.
Che peggio haver potria, se fosse serva
De gl’infami ladron de la marina,
Colei, che ne la terra di Minerva
Insieme esser dovea moglie, e Reina.
Venga prima ogni fera empia, e proterva,
E mi condanni à l’ultima ruina,
E faccia il dente suo contento, e satio
Del miser corpo mio con ogni stratio.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Quest’aere, questa terra, e questi lidi
Mi minaccian crudeli ogni empio danno.
Hor su poniam, che questa terra annidi
Quegli animai, che più de gli altri sanno,
Come vuoi più, che d’huomini io mi fidi,
Poi che nasce da un’huom si crudo inganno?
Ben cieco è l’occhio mio, s’anchor non vede
Quanto può donna ad huom prestar di fede.
Volesse Dio, ch’Androgeo mio fratello
Mai non havesse il tuo regno veduto,
Che non l’havrebbe il Greco empio coltello
In si tenera età donato à Pluto:
Ne veduto io t’havrei nel patrio hostello,
Per satisfare al funeral tributo.
Ne men per torti à cosi gran periglio,
T’havrei dato il mio fil, ne ’l mio consiglio.
Ó cor pien di perfidia, ò viso finto,
Ó infamia singular de tempi nostri,
S’io te tolsi à l’error del laberinto,
Ond’è, ch’à quinci uscir tu à me non mostri?
S’al toro te tols’io, che t’havria vinto,
Come preda me fai di mille mostri?
S’ho il cor mostrato à te fedele, e puro,
Perche sei stato à me falso, e pergiuro?
Ó traditore, ò d’ogni nome indegno,
Che suol qua giù fra noi portare honore,
Dunque, perch’io ti diè’ l’arme, e l’ingegno,
Che ti trasser del carcer vincitore;
Dunque, perch’io t’hò liberato il regno
Da tributo si rio, da tanto horrore;
Dunque per darti in tanta impresa aita
Mi dai la morte, ov’io ti diei la vita?
Ma ben veggo io, che mi lamento à torto,
Che senza il modo mio, senza il mio lino,
Havresti il bue men forte, e meno accorto
Condotto al fin del suo mortal camino.
E come egli giamai t’havrebbe morto,
C’hai il cor di ferro, e ’l petto adamantino?
E tu sendo si falso, e astuto Greco
Saresti uscito anchor d’error più cieco.
Sonno crudel, che nel notturno oblio
Tenesti l’alma mia sepolta tanto,
Che non potei sentir lo sposo mio,
Che per fuggir si mi levò da canto.
Ó venti troppo pronti al suo desio,
Ó troppo officiosi al nostro pianto,
Ó troppo ingiusti, ò troppo infami venti,
Che desti aiuto à tanti tradimenti.
Ó man cruda, e fallace, che ’l consorte
Mi promettesti, e la miglior mercede,
E poi me co ’l fratel donasti à morte,
Con le percosse lui, me con la fede.
Oime, che congiurar ne la mia sorte
Tre per mandarmi à la tartarea sede,
E contra una fanciulla quel, che ponno,
Han fatto tre, la fede, il vento, e ’l sonno.
Oime, morrommi in queste arene esterne,
E pria, che vengha la mia luce oscura,
Io non vedrò le lagrime materne,
Ne la materna sua pietate, e cura.
E de strani animai, tane, e caverne
Saran de l’ossa mie la sepoltura.
Dunque crudo Teseo questo deserto
Vuoi far degno sepolcro à tanto merto.
Tu te n’andrai superbo al patrio lido
Portando in man la vincitrice palma,
Dove ti daran gratie, honore, e grido,
C’habbi levato lor si grave salma.
Tu conterai, com’entro al dubbio nido
Al miser fratel mio togliesti l’alma,
E come poi per vie dubbiose, e torte
Sapesti vincitor trovar le porte.
Quivi havrai da la patria honore, e gloria,
Sendo per te da tanto obligo sciolta,
Et io, che fui cagion de la vittoria,
Me ne starò qui morta, e non sepolta.
Ravviva almeno anchor la mia memoria,
E di, ch’io mi fidai semplice, e stolta;
E poi che desti al tuo desire effetto,
Mi lasciasti in quest’isola nel letto.
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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/287
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||138}}</noinclude><poem>
Conta fra tanti tuoi trionfi, e fregi,
Quest’altro tuo dignissimo trofeo.
La stirpe iniqua tua non vien da Regi,
Tu non fosti giamai figliuol d’Egeo.
Giamai non fu, come ti vanti, e pregi,
Tua madre de la stirpe di Pitteo.
Tu non fosti, crudel, mai figlio d’Etra,
Ma ben d’un’aspra in mar dannosa pietra.
Lascia di novo il letto, e su lo scoglio
Monta, e si fiede, e stride, e chiama, e guarda,
Et hor con prego dolce, hor con orgoglio
Chiama la fede sua falsa, e bugiarda.
Echo, c’have pietà del suo cordoglio,
Dice il medesmo anch’ella, ma più tarda:
Et mentre, ch’ella stride, e si percote,
Risponde à le percosse, et à le note.
Deh fossi sol da me tanto diviso,
(Dicea) che da la poppa de la nave
Potessi il pianto udir, vedere il viso,
Quanta doglia appresenta, e quanto pave,
Che muteresti il tuo crudele aviso,
E di tornar non ti parrebbe grave.
Ma poi che l’occhio tuo non è presente,
Guardami almen con l’occhio della mente.
Riguarda co ’l pensier l’amaro pianto,
Che stracciando i capei da gli occhi verso:
Riguarda co ’l pensier l’inculto manto,
Come da pioggia esser dal lutto asperso:
Discorri, quanto io t’ho chiamato, e quanto
Ti chiamo anchor con vario, e flebil verso;
E quanto anchor da lamentarmi avanza,
Poi c’hò perduto insino à la speranza.
Deh torna homai Teseo prima, ch’io cada
Sola in tanta miseria in un deserto.
E poi, che ’l merto mio poco t’aggrada,
Io non ti prego più per lo mio merto,
Ti prego per honor della tua spada,
Che da te tanto mal non sia sofferto:
Che s’io non ti salvai, non fei di sorte,
Ch’io ne dovessi haver però la morte.
Deh se alcuna pietate il cor ti punge,
Rivolta à me la desiata prora,
E se ben sei da questa isola lunge,
Non dubitar di non venire ad hora.
E come la tua nave al lito giunge,
Se trovi l’alma del suo albergo fuora,
Prendi almen l’ossa, e, come si conviene,
Doni à la moglie tua sepolcro Athene.
Mentre cosi la sventurata piange,
E in varij luoghi si trasporta, e duole,
E del dolor, che la tormenta, et ange,
Fan fede le percosse, e le parole.
Lo Dio, che già fu vincitor del Gange,
Come la buona sua fortuna vuole,
Vede passando lei, che si querela,
E fa voltare à quel camin la vela.
Tosto, che Bacco almo, e giocondo intende
In giovane si bella i vaghi lumi,
Et ode il gran dolor, ch’entro l’offende,
E vede gli occhi suoi stillarsi in fiumi,
E sente, che la sua stirpe discende
Da due si chiari, e gloriosi Numi,
Di lei s’infiamma, e la conforta, e prega,
Tanto, ch’à fine al suo voler la piega.
È ver, che da principio, come quella,
Che la fede de l’huom provata havea,
Si mostrò ver Lieo cruda, e rubella,
E poco del suo amor conto tenea.
Ma Bacco, che disposto era d’havella,
Chiamò la bella, et amorosa Dea
A le sue nozze, e à ei la cura diede
Di dispor la donzella à nova fede.
Venere, che di Bacco è sempre amica,
Et è senz’esso men vezzosa, e calda,
La donna allhor del novo amor nemica
Con preghi, e sguardi pij move, e riscalda.
La piaga, ch’ella havea d’amore antica,
La Dea di propria man medica, e salda:
E poi con ogni suo più caldo affetto
Cerca con novo stral piagarle il petto.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|144}}</noinclude><poem>
Conta fra tanti tuoi trionfi, e fregi,
Quest’altro tuo dignissimo trofeo.
La stirpe iniqua tua non vien da Regi,
Tu non fosti giamai figliuol d’Egeo.
Giamai non fu, come ti vanti, e pregi,
Tua madre de la stirpe di Pitteo.
Tu non fosti, crudel, mai figlio d’Etra,
Ma ben d’un’aspra in mar dannosa pietra.
Lascia di novo il letto, e su lo scoglio
Monta, e si fiede, e stride, e chiama, e guarda,
Et hor con prego dolce, hor con orgoglio
Chiama la fede sua falsa, e bugiarda.
Echo, c’have pietà del suo cordoglio,
Dice il medesmo anch’ella, ma più tarda:
Et mentre, ch’ella stride, e si percote,
Risponde à le percosse, et à le note.
Deh fossi sol da me tanto diviso,
(Dicea) che da la poppa de la nave
Potessi il pianto udir, vedere il viso,
Quanta doglia appresenta, e quanto pave,
Che muteresti il tuo crudele aviso,
E di tornar non ti parrebbe grave.
Ma poi che l’occhio tuo non è presente,
Guardami almen con l’occhio della mente.
Riguarda co ’l pensier l’amaro pianto,
Che stracciando i capei da gli occhi verso:
Riguarda co ’l pensier l’inculto manto,
Come da pioggia esser dal lutto asperso:
Discorri, quanto io t’ho chiamato, e quanto
Ti chiamo anchor con vario, e flebil verso;
E quanto anchor da lamentarmi avanza,
Poi c’hò perduto insino à la speranza.
Deh torna homai Teseo prima, ch’io cada
Sola in tanta miseria in un deserto.
E poi, che ’l merto mio poco t’aggrada,
Io non ti prego più per lo mio merto,
Ti prego per honor della tua spada,
Che da te tanto mal non sia sofferto:
Che s’io non ti salvai, non fei di sorte,
Ch’io ne dovessi haver però la morte.
Deh se alcuna pietate il cor ti punge,
Rivolta à me la desiata prora,
E se ben sei da questa isola lunge,
Non dubitar di non venire ad hora.
E come la tua nave al lito giunge,
Se trovi l’alma del suo albergo fuora,
Prendi almen l’ossa, e, come si conviene,
Doni à la moglie tua sepolcro Athene.
Mentre cosi la sventurata piange,
E in varij luoghi si trasporta, e duole,
E del dolor, che la tormenta, et ange,
Fan fede le percosse, e le parole.
Lo Dio, che già fu vincitor del Gange,
Come la buona sua fortuna vuole,
Vede passando lei, che si querela,
E fa voltare à quel camin la vela.
Tosto, che Bacco almo, e giocondo intende
In giovane si bella i vaghi lumi,
Et ode il gran dolor, ch’entro l’offende,
E vede gli occhi suoi stillarsi in fiumi,
E sente, che la sua stirpe discende
Da due si chiari, e gloriosi Numi,
Di lei s’infiamma, e la conforta, e prega,
Tanto, ch’à fine al suo voler la piega.
È ver, che da principio, come quella,
Che la fede de l’huom provata havea,
Si mostrò ver Lieo cruda, e rubella,
E poco del suo amor conto tenea.
Ma Bacco, che disposto era d’havella,
Chiamò la bella, et amorosa Dea
A le sue nozze, e à ei la cura diede
Di dispor la donzella à nova fede.
Venere, che di Bacco è sempre amica,
Et è senz’esso men vezzosa, e calda,
La donna allhor del novo amor nemica
Con preghi, e sguardi pij move, e riscalda.
La piaga, ch’ella havea d’amore antica,
La Dea di propria man medica, e salda:
E poi con ogni suo più caldo affetto
Cerca con novo stral piagarle il petto.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|138}}</noinclude><poem>
Conta fra tanti tuoi trionfi, e fregi,
Quest’altro tuo dignissimo trofeo.
La stirpe iniqua tua non vien da Regi,
Tu non fosti giamai figliuol d’Egeo.
Giamai non fu, come ti vanti, e pregi,
Tua madre de la stirpe di Pitteo.
Tu non fosti, crudel, mai figlio d’Etra,
Ma ben d’un’aspra in mar dannosa pietra.
Lascia di novo il letto, e su lo scoglio
Monta, e si fiede, e stride, e chiama, e guarda,
Et hor con prego dolce, hor con orgoglio
Chiama la fede sua falsa, e bugiarda.
Echo, c’have pietà del suo cordoglio,
Dice il medesmo anch’ella, ma più tarda:
Et mentre, ch’ella stride, e si percote,
Risponde à le percosse, et à le note.
Deh fossi sol da me tanto diviso,
(Dicea) che da la poppa de la nave
Potessi il pianto udir, vedere il viso,
Quanta doglia appresenta, e quanto pave,
Che muteresti il tuo crudele aviso,
E di tornar non ti parrebbe grave.
Ma poi che l’occhio tuo non è presente,
Guardami almen con l’occhio della mente.
Riguarda co ’l pensier l’amaro pianto,
Che stracciando i capei da gli occhi verso:
Riguarda co ’l pensier l’inculto manto,
Come da pioggia esser dal lutto asperso:
Discorri, quanto io t’ho chiamato, e quanto
Ti chiamo anchor con vario, e flebil verso;
E quanto anchor da lamentarmi avanza,
Poi c’hò perduto insino à la speranza.
Deh torna homai Teseo prima, ch’io cada
Sola in tanta miseria in un deserto.
E poi, che ’l merto mio poco t’aggrada,
Io non ti prego più per lo mio merto,
Ti prego per honor della tua spada,
Che da te tanto mal non sia sofferto:
Che s’io non ti salvai, non fei di sorte,
Ch’io ne dovessi haver però la morte.
Deh se alcuna pietate il cor ti punge,
Rivolta à me la desiata prora,
E se ben sei da questa isola lunge,
Non dubitar di non venire ad hora.
E come la tua nave al lito giunge,
Se trovi l’alma del suo albergo fuora,
Prendi almen l’ossa, e, come si conviene,
Doni à la moglie tua sepolcro Athene.
Mentre cosi la sventurata piange,
E in varij luoghi si trasporta, e duole,
E del dolor, che la tormenta, et ange,
Fan fede le percosse, e le parole.
Lo Dio, che già fu vincitor del Gange,
Come la buona sua fortuna vuole,
Vede passando lei, che si querela,
E fa voltare à quel camin la vela.
Tosto, che Bacco almo, e giocondo intende
In giovane si bella i vaghi lumi,
Et ode il gran dolor, ch’entro l’offende,
E vede gli occhi suoi stillarsi in fiumi,
E sente, che la sua stirpe discende
Da due si chiari, e gloriosi Numi,
Di lei s’infiamma, e la conforta, e prega,
Tanto, ch’à fine al suo voler la piega.
È ver, che da principio, come quella,
Che la fede de l’huom provata havea,
Si mostrò ver Lieo cruda, e rubella,
E poco del suo amor conto tenea.
Ma Bacco, che disposto era d’havella,
Chiamò la bella, et amorosa Dea
A le sue nozze, e à ei la cura diede
Di dispor la donzella à nova fede.
Venere, che di Bacco è sempre amica,
Et è senz’esso men vezzosa, e calda,
La donna allhor del novo amor nemica
Con preghi, e sguardi pij move, e riscalda.
La piaga, ch’ella havea d’amore antica,
La Dea di propria man medica, e salda:
E poi con ogni suo più caldo affetto
Cerca con novo stral piagarle il petto.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
E per mostrare à Bacco, che se bene
È la sposa, ch’ei vuol, nipote al Sole,
Non però verso lei quell’odio tiene,
Che ver l’altre ha de la medesma prole:
E per dotar di più fondata spene
La donna, mentre anchor ceder non vuole,
Una bella corona al suo crin toglie,
E n’orna il capo à lei, che vuol far moglie.
Questa corona havea fatta Vulcano
Co ’l lavor, ch’ei sapea più diligente,
E v’havea poste intorno di sua mano
Le più pregiate gemme d’Oriente.
Ne v’era in tutto il regno almo, e sovrano
Piu pretioso don, più risplendente.
E ben da creder s’ha, poi che ei con fine
La fe d’ornarne à la sua donna il crine.
Per un tempo non crede, anzi contende
La giovane del Principe Ditteo,
Ma à tanti preghi, e doni al fin s’arrende
Da Venere instigata, e da Lieo.
De lo Dio sempre giovane s’accende,
E de l’amor si scorda di Teseo.
La sposa Bacco, e ascoso il maggior lume,
Felici fa di lei le proprie piume,
Per contentarla più Bacco poi volse
Far sempre il nome suo splender nel cielo,
E l’aurea sua corona al bel crin tolse,
Et à farla immortal rivoltò il zelo:
Al ciel ver quella parte il braccio sciolse,
Onde Settentrion n’apporta il gielo,
Prese al ciel la corona il volo, e corse
Ver dove Arturo fa la guardia à l’Orse.
L’aurea corona al ciel più ogn’hor si spinge,
E di lume maggior se stessa informa,
E giunta appresso à quel, che ’l serpe stringe,
Ogni sua gemma in foco si trasforma.
Un fregio pien di stelle hor la dipinge,
E di corona anchor ritien la forma
Là, dove quando il Sol la notte appanna,
La vede il mondo, e chiama d’Arianna.
Vinto c’hebbe Teseo l’alto periglio,
E dal tributo liberata Athene;
Dedalo havendo in odio il lungo essiglio,
E Creta, e ’l Re Ditteo, che ve ’l ritiene;
A pensar cominciò, con qual consiglio
Potrebbe torsi alle Cretensi arene,
Che ’l Re l’amò per lo suo raro ingegno,
Ne ’l volle mai lasciar partir del regno.
Dedalo già da la Palladia terra
Fu d’un sublime ingegno al mondo dato,
E già battè d’un’alta rocca in terra
Un fanciul d’una sua sorella nato:
Ma non volle però mandar sotterra
Tanto alto ingegno l’Attico Senato;
Ma la debita pena moderando,
Gli diè da la città perpetuo bando.
Era il regno di Creta allhora amico,
E collegato à l’Attico governo,
Ch’Athene anchor con animo nemico
Androgeo non havea dato à l’inferno.
Hor dovendo lasciare il seggio antico
Dedalo, e gire in un paese esterno,
Pensò d’andare à la Cretense corte,
E presso à tanto Re tentar la sorte.
Più d’una statua al saggio Imperadore
Di sua man fabricò, che parea viva,
Per poter gratia un dì co ’l suo favore
Dal bando haver, che de la patria il priva.
Ma come il Re conobbe il suo valore,
E l’arte sua miracolosa, e diva,
In tanto amore, in tanta gratia il tolse,
Ch’indi lasciar partir giamai no ’l volse.
Ma Dedalo, ch’ardea di ritornare
Al patrio sen, quanto potea più presto,
Fra se discorre di voler tentare,
S’appresso à un’altro Re può ottener questo.
Ne l’Asia egli vorria poter passare,
E quivi il suo valor far manifesto,
E poi per mezzo della sua virtute
Impetrar gratia per la sua salute.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||139}}</noinclude><poem>
Ma chiuso era dal mar; ne alcun su ’l legno
Torre il volea per lo real sospetto.
Ah dove è (disse) il mio solito ingegno?
Dunque io starò qui seco al mio dispetto?
Possieda pur la terra, e ’l salso regno
Quel Re, ch’à tutti ha il mio partir disdetto;
Il ciel già non possiede, e per lo cielo
Portar vo in aria il mio terrestre velo.
Pon tutta à questo fin la mente, e l’arte,
E di passar ne l’Asia in tutto vago,
Come può torsi à la Cretense parte
Pensa, e passar si spatioso lago.
De gli augei più veloci à parte à parte,
Comincia ad imitar la vera imago.
E d’alterare, di formar pon cura
Aerea, più che può, la sua natura.
I più veloci augelli spiuma, e spenna,
Che ’l volo han più sublime, e più lontano.
Pria comincia à investir la minor penna,
E và crescendo poi di mano in mano.
Tanto, che la maggior l’ascella impenna,
Impiuma la minor l’estrema mano.
Cosi il bicorne Dio par, che in un stringa
Di calami ineguai la sua siringa.
Con la cera, e col lin l’unisce, e lega,
E dove è d’huopo, le comparte, e serra.
Indi con man le curva alquanto, e piega
Imitando ogni augel, che men s’atterra.
Ne cosa al bel lavor ricusa, e nega,
Che ’l possa torre à l’odiosa terra.
E è ogni parte sua si ben distinta,
Che la natura par dà l’arte vinta.
Icaro un suo figliuol tutto contento
Guarda, come i fanciulli han per costume,
Se può imitare il padre: e se dal vento
Vede levate al ciel talhor le piume,
Corre lor dietro, e le raccoglie; e intento
Ferma nel bel lavoro il vago lume.
E la cera addolcendo, anch’ei s’adopra,
E studia d’imitar la paterna opra.
Non sapendo trattarsi il suo periglio
Si gioca intorno al padre, e si trastulla,
E co suoi giochi il curioso figlio
Talhor qualche disegno al padre annulla.
Poi che del fabro accorto il dotto ciglio
S’accorge, ch’al lavor non manca nulla,
Si veste l’ale industriose, e nove,
Che vuol veder le sue dannose prove.
Imita i veri augelli, e i vanni stende,
Et alza il corpo, indi il sostien sù l’ale,
E battendo le piume al cielo ascende,
Et gode, et si rallegra del suo male.
L’ale, che fe per Icaro, poi prende,
E glie le veste, e fa, ch’in aria sale.
E di volar gl’insegna, come sole
Fare ogni augello à la sua nova prole.
Come hanno insieme il ciel trascorso alquanto,
E ’l fabro d’ambi il vol sicuro scorge,
Discende in terra, e poi non senza pianto
Questo ricordo al miser figlio porge.
Vedi figliuol, che ’l novo aereo manto
Per l’aere, onde voliam, ne guida, e scorge,
E condurranne in breve al lito amato,
Se saprem conservarlo in questo stato.
Prendere il volo à mezzo aere convienne,
Che se ci aviciniam soverchio al mare,
La piuma graverà, la qual sostiene,
E ne torrà la forza del volare.
Ma se troppo à l’in sù battiam le penne,
La cera il Sol farà tutta disfare,
E disgiungendo à noi le penne unite,
Farà caderne in grembo ad Anfitrite.
Drizza continuo al mio volar la luce,
Ch’io sò per l’alto ciel le vie per tutto,
Dove Orion, dove Calisto luce,
E dove del mio vol posso trar frutto.
Dapoi, che ’l troppo coraggioso duce
Hebbe de suoi ricordi il figlio instrutto,
Mentre baciollo, e gli assettò le piume,
La man tremogli, e lagrimogli il lume.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|146}}</noinclude><poem>
Ma chiuso era dal mar; ne alcun su ’l legno
Torre il volea per lo real sospetto.
Ah dove è (disse) il mio solito ingegno?
Dunque io starò qui seco al mio dispetto?
Possieda pur la terra, e ’l salso regno
Quel Re, ch’à tutti ha il mio partir disdetto;
Il ciel già non possiede, e per lo cielo
Portar vo in aria il mio terrestre velo.
Pon tutta à questo fin la mente, e l’arte,
E di passar ne l’Asia in tutto vago,
Come può torsi à la Cretense parte
Pensa, e passar si spatioso lago.
De gli augei più veloci à parte à parte,
Comincia ad imitar la vera imago.
E d’alterare, di formar pon cura
Aerea, più che può, la sua natura.
I più veloci augelli spiuma, e spenna,
Che ’l volo han più sublime, e più lontano.
Pria comincia à investir la minor penna,
E và crescendo poi di mano in mano.
Tanto, che la maggior l’ascella impenna,
Impiuma la minor l’estrema mano.
Cosi il bicorne Dio par, che in un stringa
Di calami ineguai la sua siringa.
Con la cera, e col lin l’unisce, e lega,
E dove è d’huopo, le comparte, e serra.
Indi con man le curva alquanto, e piega
Imitando ogni augel, che men s’atterra.
Ne cosa al bel lavor ricusa, e nega,
Che ’l possa torre à l’odiosa terra.
E è ogni parte sua si ben distinta,
Che la natura par dà l’arte vinta.
Icaro un suo figliuol tutto contento
Guarda, come i fanciulli han per costume,
Se può imitare il padre: e se dal vento
Vede levate al ciel talhor le piume,
Corre lor dietro, e le raccoglie; e intento
Ferma nel bel lavoro il vago lume.
E la cera addolcendo, anch’ei s’adopra,
E studia d’imitar la paterna opra.
Non sapendo trattarsi il suo periglio
Si gioca intorno al padre, e si trastulla,
E co suoi giochi il curioso figlio
Talhor qualche disegno al padre annulla.
Poi che del fabro accorto il dotto ciglio
S’accorge, ch’al lavor non manca nulla,
Si veste l’ale industriose, e nove,
Che vuol veder le sue dannose prove.
Imita i veri augelli, e i vanni stende,
Et alza il corpo, indi il sostien sù l’ale,
E battendo le piume al cielo ascende,
Et gode, et si rallegra del suo male.
L’ale, che fe per Icaro, poi prende,
E glie le veste, e fa, ch’in aria sale.
E di volar gl’insegna, come sole
Fare ogni augello à la sua nova prole.
Come hanno insieme il ciel trascorso alquanto,
E ’l fabro d’ambi il vol sicuro scorge,
Discende in terra, e poi non senza pianto
Questo ricordo al miser figlio porge.
Vedi figliuol, che ’l novo aereo manto
Per l’aere, onde voliam, ne guida, e scorge,
E condurranne in breve al lito amato,
Se saprem conservarlo in questo stato.
Prendere il volo à mezzo aere convienne,
Che se ci aviciniam soverchio al mare,
La piuma graverà, la qual sostiene,
E ne torrà la forza del volare.
Ma se troppo à l’in sù battiam le penne,
La cera il Sol farà tutta disfare,
E disgiungendo à noi le penne unite,
Farà caderne in grembo ad Anfitrite.
Drizza continuo al mio volar la luce,
Ch’io sò per l’alto ciel le vie per tutto,
Dove Orion, dove Calisto luce,
E dove del mio vol posso trar frutto.
Dapoi, che ’l troppo coraggioso duce
Hebbe de suoi ricordi il figlio instrutto,
Mentre baciollo, e gli assettò le piume,
La man tremogli, e lagrimogli il lume.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|139}}</noinclude><poem>
Ma chiuso era dal mar; ne alcun su ’l legno
Torre il volea per lo real sospetto.
Ah dove è (disse) il mio solito ingegno?
Dunque io starò qui seco al mio dispetto?
Possieda pur la terra, e ’l salso regno
Quel Re, ch’à tutti ha il mio partir disdetto;
Il ciel già non possiede, e per lo cielo
Portar vo in aria il mio terrestre velo.
Pon tutta à questo fin la mente, e l’arte,
E di passar ne l’Asia in tutto vago,
Come può torsi à la Cretense parte
Pensa, e passar si spatioso lago.
De gli augei più veloci à parte à parte,
Comincia ad imitar la vera imago.
E d’alterare, di formar pon cura
Aerea, più che può, la sua natura.
I più veloci augelli spiuma, e spenna,
Che ’l volo han più sublime, e più lontano.
Pria comincia à investir la minor penna,
E và crescendo poi di mano in mano.
Tanto, che la maggior l’ascella impenna,
Impiuma la minor l’estrema mano.
Cosi il bicorne Dio par, che in un stringa
Di calami ineguai la sua siringa.
Con la cera, e col lin l’unisce, e lega,
E dove è d’huopo, le comparte, e serra.
Indi con man le curva alquanto, e piega
Imitando ogni augel, che men s’atterra.
Ne cosa al bel lavor ricusa, e nega,
Che ’l possa torre à l’odiosa terra.
E è ogni parte sua si ben distinta,
Che la natura par dà l’arte vinta.
Icaro un suo figliuol tutto contento
Guarda, come i fanciulli han per costume,
Se può imitare il padre: e se dal vento
Vede levate al ciel talhor le piume,
Corre lor dietro, e le raccoglie; e intento
Ferma nel bel lavoro il vago lume.
E la cera addolcendo, anch’ei s’adopra,
E studia d’imitar la paterna opra.
Non sapendo trattarsi il suo periglio
Si gioca intorno al padre, e si trastulla,
E co suoi giochi il curioso figlio
Talhor qualche disegno al padre annulla.
Poi che del fabro accorto il dotto ciglio
S’accorge, ch’al lavor non manca nulla,
Si veste l’ale industriose, e nove,
Che vuol veder le sue dannose prove.
Imita i veri augelli, e i vanni stende,
Et alza il corpo, indi il sostien sù l’ale,
E battendo le piume al cielo ascende,
Et gode, et si rallegra del suo male.
L’ale, che fe per Icaro, poi prende,
E glie le veste, e fa, ch’in aria sale.
E di volar gl’insegna, come sole
Fare ogni augello à la sua nova prole.
Come hanno insieme il ciel trascorso alquanto,
E ’l fabro d’ambi il vol sicuro scorge,
Discende in terra, e poi non senza pianto
Questo ricordo al miser figlio porge.
Vedi figliuol, che ’l novo aereo manto
Per l’aere, onde voliam, ne guida, e scorge,
E condurranne in breve al lito amato,
Se saprem conservarlo in questo stato.
Prendere il volo à mezzo aere convienne,
Che se ci aviciniam soverchio al mare,
La piuma graverà, la qual sostiene,
E ne torrà la forza del volare.
Ma se troppo à l’in sù battiam le penne,
La cera il Sol farà tutta disfare,
E disgiungendo à noi le penne unite,
Farà caderne in grembo ad Anfitrite.
Drizza continuo al mio volar la luce,
Ch’io sò per l’alto ciel le vie per tutto,
Dove Orion, dove Calisto luce,
E dove del mio vol posso trar frutto.
Dapoi, che ’l troppo coraggioso duce
Hebbe de suoi ricordi il figlio instrutto,
Mentre baciollo, e gli assettò le piume,
La man tremogli, e lagrimogli il lume.
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Poi c’ha mostrati i suoi propinqui danni
Al figlio, fa, che seco in aria ascende.
E batte verso Ionia i novi vanni,
Che dismontar sopra quel regno intende.
Non credendo il figliuol d’accortar gli anni,
Il medesmo camin per l’aria prende.
Lascia Ritinna Dedalo, e s’invia,
E passa sopra l’isola di Dia.
Il pescator, che su lo scoglio siede,
E la tremante canna, e l’hamo adopra,
Stupisce di quegli huomini, che vede
Con l’ale, come augei, volar di sopra.
Fà fermare il bifolco à tori il piede,
E per mirargli lascia il solco, e l’opra.
Tutti per rimirargli alzano i lumi,
Conchiudon poi, che sian celesti Numi.
Già sopra Paro havea snello, e leggiero
E questi, e quei l’aure celesti prese,
Quando del volo audace Icaro altero,
De la vista del ciel troppo s’accese;
E spinto in sù dal giovinil pensiero,
Troppo vicino al Sol le penne stese.
S’accostò troppo à la diurna luce,
E lasciò mal per lui l’incauto Duce.
Il sole il dorso al giovane percuote,
E le composte cere abbrucia, e fonde:
In van l’ignude braccia Icaro scuote,
S’aiuta in van per non cader ne l’onde.
L’aure con l’ale più prender non puote,
E cade, e chiama il padre, e ’l mar l’asconde.
Vicino à terra fur l’Icarie some
Tolte dal mar, ch’à lui tolse anche il nome.
Intanto l’infelice padre il ciglio,
Come spesso solea, rivolge indietro,
E quando in aria più non vede il figlio,
Con mesto il chiama, e lagrimevol metro.
E mentre biasma l’arte, e ’l suo consiglio,
Vede notar su ’l liquefatto vetro
La piuma, che ne l’aria no ’l sostenne,
Perche vicino al ciel troppo si tenne.
Del poco cupo mar vicino al lido
Piangendo il fabro il suo fanciullo tolse,
E l’isola, ove il suo funebre nido
Fondogli, il nome anchor d’Icaro volse.
Mentre il chiudea nel marmo, allegra un grido
Una starna, che ’l vide in aria, sciolse:
Ne sol di tanto mal si mosse à pieta,
Ma mostro à molti segni esserne lieta.
Ben con ragion de tuoi pianti funesti
S’allegra quell’augel, che t’ode, e vede,
Dedalo, che sai quanto l’offendesti,
E quanta infamia il mondo te ne diede.
Ben ti sovien, che già un nipote havesti,
Che fidò tua sorella à la tua fede.
Quest’è l’augel, che del tuo mal si gode,
Per la tua crudeltà, per la tua frode.
Mostrò questo figliuol si raro ingegno,
Che diè la madre al fabro ingiusto, e rio,
Ch’ogn’un facea giudicio, che più degno
Stato saria del suo maestro, e zio.
Dodici volte stato era nel segno
Del suo ascendente il luminoso Dio,
Quando ei fu dato al zio crudele in mano,
Perch’apprendesse l’arte di Vulcano.
Si bene in breve il buon fanciullo intese
La forza de la lima, e del martello,
Che fe stupir il mastro ogni hor, ch’intese
Gli occhi nel suo lavor pregiato, e bello.
Ma quel, che l’empio zio d’invidia accese,
E contra il sangue proprio il fe rubello;
Fur due, ch’uscir del fanciullesco senno,
Stormenti ignoti al fabro anchor di Lenno.
Nota più volte la dentata spina,
Che nel mezzo del dosso il pesce fende,
E con la mente sua quasi divina
A quel, che può servir, l’essempio intende.
Al fin dà lieto il foco à la fucina,
Poi con la force il ferro acceso prende:
Sopra l’incude poi tanto il castiga,
Che ’l fa venire in forma d’una riga.
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Poi con la dotta, e industriosa lima
Vi va formando un dopo l’altro il dente.
La tempra indi gli dà, che idonea stima,
E ne l’onde il fa entrar rosso, e lucente.
Su qualche debil legno il prova prima,
E trova, che ’l suo ingegno à lui non mente.
Anzi, che tal virtù nel suo dente have,
Che sega il sasso, e la nodosa trave.
Due ferri eguali poi da un capo avinse,
Che la forma tenean quasi del chiodo,
E dal lato più grosso in un gli strinse,
Con un soave, e maestrevol nodo.
Co i lati acuti il cerchio poi dipinse,
E di farlo perfetto aperse il modo,
Tenendo di quei due stabile un corno,
E con l’altro tirando il cerchio intorno.
Verso il maestro suo tutto contento
Il semplice fanciullo affretta il passo,
Per palesargli il nobile stormento,
Che parte agevolmente il legno, e ’l sasso.
E, perche vegga come in un momento,
Può far perfetto il cerchio co ’l compasso:
E dove haverne honore, e lode intese,
D’invidia, e crudeltate il fabro accese.
L’invidia il core al zio distrugge, e rode,
Che vede ben, che ’l suo veloce ingegno
Havrà maggior honor co ’l tempo, e lode
Di lui, ch’allhor tenuto era il più degno.
Pur loda il suo discipulo, e con frode
Cerca di darlo al sotterraneo regno.
Ne la rocca di Palla un dì l’afferra,
E da la maggior cima il gitta in terra.
Ma Palla, ch’ama ogni raro intelletto,
Che cerca dar qualche nov’arte al mondo,
Li cangiò in aria il suo primiero aspetto,
Perche non gisse à ritrovare il fondo.
E vestendo di piume il braccio, e ’l petto,
Sostenne in aria il suo terrestre pondo.
E del veloce ingegno il raro acume
Fe trasportar ne’ piedi, e ne le piume.
Perdice pria, che trasformasse il ciglio,
Nomossi, e ’l proprio nome anchor poi tenne.
E, perche le sovien del suo periglio,
Non osa troppo al ciel levar le penne.
Il nido suo dal rostro, e da l’artiglio
Fatto l’abete altier mai non sostenne.
Teme i troppo elevati arbori, e l’uova
In terra entro à le siepi asconde, e cova.
Si che se s’allegrò del crudo scempio
La starna, che ’l dolor del fabro udio,
N’hebbe cagion, che fu ver lei troppo empio,
Mentre ella fu fanciullo, il crudo zio.
Poi che ’l padre fe dir l’essequie al tempio,
Quanto al primo camin cangiò desio,
E ver l’isola pia prese la strada,
Ch’altera è anchor de la più nobil biada.
A l’amata Sicilia al fine arriva
Stanco già di volar Dedalo, dove
Del volo, e de le penne il dosso priva,
Ne d’huopo gli è d’andar cercando altrove.
Che quivi appresso al Re talmente è viva
La fama de le sue stupende prove,
E con tal premio Cocalo il ritiene,
Che riveder più non si cura Athene.
Teseo al suo regno intanto era venuto,
Ú trionfò di gemme adorno, e d’auro,
C’havea dal lagrimevole tributo
Sciolta la patria, e ucciso il Minotauro.
Onde honorato il suo nome, e temuto
Glorioso ne gia da l’Indo al Mauro,
E in somma ogni republica, ogni regno,
Teneva lui fra più forti il più degno.
Hor mentre i santi sacrificij fanno
Ne la prudente Athene in varij lochi,
Et in honor de gli Dei celesti danno
Mirra, et incenso à mille altari, e fochi;
E dopo allegri il dì passando vanno
In conviti, in theatri, e in varij giochi;
Giunge un’ambasciatore, e invita il figlio
D’Egeo d’esporsi à non minor periglio.
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Poi con la dotta, e industriosa lima
Vi va formando un dopo l’altro il dente.
La tempra indi gli dà, che idonea stima,
E ne l’onde il fa entrar rosso, e lucente.
Su qualche debil legno il prova prima,
E trova, che ’l suo ingegno à lui non mente.
Anzi, che tal virtù nel suo dente have,
Che sega il sasso, e la nodosa trave.
Due ferri eguali poi da un capo avinse,
Che la forma tenean quasi del chiodo,
E dal lato più grosso in un gli strinse,
Con un soave, e maestrevol nodo.
Co i lati acuti il cerchio poi dipinse,
E di farlo perfetto aperse il modo,
Tenendo di quei due stabile un corno,
E con l’altro tirando il cerchio intorno.
Verso il maestro suo tutto contento
Il semplice fanciullo affretta il passo,
Per palesargli il nobile stormento,
Che parte agevolmente il legno, e ’l sasso.
E, perche vegga come in un momento,
Può far perfetto il cerchio co ’l compasso:
E dove haverne honore, e lode intese,
D’invidia, e crudeltate il fabro accese.
L’invidia il core al zio distrugge, e rode,
Che vede ben, che ’l suo veloce ingegno
Havrà maggior honor co ’l tempo, e lode
Di lui, ch’allhor tenuto era il più degno.
Pur loda il suo discipulo, e con frode
Cerca di darlo al sotterraneo regno.
Ne la rocca di Palla un dì l’afferra,
E da la maggior cima il gitta in terra.
Ma Palla, ch’ama ogni raro intelletto,
Che cerca dar qualche nov’arte al mondo,
Li cangiò in aria il suo primiero aspetto,
Perche non gisse à ritrovare il fondo.
E vestendo di piume il braccio, e ’l petto,
Sostenne in aria il suo terrestre pondo.
E del veloce ingegno il raro acume
Fe trasportar ne’ piedi, e ne le piume.
Perdice pria, che trasformasse il ciglio,
Nomossi, e ’l proprio nome anchor poi tenne.
E, perche le sovien del suo periglio,
Non osa troppo al ciel levar le penne.
Il nido suo dal rostro, e da l’artiglio
Fatto l’abete altier mai non sostenne.
Teme i troppo elevati arbori, e l’uova
In terra entro à le siepi asconde, e cova.
Si che se s’allegrò del crudo scempio
La starna, che ’l dolor del fabro udio,
N’hebbe cagion, che fu ver lei troppo empio,
Mentre ella fu fanciullo, il crudo zio.
Poi che ’l padre fe dir l’essequie al tempio,
Quanto al primo camin cangiò desio,
E ver l’isola pia prese la strada,
Ch’altera è anchor de la più nobil biada.
A l’amata Sicilia al fine arriva
Stanco già di volar Dedalo, dove
Del volo, e de le penne il dosso priva,
Ne d’huopo gli è d’andar cercando altrove.
Che quivi appresso al Re talmente è viva
La fama de le sue stupende prove,
E con tal premio Cocalo il ritiene,
Che riveder più non si cura Athene.
Teseo al suo regno intanto era venuto,
Ú trionfò di gemme adorno, e d’auro,
C’havea dal lagrimevole tributo
Sciolta la patria, e ucciso il Minotauro.
Onde honorato il suo nome, e temuto
Glorioso ne gia da l’Indo al Mauro,
E in somma ogni republica, ogni regno,
Teneva lui fra più forti il più degno.
Hor mentre i santi sacrificij fanno
Ne la prudente Athene in varij lochi,
Et in honor de gli Dei celesti danno
Mirra, et incenso à mille altari, e fochi;
E dopo allegri il dì passando vanno
In conviti, in theatri, e in varij giochi;
Giunge un’ambasciatore, e invita il figlio
D’Egeo d’esporsi à non minor periglio.
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Poi con la dotta, e industriosa lima
Vi va formando un dopo l’altro il dente.
La tempra indi gli dà, che idonea stima,
E ne l’onde il fa entrar rosso, e lucente.
Su qualche debil legno il prova prima,
E trova, che ’l suo ingegno à lui non mente.
Anzi, che tal virtù nel suo dente have,
Che sega il sasso, e la nodosa trave.
Due ferri eguali poi da un capo avinse,
Che la forma tenean quasi del chiodo,
E dal lato più grosso in un gli strinse,
Con un soave, e maestrevol nodo.
Co i lati acuti il cerchio poi dipinse,
E di farlo perfetto aperse il modo,
Tenendo di quei due stabile un corno,
E con l’altro tirando il cerchio intorno.
Verso il maestro suo tutto contento
Il semplice fanciullo affretta il passo,
Per palesargli il nobile stormento,
Che parte agevolmente il legno, e ’l sasso.
E, perche vegga come in un momento,
Può far perfetto il cerchio co ’l compasso:
E dove haverne honore, e lode intese,
D’invidia, e crudeltate il fabro accese.
L’invidia il core al zio distrugge, e rode,
Che vede ben, che ’l suo veloce ingegno
Havrà maggior honor co ’l tempo, e lode
Di lui, ch’allhor tenuto era il più degno.
Pur loda il suo discipulo, e con frode
Cerca di darlo al sotterraneo regno.
Ne la rocca di Palla un dì l’afferra,
E da la maggior cima il gitta in terra.
Ma Palla, ch’ama ogni raro intelletto,
Che cerca dar qualche nov’arte al mondo,
Li cangiò in aria il suo primiero aspetto,
Perche non gisse à ritrovare il fondo.
E vestendo di piume il braccio, e ’l petto,
Sostenne in aria il suo terrestre pondo.
E del veloce ingegno il raro acume
Fe trasportar ne’ piedi, e ne le piume.
Perdice pria, che trasformasse il ciglio,
Nomossi, e ’l proprio nome anchor poi tenne.
E, perche le sovien del suo periglio,
Non osa troppo al ciel levar le penne.
Il nido suo dal rostro, e da l’artiglio
Fatto l’abete altier mai non sostenne.
Teme i troppo elevati arbori, e l’uova
In terra entro à le siepi asconde, e cova.
Si che se s’allegrò del crudo scempio
La starna, che ’l dolor del fabro udio,
N’hebbe cagion, che fu ver lei troppo empio,
Mentre ella fu fanciullo, il crudo zio.
Poi che ’l padre fe dir l’essequie al tempio,
Quanto al primo camin cangiò desio,
E ver l’isola pia prese la strada,
Ch’altera è anchor de la più nobil biada.
A l’amata Sicilia al fine arriva
Stanco già di volar Dedalo, dove
Del volo, e de le penne il dosso priva,
Ne d’huopo gli è d’andar cercando altrove.
Che quivi appresso al Re talmente è viva
La fama de le sue stupende prove,
E con tal premio Cocalo il ritiene,
Che riveder più non si cura Athene.
Teseo al suo regno intanto era venuto,
Ú trionfò di gemme adorno, e d’auro,
C’havea dal lagrimevole tributo
Sciolta la patria, e ucciso il Minotauro.
Onde honorato il suo nome, e temuto
Glorioso ne gia da l’Indo al Mauro,
E in somma ogni republica, ogni regno,
Teneva lui fra più forti il più degno.
Hor mentre i santi sacrificij fanno
Ne la prudente Athene in varij lochi,
Et in honor de gli Dei celesti danno
Mirra, et incenso à mille altari, e fochi;
E dopo allegri il dì passando vanno
In conviti, in theatri, e in varij giochi;
Giunge un’ambasciatore, e invita il figlio
D’Egeo d’esporsi à non minor periglio.
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Il darsi Teseo à dure imprese spesso,
La fama, che per tutto i vanni stese,
Oprò, che ’l Re di Calidonia oppresso
Da un grave danno in suo soccorso il chiese.
Hor come giunse il Calidonio messo,
E ’l forte Teseo il lor bisogno intese,
Tutta havendo à l’honor la mente accesa,
Lieto s’accinse à la proposta impresa.
Guasta, e distrugge il Calidonio campo
Un troppo crudo, un troppo horribil mostro,
Incontra al cui furor non trova scampo
Ne ingegno human, ne fero artiglio, ò rostro.
Armar già i Calidonij più d’un campo
Per fargli l’alma uscir del carnal chiostro,
E sempre rotti fur dal dente fello,
Che di Diana fu sferza, e flagello.
Eneo, che quivi havea lo scettro in mano,
In troppo grande error lasciò caderse.
Diede à gli Dei le lor primitie, e ’l grano
A la Trinacria Dea nel tempio offerse.
Fè, c’hebbe il primo vin lo Dio Thebano,
E subito, ch’in olio si converse
La prima oliva, andò con pompa, e fede,
Et al Palladio altar l’offerse, e diede.
L’ambitioso honor corse, e pervenne
Di tempo in tempo à i lumi alti del cielo,
Et ogni Dio ne la memoria tenne
Del devoto cultor l’amore, e ’l zelo.
Gl’incensi, e fochi pij sol non ottenne
L’altar de l’alma Dea, che nacque in Delo.
Sdegnata ella contra Eneo i lumi fisse,
(Che l’ira anchor gli Dei perturba) e disse.
Benche sola io non honorata vada,
Non però andar non vendicata voglio;
Ma ben, che la tua ingrata empia contrada
Provi il furor del mio sdegnato orgoglio
E in vece de la sua vendetta, e spada
Mandò per general danno, e cordoglio,
Un Cinghial cosi fier, di tal possanza,
Che di gran lunga ogni credenza avanza.
L’herbosa Epiro, ò altro humido loco
Toro non vide mai di tanta altezza.
Sfavilla il guardo altier di sangue, e foco,
La dura aspra cervice ogni arme sprezza.
La spuma con grugnir superbo, e roco
Fà il dente, ch’ogni acciar più duro spezza:
Che non invidia a l’Indico Elefante,
Che di durezza vince ogni diamante.
Sembran le sete una battaglia stretta,
Quando han le squadre al ciel l’arbore alzato.
Spira la bocca il foco, e la saetta,
E i frutti, e gli animai strugge co ’l fiato.
Contra Cerere irato il corso affretta,
E le toglie la spiga, e ’l seme amato.
E ’l granaio, che vacuo si ritrova,
Digiuno aspetta in van la messe nova.
Il superbo Cinghial corre per tutto
Di Calidonia il miserabil regno,
E togliendo à Lieo maturo il frutto,
Priva i mortai del lor liquor più degno.
Volge come ha Lieo rotto, e distrutto
Contra l’Attica Dea l’ira, e lo sdegno,
E fà, che nega il censo à la sua Diva,
Che maturò per lei la grata oliva.
Cerere, e Bacco, e Palla abbatte, e sforza,
E distrugge, e disfà con ugual legge;
Poi senza l’alma fa restar la scorza
De le non forti, e fruttuose gregge.
Ne mastin, ne pastor, ne darte, ò forza
A tanto horrore, à tanta furia regge.
Ne gl’indomiti tori, e d’ira ardenti
Difender ponno i più superbi armenti.
Al popol non val più forza, ò consiglio,
Ma corre, dove il caccia la paura,
Ne la forte città fugge il periglio,
Ne sicuro si tien dentro à le mura.
Pur d’Eneo al fine il coraggioso figlio
Di torre il mostro al dì si prese cura.
E l’Achea gioventù ragunar feo,
Fra quai l’ambasciator chiamò Teseo.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||141}}</noinclude><poem>
Fu Meleagro, il giovinetto altero,
Figlio d’Eneo nomato, il qual s’accinse
Per tor di vita il mostro horrendo, e fero,
E l’Achea nobiltà tutta vi spinse.
Ogni famoso in Grecia cavaliero
Contra il mostro infelice il ferro strinse,
Fra quali andò quel, che si fe bifolco
Allhor, che tolse il vello, e l’oro à Colco.
Il gemino valor, c’hoggi in ciel luce
Dal zelo de l’honor suaso, e spinto,
Vi corse, io dico Castore, e Polluce,
Peritoo anchor di vero amore avinto
A quello invitto, e glorioso Duce,
Che superò l’error del laberinto.
L’altier Leucippo, e Acasto il fier vi venne,
Ch’al trar del dardo il primo loco ottenne.
Il Signor de la caccia anchor vi chiede
Plessippo il foste, e ’l suo fratel Tosseo,
Et Ida altier del suo veloce piede,
E ’l fier Linceo, che nacque d’Afareo,
E quello, al quale un’altra forma diede
Nettuno, già donzella, et hor Ceneo.
Quel Dio la trasse al coniugal trastullo,
E ’n ricompensa poi la fe fanciullo.
Ecco vi giunge Hippotoo con Driante,
E con Fenice à questa impresa arride.
Volse à questo camin con lor le piante
Menetio, e Fileo, ilqual nacque in Elide.
E con Ameto l’Iolao Hiante,
E da la moglie anchor sicuro Eclide.
Eurithion vi fe di poi tragitto,
Con Echion, che fu nel corso invitto.
Non men Lelege, e Hileo drizzan la fronte
Per riparare à Calidonij danni.
Et Hippalo, et Anceo dal Ligio monte,
Corre à provar come il Cinghiale azzanni.
E Panopeo co i due d’Hippocoonte
Figli, e ’l saggio Nestor ne’ suoi prim’anni.
Laerte, et Mopso, e poi con altri mille
Telamon giunse, e ’l gran padre d’Achille.
Al fin la bella vergine Atalanta
Desio d’honore à questa impresa accende.
Veste succinta, e lucida l’ammanta,
Che di varij color tutta risplende.
Vien con maniera in un gioconda, e santa,
Et in favor del Re si mostra, e rende.
L’arco, e l’andar promette, e ’l bello aspetto
In giovinil valore alto intelletto.
Se ben la vista ell’ha vergine, e bella,
Non l’hà del tutto molle, e feminile;
Ma ogni sua parte fuor, che la favella,
Par d’un fanciullo ingenuo, almo, e gentile.
Nel volto impresso par d’una donzella
Narciso il bel nel suo più verde Aprile:
Rassembra à tutti un natural Narciso,
Ch’impressa una donzella habbia nel viso.
Scheneo diè già questa fanciulla al mondo,
Tre lustri pria ne la città Tegea.
Come vede quel viso almo, e giocondo
Il figlio altier de la crudele Altea,
Sente passar per gli occhi al cor profondo
La fiamma del figliuol di Citherea.
Ben potrà, dice, quei lodar sua sorte,
S’ella alcun degnerà farsi consorte.
Ma l’opra, ove l’honor lo sprona, e spinge,
Dal suo maggior piacer l’invola, e svia,
Contra il crudo nemico il ferro stringe,
E per diversi calli ogn’un v’invia.
Tutta d’intorno una gran selva cinge,
Ch’eletta per sua stanza il verre havia.
De l’empia tana sua tengon le chiavi
Le folte spine, e l’elevate travi.
L’antica selva insino al ciel s’estolle,
Et una larga valle asconde, e chiude.
La pioggia, c’ha da questo, e da quel colle
Vi conserva nel mezzo una palude.
Là dove il giunco delicato, e molle
Forma le verghe sue di fronda ignude.
Quivi fra salci, e fra palustri canne
Stavano allhor l’insidiose zanne.
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Alex brollo
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Fu Meleagro, il giovinetto altero,
Figlio d’Eneo nomato, il qual s’accinse
Per tor di vita il mostro horrendo, e fero,
E l’Achea nobiltà tutta vi spinse.
Ogni famoso in Grecia cavaliero
Contra il mostro infelice il ferro strinse,
Fra quali andò quel, che si fe bifolco
Allhor, che tolse il vello, e l’oro à Colco.
Il gemino valor, c’hoggi in ciel luce
Dal zelo de l’honor suaso, e spinto,
Vi corse, io dico Castore, e Polluce,
Peritoo anchor di vero amore avinto
A quello invitto, e glorioso Duce,
Che superò l’error del laberinto.
L’altier Leucippo, e Acasto il fier vi venne,
Ch’al trar del dardo il primo loco ottenne.
Il Signor de la caccia anchor vi chiede
Plessippo il foste, e ’l suo fratel Tosseo,
Et Ida altier del suo veloce piede,
E ’l fier Linceo, che nacque d’Afareo,
E quello, al quale un’altra forma diede
Nettuno, già donzella, et hor Ceneo.
Quel Dio la trasse al coniugal trastullo,
E ’n ricompensa poi la fe fanciullo.
Ecco vi giunge Hippotoo con Driante,
E con Fenice à questa impresa arride.
Volse à questo camin con lor le piante
Menetio, e Fileo, ilqual nacque in Elide.
E con Ameto l’Iolao Hiante,
E da la moglie anchor sicuro Eclide.
Eurithion vi fe di poi tragitto,
Con Echion, che fu nel corso invitto.
Non men Lelege, e Hileo drizzan la fronte
Per riparare à Calidonij danni.
Et Hippalo, et Anceo dal Ligio monte,
Corre à provar come il Cinghiale azzanni.
E Panopeo co i due d’Hippocoonte
Figli, e ’l saggio Nestor ne’ suoi prim’anni.
Laerte, et Mopso, e poi con altri mille
Telamon giunse, e ’l gran padre d’Achille.
Al fin la bella vergine Atalanta
Desio d’honore à questa impresa accende.
Veste succinta, e lucida l’ammanta,
Che di varij color tutta risplende.
Vien con maniera in un gioconda, e santa,
Et in favor del Re si mostra, e rende.
L’arco, e l’andar promette, e ’l bello aspetto
In giovinil valore alto intelletto.
Se ben la vista ell’ha vergine, e bella,
Non l’hà del tutto molle, e feminile;
Ma ogni sua parte fuor, che la favella,
Par d’un fanciullo ingenuo, almo, e gentile.
Nel volto impresso par d’una donzella
Narciso il bel nel suo più verde Aprile:
Rassembra à tutti un natural Narciso,
Ch’impressa una donzella habbia nel viso.
Scheneo diè già questa fanciulla al mondo,
Tre lustri pria ne la città Tegea.
Come vede quel viso almo, e giocondo
Il figlio altier de la crudele Altea,
Sente passar per gli occhi al cor profondo
La fiamma del figliuol di Citherea.
Ben potrà, dice, quei lodar sua sorte,
S’ella alcun degnerà farsi consorte.
Ma l’opra, ove l’honor lo sprona, e spinge,
Dal suo maggior piacer l’invola, e svia,
Contra il crudo nemico il ferro stringe,
E per diversi calli ogn’un v’invia.
Tutta d’intorno una gran selva cinge,
Ch’eletta per sua stanza il verre havia.
De l’empia tana sua tengon le chiavi
Le folte spine, e l’elevate travi.
L’antica selva insino al ciel s’estolle,
Et una larga valle asconde, e chiude.
La pioggia, c’ha da questo, e da quel colle
Vi conserva nel mezzo una palude.
Là dove il giunco delicato, e molle
Forma le verghe sue di fronda ignude.
Quivi fra salci, e fra palustri canne
Stavano allhor l’insidiose zanne.
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Poi c’han la selva cinta d’ogni intorno
Gli uniti cacciatori arditi, e accorti;
Altri ripon fra l’uno, e l’altro corno
De la bicorne forca i lini attorti.
Altri cerca co i can, dove soggiorno
Facciano i denti ingiuriosi, e forti.
Altri cerca al suo honore altro consiglio,
E brama di trovare il suo periglio.
Segue Echion con molti altri la traccia
De’ bracchi, che n’han già l’odor sentito,
E fra i più folti spin si spinge, e caccia,
Tanto che giunge al paludoso lito.
Et ecco geme un can, latra, e minaccia,
Poi da molti altri è il suo gemer seguito,
Tanto che ’l gran baiar lor fede acquista,
Che l’empia belva han già trovata, e vista.
Tosto, che i cani ingiuriosi, e fidi
Indicio dan de la trovata belva,
Si senton mille corni, e mille stridi
In un tratto assordar tutta la selva.
Da tutti i lati à paludosi lidi
Si corre, e verso il verre ogn’un s’inselva.
E già di can si grosso stuolo è giunto,
Che d’ogni lato è minacciato, e punto.
Come ei vede de cani il crudo assedio,
E tante d’ogni intorno armate mani,
E sente i gridi, i corni, i morsi, e ’l tedio
Di tanti, ch’intorno ha, feroci alani;
Ricorre à l’ira, e al solito rimedio,
E altero investe huomini, et arme, e cani:
Et empio, e fello trasportar si lassa
Contra ogn’un, che ver lui lo spiedo abbassa.
Corre à l’irreparabile vendetta
Con tal furor lo spaventoso mostro,
Che sembra il foco, il tuono, e la saetta,
Che corra in un balen l’ethereo chiostro;
Quando à cacciare i nuvoli s’affretta
Da un lato l’Aquilon, da l’altro l’Ostro,
Esce de nembi il foco, e fiere, e stride:
Cosi vola il Cinghial, freme, et uccide.
Crucciato hor quinci, hor quindi adopra il dente
Nel cane, e ne l’acciar lucido, e bianco.
Ferito un veltro là gemer si sente,
E va leccando l’impiagato fianco.
Quel mastin tutto aperto fa un torrente
Di sangue, e giace, e geme, e viensi manco,
Si vede l’huom, che l’assaltò co ’l ferro,
Ferito, e l’acciar torto, e rotto il cerro.
Mentre correndo il porco i cani atterra,
E ’l bosco risonar fa d’alte strida,
Trassi Echion da parte, e ’l dardo afferra,
E ’l manda in aria, acciò che ’l mostro uccida.
Ma troppo in alto l’hasta da se sferra,
E passa sopra il perfido homicida;
D’acero dopo incontra un grosso piede,
E ’n vece del nemico un tronco fiede.
L’istesso avenne al guerrir di Tessaglia,
A quel, ch’al mar mostrò la prima nave:
Dal forte braccio impetuoso scaglia
Un dardo più mortifero, e più grave:
Forniva con quel colpo la battaglia
Se più basso feria l’acuta trave.
Passò di là dal porco empio, e selvaggio,
Insino à le medolle un grosso faggio.
Mopso figliuol d’Ampico, e Sacerdote
D’Apollo, al ciel la voce alza, e l’aspetto.
Febo, se l’hostie mie sante, e devote
Commosser unqua il tuo pietoso affetto,
Concedi à queste mie supplici note,
Ch’io primo impiaghi à l’inimico il petto.
Dar cerca al prego effetto il chiaro Nume,
Ma v’è chi tronca al suo desir le piume.
Come ha incoccato il Sacerdote il dardo,
E c’ha ben presa al suo ferir la mira,
Quanto può stende il braccio men gagliardo,
E più che può, co ’l destro il nervo tira.
Lo stral del divin folgore men tardo
Volando freme, e à la sua gloria aspira.
Ma tolse nel valor la Dea di Delo
L’acuto ferro à l’innocente telo.
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Lo stral senza la punta il mostro giunge,
Per torgli l’alma, e haverne il premio crede,
E gli dà ne la fronte, ma no ’l punge,
Che quel gli manca, onde forando fiede.
S’accresce l’ira al porco, e poco lunge
Eupalamon con più compagni vede,
Che fermi al varco stan co i ferri bassi,
Perche ’l nemico lor quindi non passi.
Ne’ lumi del Cinghiale arde, e risplende
L’ira, e dal cor profondo essala il foco.
Già contra i forti spiedi il corso stende,
Fremendo con grugnir superbo, e roco.
Et in un tempo istesso è offeso, e offende,
E al fin (mal grado lor) guadagna il loco.
È la lor forza à tanto horrore imbelle,
Ne può il ferro passar la dura pelle.
Le zanne altero arruota, e d’ira freme,
E manda Eupalamon ferito in terra,
Poi fa, che Pelagon talmente geme,
Che non ha più à temer de la sua guerra.
Lo stesso horrore, e stratio il figlio teme
Ippocoonte, e al corso si disserra:
L’arriva il mostro, e ’l punge nel tallone,
E manda l’alma sua sciolta à Plutone.
Se non havea Nestor l’occhio al suo scampo,
Non havria il terzo mai secolo scorto,
Non vedea mai d’intorno à Troia il campo,
Ma rimaneva in quella selva morto.
Andò il mostro crudel menando vampo
Contra Nestor fin da fanciullo accorto,
Ma saltò sopra un gran troncone à tempo,
Per non far torto al suo prefisso tempo.
E bene à tempo vi si trovò sopra,
Che giunto il mostro il guarda empio, e si sforza
Di fargli anchora oltraggio, e irato adopra
Il dente altier ne l’innocente scorza.
Veduto poi, ch’ei perde il tempo, e l’opra,
Rivolge contra i can l’ira, e la forza,
Che gli son sempre al fianco, ma si lunge,
Che l’infelice zanna non vi aggiunge.
Impetuoso il fier Cinghial gli assale,
E questo, e quel men destro azzanna, e uccide.
Infinito è il languor, ch’in aria sale
Di questo, e di quel can, che geme, e stride.
Con lo spiedo altre volte empio, e mortale
Orithia và ver le zanne homicide.
Ribatte il colpo il porco empio, e selvaggio,
E toglie al forte pugno il ferro, e ’l faggio.
Corre poi sopra il suo nemico, e ’l parte
Co ’l dente altier da genitali al petto,
E gli fà saltar fuor l’interna parte,
E morto il dona al sanguinoso letto.
I due fratei, che fra Mercurio, e Marte
Non haveano ancho il trasformato aspetto,
Gli eran con l’hasta in man tremuli à fianchi,
Su due destrier, via più che neve bianchi.
E sarian forse stati i primi à torre
La vita, ò almeno il sangue al mostro altero,
Ma il folto bosco, ove il caval lor corre,
A l’hasta, e al corso lor rompe il sentiero.
Disposto è in tutto Telamon di porre
Il mostro in terra, e corre ardito, e fero,
Ma dà d’intoppo in un troncon coperto,
E cade, e perde il desiato merto.
Ch’in quel, che Peleo il vuol alzar da terra,
La vergine Atalanta un dardo incocca,
E l’arco incurva, e poi la man risserra,
E fa del nervo libera la cocca.
L’ambitioso stral, come si sferra,
Conosce ben, ch’in van l’arco non scocca,
E certo di ferir batte le piuma,
E toglie il sangue à l’inimico lume.
Il mostro, che forar si sente il ciglio,
Per la doglia improvisa il capo scuote,
S’aggira, e si dibatte, ne consiglio
Da gittar via lo stral ritrovar puote.
La vergine, che vede il pel vermiglio,
E girarsi il Cinghial con spesse ruote,
Gode, che l’arma sua primiera colse,
E prima al crudo verre il sangue tolse.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Ne men s’allegra il giovane Signore
Di Calidonia, che primier s’accorse,
E mostrò primo il virginal valore
A suoi compagni, e ’l sangue, che fuor corse.
Ben n’havrai (disse) il meritato honore
Vedrai, ch’indarno il ciel quà non ti scorse.
Vermiglio à molti il volto invito rese,
Poi tutti al periglioso assalto accese.
Si fan l’un l’altro core, e innanzi vanno
Contra la belva insidiosa, e truce,
E tutti al corpo suo cercan far danno
Da quella parte, ove perde la luce.
Ne però strada anchor ritrovar sanno
Da tor per sempre à lui l’aura, e la luce.
Percoton mille strai l’hirsuta veste,
Ma l’un l’altro impedisce, e non investe.
Ecco contra il suo fato il corso affretta
Il glorioso, et infelice Alceo,
Et con ambe le mani alza una accetta,
E s’avicina al mostro horrendo, e reo.
Questa farà ben meglio la vendetta
Dice, che ’l dardo virginal non feo,
State à veder, se con quest’arme io ’l domo,
E se val più d’una donzella un’huomo.
S’opponga pur Diana co ’l suo scudo,
Difendalo se può da la mia forza,
C’hor hora il fo restar de l’alma ignudo,
E acquisto al mio valor l’hirsuta scorza.
Hor mentre di calare il colpo crudo
Co ’l suo maggior potere Alceo si sforza,
Il porco contra lui si spinge, e serra,
E fa cadere in van la scure in terra.
Co ’l curvo dente in quella parte il fende,
Che ’l core, e i membri interni asconde, e copre.
La piaga l’infelice in terra stende,
E le parti secrete allarga, e scopre.
Hor mentre, ch’à quel Dio l’anima rende,
Che suol giudicio far de le nostre opre;
Peritoo ò vuol, che ’l porco empio l’azzanni,
Ó si vuol vendicar di tanti danni.
Con l’hasta tridentata affretta il corso,
Dove s’è fatto forte il suo nemico,
Ma tosto pone al suo furore il morso
Teseo suo vero, e cordiale amico.
Dov’è gito (gli dice) il tuo discorso?
Hai tu perduto il tuo consiglio antico?
Non dee l’huom forte mai prender duello
Con animal di lui più forte, e fello.
L’huom saggio dee (sia quanto vuol gagliardo)
Simil fere domar col proprio ingegno.
Con l’huom convien, che l’huom non sia codardo,
Se vuol salvare, ò guadagnare un regno.
Mentre, che ’l persuade aventa un dardo,
Che giunse à punto al destinato segno,
Ma non ferì il Cinghial, che d’ira acceso
Havea contra un gran veltro il corso preso.
Gli salta il veltre intorno, e ’l mostro fero
Ovunque il can si volge, il capo gira.
L’ardito intanto, e forte cavaliero
De la prudente Athene un dardo tira;
E dato al segno destinato, e vero
Havrebbe, ù l’occhio havea presa la mira;
Ma il can s’oppose in quel, che ’l braccio ei sciolse,
E salvò à lui la vita, e à se la tolse.
L’ardito Meleagro havea più volte
Cercato d’investir, ma sempre in vano.
Il moto del Cinghial, le piante folte
Sempre in van fergli uscir l’arme di mano.
Due diverse arme ultimamente tolte,
La prima vuol, ch’investa di lontano,
Obedisce ella, e fora, e prende albergo
Nel suo pur dianzi inviolabil tergo.
Quando ei vide al Cinghial vermiglio il dosso,
E che punto dal duol s’aggira, e scuote,
Con l’altra arma, c’ha in man gli corre adosso,
E la sinistra parte gli percote.
Passa il superbo acciar la carne, e l’osso,
Ne il coraggioso cor resister puote.
Il porco mentre può, si duole, e langue,
Poi cade, e manda fuor la vita, e ’l sangue.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|143}}</noinclude><poem>
Ogn’un con le parole, e con le ciglia
De le sue lodi al vincitor compiace.
Ogn’un s’allegra, e ogn’un si maraviglia
De l’animal, ch’in tanta terra giace.
Anchor temon toccarlo, pur vermiglia
Sicuro al fin ciascun l’arme sua face.
Ogn’un, se ben non ha la fera estinta,
Brama del sangue suo l’arme haver tinta.
Ma più d’ogni altro al vincitor dà lode
La gratiosa vergine Atalanta.
L’acceso amante, che la mira, e ch’ode
La soave parola accorta, e santa,
Mentre stupito la vagheggia, e gode
Pon su ’l capo al Cinghial del piè la pianta,
E con grata favella, e dolce vista
Sol la sua diva allegra, e gli altri attrista.
Poi ch’è piaciuto à le superne stelle
Di dare effetto al mio nobil pensiero,
Si denno à me queste honorate, e belle
Spoglie, che fede poi faran del vero,
Io dico del Cinghial l’hirsuta pelle
Co ’l capo anchor de le sue zanne altero,
Pur, perche ’l dardo tuo l’impiagò pria,
Vo teco compartir la gloria mia.
Subito fa levar l’horrida spoglia,
E dandola co ’l capo à la sua diva,
D’allegrezza empie lei, d’invidia, e doglia
Gli altri di Calidonia, che ne priva.
Dispiace à tutto ’l suo popol, che voglia
Del bel trofeo la sua patria nativa
Spogliar, per darlo à la Nonacria parte,
Che non havea ne la vittoria parte.
Disse Plessippo à lei, ch’un de fratelli
Era d’Altea di Meleagro madre;
Non ti pensar de le honorate pelli
Le mura ornar del tuo Nonacrio padre,
Non creder, ben ch’i tuoi lucenti, e belli
Lumi, con le fattezze alme, e leggiadre
Habbian del mio nipote acceso il core,
Privar la patria mia di tanto honore.
E contra i servi con gran furia vanne
De l’innocente giovane Tegea,
Che cura havean de le dannose zanne
Donate à lei dal gran figliuol d’Altea:
Le toglie lor per forza, e cura danne
Al suo fratel Tosseo, ch’appresso havea.
Per vendicar la vergine quell’onta
Stringe la spada, e ’l suo nemico affronta.
Ma Meleagro altier, che ’l tutto scorse,
La consanguinità posta in oblio,
Vinto da l’ira minacciando corse,
E con lo spiedo ingiusto uccise il zio.
Poi del fratel piu giovane s’accorse,
Che contra gli venia crudele, e rio,
E fatto in tutto di pietà rubello
Lo stese morto appresso al suo fratello.
Intanto Altea, che la vittoria intesa
Del figlio havea contra il nefando mostro,
Al tempio và di santo zelo accesa
Co ’l grato don di gemme ornata, e d’ostro;
Et ode per la via quanto l’ha offesa
Quel, ch’ella già portò nel carnal chiostro:
Intende, che ’l figliuol da l’ira vinto
Ha l’uno, e l’altro suo fratello estinto.
Compare in questo la bara funebre
Per gli occhi suoi troppo infelice obbietto.
Subito ella alza il grido muliebre,
Si straccia i crini, e si percote il petto.
Le donne sue come insensate, et ebre
Mostran vinte dal duol l’interno affetto;
Subito gittan via le vesti allegre,
E cangian le dorate in gonne negre.
La madre un pezzo si consuma, e piange,
Come il fraterno amor ricerca, e vuole,
E si graffia le gote, e ’l capel frange,
E v’accompagna i gridi, e le parole.
Da l’ira vinta poi forza è, che cange
Il pianto in quel desio, ch’accender suole
Gl’irati à la vendetta, in quel desio,
Ch’ogni più santo amor manda in oblio.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Vestito, c’hebbe Altea del carnal manto
Quel figlio, c’hor gli ha fatto il doppio scorno,
Pregò le Dee con verso humile, e santo,
Che volgon de le vite il fuso intorno,
Che le dovesser far palese quanto
Il suo picciol figliuol godrebbe il giorno.
Venner le tre sorelle al prego giusto,
E poser su le fiamme un verde arbusto.
Volgendo il fuso poi l’avara palma
Disser. Tu, c’hoggi sei comparso al lume,
Sappi, che del tuo petto uscirà l’alma
Tosto, che ’l foco il ramo arda, e consume.
Tornar poi ne la patria eletta, et alma
Le Parche, e presta Altea lasciò le piume,
E con le mani inferme il tizzo strinse,
E poi d’acqua lo sparse, e ’l foco estinse.
E come accorta ascose il fatal legno
Per conservarlo in un secreto loco.
Non era in tutto il Calidonio regno
Parte, che men temer dovesse il foco.
Hor si s’aviva in lei l’ira, e lo sdegno,
Che vi può la pietà materna poco.
Trova l’ascoso muro, e fuor ne tira
Il ramo, e accender fa l’infame pira.
L’hasta al foco vuol dar, che l’alma chiude
Del figlio, ch’i fratei mandò sotterra,
Perche le membra sue di spirto ignude
Restino, e vengan poi cenere, e terra.
Tre volte con le man profane, e crude
Per gittarlo nel foco il ramo afferra,
E tre volte le vieta opra si indegna
Qualche poco d’amor, ch’anchor vi regna.
Albergano la madre, e la sorella
Due diverse persone in un soggetto,
E movono in un core hor questa, hor quella
Quando il più pio, quando il più crudo affetto.
Et hor la voglia santa, hor la rubella
Cerca di dominare il dubbio petto.
Il core hor l’homicidio approva, hor vieta,
Secondo vince in lui l’ira, ò la pieta,
Spesso il timor del suo futuro errore
Le fa di neve diventar la fronte,
La pingon poi di sangue, e di furore
L’incrudelito cor, gli sdegni, e l’onte.
Se ’l pianto secco vien dal troppo ardore,
Sorger si vede poi novella fonte.
Le pinge il viso hor l’odio, hora il cordoglio,
Questo d’affetto pio, quello d’orgoglio.
Come talhor se la corrente, e ’l vento
Fan tra lor guerra à l’agitata nave,
Pria cede il legno à l’onda, e in un momento
S’arrende à la procella, ch’è più grave:
E in breve tempo cento volte, e cento
Hor l’onda, hor l’aura in suo dominio l’have:
Tal de l’afflitta Altea l’ambiguo ingegno
Hor vinta è da la pieta, hor da lo sdegno.
Al fin la voglia più malvagia, e ria
Con più vigor le domina la mente,
Et empia vien per voler esser pia,
E placar de fratei le membra spente.
Già l’affetto materno in tutto oblia,
Et è miglior sorella, che parente.
Hor come vede il foco andare al cielo,
Cosi à la mente sua discopre il velo.
Poi, ch’arsi i miei fratei da questo foco
Saranno, e ch’io vedrò cenere farne,
S’io posso il reo por nel medesmo loco,
Non debbo già senza vendetta andarne.
Dunque fia ben, se per placargli un poco,
Fò parte al rogo lor di quella carne,
Che quello spirto rio nasconde, e chiude,
C’hebbe contra di lor le man si crude.
E con quel, c’havea in man celeste ramo,
Si volse à funerali altari, e disse.
Voi tre Dee de le pene eterne chiamo,
C’havete da punir le nostre risse,
Mentre l’inique essequie spedir bramo,
Tenete alquanto in me le luci fisse,
E date à la mia mano ardire, e forza,
Che doni à i fochi rei la fatal scorza.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|144}}</noinclude><poem>
Fate me inferne Dee si ardita, e forte,
Ch’al foco ardisca dar la carne propia,
Che con la morte io vò placar la morte,
Et à l’essequie far d’essequie copia,
E poi, che ’l dà la mia perversa sorte,
Non voglio al fallo far del fallo inopia.
Per mille pianti raddoppiati, e mille
Questa fiamma crudel vò, che sfaville.
Adunque il Re di Calidonia altero
De la vittoria andrà del crudo figlio?
E Testio il padre mio con manto nero
Basso havrà sempre, e lagrimoso il ciglio?
Meglio è, che l’uno, e l’altro provi il fero
De la sorte crudel funebre artiglio,
E vadan ambedui colmi di pianto
Havendo afflitto il core, oscuro il manto.
Hor voi pur dianzi dal mortal sostegno
Sciolt’anime prendete il buon desio,
L’essequie, che vi compra hoggi il mio sdegno
Co ’l sangue, e non con l’or del figliuol mio.
Ecco del ventre mio l’iniquo pegno,
La materna pietà posta in oblio,
Per la troppa barbarie, ch’in lui scorgo,
A divorare à queste fiamme io porgo.
Oime, dunque havrò il cor tanto inhumano?
Dove mi lascio io trasportar da l’ira?
Perdonate fratelli à la mia mano,
Se da cotanta infamia si ritira.
Ben sà, che ’l face il suo delitto insano
Degno di perder l’aura, ond’ei respira:
Ma non le par ragion, ne giusta voglia,
Ch’io, che già il diedi al mondo, al mondo il toglia.
Dunque ei di tanto error se n’andrà sciolto?
E senza i miei fratei godrà la luce?
Per la vittoria tumido nel volto?
Per esser sol di Calidonia Duce?
E ’l corpo vostro hor hor sarà sepolto
Nel rogo, che per voi s’accende, e luce?
E voi, per cui lo ciel più non si volve,
Giacerete fredd’ombre, e poca polve?
Nò, muora pur lo scelerato, e cieco,
Muora per man de l’infelice madre,
E la ruina de la patria seco
Tiri, con la speranza alta del padre.
Vada pur à goder lo Stigio speco,
Et lasci il regno in vesti oscure, et adre.
Misera, che vuoi far? chi ti trasporta?
La materna pietà dunque è in te morta?
Dunque empia madre à mente non ti torna
Quanto per lui sofferto il tuo seno have?
Che nove volte rinovò le corna
Delia, mentre egli il sen ti fece grave.
Dunque da tanto mal non ti distorna
L’età sua pueril, già si soave?
Dunque il tuo cor colui d’arder non teme,
In cui del regno suo fondò la speme?
Piacesse à gli alti Dei, che nei prim’anni,
Quando questo troncon fu dato al foco,
Visto havessi di te gli ultimi danni
Quei, che temo vedere in questo loco.
Che lasciato havess’io battere i vanni
Al lume, che n’havea già roso un poco.
Tu vivi per mio don, ch’io l’ho sofferto,
Ma muori, se morrai, per lo tuo merto.
L’alma havesti da me la prima volta,
Quando co ’l parto mio t’offersi al lume:
L’altra, quando fu poi la verga tolta
Al foco, e ch’io lasciai per te le piume.
Hor se’ l’alma io ti toglio, e vò che sciolta
Dal suo mortal vada al tartareo fiume,
Se tu se’ ingrato, ingiusta io già non sono,
Se l’havesti da me due volte in dono.
Rendi homai disleal l’anima, rendi,
E tu Parca crudel tronca lo stame.
Ah madre iniqua, e ria, che fare intendi?
Vuoi diventar per tal vendetta infame?
Non vedi tu, quanto te stessa offendi,
Se sciogli al figlio il suo vital legame?
Misera il veggo, ah quanto è il mio cordoglio,
Che vò, e non posso; e poi posso, e non voglio.
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Pria le fraterne piaghe, e l’empia morte,
Si fanno innanzi al mio vedere interno
E l’ira in me risuscitan si forte,
Che vuol, ch’io doni il mio figlio à l’inferno:
Ma rende al rio pensier la man non forte
De l’infamia il timor, l’amor materno:
E mentre dice ogn’un le ragion sue,
Io mi consumo, e vivomi intra due.
Ma voi, per maggior mia noia, e tormento
Cari fratei n’havrete al fin la palma,
E forse havrò dapoi tant’ardimento,
Ch’anch’io lasciar vorrò l’humana salma.
Per fare ogn’un di voi di me contento,
Vò far, che segua voi la sua trist’alma.
Con questo dir volse à le fiamme il tergo,
E diede in mezzo al foco al tizzo albergo.
Ó diede, ò parve pur, che per la doglia
Sentendo il foco un strido il ramo desse,
Ma la fiamma empia fe contra sua voglia
Poi che non potè far, che non l’ardesse.
Sentì il figlio d’Eneo l’humana spoglia
(Benche lontan da quelle fiamme stesse)
Ardere, e sentì anchor l’interno petto
Esser da foco occulto arso é et infetto.
Non sà già la cagion del troppo ardente
Dolor, che dentro gli consuma il core,
Pur co ’l valor de l’animosa mente
Si sforza superar l’aspro dolore.
S’attrista bene assai, che si vilmente
Senza far guerra, e senza sangue more.
Alceo chiama felice, e ogni altro Duce
Cui tolse il rio Cinghial l’aura, e la luce.
Chiama vinto dal duolo il padre anticho,
Ogni fratello chiama, ogni sorella,
La compagna del letto, il fido amico,
E più d’ognun la madre ingiusta, e fella.
Il foco ad ambedui crudo nemico
Distrugge Meleagro, e la facella.
E del ramo, e de l’huom fu il viver corto,
Ch’un restò poca polve, e l’altro morto.
Giace l’alta città, piangon le mura,
Versan le torri altere in copia il pianto,
La giovenile età, l’età matura,
La nobiltà, la plebe hà nero il manto.
De le donne più pie la turba oscura
Fa gir le strida al regno eterno, e santo:
Batton le mani, e ’l sen, straccian le chiome,
Chiamando spesso in van l’amato nome.
Il vecchio Re con grido afflitto, e lasso
Biasma i troppi anni suoi, sua trista sorte,
Che deve un suo figliuol chiuder nel sasso,
Ch’era in si verde età si saggio, e forte.
Altea, ch’al comun pianto hà volto il passo,
E sà, ch’essa è cagion de la sua morte,
Alza la man, che diede il figlio à Pluto,
E piaga il tristo cor co ’l ferro acuto.
S’io cento lingue havessi, e cento petti,
E volto in mio favor tutto Helicona,
E cento de i più rari alti intelletti,
Ch’in capo mai d’allor portar corona;
Non potrei dire i dolorosi affetti,
Onde l’alta città tutta risuona
D’huomini, di matrone, e di donzelle,
Ma più de le mestissime sorelle.
Deposto il gesto regio, il regio fine,
Si danno in preda à ogni atto indegno, e insano.
Fanno oltraggio al bel viso, à l’aureo crine,
E percotonsi il petto, e mano à mano:
E stando sopra lui piegate, e chine
Chiaman sovente il nome amato in vano.
E mentre il corpo in cener non si sface,
Gli son tutte d’intorno ovunque giace.
A pena il colpo in cener si risolve,
Che ’l vaso à gara prendon, che la serra,
E al petto stringon la funebre polve,
Mentre, che ’l loco pio non la sotterra.
Ma come il sasso poi gelido involve
Le membra trasformate in poca terra,
Da lor le strida, i moti, e ’l pianto impetra
Lo scritto nome, e la notata pietra.
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Poi ch’à la Dea di Delo offesa parve
D’esser contra d’Eneo sfogata à pieno,
Fè, che la piuma à le sorelle apparve
Del morto, e n’ornò lor le braccia, e ’l seno.
E fatta ogn’una augel subito sparve,
Et allentò per l’aria à i vanni il freno.
Tutte à un tratto lasciar l’human splendore
Da la nuora d’Almena, e Gorge in fuore.
L’augel, che Meleagride s’appella,
Dal fratel Maleagro hà preso il nome.
Risplende assai la sua penna novella,
Che leva al ciel le sue terrene some.
Ch’è vaga, varia, colorata, e bella,
Et hà la cresta in vece de le chiome.
Di spetie di gallina è rara, e nova,
Benche come il fagian dipinge l’ova.
Come hebbe Teseo visto il Cinghial morto,
Mostrato il suo buon cor commiato prese,
Ne si trovò presente al danno, e al torto,
Onde la cruda madre il figlio offese.
Per ritrovarsi in breve al patrio porto
Per altro suo disegno il camin prese,
Bench’Acheloo, c’havea la sua contrada
Tutta allagata, gl’impedì la strada.
Vede Acheloo (lo Dio proprio del fiume)
Che ’l cavalier d’Athene è giunto al passo,
E se scorge huomo, ò legno, intende il lume
Per poter por nell’altra ripa il passo.
Allhor temendo il grato, e amico Nume,
Che no ’l dia l’onda al regno oscuro, e basso,
Cortese, e pio se gli fa incontra, e vede,
Se può con questo suo fermargli il piede.
Non ti fidar guerrier Cecropio à l’onde,
Che sforzan troppo rapide le navi,
Et c’han portate al mar le proprie sponde,
Con l’elevate lor superbe travi.
Ogni tetto vicino, ogni alta fronde
Con le parti, c’havean più dure, e gravi,
E con gli armenti stessi, e co i pastori
Tutti hò visti portarne in grembo à Dori.
Ne al can, ne à gli altri bruti il nuoto valse,
Non giovò à l’huomo il suo saggio discorso.
Tanti ne fur donati à l’onde salse,
Quanti rapinne il furioso corso.
Se del consiglio altrui giamai ti calse,
Metti guerriero al tuo desire il morso.
Mentre l’onda và fuor del proprio lido,
Piacciati, ch’io t’alberghi entro al mio nido.
Per fuggir il guerrier tanto periglio,
Per farsi grato à quel, che ’l persuade,
Lieto rispose, al tuo parer m’appiglio,
Mentre che l’onda tua si fiera cade.
Accetto la tua casa, e ’l tuo consiglio,
Fin che sicure sian l’ondose strade.
Per mano il fiume il prende, e ’l mena seco
Dentro al suo cavernoso humido speco.
Entran d’una in un’altra le spelonche,
Dove l’altero Dio si posa, e chiude.
Comparton tutto il ciel diverse conche,
Che ’l tufo adornan cavernoso, e rude.
Le gocce altre continue, et altre tronche
Van per diversi rivi à la palude:
E da cento antri, e cento senza lume
S’uniscon l’onde in un, che fanno il fiume.
Lieto il cortese Dio di tanto Duce,
Con ogni studio ad honorarlo intende.
Però con tutti i suoi Teseo conduce,
Dove ne l’antro suo più il giorno splende,
Che l’occhio, onde una stanza have la luce,
Verso infinito mar lo sguardo stende.
Quivi spiegar con volto honesto, e chino
Le Ninfe su la mensa il bianco lino.
Comparser le vivande, e ’l Nume accorto
Fece à la mensa pria seder Teseo,
Poi Peritoo con Lelege, ne torto
Del loco ne à la etàé al grado feo.
Poi che dier loro il debito conforto
Co ’l raro cibo il più dolce Lieo,
Venne il guerrier d’Athene à caso à dare
L’occhio in mezzo al balcon, che guarda ’l mare.
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Mentre per salvar lei pongo ogni cura,
Mi par più non sentir carne, ma pietra,
E che ’l bel corpo ogn’hor via più s’indura,
E ch’ogni membro suo cresce, e s’impetra.
Tal, che l’intellettiva alma natura
Di formarsi una nova isola impetra.
Fatta al fin larga, et alta, e di più pondo,
Co ’l piede andò à trovar del mare il fondo.
Poi c’hebbe cosi detto il sacro fonte,
E mostrando pietà nel volto tacque.
Ogn’un devoto al mar drizzò la fronte,
E venerò di cor lo Dio de l’acque.
Sol disprezzò le maraviglie conte
Quel, che fratel de rei centauri nacque;
Ne creder volle à le cangiate forme,
Se ben più d’un fratel vide biforme.
La stirpe, ch’à schernir Peritoo sforza,
Non men gli Dei del suo padre Issione,
Fè, che (disse) Acheloo troppo gran forza
Doni al fratel di Giove, e di Plutone,
Se vuoi, che possa altrui cangiar la scorza,
E donar altre forme à le persone.
E ’l modo, e ’l riso, e ’l mover de le ciglia
Empiè ogn’un di terrore, e maraviglia.
Sdegnossi il fiume entro al suo core alquanto,
Ma non ne diè già ne la fronte aviso,
Che cercando honorar Teseo più santo,
Sofferse dal suo amico esser deriso.
C’havrebbe forse à lui per mostrar quanto
Far puote un Dio, cangiato il senno, e ’l viso,
Ma Lelege, più vecchio, e al ciel più fido
Cercò l’empio far pio con questo grido.
Del ciel la forza ogni potenza eccede,
Ciò, che voglion gli Dei, Peritoo, fassi.
E poco ha fido il cor colui, che crede,
Che non posson cangiar in piante, e ’n sassi.
E per farti di ciò più certa fede
Sappi, ch’un’alta quercia in Frigia stassi,
Ch’appresso ad una tiglia i rami suoi
Stende, c’huomini fur’, come hor siam noi.
Oltre la tiglia è l’arbor de le ghiande,
Dove la forma à due già fu cangiata.
V’è un’altra maraviglia non men grande,
Una palude in un momento nata.
Ú la Folice, e ’l Mergo hor l’ali spande,
E già fu fertil terra, et abitata.
Mi vi mandò mio padre, e vidi, e intesi
Quel, che per ben comun vien, ch’io palesi.
Lascia il Signor celeste un giorno il cielo
Per voler fare esperlenza in terra,
Se l’huom ver la pietate acceso ha il zelo,
Ó s’à la caritate il passo serra.
E preso d’huom mortal l’aspetto, e ’l pelo,
Ne l’Asia in Frigia co ’l figliuol s’atterra.
E mostrano cercando à l’altrui porte,
Ch’impoveriti sian da l’empia sorte.
Poco à Mercurio l’eloquentia giova
Nel raccontar la lor fortuna adversa:
A mille, e mille porte si fa prova,
Per tutto la pietà trovan dispersa.
Ne fra mille, e mille huomini si trova
Un, che non habbia l’alma empia, e perversa.
Ogn’un nega al lor vetro, et al lor sacco
(Benche n’abondi assai) Cerere, e Bacco.
Al fine ad una picciola capanna
L’ascoso Re del ciel co ’l figlio arriva,
La qual di paglia, e di palustre canna
E da lati, e di sopra si copriva.
Quivi scoprendo il duol, che ’l core affanna
La vera carità ritrovar viva,
Fur da Fileno, e Baucide raccolti,
Ch’eran consorti già molti anni, e molti.
Da lor la povertà, ch’ogn’uno abhorre,
Con lieto, e santo cor sofferta fue,
Di quel, che manca l’un, l’altro soccorre,
E giova à due con le fatiche sue.
Servi, e Signor cercar lì non occorre,
Tutta la casa lor non son, che due.
Quel, che comincia l’un, l’altro al fin manda,
E da due s’obedisce, e si comanda.
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Come poser gli Dei lì dentro il piede,
L’antico Filemon cortese, e saggio,
Che i peregrini affaticati vede
Non da gli affanni sol, ma dal viaggio,
Per ciaschedun di lor porta una sede
D’un mal disposto, e ben tarlato faggio.
Tosto sopra vi pon l’accorta moglie
Per fargli riposar due vecchie spoglie.
Prende la vecchia poi l’aride legna,
E inginocchion desta il carbone, e ’l foco,
E fà, che l’un troncon l’altro sostegna,
Ma in modo, ch’à la fiamma habbia à dar loco.
Nel carbon vivo poi mandar s’ingegna
Lo spirto unito suo senile, e poco,
Perche co ’l suo vigor la frasca accende,
E risoluto in fiamma arda, e risplende.
Un picciol rame concavo indi appende
A la fuliginosa atra catena,
Pien d’una pura fonte, dove intende
Di far bollir la rusticana cena.
Nel picciol horto intanto il vecchio prende
Di molte herbe opportune ogni man piena,
E le porge à la moglie, e anch’ei s’adopra,
Perch’ogni erba si purghi, e ponga in opra.
Quell’herbe, che vuol por, sceglie la moglie
A cocer per la cena, e l’apparecchia.
Filemone il radicchio in un raccoglie
Con la sinistra man debile, e vecchia.
La destra co ’l coltel taglia le foglie,
E dalle assai minute ad una secchia,
E le lascia purgar ne l’onde chiare,
Perche poi nel mangiar sian meno amare.
Prende poi il vecchio la bicorne forca,
E và, dove gliè d’huopo, e ’l capo leva,
E guarda in alto, et uno uncino inforca,
Ch’una spalla di porco alto teneva.
Dal fumo, e da la polve oscura, e sporca
La prende, e co ’l coltel, ch’à lato haveva,
Ne taglia, e purga una mezzana fetta,
E dalla al rame poi purgata, e netta.
Perche non paia à lor lungo il soggiorno,
Tal volta scioglie à la sua lingua il nido,
E và passando l’otioso giorno
Con rustiche sentenze, e rozzo modo.
V’era un gran vaso lavorato al torno
Di faggio, ch’appiccato era ad un chiodo;
L’empie poi, che la vecchia l’hà ben netto,
D’acqua, c’havea scaldata à questo effetto.
La porta à forestieri, e lor rimembra,
Che giungendo à l’albergo il viandante,
Dee tal volta lavar le stanche membra,
E ristorar l’affaticate piante.
Questa à gli Dei ben carità rassembra
D’anime veramente elette, e sante.
Accettano il cortese almo costume,
Indi entran ne le lor povere piume.
Nel letto di secc’herba di palude,
Che di salce havea i pie, l’asse, e le sponde,
Vanno à posar gli Dei le membra ignude,
Su ’l posto bianco lin sopra la fronde.
Fra le due tele alquanto grosse, e crude,
Ma di bucato, il lor corpo s’asconde.
Copre la tela poi d’una vil vesta,
Ch’usavan porvi il giorno de la festa.
Pon la succinta vecchia il desco intanto,
Che posa su tre gambe male intese,
E ’l terzo piede have ineguale alquanto,
Benche un rotto piattello eguale il rese.
Fatta la mensa egual di lino un manto
Bianco, ma rotto alquanto, vi distese:
Con le man poi, ver la pietà non scarse,
Di menta, e varij fior tutta la sparse.
Due vasi havea di terra cotta, e dura,
Da ber l’un novo in tutto, e l’altro usato,
Gli lava con la fonte fresca, e pura,
E pon la miglior coppa da quel lato,
Nel qual dovean ristoro à la natura
Dar gli hosti, che già il letto havean lasciato,
E per ridirlo à l’alme alte, e divine
Volean del loro amor, vedere il fine.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|147}}</noinclude><poem>
In una stretta rete l’insalata
Il vecchio pon, che ’l fonte anchor bevea,
La qual se ben minuta era tagliata,
Non però de la maglia uscir potea.
Come ve l’hebbe dentro avviluppata,
Alzò la destra man, che ’l lin tenea,
E non lasciò di raddoppiar le scosse,
Che ’l bevuto liquor fuor non ne fosse.
Lascia indi in una conca ampia, e profonda
L’herba cader, che da la rete suolve,
Poi di Palla il liquor fa, che v’abonda
Co ’l mar ridotto in sasso, e dopo in polve.
Con due coltelli poi fa, ch’ogni fronda
Hà l’olio, e ’l sal, che vuol, tanto la volve.
Vi sparge poi del trasformato vino,
Che fortissimo havea sopra il camino.
Fatte lavare in un catin le mani
A gli hosti accorti, à mensa ambi gli chiede,
E con accenti in un rozzi, et humani
Presenta lor la più honorata sede.
E i lini dona lor men rozzi, et strani,
Qual gli può dar lo stato, ch’ei possiede.
Benche non si può dir, che in questo manchi,
Che se son rozzi, e grossi, almen son bianchi.
Chiaman grati gli Dei la santa vecchia,
Che voglia anch’ella homai gustar la cena,
Grat’ella al grido lor porge l’orecchia,
E la fronte senil lieta, e serena.
Pur di privare innanzi s’apparecchia
La pentola de cibi, ond’ella è piena:
Ma fa quattro ova pria le seconde esche,
Ch’erano in uno instante calde, e fresche.
Prende dell’herba anch’ella, e vuol gustarne,
E mangia un poco, indi à servir s’invia,
E và per l’herbe cotte, e per la carne,
S’asside al fin anch’ella in compagnia.
In quanto al vin può sol del novo darne
La non trovata altrove cortesia,
Pur tutto quel, ch’è in casa, allegri danno
Con quel modo miglior, che ponno, e sanno.
Porta il buon vecchio à la seconda mensa
Co i frutti il latte condensato, e duro,
L’oliva, il pomo, il pero, e ciò, che pensa
Di trovar dentro al suo povero muro;
E spoglia la sua rustica dispensa
Di cio, che v’è più dolce, e più maturo.
Giove per la pietà, che veduto have,
Non trovò mai l’Ambrosia si soave.
Ma sopra ogni altro frutto più gradito
Fu il volto allegro, e ’l non bugiardo amore.
E benche fosse povero il convito,
Non fu la volontà povera, e ’l core.
Ma quel, che la consorte co ’l marito
Empiè di maraviglia, e di stupore,
Fù il vin, ch’à ritornar più non vi s’hebbe,
E più che se ne bevve, più ne crebbe.
Come veggon da se crescere il vino,
Per l’alta novità timidi alquanto,
Mandan co ’l volto, e co ’l ginocchio chino
Subito preghi al regno eterno, e santo,
Consiglian poi, ch’al culto alto, e divino
Denno la forma alzar del carnal manto,
E satisfar d’un sacrificio pio
Al sempiterno, e glorioso Dio.
Facea custodia al lor povero tetto
Un papero, che sol s’havean serbato,
E pensar darlo al regno alto, et eletto,
Non havendo holocausto più pregiato.
Ma l’augel per lo lor picciol ricetto
Fuggendo già da questo, e da quel lato,
E presto, e snello per gli aerei vanni
Stancava ambedue lor tardi per gli anni.
Al fin fuggì lo sbigottito augello,
E in grembo al maggior Dio cercò salvarse.
Ne volle ei, che rendesse il pio coltello
Del sangue suo le pietre sante sparse;
Ma preso il primo suo splendor più bello,
E lasciata la forma, ond’huomo apparse,
Si palesò co ’l suo figliuolo, e disse,
Che verso il monte ogn’un seco ne gisse.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Come fanno veder Giove co ’l figlio
A i vecchi il volto non veduto unquanco,
Fan riverenti le ginocchia e ’l ciglio,
E quasi al troppo ardor si vengon manco.
Poi seguendo di lor l’util consiglio,
Sollevan co ’l baston l’antico fianco,
Sforzandosi, ù lo Dio lor commess’have,
Portar l’afflitto corpo, e d’anni grave.
Lungi un tratto eran d’arco al sommo monte,
Quando i vecchi abbassaro i lumi indietro,
Cader sentendo un ruinoso fonte,
E d’alte strida un doloroso metro.
E de la patria lor l’altiera fronte
Veggon disfarsi in liquefatto vetro,
E l’alte torri lor di mura ignude
Formarsi in un momento una palude.
Mentre con gran stupor guardan le nove
Onde, ch’ascondon l’infelice terra,
E ’l misero occhio lor continuo piove,
Piangendo i suoi, che ’l lago inghiotte, e serra.
Sol la capanna lor veggon di Giove
Fuggito haver l’irreparabil guerra,
E che secondo al ciel s’inalza l’onda,
S’alza l’humil tugurio, e non s’affonda.
In mezzo al lago un’isoletta sorge,
Che la debil capanna alta sostiene,
E mentre questa, e quel l’occhio vi porge,
Vede, ch’in breve un’altra forma ottiene.
Farsi le forche sue colonne scorge
D’elettissimo marmo, e ’l tetto viene
Cupola di si grande, e bel lavoro,
Che par da lungi una montagna d’oro.
Le corna de le forche cangian foggia,
E fansi capitelli di gran pregio,
Le stanghe, ove la cupola s’appoggia,
Si fan cornice, et architrave, e fregio.
Dentro, e di fuor più d’una statua alloggia
Sacrate à Numi del divin collegio.
Vi sorge un ponte anchor d’un nobil sasso,
Che dona per passare al tempio il passo.
Il vecchio Filemon tutto tremante
Dando à la fida sua consorte essempio,
China il ginocchio, e le parole sante
Manda con fido core al novo tempio.
Allhor lo Dio, ch’à la cittade errante
Fece sentir de l’onde il crudo scempio,
Si volse à i due, c’havean si ardente il zelo,
E cosi aperse al suo concetto il velo.
Anime grate al ciel, se il nostro sdegno
Sommerse have à ragion l’empia cittate,
Voi, c’havete lo cor pietoso, e degno,
Che tutto è carità, tutta bontate;
Vogliam pria, che torniamo al santo regno,
Rimunerar di tanta alta pietate:
Però il vostro disio fatene aperto
Sicuri d’ottener l’amato merto.
Si consigliar l’anime elette alquanto,
Poi d’ambo Filemon scoperse i voti.
Fanne, Signor, del tempio altero, e santo,
Se ben ne siamo indegni, sacerdoti;
Fa, che custodi siam noi due di quanto
Rinchiudon questi sassi alti, e devoti.
E perche visso habbiam concordi gli anni,
Fa, ch’un’hora medesma il dì n’appanni.
Non far, ch’io veggia mai la pira accesa
De la mia dilettissima consorte.
Non soffrir, ch’ella à la mia tomba intesa
Pianga la mia prima venuta morte.
Poi che la lor preghiera hebbero intesa
Gli Dei, tornaro à la celeste corte,
Havendo fatto al lor prego devoto
Gratia, e favor de l’uno, e l’altro voto.
Mentre l’aura spirò dentro al lor petto
Custodi fur del tempio amato, e divo:
Ma dapoi, che quel tempo fu perfetto,
Che ’l corpo lor dovea mantener vivo,
De l’humano pensier, et intelletto
L’uno, e l’altro di lor rimase privo,
Nel modo, ch’io dirò, nel punto stesso,
Secondo da gli Dei fu lor promesso.
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Stando ambo innanzi à le gran porte à piede
De i gradi, ove stà un pian fra ’l tempio, e l’onde,
La donna far del suo marito vede
I canuti capei silvestra fronde,
E mentre il guarda, e la cagion ne chiede,
L’arbor ved’ei, che la sua donna asconde.
E più, ch’un mira, e attende il fin, che n’esce,
Più vede che la selva abonda, e cresce.
Vuol tosto questa, e quel mover le piante
Per far l’officio altrui, che si conviene,
E trova mentre pensa andare avante,
Che l’ascosa radice il piè ritiene.
Accorti del lor fin con voci sante
Rendon gratie à le parti alte, e serene.
L’un dice à l’altro, Vale, e non s’arresta
Mentre il comporta lor la nova vesta.
Il Frigio habitator tal maraviglia
Racconta anchor (s’un và da quelle bande)
Che fu la donna pia conversa in Tiglia,
E Filemon ne l’arbor de le ghiande.
Et io, che già v’andai, con queste ciglia
Veduti hò i sacri voti, e le ghirlande,
Che ’l fido peregrin portar si sforza
A gli Dei, che stan chiusi in quella scorza.
Mi fu da prudentissime persone
Vecchie, e d’aspetto venerando, e grato,
Che non soglion parlar senza ragione,
Tutto questo miracol raccontato.
Anch’io vi posi l’ultime corone,
E dissi poi, che ’l mio prego hebbi dato.
Poi ch’essi honor già diero al santo choro,
Sia quello stesso honor dato anch’à loro.
La cosa in se, la grave età, l’aspetto
Del saggio dicitor mosse ogni core.
Ma più d’ogni altro à Teseo accese il petto,
Ch’à gli Dei ne rendeo lode, et honore.
Il fiume Calidonio, che ’l diletto
Conobbe à pien de l’Attico Signore,
Per farlo più stupir, ver lui s’affisse,
E poi con dolce suon cosi gli disse.
Grande è il poter d’un Dio, quando trasforma
Quei, c’han l’interna mente in tronchi, e in sassi,
E fatto, ch’uno è tal, più non mov’orma,
Anzi in eterno ò legno, ò scoglio stassi:
Ma quando un fanno andar di forma in forma,
E quel, che piace à lui, continuo fassi;
Questa è forza maggior, che in un momento
Un può cangiarsi in cento forme, e in cento.
Proteo è di quei, che far cio ponno, hoggi uno,
Che suole indovinar gli altrui secreti,
E guarda il grande armento di Nettuno,
E già de l’Ocean nacque, e di Theti.
Questi secondo à lui viene opportuno,
Per torsi in tutto à gli huomini indiscreti,
Hor si trasforma in un giovane acerbo,
Et hora in un Leon fero, e superbo.
Quando la fama in ogni parte sparse,
Che ’l saggio Proteo predicea il futuro;
Da mille, e mille regni ogn’un comparse
A dimandar di qualche dubbio oscuro.
Ond’ei cercando come liberarse
Da tanti, che v’andar, che troppi furo,
Ottenne da le parti alte, e tranquille
Poter cangiarsi in mille forme, e in mille.
Hor quando il rivelar non era honesto
Qualche secreto in pregiudicio altrui,
Ó quando troppo alcun gli era molesto,
Per torlo in un momento à gli occhi sui,
Facea l’aspetto suo grave, e modesto
Parer crudele, e furioso à lui.
Facendosi hor Cinghial crudo, e iracondo,
Hora un dragon da far terrore al mondo.
Tal volta un par di corna al capo impetra,
Che toro il fà parer fero, e robusto,
Tal volta giace una insensibil pietra,
Tal volta d’arbor sorge altero un fusto.
Come poi si disarbora, ò si spetra,
Se qualch’un’altro è nel pregarlo ingiusto,
Si fonde, e sparge in copioso fiume,
Ó si risolve in fiamma accesa, e in lume.
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Ne solo al saggio Proteo il ciel compiacque
Di trasformarsi in qual si voglia sorte;
Ma à Metra anchor, ch’al gran Nettuno piacque,
Che d’Autolico Emonio fu consorte.
Costei, che d’Eresittone già nacque,
Dal grato Dio de la marina corte
Di trasformarsi in ogni forma ottenne,
E vi dirò l’origine, onde venne.
Non fu fra tutte l’anime nefande
Più nefando huom del padre di costei.
Fra gli altri vitij suoi non fu il più grande
Disprezzator del culto de gli Dei.
Tagliò fra gli altri un’albero di ghiande
Ne’ boschi, ch’in Tessaglia have colei,
Che con benigno core, e lieta vista
Offerse à l’uso human la prima arista.
Mandava il grosso ceppo inferiore
Insino al ciel la cima alta, e superba.
Gian le radici al tenebroso horrore,
Dove han l’alme più ree pena più acerba.
E tanto de la selva era maggiore,
Quanto la selva era maggior de l’herba.
E i rami suoi fean ombra à tanto suolo,
Ch’era una selva intera un tronco solo.
D’un’alma Ninfa albergo altero, e degno
Era l’incomparabil quercia antica,
Che la vita comune havea co ’l legno,
Molto diletta à Cerere, et amica.
E infinite corone facean segno,
Qual di pampino ordita, e qual di spica,
Co i voti, che cingeano il ceppo annoso,
Ch’era dentro à quel tronco un Nume ascoso.
Spesso, dove il sacrato arbore adombra
Legar le Driade pie palma con palma,
E co ’l ballo honorar la sua sant’ombra,
E la sua deità propitia, et alma.
Poi per saper, che spatio il tronco ingombra,
Che di rami sostien si grave salma,
Fer de le man legate una catena,
E bastar tutte à circondarlo à pena.
Ma non resta però l’iniquo, e crudo
Di comandare al servo, che l’atterri,
E ne la scorza, ch’al troncon fà scudo,
Cominci à dar co più sicuri ferri.
Il servo, che non è di pietà ignudo,
Si ritien d’oltraggiare i sacri cerri.
Gli toglie egli di man la scure à forza,
E con questo parlar dà ne la scorza.
Siasi sacrata pur l’altera fronde
A l’inventrice de la prima biada,
Che vò, anchor che la Dea vi si nasconda,
Che la superba cima in terra vada.
Come vede la quercia alta, e feconda
La scure alzar, perche su ’l tronco cada,
Tremando geme, e ’n sudor piove il lutto,
E vien smorta la fronde, e il ramo, e ’l frutto.
Qual, se ’l montone al santo altar si punge,
Sparge il rosso liquor, che in vita il serba:
Cosi, come al troncon la scure giunge,
E vi si ficca dentro empia, e superba,
S’apre la vena, e manda il sangue lunge,
E macchia d’ogn’intorno i fiori, e l’herba.
E tutti, che v’havean volte le ciglia,
N’hebber misericordia, e maraviglia.
Fra tanti un pur vi fu, che ne ’l riprese,
Ch’ardì vetar, che non ferisse il cerro.
Disse ei volgendo à lui le luci accese,
Che n’hai tu à far, s’io qui percoto, et erro?
E da l’arbor, c’haver dovea l’offese,
Rivolse à lui lo scelerato ferro,
E havendo à l’infelice il capo aperto,
Disse; Del tuo cor pio questo fia il merto.
Poi tornando à ferir la santa trave
Co ’l medesimo suo rancore, e sdegno,
Questa voce n’uscì mesta, e soave;
Ninfa son’io, ch’albergo in questo Iegno,
Amica de la Dea, che tien la chiave
De l’abondanza del terrestre regno:
Hor morendo t’annuntio, che di corto
La pena havrai, che merta un tanto torto.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|148}}</noinclude><poem>
Segue egli di ferir sdegnato, et empio,
Et ogni servo suo fa, che seco erra,
Che fatti accorti dal passato essempio
Fan con mill’altri colpi al tronco guerra.
Già già minaccia il ruinoso scempio
L’arbor superbo, e già la cima atterra,
E schianta più d’ogni altro altero, e grosso
Mill’altre piante, à cui ruina adosso.
Le Driade meste, e attonite del danno,
Commesso dal sacrilego homicida,
Squarciano i bei crin d’or, squarciano il panno,
Piangendo la sorella amata, e fida.
S’ornan di veste oscure, e in fretta vanno
Empiendo il ciel di dolorose strida,
E fan la fertil Dea del danno accorta,
Perc’habbia à vendicar la selva morta.
L’alma benigna Dea da l’ira vinta,
Ch’ogni mente più pia talhor commove,
Consente lor, ch’ogni pietà sia estinta
Ver l’offensor del santo arbor di Giove.
E fra se volve à la vendetta accinta
Le pene, che può dar più crude, e nove.
Mille pene hàda far pietate altrui,
Ne degno di pietà posson far lui.
Risolve al fin, che le sue crude pene
Debbian venir da la noiosa fame,
E che quanto più fa le canne piene,
Tanto più da mangiar dimandi, e brame:
Si ch’al fin consumato ogni suo bene,
Rompa à la vita ria Cloto lo stame.
Fra mill’altri tormenti acerbi, e rei,
Questo più piacque à l’Amadriade, e à lei.
E s’à la fame Cerere presente
Potesse stare alquanto, e sopportarla,
Ov’ella hà sempre asciutto, e ingordo il dente,
Sarebbe ita in persona à ritrovarla.
Hor poi, che ’l fato eterno no ’l consente,
Vuol, ch’una alpestre Dea vada à pregarla.
E con queste parole accorte, e pronte
La Dea del pian mandò la Dea del monte.
Stà ne l’estrema Scithia un monte alpestro,
Che d’ogni pianta fruttuosa è ignudo,
Sterile d’ogni spiga, e ben terrestro,
Per lo freddo, che v’hà maligno, e crudo.
Nel luogo ivi più sterile, e men destro
Contra il freddo à la fame un’antro è scudo,
Sottoposto à le nevi, al ghiaccio, e à venti,
Dove batte il tremor continuo i denti.
Ferma nel tristo volto il viso alquanto,
E dì da parte mia, ch’entri nel petto
Di quel, che fece oltraggio à l’arbor santo,
Per fare à la mia selva onta, e dispetto.
E ’l faccia dal digiun distrugger tanto,
Che vinto, sia da l’affamato affetto,
Si ch’à satiar la sua digiuna scorza
Non bastin le mie spighe, e la mia forza.
Perche ’l lungo camin non ti spaventi
Dovendo ire à trovar l’Artico polo,
Prendi co ’l carro mio gli aurei serpenti,
E ver la fredda Scithia affretta il volo.
Drizz’ella al vol contra i più freddi venti,
E giunge al monte abbandonato, e solo.
E vede lei, che fuor de l’antro stassi
Pascendo il suo digiun fra scogli, e sassi.
Ogni occhio infermo suo si stà sepolto
In una occulta, e cavernosa fossa.
Raro hà l’inculto crin ruvido, e sciolto,
E di sangue ogni vena ignuda, e scossa.
Pallido, crespo, magro, e oscuro ha il volto,
E de la pelle sol vestite l’ossa:
E de l’ossa congiunte in varij modi,
Traspaion varie forme, e varij nodi.
De le ginocchia il nodo in fuor si stende,
E per le secche coscie par gonfiato.
La poppa, ch’à la costa appesa pende,
Sembra una palla à vento senza fiato.
Ventre nel ventre suo non si comprende,
Ma il loco, ù par, che sia già il ventre stato.
Rassembra in somma l’affamata rabbia
D’ossa una notomia, che l’anima habbia.
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Segue egli di ferir sdegnato, et empio,
Et ogni servo suo fa, che seco erra,
Che fatti accorti dal passato essempio
Fan con mill’altri colpi al tronco guerra.
Già già minaccia il ruinoso scempio
L’arbor superbo, e già la cima atterra,
E schianta più d’ogni altro altero, e grosso
Mill’altre piante, à cui ruina adosso.
Le Driade meste, e attonite del danno,
Commesso dal sacrilego homicida,
Squarciano i bei crin d’or, squarciano il panno,
Piangendo la sorella amata, e fida.
S’ornan di veste oscure, e in fretta vanno
Empiendo il ciel di dolorose strida,
E fan la fertil Dea del danno accorta,
Perc’habbia à vendicar la selva morta.
L’alma benigna Dea da l’ira vinta,
Ch’ogni mente più pia talhor commove,
Consente lor, ch’ogni pietà sia estinta
Ver l’offensor del santo arbor di Giove.
E fra se volve à la vendetta accinta
Le pene, che può dar più crude, e nove.
Mille pene hàda far pietate altrui,
Ne degno di pietà posson far lui.
Risolve al fin, che le sue crude pene
Debbian venir da la noiosa fame,
E che quanto più fa le canne piene,
Tanto più da mangiar dimandi, e brame:
Si ch’al fin consumato ogni suo bene,
Rompa à la vita ria Cloto lo stame.
Fra mill’altri tormenti acerbi, e rei,
Questo più piacque à l’Amadriade, e à lei.
E s’à la fame Cerere presente
Potesse stare alquanto, e sopportarla,
Ov’ella hà sempre asciutto, e ingordo il dente,
Sarebbe ita in persona à ritrovarla.
Hor poi, che ’l fato eterno no ’l consente,
Vuol, ch’una alpestre Dea vada à pregarla.
E con queste parole accorte, e pronte
La Dea del pian mandò la Dea del monte.
Stà ne l’estrema Scithia un monte alpestro,
Che d’ogni pianta fruttuosa è ignudo,
Sterile d’ogni spiga, e ben terrestro,
Per lo freddo, che v’hà maligno, e crudo.
Nel luogo ivi più sterile, e men destro
Contra il freddo à la fame un’antro è scudo,
Sottoposto à le nevi, al ghiaccio, e à venti,
Dove batte il tremor continuo i denti.
Ferma nel tristo volto il viso alquanto,
E dì da parte mia, ch’entri nel petto
Di quel, che fece oltraggio à l’arbor santo,
Per fare à la mia selva onta, e dispetto.
E ’l faccia dal digiun distrugger tanto,
Che vinto, sia da l’affamato affetto,
Si ch’à satiar la sua digiuna scorza
Non bastin le mie spighe, e la mia forza.
Perche ’l lungo camin non ti spaventi
Dovendo ire à trovar l’Artico polo,
Prendi co ’l carro mio gli aurei serpenti,
E ver la fredda Scithia affretta il volo.
Drizz’ella al vol contra i più freddi venti,
E giunge al monte abbandonato, e solo.
E vede lei, che fuor de l’antro stassi
Pascendo il suo digiun fra scogli, e sassi.
Ogni occhio infermo suo si stà sepolto
In una occulta, e cavernosa fossa.
Raro hà l’inculto crin ruvido, e sciolto,
E di sangue ogni vena ignuda, e scossa.
Pallido, crespo, magro, e oscuro ha il volto,
E de la pelle sol vestite l’ossa:
E de l’ossa congiunte in varij modi,
Traspaion varie forme, e varij nodi.
De le ginocchia il nodo in fuor si stende,
E per le secche coscie par gonfiato.
La poppa, ch’à la costa appesa pende,
Sembra una palla à vento senza fiato.
Ventre nel ventre suo non si comprende,
Ma il loco, ù par, che sia già il ventre stato.
Rassembra in somma l’affamata rabbia
D’ossa una notomia, che l’anima habbia.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Come l’Oreada Dea di lei s’accorge,
Si stà tutta paurosa, e non s’appressa,
Che con tal rabbia trangugghiar la scorge,
Che teme forse esser mangiata anch’essa.
Ó per non s’affamar lontan le porge
Con breve dir l’ambasceria commessa.
Pur se ben vide à lei lontan la fronte,
Tornò quasi affamata al patrio monte.
Se ben l’ingorda Fame è ogni hor contraria
A l’opre sante de la Dea Sicana,
Non hà in questo da lei la mente varia,
Anzi corre à infettar l’alma inhumana.
Ne vien contra Austro à vol fendendo l’aria,
E giunge à la magione empia, e profana,
E ritrova, ch’un sonno alto, et intenso
Ha tolto à quell’empio huom la mente, e ’l senso.
Con l’arrabbiate man tutto l’abbraccia,
Ch’ad infettarlo in ogni parte aspira,
E soffia pur ne l’infelice faccia,
E dentro al petto suo se stessa spira.
E mentre, ch’egli l’aura hor prende, hor scaccia,
Lo spirto de la fame inghiotte, e tira.
Si cangia il sangue in aere, e fuor ne viene,
E ’l soffio de la rabbia empie le vene.
Com’ogni vena sua fatt’hà digiuna,
E impresso il cor de l’arrabbiata voglia,
Torna à gli scogli suoi per l’aria bruna
A cor la steril sua radice, e foglia.
La nova d’Eresittone fortuna
Già l’esca in sogno à masticar l’invoglia,
E secondo, che ’l sogno il cibo finge,
Il dente v’affatica, e l’aura stringe.
Ma poi, ch’insieme il sonno, e ’l sogno sparse,
E sentì quell’ardor, ch’entro l’arrabbia,
Fece, che in copia la vivanda apparse,
E ne fe dono à l’affamate labbia.
Ma quanto più mangiò, tanto più n’arse,
E crebbe del mangiar maggior la rabbia.
Cerere, e Bacco, e con la copia il corno
Donato al ventre havria tutto in un giorno.
Se si diporta, ò se negotia, ò siede,
Ó se per riposar si dona al letto,
E desto, e in sogno la vivanda chiede,
Ne satio render può l’ingordo petto.
Cio, che la terra, e ’l mare, e ’l ciel possiede,
Dimanda, e dona all’arrabbiato affetto.
Ne i pesci, ne gli augei, ne i grossi armenti
Bastan per satollar gli avidi denti.
L’armento, il pesce, il gran, la vigna, e ’l frutto
Supplir non ponno al ventre suo digiuno.
Fà gire ogni hor per l’avido condutto
Vivanda nova al suo corpo importuno.
E quel, che può supplire al popol tutto,
Non può (chi ’l crederia) supplire ad uno.
Che mentre gode il cibo, il cibo brama,
E quanto più trangugghia, più s’affama.
Si come il mar nel suo capace seno
Tutti i fiumi terreni inghiotte, e serra,
E satollar giamai no ’l ponno à pieno
Tutte l’acque perpetue de la terra:
Cosi il miser mortal non è mai pieno,
Se ben cibo perpetuo il dente afferra.
Che non sol l’esca in copia à lui non giova,
Ma sete induce in lui d’altr’esca nova.
Come mai non ricusa il bosco, e l’esca
La fiamma, ch’alta al ciel manda la vampa,
Ma il novo cibo aggiunto fà, che cresca
Tanto maggior la sua vorace lampa;
E quanto piu la selva in lei rinfresca,
Tanto più ne divora, e più s’ vampa;
E chi il cibasse, crescerebbe il foco
Tanto, che ’l mondo à lui sarebbe poco:
Cosi, se l’infelice il cibo prende,
Et à la gola cupida compiace,
Non la satolla, anzi l’ardore accende,
E maggior forza accresce à la fornace.
E più, che le porge esca, più n’attende,
E diventa più rapida, e vorace.
Ne può supplire al suo arrabbiato zelo
Quanto può dar la terra, il mare, e ’l cielo.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||ottavo.|150}}</noinclude><poem>
Già in buona parte diminuto havea
La facultà ricchissima paterna,
Ne però diminuta esser vedea
Per tanto divorar la fame interna.
Ne l’inghiottir perpetuo empir potea
La sempre voracissima caverna.
Ma à pena al pasto havea dato ricetto,
Che si dolea d’haver digiuno il petto.
Poi che giù per la canna ampia, e profonda
Tutto il suo patrimonio hebbe mandato,
Gli restava una figlia alma, e gioconda,
Non degna di tal padre, e di tal fato.
Hor poi, che d’altro bene ei non abonda,
Per satisfare à l’avido palato,
Con la solita mente empia, e proterva
Vende la carne propria, e falla serva.
Ella, che generosa à maraviglia
Era, et havea la servitute à noia,
La lingua al Re del mar volse, e le ciglia,
C’hebbe da lei già l’amorosa gioia.
Qualche partito, ò Dio de l’onde piglia
A la ria servitù, che si m’annoia:
E s’io ti piacqui mai, per premio chieggio,
Che m’involi à costui, cui servir deggio.
Non disprezza il suo prego il Re de l’onde,
E ben ch’al suo signor foss’ella avante,
Subito cangia à lei le chiome bionde,
E ’l suo leggiadro angelico sembiante.
E sotto un volto d’huom la donna asconde,
C’have una canna in man lunga, e tremante,
Con cui su ’l lido s’affatica, e pesca,
Gittando in grembo à l’onde il ferro, e l’esca.
Lo stupid’huom, che più colei non vede,
Con cui credea goder l’infami piume,
S’aggira intorno, e guarda, e indietro riede,
E non può riveder l’amato lume.
Poi che quivi non scorge altro, ne chiede
Al pescator del tridentato Nume,
Dimmi, se ’l Re del mar sempre sia teco,
Dove è gita colei, ch’era qui meco.
Se ’l mare ogn’hor ti sia muto, e composto,
E à l’esca dia favor, che ’l pesce appella,
Dov’ha la donna il suo volto nascosto,
Ch’innanzi à me venia povera, e bella.
Non sò, dove il suo piede habbi riposto,
Più lunge non appar l’orma novella.
Se ’l pesce l’esca tua credulo imbocchi,
Dimmi, come m’è sparsa innanzi à gli occhi.
Conosce allhor, che ’l Re de l’onde Metra
La gratia, onde pregò, l’have concessa,
E s’allegra fra se, mentre egli impetra
Da lei, che nova à lui dia di se stessa.
E con questo parlar da se l’arretra,
E al proprio albergo il fè tornar senz’essa.
Ignoto peregrin da queste sponde
Io non ho gli occhi mai tolti à quest’onde.
E cosi il Re del mar porga à quest’arte
Quel liberal favor, ch’io le desio,
Come d’huom non ho visto in questa parte
Altro segnal, che ’l tuo vestigio, e ’l mio.
Scornato il comprator da lei si parte,
Senza poter dar luogo al suo desio.
Et ella, che di lui più non ved’orma,
Si sente ritornar la prima forma.
Quindi ritorna, e conta al suo parente
Come ella apparse hor pescator, hor donna.
Come da lei l’ingordo padre sente,
Che può, se vuol, cangiar l’humana gonna,
Costretto da la fame immantinente
Fà, ch’un nuovo signor di lei s’indonna.
Cangia ella, per fuggir, l’alme, e leggiadre
Membra, e si fà giumenta, e torna al padre.
Vende poi il padre, e cinque volte, e sei
L’amabil viso, e d’ogni gratia adorno,
E quanto pregio haver puote di lei,
Tanto al ventre ne dà lo stesso giorno.
Usando ella i suoi inganni ingiusti, e rei,
Tutti, che la comprar, lasciò con scorno.
Hor bue si fece, hor corvo, et hora augello
Per dar l’esca non giusta al padre fello.
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||151}}</noinclude>
{{Ct|f=120%|v=1|t=3|ANNOTATIONI DE L'OTTAVO LIBRO.}}
<div class=note>
{{Sc|Scilla}} spinta dal soverchio amore ch’ella portava a Minos taglia a simiglianza di Dalida che tagliò i crini a Sansone, il crine fatale al padre Niso, ilquale figuraremo per la ragione che mentre che ha in esso l’imperio assoluto, vede haver ancora un crine fatale, che è il vero Amore verso Dio, e verso il prossimo; per il quale non può essere tratto fuori del suo regno, da qual si voglia artifitiosa malignità de gli inimici suoi, ne meno può essere spento dalla morte. Se non che può essere colto dalla figliuola, che non è altro che la volontà inamorata del mondo, come fu colto Niso da Scilla sua figliuola inamorata di Minos, onde il mondo tendendo insidie alla ragione; & assediandola, come assediava Minos il regno di Niso, la sua figliuola che è la mala affettione, volta alle cose del mondo, spegne in lui la charità, di maniera che vien’a perdere la ragione, la vita e l’imperio insieme; non potendo poi la mala affettione godere a pieno i piaceri del mondo disperata, è per pena del suo errore trasformata in una Lodola, uccello che continuamente va saltando, e volando, ne si vede giamai fermo; cosi la volontà che fa tradimento alla ragione, e la fa perder la vita, e l’imperio, non si potendo fermare in cosa del mondo, dicendo Bernardo, che la volontà nostra come quella che è capace di Dio; non ha altra cosa, che l’istesso Iddio che la possi sacciare, e renderla quieta, però va errando per l’onde del mare di questo mondo, perseguitata dalla ragione figurata nell’Aquila, che si come l’Aquila fissa l’occhio nel Sole, piu d’ogni altro uccello, cosi la ragione guida l’intelletto alla cognitione di Dio meglio di qual si voglia altra parte dell’anima, come quella che la vorrebbe ridure a miglior camino, facendola morire alle cose fugaci, e transitorie, e voltare all’amore delle eterne, e divine, nelle quali havrà il suo vero riposo. S’inamorò Scilla di Minos salendo sopra la torre che rendeva l’armonia della cetra di Apollo; cosi la volontà s’inamora delle cose del mondo, salendo sopra la torre della comodità de gli ogetti propinqui, e del piacere delle delicie.
{{Sc|Con}} quante belle e proprie digressioni va l’Anguillara quivi ingeniosamente descrivendo gli affetti, della infelice Scilla: come si vede nella stanza, ''O sordo piu d’ogni crudo aspe, e fero'', e nelle seguenti.
{{Sc|Pasiphe}} inamorata di un Toro per opera di Venere, e si congiunge per mezzo dell’ingegno di Dedalo con l’altiero animale, e s’ingravida del Minotauro, ch’era mezzo huomo, e mezzo Toro; hanno voluto alcuni che questa favola sia semplice historia, dicendo che Minos Re di Candia, essendo andato alla guerra; un suo secretario chiamato Toro rimase in Candia per i negocij del regno, e che Pasiphe s’inamorò ardentissimamente di lui, di maniera che per opera di un suo fidatissimo camariere gode dell’amore suo, e ne rimase gravida di un figliuolo; che nato poi parte simigliava a Minos, e parte a Toro, e per questo gli fu posto nome Minotauro. Nondimeno o sia historia, o sia favola, non è che non vi si possi trare una bellissima Allegoria, figurando Pasife figliuola del Sole per l’anima nostra, veramente figliuola del Sole, che è Iddio; che tutto che la sia maritata alla ragione, che la deve guidare per sempre che non la sdruccioli strabochevolmente nelle delicie, e ne i piaceri del mondo, che la deviino poi dal dritto camino; ha nondimeno Venere per inimica, perche il piu delle volte si lascia per mezzo suo spiccare dalla ragione, accostandose al Toro, che non è altro che la simiglianza bestiale che piglia l’huomo allontanandose dalla ragione, del quale rimanendo gravida partorisce il Minotauro, che è un’huomo mezzo bestia, e mezzo huomo; che è dapoi rinchiuso nel laberinto che è pieno di strade tortuose che non conducono giamai al desiderato fine; cosi i piaceri, e le delicie intricano, & aviluppano l’huomo in questo mondo divenuto monstruoso, che non può giunger giamai al suo vero fine. Quivi si vede quanto vagamente è descritta questa favola, dall’Anguillara, e rapresentata vivamente, e con giudicio, e quanto sia bella la comparatione della stanza, ''Come se ’l Tebro altier l’irata fronte''.
{{Sc|La}} favola di Arianna; si può intendere historicamente, che essendo Arianna in quell’Isola abondantissima di Vino, ne bevesse soverchiamente, onde adormentatasi, Theseo partendosi vi la lasciasse; Onde essendo veduta da Bacco cosi ben’aconcia dal suo liquore; fu presa dal lieto Iddio per moglie; e perche la donna che si lascia facilmente vincere dal vino; facilmente si lascia ancora vincere da i piaceri di Venere; per questo Bacho le donò la corona fatta gia da Vulcano per Venere, che non si può dire che fusse altro che i segni della sua dishonesta vita; con i quali segni è portata<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>in Cielo; che vien’a dire che è scoperta da ogn’uno è conosciuta per donna poco pudica. Se in luogo alcuno l’Anguillara si è affaticato con l’ingegno di concorrere con l’Ariosto, si è affaticato in questa descrittione del lamento di Arianna, fatto da quel gran Poeta in persona di Olimpia: perche quivi si potrà vedere apertamente da i giudiciosi, con quanta arte e vaghezza habbi rappresentato quell’amarissimo cordoglio della mesta donna vedendose abandonata, con quai spirti, con quali affetti, con quali contraposte, digressioni proprie, conversioni efficaci; e quanto vivamente habbi spiegate tutte quelle parti che possono mover l’animo altrui ad haver pietà dell’infelice donna; come si poteva meglio rapresentare le risposte di Ecco? di quello che si vede nella stanza, ''Guarda s’altro vedere che ’l lito pote''; in vero in questa parte pensarò che habbi avanzato se stesso, cosi s’ha ben saputo valere dell’arte, e del giudicio; e trasformarse in quelle cose che haveva in animo di rapresentare.
{{Sc|Il}} volo di Dedalo, e del figliuolo ci da a vedere che quando l’ambitione, e ’l desiderio delle cose alte è frenato dalla ragione, e dalla prudenza, non passa i termini lasciandose piu di quello che ricercano i meriti, onde fa giungere l’huomo dopo il corso di questa vita al desiato fine; come saggiamente fece Dedalo, ma quelli che a simiglianza di Icaro vogliono lasciarse piu che non dovrebbero, trasportati da uno irregolato desiderio vengono poi a cadere nelle miserie del mondo, figurate per l’onde del mare, con biasimo e danno irreparabile.
{{Sc|Meleagro}} che per isdegno della madre, vien meno, essendo arso il tizzon fatale della vita sua ci fa conoscere, che l’humido radicale vien meno in noi tutta volta che la discordia che è fra le parti elementali in noi, il consuma prevalendo l’ardore della febre; che ci conduce alla morte; si vede quindi quanto artificiosamente il Poeta volgare, habbia descritta quella contentione che era nell’animo di Altea intorno la morte di Meleagro, spingendola da una parte il dolore della morte de i fratelli, e dall’altra la pietà materna verso il figliuolo, con quante belle contraposte, digressioni, conversioni, come quella ''Ahi madre iniqua e ria che far intendi? Vuoi divenir per tal vendetta infame?'' la comparatione poi l’ha arricchita di maniera che se ’l medesimo Ovidio l’havesse voluta scrivere nella lingua nostra, non l’havrebbe potuta piu vivamente, e propriamente rapresentare.
{{Sc|Le}} Nimphe che furono trasformate nelle Isole Echinadi, da Acheloo fiume che divide scendendo dal monte Pindo, l’Etolia, dall’Acarnania; perche non volsero porgerli i dovuti sacrificij come fecero a gli altri Dei, significano che quei luoghi che per essere privi di humidità; per la quale s’interpreta questa voce Ninfa, non possono far sacrificio a i fiumi, che non è altro che dar loro tributo di qualche rivulo, sono trasformati in Isole, che non è altro che essere lasciati nella loro siccità, non potendo l’acque inondarli, se bene li possono circondare. Theseo che tiene l’invitto del fiume, chiamato del nome, che gli antichi chiamavano l’Acqua; dopo che parti dalla caccia del fiero Cinghiale Calidonio, significa che è raccolto gratamente dall’acque, quello che pieno di sete dopo una lunga fatica, si ripara e ristora all’ombra di un fonte, o d’un fiume, spegnendo l’ardore della sete. Si vede quivi con quanta leggiadria l’Anguillara descrive una inondatione di un fiume alterato da soverchie pioggie; facendovi alcune belle digressioni, comparationi, & altri adornamenti Poetici, come ancora descrive felicemente l’habitatione del fiume, e come le goccie che escono da diversi antri e luoghi nascosti, vengono a divenir fonte, e di fonte si fanno aitare poi da altri rivuli, a fiumi grossissimi.
{{Sc|Si}} vede in Perimele gettata dal padre Hippodamante nel mare, e divenuta scoglio, per essere stata corrotta dal fiume Acheloo, quanta forza habbi in un’animo generoso la conservatione dell’honore, quando per tenerlo purgato, lucido, e chiaro non si ha rispetto ne a moglie, ne a figliuoli, ne a qual si voglia stato del mondo.
{{Sc|In}} Giove, e Mercurio che trasformati di Dei in huomini, per conoscere come si portavano gli huomini, intorno l’usar cortesia raccogliendo amorevolmente i forastieri nelle loro habitationi e comunicando loro de i beni che si trovavano; si conosce quanto il grande Iddio sia stato sempre cosi vago, di vedere nodrire l’amore, e l’affettione fra le sue creature piu nobili; come ancora severo nel far vendetta di quelli, che mancano in questa parte come si potrebbono addurre molti, e molti essempi e fra gli altri questo della terra sommersa, per non haver voluto raccoglierli onde il trasformarse che fa in huomo si è il mirare alle volte le operationi de gli huomini; non trovano nella patria di Filemone, e Bauci chi li raccolga amorevolmente nella casa sua, dia loro a mangiare, ne usi loro alcuna maniera di cortesia, ogn’uno li fugge, ogn’uno chiude loro la porta in faccia; soli i poveri vecchi che sono fuori di quella avara, e ingrata terra; gli alloggiano, e fanno loro parte della loro povertà, con pura, e calda affettione cosa che ci da essempio, che sono molto piu pronti a gli ufficij<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||152}}</noinclude><noinclude><div class=note></noinclude>della cortesia, i poveri che sono fuori della terra in stanze humili, e vili che non i ricchi, che stanno ne i magnifici, e soperbi palazzi, e pero i Dei, come quelli che amano l’amorevolezza, lasciano la terra soperba, e s’alloggiano nella picciola e povera casa con l’amorevolezza; e cosi poi sommergeno per giusta vendetta sua, la superbia, la ricchezza, e le delicie, che sono rinchiuse fra le cinte di mura, come ancora nobilitano, inalciano, et fanno immortale quella quantunque povera habitatione, che con puro zelo d’Amore i raccoglie; quivi si può vedere quanto sia cieca, e maligna la natura nostra, che quelli che possono usare i termini della cortesia, come comodi, e ricchi non vogliono; e quelli che non possono per la povertà loro vorrebono. Onde si vede che i poveri sono cosi per la maggior parte accompagnati da grand’animo con poche forze, come i ricchi da poco, e vile animo, con molte forze, e crederò che Iddio habbi voluto che sia contrapesata cosi in questi, come in quelli questa differenza, a fin che ravedendose al fine e gli uni, e gli altri, cosi restringhino i poveri il loro grand’animo, ne i termini delle loro picciole forze, come ancora i ricchi l’allarghino in quelli delle loro molte forze, comunicando quei beni de i quali soprabondano, a quelli che ne sono sempre in necessità; e riconoscendoli dalla bontà di Dio, come suoi dispensatori, e non come Tiranni, essendo specie di tirannia; tenire rinchiusi quei doni che manda e produce iddio per la università de gli huomini, per satisfare a un’ingordo, e disordinato desiderio di havere; con tanto danno e miseria di quelli che viverebbono, di quello che soprabondono loro; ancora che si conoschi chiaramente che per la maggior parte quelli che sono comodi, e ben’istanti quanto piu sono ricchi, tanto piu sono avari, e desiderosi di maggiori ricchezze; o perche le medesime richezze venghino accompagnate da questa ingordiggia insatiabile di havere; overo, che la nostra natura tenda quasi generalmente, per naturale inclinatione a questa malignità, come tende ancora in molti altri vicij. Furono Filemone e Bauci trasformati in due quercie appresso il lor tempio, che non fu altro che essere fatti immortali, per gratitudine de gli Dei, del ricevuto beneficio, essendo la quercia arbore che vive piu di qual si voglia altro arbore, e per questo se ne facevano le corone da gli antichi ne i trionphi, prima che Apollo facesse conoscer’il Lauro.
{{Sc|Proteo}} figliuolo di Nettuno che era tenuto appresso gli Egitij un grande indovino; e trasformava gli huomini in diverse qualità di cose, quando in animale, e quando in arbore, o cose simili, quando gli tornava bene; è mera historia esssendo stato un’huomo di questo nome prudentissimo, e molto aveduto; il quale havendo gran cognitione delle cose passate applicandole con alcune congietture, sapeva prevedere molte cose dell’avenire, e per questo era tenuto per grandissimo indovino; cangiava ancora gli huomini in diverse forme quando alterava gli animi loro con diverse passioni, le quali sogliono trasformare gli huomini che sono sotto il dominio loro, quando in fiere, e quando in animali di manco offesa, secondo le qualità male loro.
{{Sc|L’empio}} Eresichtone spregiatore della potentia de gli Dei, che fa tagliare la quercia sacra a Cerere, che diremo che sia altro che l’avaritia? la quale ha tanta forza ne gli huomini che li fa spreggiatori della potentia di Dio, come quella che non conosce altra possanza che quella dell’oro, e delle ricchezze; taglia l’empio arbore sacro a Cerere che è Dea dell’abondantia, quando taglia il camino alla sua intentione, con il coltello del suo veneno apropriando avaramente a se medesima, tutti quei beni che sono produtti da Cerere per beneficio universale, et a fin che fussero comunicati, in tutte le parti, vien’al fine l’ingorda in tanta fame, e in tanta rabbia per giusta vendetta della Dea, che quanto piu magna, tanto piu cresce l’ardentissima voglia di mangiare, se mangia chiede sempre nuove vivande ingordamente, se dorme, mangia in sogno, et in tutte le sue operationi; vuol mangiare cose tutte che molto convengono all’avaro, e gli sono molto proprie, perche quanto piu arricchisse, tanto piu desidera di havere ne può giamai veder satia quella sua insatiabile ingordigia che può tanto in lui, che l’induce sino a vendere con ogni maniera d’infamia le proprie figliuole per haver dinari, come vende Eresichtone Metra sua figliuola; sottomettendola a questo e quello, ond’ella ne diveniva hora un Pescatore, hora un Bue, et tal’hora qualche altro animale, si come le era donato da quelli che la godevano dishonestamente, in quei tempi, che non erano ancora in uso le monete d’oro, e di argento.Con quanta vaghezza ha l’Anguillara poi imitato Ovidio nella descrittione della habitatione della fame non fa bisogno ch’io lo mostri con molti lunghi giri di parole, potendolo ogni quantunque debile ingegno molto ben conoscere, come può ancora conoscere la effigie, e l’operationi sue, e nel modo che l’abbracciò l’empio Erisichtone: a fin che sappiamo fuggire i suoi abbracciamenti.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Qui pose fine à suoi preghi devoti
La madre ver la Dea non senza pianto.
E in segno, che seguir doveano i voti,
Tremò del sacro altare il marmo santo.
Lasciar gli stupefatti sacerdoti
De sacri carmi il glorioso canto.
Tremar del tempio le gran porte, e i palchi,
E ’l suon dier fuora i sistri, e gli oricalchi.
L’argento, ond’ha la Dea la testa adorna,
De la Luna imitar volle l’essempio,
E venner luminose ambe le corna,
E ’l lume lor mandar per tutto il tempio.
La madre à la magion non certa torna
Del tutto di fuggir l’occulto scempio.
Pur dell’augurio buon l’alma ha più lieta,
E spera più ne la divina pieta.
Ifi segue la madre, e ’l passo molto
Move maggior del solito costume,
Et è più grande alquanto, e non ha il volto
Tanta delicatezza, e tanto lume.
Et ogni membro suo più forte, e sciolto
Sente, e volge à la madre il motto, e ’l lume.
Et ode, come il suo parlar mosso have,
La voce più robusta, e men soave.
La madre la sonora ode favella,
E incontra il guardo con la sua pupilla,
E vi trova quel ben, che la donzella
Suol ritrovar nella viril favilla.
La fronte sua, ch’à l’huom parria men bella,
A lei par più felice, e più tranquilla.
E mentre il guarda ben dal sommo al fondo,
Men pien ha ’l petto, e ’l crin corto, e men biondo,
Mentre stupiscon, lor l’orecchie fiede
Un suon, che vien da l’aere in queste note.
Non vi rallegri il cor timida fede,
Ma l’opre sante mie rendete note.
Come vero fanciullo esser si vede
Ifi, và con parole alme, e devote
Al tempio con la madre, e la nutrice,
E paga il voto, e ’l suo miracol dice.
Palesa à sacerdoti il suo don fido,
E pon l’asse à l’altar co ’l carme scritto.
Nel tempio il sacerdote alza co ’l grido
Il raro don, che fè la Dea d’Egitto.
La fama andò co ’l vol di lido, in lido,
E mosse tutta l’isola à quel dritto.
E d’ogn’intorno il mondo anchor vi mosse,
E voller, che quel dì solenne fosse.
Intanto suona à Litto un’altro carme,
Dove in disparte à l’opra intende agreste.
Non mover dice più timido l’arme,
Ne l’alme, che ’l tuo sangue incarna, e veste;
Fà, che à soffrir la povertà ben t’arme,
Ne diffidar de la pietà celeste.
Loda de la tua moglie il santo zelo,
Co ’l gran favor, che l’ha fatt’hoggi il cielo.
Attonito il buon’huom del pio consiglio,
Che parla à lui da la superna parte,
China il ginocchio, alza la mano, e ’l ciglio,
E rende gratia al cielo, e poi si parte.
Nel tempio poi, dov’è la moglie, e ’l figlio,
Ode il divin favor parte per parte.
E mentre ogn’un la Dea loda co ’l canto,
Pentito, e chin la loda egli col pianto.
L’altro mattin dopo il solenne giorno
Havea già il Sole il mondo al mondo aperto,
Quando il notturno quei lasciar soggiorno,
Ch’à l’amor dar dovean l’ultimo merto
Tosto, che ’l carro suo di stelle adorno
La notte havesse à gli huomini scoperto:
E pregaro Himeneo, Venere, e Giuno
D’ogni favor più proprio, e più opportuno.
Giunone, et Himeneo con Citherea
Lasciar quel giorno il mondo de le stelle,
E fè risplender l’una, e l’altra Dea
Con Himeneo le più chiare facelle.
Nel letto, che lo sposo usar solea,
Fer d’ambi entrar le membra ignude, e belle.
E co ’l favor de l’alme elette, e sante,
Ifi godè fatt’huom la bella Iante.
</poem>
[[en:Metamorphoses (tr. Garth, Dryden, et al.)/Book IX]]
[[es:Las metamorfosis: Libro IX]]
[[fr:Les Métamorphoses/Livre IX]]
[[la:Metamorphoses (Ovidius)/Liber IX]]<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" />{{RigaIntestazione}}</noinclude>
{{Ct|f=120%|v=1|t=2|LIBRO NONO}}
{{FI
|file = Ovidio - Le metamorfosi (page 316 crop).jpg
| tsize = 80%
| float = center
| caption =
}}
<poem>
{{capolettera|T}}eseo, ch’ode i sospiri, e ’l pianto vede,
Ch’asconder cerca il Calidonio fonte,
Lascia, che si rihabbia alquanto, e chiede
Con modi, e con parole accorte, e conte,
Qual sia l’aspro dolor, che ’l cor gli fiede,
E chi d’un corno gli privò la fronte.
Ei l’inornato crin prima raccoglie
Fra canne in cerchio, e poi la lingua scioglie.
Dura gratia mi chiedi in questa parte,
E gravar non mi puoi di maggior pondo:
E chi conteria mai quel flebil Marte,
Dove da solo à sol fu posto in fondo?
Pur ti conterò tutto à parte à parte,
Perche fu il vincitor si raro al mondo:
Ch’à tanto incarco il perder non m’arreco,
Quanto ad honor l’haver pugnato seco.
Credo, ch’inteso havrai (che non è molto)
Che d’Eneo Re di Calidonia nacque
La bella Deianira, il cui bel volto
A mille amanti, e al forte Hercole piacque.
Ne de suoi dolci nodi io restai sciolto,
Ma del foco d’Amore arsi in quest’acque.
Comparsi poi, che ’l mio lume la vide,
Dov’era il padre, e con mill’altri Alcide.
Di quei, che lei volean chieder consorte,
Presi da le bellezze uniche, e nove,
Non vi fu alcun si coraggioso, e forte,
Che non cedesse al gran figlio di Giove.
Solo io volli con lui tentar la sorte,
E de le forze sue veder le prove.
E in presenza d’Alcide mi conversi
Al Re suo padre, e genero m’offersi.
Mi riguardò il rival con qualche sdegno,
Poi volto al vecchio Eneo l’affetto e ’l zelo,
Fà de la figlia tua me (disse) degno,
Degna, che socero habbia il Re del cielo.
E qui contò le forze, e ’l grande ingegno,
Che tanti mostri havean fatti di gielo,
E c’havea superata ogni maligna
Impresa, imposta à lui da la matrigna.
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||nono.|153}}</noinclude><poem>
Gli dico à l’incontr’io, ch’un huom mortale
Fà grand’error, se si pareggia à un Dio.
Non l’havea anchora il suo corso fatale
Fatto di quei del regno eterno, e pio.
Io son signor d’acqua infinita, e tale,
Che fa chiaro per tutto il nome mio,
E vò per lo tuo regno illustre, e altero,
Ne genero di te sarò straniero.
E s’ei si gloria haver con mille mostri
Durata per Giunon tanta fatica:
Tutto il suo dir non vò, ch’altro ti mostri,
Se non, ch’egli ha la Dea del ciel nemica.
Non noccia almeno à gli altri merti nostri,
S’ho sempre à voti miei Giunone amica:
Ne mi convien per obedire à lei
Espormi à mille danni ingiusti, e rei.
Se per far tue le sue membra leggiadre,
Tu per la nobiltà vuoi farti avanti,
Se la mogle d’Anfitrio à te fu madre,
Come vien tu à regni eterni, e santi?
Che se vuoi dir, che Giove ti sia padre,
Disceso d’adulterio esser ti vanti.
E se pur vuoi negar d’esser bastardo,
Ti fai del maggior Dio figliuol bugiardo.
Mentre il cerco abbassar con questo oltraggio,
Volge ver me la vista oscura, e fella,
E nel parlar di me più parco, e saggio,
Senza dar biasmo à me cosi favella.
La forza à me servir suole, e ’l coraggio,
E più pronta ho la man, che la favella,
E pur, ch’abbatta te con questa palma,
Habbi pur tu nel favellar la palma.
Tutte ignude egli havea le braccia, e ’l petto.
Sol d’un fero Leon si copria il dorso.
La cui testa crudel con crudo aspetto
Gli armava il capo, e quel tenea co ’l morso.
La pelle inferior copria l’obbietto,
Che vergognoso fà l’human discorso.
Cosi vestito, e tutto il resto ignudo
Ver me si mosse impetuoso, e crudo.
Io, che conosco in lui l’accese voglie,
C’ha di mandarmi perditore in terra,
Per guadagnar la desiata moglie
Non con altra ragion, che con la guerra,
Getto dal dosso mio le verdi spoglie,
E ciò, che con la man meglio s’afferra,
E sol lascio al mio corpo tanta fronde,
Che quel, che debbe ogni huom celar, m’asconde.
Le gambe allargo, e in terra ben le fondo,
E oppongo (poi che non habbiam altr’arme)
Le braccia, e in ogni parte altier rispondo,
Ne lascio al fero aspetto spaventarme.
E giro il corpo, e l’occhio, e fo secondo
Veggo aggirarsi lui per afferrarme,
Ne men di lui disposto à la contesa
Cerco d’esser il primo à far la presa.
Poi che si vede haver tentato in vano
D’imprigionarmi hor l’uno hor l’altro braccio;
Però ch’à lui fà sdrucciolar la mano
Il continuo sudore, ond’io mi sfaccio:
Alquanto si ritrahe da me lontano,
E, perche più il mio humor non gli dia impaccio,
China le mani à terra, e si risolve
V’empir le palme sue di secca polve.
Anch’io mi chino, e coraggioso il guardo,
E con la terra fo la man più franca.
Per afferrarmi ei vien fero, e gagliardo
Hor con la destra palma, hor con la manca.
Le braccia oppongo, e in lui fermo lo sguardo,
Acciò che non mi stringa ò ’l collo, ò l’anca;
E mentre l’un con l’altro s’incatena,
Ei me di polve, io lui spargo d’arena.
Egli, che del lottare era maestro,
E sapea dove più s’offende altrui,
M’annoda con la manca il braccio destro,
Stringo io co ’l pugno destro il manco à lui.
E ben, ch’io sia più grave, egli è più destro,
E meglio scorge gli avantaggi sui.
Hor mentre l’inimico ogn’un rispinge,
L’un braccio sciolto, e l’altro anchor si stringe.
</poem><noinclude></noinclude>
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Facciam larga la lotta, e ogn’un le piante
Ben fonda in terra, e stassi in su l’aviso.
Egli mi spinge, e mentre io sto costante,
E lui rispingo, mi coglie improviso,
E con gran scossa à se co ’l capo avante
Mi tira, e fui per dare in terra il viso,
Con tal forza ver se la scossa diede,
Pur la gravezza mia mi tenne in piede.
Ci ritiriamo alquanto ogn’un da parte,
Per interrar la ruggiadosa palma:
Dapoi torniam di novo al fero Marte,
E ci abbracciam per riportar la palma.
Gamba ei con gamba annoda, e con quest’arte
Cerca atterrar la mia più grave salma,
E poi, che questa lotta non gli giova,
Diversi modi un dopo l’altro prova.
Come il furor de l’onde il duro scoglio
Ribatte, e ’l peso proprio il fa sicuro:
Cosi ribattev’io l’acceso orgoglio
D’Alcide, e stava ponderoso, e duro.
Un’altra volta anchor da lui mi scioglio,
E poi di raffrontarlo m’assicuro;
E in questo membro, e in quello il pugno incarno,
E cerco d’atterrarlo, e sempre indarno.
Come toro con toro ardito, e forte,
E due, e tre volte ad incontrar si torna,
Per guadagnar frà molte una consorte,
Ch’assembra lor d’ogni belta più adorna;
Stan gli armenti à guardar la dubbia sorte,
E chi di lor più dure havrà le corna,
Chi farà il ciel de la vittoria degno
Di tanto amato, e pretioso regno:
Cosi ciascun di noi per quella sposa,
Che ne par sopra ogni altra unica, e bella.
Si stacca due, e tre volte, e poca posa,
Che cerca d’attaccar pugna novella.
Il padre de la vergine amorosa
Stava intento à mirarci, e v’era anch’ella.
E con la corte sua stava in pensiero
Chi la vittoria havria di tanto impero.
Fà tanto al fin, ch’al mio collo s’appiglia,
E con le forti man l’annoda, e tira.
Mi guasta la corona, e mi scapiglia,
E già si forte à la vittoria aspira,
Ch’ogn’un, ch’è intorno, mormora, e bisbiglia,
Ch’io perderò la lotta, e Deianira:
Che le sue man, che fean chinar la fronte,
Tal peso havean, ch’era men greve un monte.
Respirar non mi lascia, e ogni hor più il collo
M’aggrava, e con maggior vigor l’afferra.
Io pur m’aiuto, e m’affatico, e crollo,
Perche l’honor non habbia ei de la guerra.
Qui convien dire il ver, l’ultimo crollo,
Ch’egli mi diè, mi fè baciar la terra.
E non senza rossor di rabbia acceso
A giacer mi trovai lungo, e disteso.
Tosto, che di cadere Hercol mi sforza,
A l’arte propria mia la mente intendo,
E se ben sono inferior di forza,
Non però mi pacefico, e m’arrendo.
Mi cangio quella, c’hor mi vedi, scorza,
E d’un crudo serpente il volto io prendo,
E di man gli esco sibilando, e ardente,
E gli armo contra à un tratto il tosco, e ’l dente.
Quando un dragon mi scorge essere Alcide,
E contra il suo valor movere altr’arme,
Mi guarda, e schiva il mio morso, e sorride,
E mi dice. Acheloo, che credi farme?
Fanciullo essendo anchor mia madre vide,
Ch’io seppi da due serpi liberarme.
Questa tua forma à la mia destra è nulla,
Ch’i serpenti domai fin ne la culla.
E ben, che si gran serpe hora ti mostri,
Ch’i più lunghi dragon vinci d’assai,
Qual parte sarai tu de crudi mostri,
Ch’io nel lago Lerneo vinsi, e domai?
Tu con un capo sol qui meco giostri,
L’Hidra cento n’havea, ne la stimai;
E per ogn’un, ch’io ne troncai di cento,
Ne vidi nascer due di più spavento.
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Se ben cadere à lei più capi scorsi,
Non mai n’ancisi alcun senza due heredi:
Ogn’hor, ch’io l’oltraggiai, favor le porsi,
Ch’à me nemici, à lei soccorso diedi.
Fin posi al fine à suoi infiniti morsi,
E morta me la fei cadere à piedi,
Se bene hebbe dal fato, e da la sorte,
Che più che si feria, venia più forte.
Se l’Hidra, che prendea forza dal male,
Domata, e senza luce al fin rendei,
Ben di te havrò la palma trionfale,
Ch’una minima parte sei di lei.
E più, che la tua forma non è tale,
Ma dragon falso, e trasformato sei.
Se contra i serpi naturali ho vinto,
Che farò, s’havrò contra un serpe finto?
Hor mentre il falso mio vipereo morso
S’arma contra il valor via più c’humano,
E serpendo ver lui spiego il mio corso,
Et ei mi schiva, e ’l mio pensier fa vano:
Cerca di pormi entro à la bocca un morso,
E chiusa al dente mio stende la mano.
Io vò per afferrarla, e di lungo erro,
Ch’egli apre il pugno, e fa, ch’un lino afferro.
Del manto del Leon credo, che tolse
Quel lin, c’havea dentro al suo pugno ascoso.
Dapoi, ch’imprigionò secondo ei volse
La tela opposto il dente insidioso,
Fra le due man mi strinse il collo, e avolse;
E mi diè quasi à l’ultimo riposo.
Parea, ch’una tenaglia mi stringesse,
Talmente mi tenea le fauci oppresse.
Io con la coda pur m’aiuto, e scuoto,
Per uscirgli di man con molta rabbia,
E l’indurate gambe gli percoto,
Ne posso trovar via, ch’à lasciar m’habbia.
Al fin cangiando forma mi riscuoto,
E già co ’l pie del bue stampo la sabbia.
S’allarga il volto, e fà, ch’egli apre il pugno,
Et io co ’l corno altier di novo pugno.
Tosto, ch’un’altra forma mi possiede,
E c’ho di bue le corna, il volto, e ’l pelo,
Affretto contra lui l’irato piede,
Per torlo su le corna, e darlo al cielo.
Di novo ei ride subito, che vede,
Ch’io copro l’alma mia sott’altro velo,
E mostra al riso, e al ciglio men di prima
Tener del corno mio cura, ne stima.
Mentre, ch’io corro, ei stà fermo à l’incontra,
Ma come appresso à lui condotto ho il passo,
Si trahe da parte, e meco non si scontra,
Tal, ch’io per forza trasportar mi lasso.
Poi che ’l primo disegno non m’incontra
D’alzarlo al ciel, perche ruini abbasso;
Penso voltarmi, e ritentar di novo,
Ma un corno nel voltar prigion mi trovo.
Che trascorso, ch’io fui, dietro mi venne,
Tal, che mi giunse, et afferrommi un corno.
Subito ch’io sentij, che ’l pugno il tenne,
Mi scossi, e in van girai la fronte intorno,
Ne di poterla sprigionar m’avenne,
Anzi per doppio mio tormento, e scorno
Nel raggirarmi l’altro corno prese,
E al fin per forza in terra mi distese.
Io, che cangiarmi più non posso il manto,
Cerco drizzarmi, e liberar la testa,
E contra il suo poter mi scuoto tanto,
Ch’egli mi rompe un corno, e in man gli resta.
Mentre egli l’alza à l’occhio, e ’l mira alquanto,
Ne van le ninfe à lui con prece honesta,
E impetrano al mio mal gratia, e perdono,
E ’l corno tolto à me, chieggono in dono.
Hercole altier de guadagnati honori
Ver me fu pio, verso le ninfe grato.
Elle lui coronar di palme, e allori,
E ’l celebrar con verso alto, et ornato.
Di fuor poi il corno ornar d’herbe, e di fiori,
E dentro d’ogni frutto più pregiato,
D’ogni più grato don, ch’offre, e dispensa
L’Autunno in copia à la seconda mensa.
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La più prudente Ninfa, e meglio ornata,
Coronata di fior lo sparso crine,
Da le più belle Ninfe accompagnata
Sacra con cerimonie alme, e divine
Il mio corno à la Dea fertile, e grata,
La cui felice copia è senza fine.
Tal che la Dea contraria de l’inopia
Dal corno mio più ricca hoggi ha la copia.
Io mi trovai scornato, e senza moglie,
Con doppio dishonor, con doppio affanno,
Ben c’hoggi con corone, e canne, e foglie
Di salce ascondo alla mia fronte il danno.
La notte ascose havea l’accese spoglie
Del biondo Dio col tenebroso panno,
Quando honorò con gli altri il grato Fiume
Teseo co ’l cibo pria, poi con le piume.
Ben che promise lor nel novo giorno
Di contar quel, ch’avenne al forte Alcide,
Ma come fuor del mar di raggi adorno
L’apportator del dì da lor si vide,
Far più non si curar seco soggiorno,
Poi che lor l’onda il passo non recide.
Teseo con gli altri al suo camin si tenne,
Senza udir quel, che poi d’Hercole avenne.
Però che se ben’Hercol fù si forte,
Che vinse in guerra il Calidonio Dio,
E per premio acquistò quella consorte,
Che potea far più lieto il suo desio:
Da la non saggia moglie hebbe la morte,
Nel celebrare al ciel l’officio pio,
Ch’un dubbio, onde ella assicurar si volse,
A se il marito, à lui la vita tolse.
De la nova vittoria Hercole altero
Tornava con la sposa al patrio regno:
Ma l’onda Evena gli tagliò il sentiero
Superba uscita allhor fuor del suo segno.
Egli per tutto dà l’occhio, e ’l pensiero,
Se v’è per passar lei ponte, ne legno:
E mentre cerca in ogni parte il lido
Nesso incontra gli vien Centauro infido.
Nesso non men d’Alcide haveano preso
I bei lumi di lei, le chiome bionde,
E ver lui disse à l’empia froda inteso,
S’à nuoto ti da il cor passar quest’onde,
La donna tua per me fia leggier peso,
E per tuo amor darolla à l’altre sponde.
Hor se di te non hai, ma di lei tema,
Fà, che la donna à me la groppa prema.
Hercol, che non temea per se de l’acque,
Ma bramava per lei trovar soccorso,
Poi che passarla al rio Centauro piacque,
L’assise sopra il suo biforme dorso.
Questo à la donna suo pensier dispiacque,
Che del fiume temea l’horribil corso.
Ne men del mostro rio temenza havea,
Che sapea, che per lei d’amore ardea.
Ma come saggia non essendo certa,
Ch’ei dovesse mancar de la sua fede,
Non volle al suo consorte fare aperta
La piaga, ch’al Centauro amor già diede.
Per ischivar qualche battaglia incerta
Su la sua groppa timida si siede.
E prega, mentre passa, i sommi Dei,
Che rendan salvi il suo marito, e lei.
Hercol con gran vigor la mazza, e l’arco
Getta, e volar gli fa ne l’altra sponda;
Poi del Leone, e del turcasso carco
A nuoto va contra il furor de l’onda:
Ne cerca dove è piu sicuro il varco,
Ma dove di più giri il fiume abonda,
E ad onta de la piena alta, e sonante,
Ne la ripa di là ferma le piante.
Ripreso l’arco, e la superba trave,
De la sua fida sposa ode la voce,
E vede il mostro rio, ch’in groppa l’have,
Che via fugge con lei crudo, e veloce
Tosto lo sguardo suo severo, e grave
Diventa oscuro, horribile, e feroce.
Lo strale incocca, e dietro al mostro infido
Move l’offeso piè con questo grido.
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Dove fuggi ladron, dove ti porta
Del tuo piè cavallin la falsa spene?
Dove porti crudel la vera scorta
D’ogni riposo mio, d’ogni mio bene?
E pur ti dovrian far la mente accorta
Del padre ingiusto tuo l’eterne pene,
Che per lo suo adulterio ne lo inferno
Rotato ha sempre, e roterà in eterno.
Se pensi di fuggir, molto t’inganni
Co ’l tuo cavallo il meritato male,
Che s’io non ti potrò giungere, i vanni
Ti giungeran del mio veloce strale.
Perche la donna sua fugga quei danni,
Che le può dare il suo dardo mortale,
Prende sopra la sposa alta la mira,
E l’arco più, che puote, incurva, e tira.
Sopra i capei de la sua donna bella,
Mentre il Centauro rio più il corso affretta,
Nel tergo humano avelenata, e fella
Fere la velocissima saetta.
Com’ei sente lo stral, fra se favella,
Non vò però morir senza vendetta:
Gl’insanguinati lini al dosso toglie,
E cosi inganna poi l’Herculea moglie.
Questa del sangue mio vermiglia spoglia
Ha in se virtù mirabile, e valore,
Che verso chi la dona, accende, e invoglia
Chi in don l’ottien del suo possente amore.
Hor se giamai da l’amorosa voglia
Sarà per tempo alcun preso il tuo core,
Dona à quel, ch’ami, il mio sangue qui sparso,
E ’l vedrai dal tuo amor legato, et arso.
Che pur che da tua parte il dono ei prenda,
Sarai de l’amor suo fuor di sospetto,
Che sol di te forz’è, ch’Amor l’accenda,
E che d’ogni altro amor privi il suo petto.
Perche ’l tuo dubbio cor veda, et intenda
Quanto fosse ver te caldo il mio affetto,
Innanzi al mio morir, cui vicin sono,
T’ho voluto arricchir di questo dono.
La semplice d’Eneo credula figlia,
Che la virtù mentita al mostro crede,
Il falso don dal rio Centauro piglia,
E in parte il chiude poi, che non si vede.
Il figlio d’Ission chiude le ciglia,
E manda l’alma à la tartarea sede.
Giunge Alcide à la sposa, e via la mena
Ver la città, che bee de l’onda ismena.
Passati non che gli anni erano, i lustri
Dal dì, ch’ei giunse sposo à la sua terra,
E già facean d’Alcide i fatti illustri
Stupir del suo valor tutta la terra:
Ch’ovunque avien, ch’Apollo il mondo illustri,
Chiare memorie havean de la sua guerra.
Ne sol pugnato havea per tutto, e vinto,
Ma l’odio anchor de la matrigna estinto.
Quando ei tornato vincitore un giorno,
Vinta l’Ecalia, e la città d’Erito,
Sopra il monte Ceneo l’altare adorno
Di Giove intendea farvi il sacro rito.
E già la fama havea sparso d’intorno,
Ch’Alcide in quella pugna havea rapito
Detta per nome Iole, una donzella
Sopra ogni altra fanciulla adorna, e bella.
Hor quando vuol dopo tanta fatica
Rendere honor co ’l sacrificio al padre,
Che fè tanto di lui la sorte amica,
Che potè superar l’Ecalie squadre;
Fà un fedel servo suo, nomato Lica,
Gir per le vesti pie, ricche, e leggiadre,
Che servate gli havea la moglie intanto,
E ch’al culto servian fedele, e santo.
La gelosa consorte, c’havea inteso
Da la bugiarda ogn’hor cresciuta Fama,
Che havea del suo marito il petto acceso
La gran beltà de l’acquistata dama:
Pria, che ’l servo leal gravi del peso
De panni, che ’l consorte aspetta, e brama,
Chiede, se Iole è bella, e con qual modo
Preso habbia Alcide à l’amoroso nodo.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Per torle il servo accorto ogni sospetto,
Tosto, che ’l cor di lei geloso vede,
Giovane (disse) è d’un gentile aspetto,
Non però di bellezza ogni altra eccede:
Ne pare à gli occhi miei si raro obbietto,
Ch’ei debba à voi per lei mancar di fede.
Quel, che ne pensa far, dir non saprei,
Ne che n’arda d’amor, creder potrei.
Se ben pensa di dar qualche conforto
A la sospetta donna il messo fido,
Non può far, che non creda, e forse à torto
Quel, che sparso n’havea la fama, e ’l grido.
Per non far del suo pianto il servo accorto,
Mentre intende biasmar lo sposo infido,
Và in parte, (e dice à lui, ch’ivi l’attenda)
Ú si possa doler, ch’ei non intenda.
Dunque è pur ver, che questa Iole serba
Per sue delitie il mio stolto marito?
Ch’essendo bella, e ne l’eta più acerba,
Può dar ricetto al suo folle appetito.
Et una infame andrà lieta, e superba
D’un amante si forte, e si gradito?
Et io, che son la sua pudica moglie
N’andrò priva di lui, colma di doglie?
Non tien con questo dire il viso asciutto,
Ma sparso, e pien di copioso pianto:
E chiama il suo consorte ingrato in tutto,
E gli dà fra gl’infidi il primo vanto.
Disse (vedendo poi senz’alcun frutto
Le lagrime, onde è molle il viso, e ’l manto)
Non moverà il mio lutto Hercole à pieta,
Ma la nemica mia farà ben lieta.
Miglior rimedio qui trovar conviene.
Qui il pianto in tutto ho da lasciar da parte.
Ne debbo io far querela? ò pure è bene,
Ch’io taccia? et usi anch’io la froda, e l’arte?
E come il tempo commodo mi viene,
Vendichi à pien le lagrime, c’hò sparte?
Ma debbo intanto al Calidonio regno
Tornarmi? ò passar qui l’ira, e lo sdegno?
Ma non debbo mostrar, com’io son quella,
Che nacqui già de la crudele Althea?
E che di Meleagro io son sorella,
Che fe bere à due zij l’onda Lethea?
Non debbo io far ver lui l’alma rubella,
S’egli ha ver me la mente ingiusta, e rea?
S’ella uccise già il figlio, il figlio il zio,
Ben torre à due stranier l’alma poss’io.
Se l’effetto sarà, come io vorrei,
E farà l’error mio pare à la voglia,
Farò vedere al mio marito, e à lei
Quel, che può far la muliebre doglia.
Ne mi torrò da i novi pensier miei,
Ch’à le lor membra l’anima non toglia.
Mostrerò lor con più d’un corpo essangue,
Quel, ch’è far’onta al Calidonio sangue.
Ma non è degno, ch’io del mio consorte
(Senza tentar qualche parer più giusto)
Dia cosi tosto à la spietata corte
Di Stige l’alma, et à la tomba il busto.
S’han rimedij à tentar di varia sorte
Per torlo à questo amore indegno, e ingiusto:
E s’avien poi, che pur la tenga, e l’ami,
Tutti i modi à tentar s’hanno più infami.
Dopo vario pensar le cade in mente
De la camicia, c’hebbe dal Centauro,
La cui virtù per quel, ch’ella ne sente,
Può dare al morto amor forza, e ristauro.
Già molto prima ad una sua servente
L’havea fatta adornar di seta, e d’auro:
Il cui ricamo d’or, d’ostro, e di seta
Lo sparso sangue à l’occhio asconde, e vieta.
Poi, che la donna dal Centauro intese,
Che ’l sangue al morto amor potea dar forza,
Perche non fosse schiva à l’occhio, prese
Parer di dare al sangue un’altra scorza.
E con vermigli fior tale il lin rese,
Ch’ogni occhio à creder, che vi guarda, sforza:
Che i vaghi, e sparsi fior, ch’ornano il panno,
Non denno altrove star, che dove stanno.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||nono.|156}}</noinclude><poem>
Morì da poi la misera donzella,
C’hebbe del suo lavoro il panno pieno.
Ma la figlia d’Eneo si pensò, ch’ella
Morisse d’altro mal, che di veleno.
Quando la freccia avelenata, e fella
Passò il Centauro rio del tergo al seno,
Del tosco empio de l’hidra il sangue sparse,
E questo fu il velen, che la donna arse.
Celò per vendicarsi il mostro il vero,
E la veste, che vide avelenata,
Diede à la donna incauta con pensiero,
Che se mai gelosia fosse in lei nata,
L’havesse à dare al suo marito altero,
Per esser più da lui d’ogni altra amata.
Per questa strada il mostro empio previde
Di far morire il suo nemico Alcide.
Misera il tanto lagrimar, che giova?
Ond’è, che turbi il tuo stato tranquillo?
Questa, ch’amica fai d’Alcide nova,
Sposa al comun figliuol sarà dett’Hillo.
Deh non venire à la dannosa prova,
Che de la morte sua cerchi vestillo.
Che come Lica à lui porti le spoglie,
Misera perderai d’esser sua moglie.
La gelosa consorte al fin conchiude
Di dare al servo l’infelice manto,
Ne sà, che quelle vesti inique, e crude
Non son cagion d’amor, ma ben di pianto.
La porta Lica, e su le carni ignude
Per celebrare il sacrificio santo
Ponsela Alcide, come à lui rapporta
Il messo de la donna poco accorta.
Vestito c’ha l’avelenato lino
La selva splender fa sù i santi marmi,
E ’l core, e gli occhi al pio culto divino
Intende, e canta i gloriosi carmi.
Sparso à pena v’havea l’incenso, e ’l vino,
Che ’l punser del velen le spietate armi.
Dal foco acceso, e dal calor del petto
Scaldossi, e prese forza il lino infetto.
La forza del venen più ogn’hor s’accende,
E con più rabbia le sue membra assale,
Ne sol la pelle à l’infelice offende,
Ma passa insino à l’ossa empia, e mortale.
Co ’l solito valore ei si difende,
E tace, e superar pur cerca il male.
E pur vorria dentro al carnal suo nido
Tener per forza in freno il pianto, e ’l grido.
Ma fù talmente al fin piagato il dorso
Dal crudo ardor de l’infettato velo,
Ch’à la bocca allentò per forza il morso,
E lasciò andar l’irate strida al cielo.
Licinnio, e un’altro poi move co ’l corso
Ver le risposte del signor di Delo,
Per impetrar rimedio à l’empia peste,
Che rende al corpo suo l’ignota veste.
Vinto poi dal dolor, l’ignoto panno,
Dal corpo offeso suo stracciar si sforza,
E in vece di giovar maggior fa il danno,
Che straccia seco anchor l’humana scorza.
Cresce al miser mortal l’ira, e l’affanno,
Cresce al crudel velen l’odio, e la forza.
E con tal foco à lui piaga la pelle,
Che fa le strida andar fin’à le stelle.
Tende poi verso il sempiterno regno
Con questo dir l’addolorata palma,
Godi Giunon del mio tormento indegno,
Di vedermi disfar la carnal salma.
Satia il tuo crudo cor, satia il tuo sdegno,
Vedi patir la miserabil alma.
Godi vedendo il mio fine, empio, e rio
Haver risposto in tutto al tuo desio.
E s’impetrar pietà l’empia mia sorte
Puote anchor da quel cor, ch’odio mi tiene,
Tu, che d’ogni empio cor m’odij più forte,
Togli quest’alma afflitta à tante pene.
Però che ’l don, ch’io chieggio de la morte,
È don, ch’à la matrigna si conviene.
Non mi mancar poi che ’l mio male è tanto,
Che può impetrar fin da nemici il pianto.
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Dunque in Egitto debellai quell’empio
Busiri, c’havea il cor si crudo, e strano,
Che i peregrin facea morir nel tempio,
E tutto lo spargea di sangue humano?
Dunque feci d’Anteo l’ultimo scempio
Ch’era non men di lui crudo, e profano?
E tolsi al seme human danno si certo,
Per haverne dal ciel poi questo merto?
Uccisi pur quel forte Gerione,
Che con tre corpi à l’huom solea far guerra.
Domato il can trifauce di Plutone
Rendei, quando passar volli sotterra.
Le ricche poma d’or tolsi al dragone
Quando co’ piè calcai l’Hesperia terra.
E tante prove, e imprese alte, e divine
Mertan d’haver si miserabil fine?
Non superai quel bue nel Ditteo sito,
Che die tant’alme al regno atro, e profondo?
Non sa l’Elide quel, ch’io fei d’Erito,
Che distruggea co ’l suo crud’arco il mondo?
Non sa l’Arcadia, e lo Stinfalio lito,
S’io tolsi lor l’insopportabil pondo
De gli augei, che di ferro havean le piume,
Le cui grand’ale al Sol toglieano il lume?
Faccia il bosco Parthenio per me fede,
Faccialo ogni pastor, ch’ivi soggiorna,
C’hebbi più forte il cor, più presto il piede
Del cervo, ch’ivi d’oro havea le corna.
A chi reggea ne l’Amazonia sede
Tolsi la cinta, e l’oro, ond’era adorna.
Domai i Centauri non domati unquanco,
E tolsi l’alma al lor biforme fianco.
Condussi ad Euristeo vivo il cinghiale,
Che de la bella Arcadia era il flagello,
E fu la vista sua superba tale,
Che s’ascose Euristeo per non vedello.
Quel serpe, che prendea forza dal male,
Vinsi, che per lo danno era piu fello,
Che raddoppiava ogni hor l’ancise creste,
E d’un’alma privai ben mille teste.
Non vidi io quei cavalli alteri, e crudi,
Ch’in Tracia si pascean di carne humana?
E mille corpi lacerati, e ignudi
Giacersi entro à la lor nefanda tana?
Non tolser l’alte mie fatiche, e studi
A loro et al lor Re l’alma profana?
Non fu cagion questo medesmo Alcide,
Che ’l lor presepio più quel mal non vide?
Queste medesme braccia non fur quelle,
Che fecer, che ’l leon Nemeo morio?
La cui superba, e smisurata pelle
Fu tal, che fece un manto al corpo mio?
Non fei passare à l’ombre oscure, e felle,
L’alma di Caco à ber l’eterno oblio?
E se ’l ciel va di tante stelle adorno,
No ’l sostenni io sù queste spalle un giorno?
L’irata empia ver me moglie di Giove
Homai di tanto comandarmi è stanca;
Et io, che fei le comandate prove,
L’alma hò più al far, che mai disposta, e franca.
Ma queste pesti mie crudeli, e nove
Fan la forza del corpo inferma, e manca.
Ne l’arme, e le man pronte, e l’alma ardita
Ponno al mio novo mal porger aita.
Io dunque, ò Dei de la celeste corte,
Che di mostri si rij purgato ho il mondo,
Debbo con si infelice, e cruda morte,
Passar dal primo al mio viver secondo?
E godrassi Euristeo valido, e forte
Un tranquillo riposo, almo, e giocondo?
Il qual non solo à mostri non fa guerra,
Ma ogni hor di nove infamie empie la terra.
E sarà poi quà giù chi creder possa,
Che siano Dei? che sia ragion nel cielo?
Sente in questo l’ardor, ch’è giunto à l’ossa,
Dar più duolo, e piu danno al carnal velo.
Qual toro, che sentita ha la percossa,
E sente anchor su ’l dosso affisso il telo,
Ne vede il feritor, s’aggira, e scuote,
Ne da torsi à quel mal via trovar puote.
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E dolce disse, ò caro amico, e fido
Ti do de l’amor mio questo per pegno,
E tosto ch’io su ’l rogo il fianco annido,
Co ’l foco alluma il fabricato legno.
Però che del mio padre il santo grido
Chiama il mio spirto al sempiterno regno.
Bacia il suo amico, il qual piangendo il mira,
Poi con invitto cor monta la pira.
La pelle del Leon sopra vi stende,
Sopra la clava poi la guancia posa,
E con quel lieto core il foco attende,
Co ’l qual suolsi aspettar la nuova sposa.
La pietra Filottete, e ’l ferro prende,
E la favilla trahe nel sasso ascosa:
Poi di più ardor se stesso il fuoco adorna,
E contra chi lo sprezza, alza le corna.
S’alza la vampa al ciel sempre maggiore,
Crescon per ogni via le fiamme nove.
Quando vider gli Dei con tanto ardore
Il fuoco andar contra il figliuol di Giove,
Sentir di lui pietà, noia, e timore,
Che ’l mondo liberò con tante prove:
E mostrando ciascun pietoso il ciglio,
Raccomandaro à Giove il proprio figlio.
Il Re del ciel, che vede il grato affetto,
Che mostra al figlio il choro alto, et eterno,
Disse. Sommo piacer m’ingombra il petto,
Per la grata pietà, ch’in voi discerno.
Immensa sento al cor gioia, e diletto,
Che ’l gran rettor del regno almo, e superno
Sia con suo grande honor da ogn’un chiamato
Padre, e rettor d’un pio popolo, e grato.
Mi piace, che la mia divina prole
Anchor sicura sia col favor nostro.
Ma la salute sua poi, che ve ’n dole,
Sta per torvi il timor nel pensier nostro.
E quel, c’ha superato, ovunque il Sole
La terra alluma, ogni periglio, e mostro,
Questo novo tormento estima poco,
E vuol la forza anchor vincer del foco.
La parte, che ritien grave e materna
Può sol sentir la forza di Vulcano.
Ma quella parte, c’hà dal padre interna,
Non può perire, e l’arde il foco in vano.
Però ch’è inviolabile, et eterna,
E bramo torla al suo carcere humano,
Acciò ch’al al regno, ond’ha principio, torni,
E del suo chiaro lume il cielo adorni.
E come la sua invitta, e nobile alma
Scarca sarà dal suo mortal tormento,
Vo, che venga à la patria eterna, et alma,
E credo, ch’ogni Dio ne sia contento.
Che s’ei portò là giù per noi la palma
Di mille imprese carche di spavento,
Giusta cosa mi par, che ’l suo gran lume
Nel ciel risplenda, e sia celeste Nume.
E s’avien, ch’alcun Dio quà sù si doglia,
Che egli fra gli altri Dei splenda anchor Dio,
Ben potrà de’ suoi premij haver gran doglia,
Ma non già mover me dal pensier mio.
E farò, che ’l vedrà contra sua voglia
Starsi fra quei del regno eterno, e pio;
E ’l merto anchor saprà, ch’al cielo il chiama,
E l’approverà Dio, se ben non l’ama.
Gli Dei tutti assentir con lieto volto
A quel, che far d’Alcide il padre elesse.
Giunone anchor mostrò piacerle molto,
Mentre affermò, ch’entro à le fiamme ardesse.
Ma quando udì, ch’in ciel fosse raccolto,
E che di stelle anch’ei vi risplendesse,
Tra se biasmò lo Dio de gli altri Dei,
Che vide, che nel fin sol disse à lei.
L’ardente fiamma havea distrutto intanto
Tutto quel, che Vulcan strugger potea,
E già lasciato Alcide il carnal manto
Più la materna effigie non havea.
Sol quel, che stava in lui perpetuo, e santo,
Del suo lume divin tutto splendea,
E lasciavan veder le forme nove
Sol la divinità, c’hebbe da Giove.
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Come se ’l dosso suo la serpe priva
Del manto, c’havea già, si rinovella,
E tolto il vecchio vel, che la copriva,
Vien più forte, più giovane, e più bella:
Tal l’effigie d’Alcide, eterna, e diva,
Tolto il vel, che copriva l’interna stella,
Più illustre appar di pria, si fà maggiore,
E merta più, ch’ogn’un le faccia honore.
Come restar de la terrena veste
Vede il rettor del cielo il figliuol privo,
Ver Borea il chiama al regno alto, e celeste
Su ’l carro trionfal pomposo, e divo.
A la Lira vicin di stelle il veste,
Secondo andò mentre qua giù fu vivo.
Co ’l piè sinistro il capo al drago aggrava,
Tien l’un pugno il leon, l’altro la clava.
Come l’alme locar celesti, e sante
La nova effigie sua nel più bel mondo,
Gravò tanto le spalle al vecchio AtIante,
Che quasi sostener non potè il pondo.
Se ben non disse il figliuol di Peante,
Che passò Alcide al suo viver secondo,
Com’ei gli havea commesso, il mondo accorto
Quando più no ’l rivide, il tenne morto.
Che portato la fama havea per tutto
Non senza universal cordoglio, e pieta,
Dove il don di quel lin l’havea condutto,
E come, e con chi andò nel monte d’Eta.
Non si seppe altro poi: comun fu il lutto:
Sol ne mostrò Euristeo la fronte lieta,
Che per la gelosia, c’havea del regno,
Mostrò d’esserne allegro à più d’un segno.
Ne sol di questo ei sol s’allegra, e ride,
Ma sol persegue anchor mortal nemico
I figli, che restar del forte Alcide,
Ch’eran fuggiti al Regno di Ceico.
Quando la madre sua priva esser vide
De nipoti, e di lui l’albergo antico,
Di si degno figliuol pianse la morte,
De nipoti l’essilio, e l’empia sorte.
Sol ne l’albergo havea la mesta Iole,
Che d’Hillo figliuol d’Hercole era moglie,
La qual nel grave sen tenea la prole,
E già temea de le proprinque doglie.
Hor mentre Almena misera si dole,
Ch’à tanto mal la morte non la toglie;
Vede guardando il sen, c’havea la nuora,
Che del suo partorir vicino è l’hora.
E havendo in mente anchor l’aspro tormento,
Che sentì quanto al mondo Hercole diede,
Disse, tenendo in lei lo sguardo intento.
Prego ogni Dio de la superna sede,
Che di placar Lucina sia contento,
C’habbia nel partorir di te mercede.
Che non habbia ver te quell’empia mente,
C’hebbe ver la tua socera innocente.
Apollo il fin premea del nono segno
Dal dì, che mi fe grave il maggior Nume,
E giunto era quel tempo illustre, e degno,
Che dovea dare il grande Alcide al lume.
Et io, c’havea nel sen si raro pegno,
Con immenso dolor premea le piume,
E ben vedeasi al ventre ampio, e ripieno,
Che Giove era l’auttor di tanto seno.
Era dal troppo duolo homai si vinta,
Ch’io non potea più sofferir le pene,
E non so come io non rimasi estinta,
E tremo anchor qualhor me ne soviene.
Sette volte havea il Sol la terra cinta,
Dal Gange andando in ver l’Hesperie arene;
Sette volte la Dea, ch’oscura il giorno,
Menato il carro havea stellato intorno:
E anchor l’insopportabil mio dolore
Mi facea al cielo alzar continuo il grido,
Ne v’era modo à far, che ’l parto fuore
Potesse uscir del suo materno nido.
Ben chiamava io Lucina in mio favore
Le man tendendo al Regno eterno, e fido.
E ben corse Lucina à tanto affanno,
Ma non già per mio ben, ma per mio danno.
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Fu da Giunon mandata allhor costei.
Giunon per gelosia m’odiava à morte,
Che non volea, che i novi parti miei
Dovesser poi goder la fatal sorte.
Tu dei saper, ch’un giorno à gli altri Dei
Disse il rettor de la celeste corte.
Quel, che verrà nel tal tempo à la luce,
Sarà de l’alma Grecia il maggior Duce.
Onde Giunon, che non volea, che ’l figlio,
Ch’uscir dovea di me tal fato havesse,
Fra se discorse, e prese al fin consiglio
Di far, che ’l parto mio rinchiuso stesse
E lei non senza mio mortal periglio
Mandò, che ’l mio figliar tardar dovesse,
Fin tanto, che ’l figliuol di Steneleo
Nascesse, che fu poi l’empio Euristeo.
Lucina in forma d’una vecchia viene
Per esseguir di Giuno il crudo aviso,
Siede su l’uscio, e incatenate tiene
Su ’l ginocchio le man, su ’l pugno il viso.
E senza haver riguardo à le mie pene,
Perche ’l parto da me non sia diviso,
Dice il verso opportuno, il qual forz’have
Di far, che ’l fianco mio mai non si sgrave.
Io pur mi sforzo, e chiamo ingiusto, e ingrato
Giove, che ’l suo figliuol da me non toglie,
E colma di dolor bramo, che ’l fato
Mi toglia con la morte à tante doglie.
Ma tutto è in van, che ’l core havea indurato
Del maggior Dio l’invidiosa moglie.
E pure i miei lamenti, afflitti, e lassi
Movean di me à pietà le mura, e i sassi.
Ogni madre più nobile, e più degna,
Ch’albergar suol ne la cittate Ismena,
Prega ogni Dio di cor, che nel ciel regna,
C’habbia pietà de l’infelice Almena.
Cerca ogn’una darm’animo, e s’ingegna
Per varie vie d’alleggerir mia pena.
Ma Lucina si stà secondo l’uso,
E tiene il pugno incatenato, e chiuso.
Galantide ministra ardita, e accorta
Del mio fedel marito Anfitrione,
Che sapea in parte l’odio, che mi porta
Per gelosia la querula Giunone;
Vedendo star colei fuor de la porta,
Prese fra se qualche sospitione,
E più, che stava assisa, e havea raccolto
Tutto in un gruppo il seno, il pugno, e ’l volto.
Cade à questa ministra ne la mente,
Che sia qualche malvagia incantatrice,
E tanto più, che mormora fra ’l dente,
E non si può sentir quel, ch’ella dice:
Se n’entra in casa pria, come prudente,
Tutta lieta esce poi, tutta felice,
E con l’allegra sua favella, e vista
La vecchia in un momento inganna, e attrista.
Qual tu ti sia, cui noto era il periglio,
Ch’à la padrona mia dovea tor l’alma,
Stà lieta homai, c’hor hora ha fatto il figlio,
Et ha sgravato il sen di si gran salma.
La Dea per maraviglia inarca il ciglio,
E vuol levarsi, e batter palma, à palma,
E l’una, e l’altra man mesta divide,
Et io do fuora il mio fgliuolo Alcide.
Tosto, che la ministra esser la vede
Levata, e non star più ferma in quell’atto,
Se n’entra, e trova il figlio uscito, e crede,
C’habbia giovato à me quel, ch’ella ha fatto.
Subito lieta fuor ridendo riede,
E trova il volto antico, e contrafatto,
E la deride, e chiama vecchia, e insana,
E strega, e incantatrice inetta, e vana.
La chioma sua la Dea sdegnata prende,
Come il suo riso, e ’l suo disprezzo mira,
E furiosa in terra la distende,
E quinci, e quindi la strascina, e tira.
Con pugni, e calci poi la batte, e offende.
E sfoga il cruccio muliebre, e l’ira.
Si vuol levar la misera, e si trova
Una persona haver picciola, e nova.
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Le braccia si fan piè, la chioma bionda
D’un biondo, e vago pel la fa coprire:
La figura del corpo, e lunga, e tonda,
Et ha poca persona, e molto ardire.
E, perche la sua pena corrisponda
A la bugia, ch’à lei fè il pugno aprire,
Nel partorir la Dea sdegnata vuole,
Ch’onde uscì la menzogna, esca la prole.
Odo, ch’altrove Donnola si chiama,
Mustella qui da gli huomini fu detta.
Le nostre case anchor frequenta, et ama,
E molto de la caccia si diletta.
E si l’honor ne le sue imprese brama,
Ch’insino à crudi serpi impugna, e aspetta.
E per quel, ch’alcun rustico mi dice,
Sopra ogni augello ha in odio la cornice.
M’increbbe in vero assai de la sua sorte,
Ch’oltre, ch’io la tenea come sorella,
M’havea rubata à l’evidente morte
Con la sagace sua mente, e favella.
Hor preghiam figlia la celeste corte,
Che quella, che farai, prole novella
Esca à goder senza tua doglia il mondo,
E ’l favor di Lucina habbia secondo.
Preghiam, diss’ella, anchor l’eterna cura,
Che l’odio di Giunon ver noi sia spento,
Si che la prole mia nasca sicura,
Che già nel sen matura haver mi sento.
Ma colei, che cangiò forma, e natura,
Rinovella il mio duolo, e ’l mio tormento:
Che mia sorella Driope mi rimembra,
Ch’innanzi à gli occhi miei prese altre membra.
E poi che posson te commover tanto
D’una ministra tua le forme nove,
Non ti maravigliar del molto pianto,
Che ’l mio dolente cor per gli occhi piove.
Ch’una sorella mia sott’altro manto
Io vidi, e vò contarti, e come, e dove,
Se l’intenso dolor, che ’l cor percote,
Potrà dar luogo à l’affannate note.
Hebbe il mio padre Eurito un’altra figlia
Driope, ma non però de la mia madre:
Stupir faceano ogn’un di maraviglia
Le sue rare bellezze alme, e leggiadre.
Pria che facesse à lei cangiar famiglia
Il troppo tardo à maritarla padre,
Il biondo Dio, ch’à noi distingue l’hore,
La vide, e ’l virginal le tolse honore.
Ma fu di sì sublime, e raro ingegno,
Di sì gentile, e glorioso aspetto,
Ch’ogni huom d’Echalia, ò d’altro esterno regno
Bramava haverla, e far comune il letto.
Fra rnolti al fin ciascun più illustre, e degno
Andremon fu da miei parenti eletto,
Cui piacque tanto seco esser legato,
Che sopra ogni huom dicea d’esser beato.
Limpido ne l’Echalia un lago siede
Cinto di dolci, e ameni colli intorno,
Lo cui lito fecondo esser si vede
D’arbori, e valli, e vaghi prati adorno.
Cominciando de colli al basso piede,
Fin dove più superbo alzano il corno,
Son mirti, e fanno un cerchio ameno, e vago,
A guisa d’un theatro, intorno al lago.
Era venuta Driope à queste sponde
Per honorar co ’l cor devoto, e grato
Con ghirlande di fior tessute, e fronde
Le Dee, c’habitan l’onda, il colle, e ’l prato,
Calcando i fiori già vicino à l’onde
Con un figliuol, che in sen s’havea portato,
Ch’anchor l’anno primier non havea pieno,
Soave peso al suo candido seno.
Mentre à veder del monte il piano, e l’erto
Le luci vaghe sue move per tutto,
Trova, che ’l piè del gran periglio incerto
Vicino à un Loto ha il suo mortal condutto,
Che ’l bel purpureo fior havea già aperto
Speme à mortai del suo futuro frutto.
Stende ella il braccio, e prende il fior vermiglio
Per dar trastullo al suo vezzoso figlio.
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Volli io, che v’era, far lo stesso, e porsi
La man per corre un ramuscel col fiore,
Ma dove ruppe Driope, il ramo scorsi,
Che spargea il sangue à spesse goccie fuore.
Com’io di tanta novità m’accorsi,
Divenni un giel, tremò la mano, e ’l core:
Il fusto, e i rami suoi tremar non manco,
E venne il fior purpureo infermo, e bianco.
Loto una Ninfa era in quel tronco ascosa,
Secondo poi contaro i tardi agresti,
Che senza farla il Re de gli horti sposa
Volle seco tentar gli atti inhonesti.
Ella à la parte eterna, e gloriosa
I preghi suoi mandò santi, et honesti.
In quel troncon gli Dei l’humane some
L’ascoser, che di lei poi tenne il nome.
Come la mia sorella il ramo schianta,
E che si vede insanguinar la palma,
Che non sapea, che la fiorita pianta
Desse nel sangue il proprio albergo à l’alma:
Chiede perdon con prece honesta, e santa,
Poi svolger vuol da lei la carnal salma,
E nel girar del corpo, e de la testa,
Trova, ch’una radice il piè l’arresta.
D’alzar pur ella il piè si prova, e sforza,
Ma comportar no ’l vuol l’avida terra:
Anzi le barbe sue fa con più forza
Abbarbicarsi, e penetrar sotterra.
Già il novo legno, e l’importuna scorza
Le gambe in un troncone asconde, e serra.
Più ogn’hor la carne, e ’l sangue si disperde,
E trave, e scorza vien succosa, e verde.
Quando ella guarda, e vede il crudo effetto,
Che sotto novo manto i piedi asconde,
Con l’una mano accosta il figlio al petto,
Vuol con l’altra stracciar le chiome bionde,
E trova d’ira accesa, e di dispetto,
Che trahe dal crin la man piena di fronde:
Poi che dal ramo il crin si vede tolto,
Fa più, che puote oltraggio al seno, e al volto.
Il picciol figlio, à cui dier nome Anfiso,
Che sol co ’l pianto pio, chiede, e favella,
Al suo solito seno accosta il viso,
E sugge in van la ruvida mammella.
Tutto vidi io, ma qual prendere aviso
Per salvar te potea cara sorella?
Pur con le braccia pie ti tenni avinta,
E teco esser bramai dal tronco cinta.
Col nostro padre in questo il suo consorte
Giunser, che ’l camin nostro havean seguito.
Chieggon di Driope, et io l’empia sua sorte
Breve racconto, e lor l’arbore addito.
Subito al pianto, e al grido apron le porte
Gli sconsolati suoi padre, e marito.
Le braccia danno al mezzo arbore intorno,
Baciando il viso anchor bello, et adorno.
La sventurata Driope, come vede
Versar da gli occhi in tanta copia il pianto
Al padre, à la sorella, à chi le diede
Già per consorte il matrimonio santo;
Con l’occhio, ch’ancor libero possiede,
Sparge un rivo maggior su ’l novo manto.
E poi ch’al dir la via non l’è anchor chiusa,
Con questo amaro duol se stessa scusa.
Vi giuro per l’eterno alto motore,
Ch’io non ho fatto à quella Ninfa torto,
E ch’innocentemente io colsi il fiore,
E contra ogni ragion tal pena io porto.
S’io mento, piova in me tanto d’ardore,
Che resti l’arbor mio sfrondato, e morto;
E l’huom, che primo arriva in questo loco,
M’offenda con la scure, e doni al foco.
Prendete in tanto il mio picciolo infante,
Che nel ruvido sen, non ben sostegno,
Che servando il costume de le piante,
Le man son rami, e al ciel s’alzan di legno.
Pur tengamel qualchun sempre davante,
Mentre il molle occhio mio del lume è degno;
E fate poi, che sotto à questa frasca
La nutrice, c’havrà, sovente il pasca.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||nono.|160}}</noinclude><poem>
E quando andar potrà picciol fanciullo
Tosto, ch’ogni scholar la schola sgombra,
Fate, ch’à prender venga il suo trastullo
Presso à la madre sua, sotto quest’ombra:
E che ’l mio volto human qui venne nullo
Ditegli, che quest’arbor me l’ingombra.
E mi saluti, come madre, e dica,
Quel bosco la mia madre asconde, e implica.
E perche à lui non sia cangiato il busto,
Quando gli accade andar tal volta attorno,
Dite, che verso gli arbori sia giusto,
Ne cerchi, che il lor ramo il faccia adorno:
E tenga certo pur, che in ogni arbusto
L’alma di qualche Dea faccia soggiorno.
E per salvar le sue membra leggiadre,
Pensi à quei fior, che già colse la madre.
Dolce consorte mio, padre, e sorella
Da me prendete l’ultimo saluto,
Che già mancar mi sento la favella,
Per l’arbore, che troppo è in su cresciuto.
Hor se non vuol la mia forma novella,
Che ’l volto inchinar possa anchor non muto,
Alzate voi le membra al bacio mio
Co ’l figliuol, che già fei, che ’l baci anch’io.
E se qualche pietà vi move, e regge,
Fate le nove mie membra sicure
Con la fedel custodia, e con la legge
Da la man, da la falce, e da la scure.
E gli armenti lontan stiano, e le gregge,
Ne sian le fronde mie le lor pasture.
Rendete il verde legno, ov’io mi serro,
Dal morso, e da la man salvo, e dal ferro.
Non vi posso altro dir, che me ne priva
La scorza, che fa à l’alma un’altro chiostro.
Togliete da la mia luce anchor viva
La man, che senza il santo officio vostro
Vien per chiuderla il legno, il qual già arriva
Al mento, e tutto asconde il corpo nostro.
E in questo perde il dir, ne più si dole,
E lascia à noi le strida, e le parole.
Mentre la mesta, e lagrimosa figlia
D’Erito il suo dolor conta, e rinova,
E l’asciuga la socera le ciglia,
Anchor che l’occhio suo non meno piova;
Una improvisa, e rara maraviglia
Fa ch’un congiunto lor, ch’ivi si trova,
In un momento un’altra forma prende,
E in mezzo del dolor liete le rende.
Era questi Iolao canuto, e bianco
Che fu ne’ tempi suoi di gran valore,
Ne potea fare à l’Hidra essangue il fianco
L’altier suo zio senza il costui favore.
Hor mentre, ch’ei si sta debile, e stanco,
La gioventù racquista, e ’l primo honore,
E forte, e altier si trova à l’improviso
Con la prima lanugine nel viso.
Ne sol si trova haver novo l’aspetto,
Ma con novo disio, novo pensiero,
E dove esser solea pien di sospetto,
Timido, tardo, avaro, aspro, e severo;
Brama hor la compagnia, cerca il diletto,
E sprezza l’util suo vano, e leggiero;
E chi il vuol guadagnare, e piacer farli,
Sol de l’honore, e del piacer gli parli.
Questa comparsa subito ventura
Tolse à le meste donne il duolo, e ’l pianto,
Poi che la sua miglior forma, e natura,
Splender farà l’albergo Herculeo alquanto.
Alcide fu, che in ciel si prese cura
Di torre ad lolao l’infermo manto.
Alcide in terra, e in ciel l’amò si forte,
Ch’ottenne questo don da la consorte.
Poi ch’Hercol privo fe del mortal velo
La forza di Vulcan nel monte d’Eta,
L’eterno Dio nel più beato cielo
Con fronte l’abbracciò benigna, e lieta.
Da poi parlò con tanto affetto, e zelo,
Che fe Giunone intenerir di pieta,
Et accettò per figlio Alcide, e in fede
D’amor la figlia sua sposa gli diede.
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Giunone hebbe una figlia senza padre,
Bella quanto altra il ciel giamai ne vide.
Le cui rare bellezze alme, e leggiadre
Fan, che la gioventù governi, e guide.
Questa in segno d’amor legò la madre
Co ’l Nume fatto in ciel beato Alcide.
E l’odio, che l’accese un tempo il core,
Tutto fu poi concordia, e vero amore.
Fatte le nozze, e quel diletto preso,
Che può dare una Dea bella, et eterna,
Com’ha da la consorte Hercole inteso,
Ch’ella la gioventù guida, e governa;
Verso il congiunto suo d’amore acceso
Scopre con preghi à lei la voglia interna,
Che poi, ch’ella dà legge à i più begli anni,
Privi Iolao de suoi canuti affanni.
Non nega di Giunon la bella figlia
Il primo don, ch’à lei chiede il consorte,
Ma con di tutti invidia, e maraviglia
Fà venire lolao giovane, e forte.
Ma ben per l’avenir partito piglia
Di non romper mai più la fatal sorte,
E de la gioventù tener ben cura,
Ma lasciar fare il corso à la natura.
Hor mentre co ’l giurar chiuder la porta
Vuol per ogni mortale à tanto dono,
S’oppon la fatal Themi, e no ’l comporta,
E dice. Non giurar, ch’anchor vi sono
Due figli infanti, il cui fato non porta,
Che sian dal ciel lasciati in abbandono;
Anzi egli vuol, quando fia ’l tempo giunto,
Che vengan forti, e giovani in un punto.
E tosto fia, che se chinate il viso,
Già Polinice à Thebe il campo ha spinto,
Ú sendo l’un fratel da l’altro ucciso
Ogn’un del par fia vincitore, e vinto.
Dove, perche più il ciel non sia deriso,
Sarà il fier Capaneo da Giove estinto.
Le cui superbe, e soprahumane prove
Altri non potrà mai vincer, che Giove.
Anfiarao profeta illustre, e degno,
Ch’andrà contra sua voglia à quella guerra,
Sarà inghiottito, e dato al basso regno
Da la subito aperta, e chiusa terra.
Dove non senza suo dolore, e sdegno
Vivi i due Genij suoi vedrà sotterra,
E ’l foco, ch’arderà la carnal salma,
Rogo al corpo sarà, tormento à l’alma.
Indi il figliuol de l’inghiottito mago,
Nominato Almeon, quand’havrà scorto
Da la terrena, e subita vorago
Restare il padre suo sepolto, e morto,
Ucciderà de la vendetta vago
Per vendicare un torto con un torto
La madre, e sarà in un pietoso, e rio,
Ne la madre crudel, nel padre pio.
Però, che quando havrà il profeta letto,
Ch’in quella impresa ei doverà morire,
S’asconderà per non esser costretto
D’andare à farsi subito inghiottire;
Ma l’avaritia ingombrerà si il petto
A Erifile sua moglie, che scoprire
Le farà il loco, ov’ei sarà coperto,
Per un ricco monil, ch’à lei fia offerto.
Quel bel monil, che fabricò Vulcano
Con tante gemme, pretiose, et arte,
E ch’à la sposa diè del Re Thebano,
Che fu figlia di Venere, e di Marte,
E d’Argia moglie capitato in mano
Di Polinice, et ella l’ha in disparte
Ad Erifile offerto con proposto,
Che mostri Anfiarao, dov’è nascosto.
E poi c’havrà scoperto il suo consorte
Erifile, e sarà dal figlio uccisa,
Il crudo auttor de la materna morte
La mente da se stesso havrà divisa,
E con le Dee de la tartarea corte
L’ombre materne il pungeranno in guisa,
Che fuor del senno, e de la patria uscito
Un tempo andrà, poi si farà marito.
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La bella Alfesibea saggia, e gioconda
Dotata d’ogni ornato, e bel costume
Di Flegeo figlia il purgherà ne l’onda
Paterna, e poi godrà seco le piume.
Et ei, perche ’l suo amore à quel risponda,
Ch’al suo intelletto havrà renduto il lume,
Di quel monil faralle il collo avolto,
C’havrà con l’alma à la sua madre tolto.
Poi quando un tempo havrà il suo amor goduto,
E spento in parte il desiderio ardente,
Non gli parendo anchor d’esser venuto
Al san pensier da la sua prima mente,
A l’oracol n’andrà per novo aiuto,
Et ei risponderà, che ’l mal, che sente,
Convien, se vuol, ch’à lui la mente sgrave,
Che nel fiume Acheloo si purghi, e lave.
Onde Almeon, che del suo primo honore
Vorrà integrar lo stupido intelletto,
S’andrà à purgar nel Calidonio humore,
Dove l’accenderà novello affetto.
Che ’l vago viso il faretrato Amore
Farà vedergli, e piagheragli il petto
De l’ignuda Calliroe, come nacque,
Mentre à nuoto godrà le patern’acque.
E non si partirà da quelle sponde,
Che per isposa l’otterrà dal padre;
E poi purgato da le socere onde,
Si godrà le bellezze alme, e leggiadre.
E le sue membra essendo atte, e feconde,
La farà in breve di due figli madre,
Detto Acarnana l’un, l’altro Anfotero,
Ch’in un dì acquisteran gli anni, e ’l pensiero.
E poi, ch’ella del bello havrà sentito
Monil, ch’à l’altra moglie il collo adorna,
Pregherà dolce il suo dolce marito,
Che de l’oro fatal la faccia adorna.
Hor mentr’ei per haverlo andrà in quel sito,
Dove la prima sua moglie soggiorna,
Da figli di Flegeo, c’havuto aviso
Del novo amore havran, per via fia ucciso.
Temeno, et Assione ambi fratelli,
Poi ch’Almeone havran dato à l’inferno,
Calliroe alzando i rai languidi, e belli,
Esclamerà con preghi al padre eterno,
Che doni à figli suoi, c’han gli anni imbelli,
Gli anni, c’han forza, ardire, ira, e governo:
Perche chi vendicò del padre il torto,
Non stia, s’ha figli, invendicato, e morto.
E per giusta cagion quel Dio, che fuora
Suol dar ne’ tempi suoi gli alti secreti,
Quel, che può dar la sua figliastra, e nuora
Vorrà, che di Calliroe il pianto accheti.
E di quel, che ne’ figli allhora allhora
Più brama, ella vedrà gli occhi suoi lieti:
Gli vedrà in un balen robusti, e forti,
Da poter vendicar del padre i torti.
Si ch’Hebe non giurar, che l’alta cura
Mossa talhor da prieghi, e da rispetti,
Suole il corso impedir de la natura,
E far de gli altri sopr’humani effetti.
Come ha la metamorfose futura
Narrata Temi à i puri alti intelletti,
E che si cangi altrui tal volta il pelo,
Gran mormorio s’udì per tutto il cielo.
Che s’à la nuora regia era permesso
Di dar tal volta altrui l’età più bella,
Si dolean tutti in ciel, perche concesso
Non era à ognun quel, che potea far’ella.
Et altri rinovar volea se stesso,
Chi ’l padre, ch’il cugin, chi la sorella:
E parlavan tra lor non senza sdegno,
Ch’era già il ciel tirannide, e non regno.
E che sol Giove, e ’l figlio Hercole, et Hebe
Potean far chi volean de gli anni altero,
E far maravigliar Calliroe, e Thebe,
D’Iolao, d’Acarnana, e d’Anfotero.
E diceano i più illustri, e anchor la plebe,
Che Giove era partial, non giusto, e intero:
E dal proprio interesse ogn’un tirato
Parlava contra Giove, e contra il fato.
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Saturno si dolea d’esser si stanco,
Si vecchio, freddo, inutile, e mal sano,
Che mal potea più trar l’antico fianco
Per lo viaggio suo tanto lontano.
Vedendo il suo Titon canuto, e bianco
L’Aurora, le parea pur troppo strano,
Si bella essendo, e di si vago aspetto,
D’havere huom si disutile nel letto.
Cerere à Iasio suo l’antiche membra,
Che nel suo primo fior tanto le piacque,
Cerca rinovellar, che si rimembra
Del tanto dolce amor, che da lui nacque,
Riguardando Erittonio, à Vulcan sembra,
Che s’ lolao si vecchio al zio dispiacque,
Si vecchio il figlio à lui dispiace anchora,
E chiama Giove ingiusto, e la sua nuora.
Quella Dea anchora à questa parte arrise,
Cui colse in fallo quel, che ’l mondo aggiorna,
E volea anch’ella patteggiar d’Anchise,
Di poter dare à lui l’età più adorna.
La gran sedition, che in ciel si mise,
Piu ogni hor contra di Giove alzò le corna,
Ogn’uno havea parenti, ò amici imbelli,
A quai bramava dar gli anni più belli.
E vi fu qualche Dio forte, e robusto,
Ch’osò di dir, ma ne’ cerchi in disparte,
Privisi homai quel Re d’essere Augusto,
Che le gratie del Ciel si mal comparte;
Et eleggasi un Re, che sia più giusto.
Ma Giove havendo appresso Hercole, e Marte,
Con fronte irata à tutti il parlar vieta,
E con queste parole ogn’uno accheta.
S’alcuna riverentia al Re si porta,
Tacete, e date à me l’orecchie intanto,
Ditemi ciechi, e dove vi trasporta
L’ambition nel regno eterno, e santo?
Puot’esser mai, che la celeste porta
Chiud’alma, che di se presuma tanto?
Ch’osi parlar ne’ regni alti, e beati
Di voler superar gli eterni fati?
Da che fu l’alto ciel, fu il fato eterno,
E ’l fato è quel, che in Thebe ha fatto oprarme,
Che giovane Iolao gli anni, e ’l governo
Rihabbia anchor, non la superbia, e l’arme.
Vuol del fato il decreto alto, e superno
(Come ha di Theme à noi predetto il carme)
Che i figli d’Almeon troppo per tempo
Debbian far forza à la natura, e al tempo.
Voi regge il fato, e me, per far, che meglio
Ve ’l comportiate, e contra andar non posso,
Ch’à Radamanto, e ad Eaco infermo, e veglio
La troppa età non curverebbe il dosso.
E s’amate di ciò più chiaro speglio,
Volgete gli occhi alquanto al re Minosso,
Che vecchio, e infermo oppresso è da la guerra,
E fe col nome sol tremar la terra.
E se rivolgerete à Creta il ciglio,
Vedrete come ogn’un schernisce, e sprezza
Il mio impotente, e abbandonato figlio
Per l’affannata, e debile vecchiezza.
Che quando à gli anni dar potessi essiglio,
Farei tornarlo à la sua prima altezza;
Ne Mileto ardirebbe il suo cognato
Di volergli involar l’alma, e lo stato.
Ma s’egli guerreggiar per li tropp’anni
Non può, farò, che co ’l favor del cielo
Sarà provisto à suoi Cretensi danni
Co ’l più rapido ardor, che spegna il gielo.
Subito monta i più sublimi scanni,
Dove è riposto il più dannoso telo,
E fatto innanzi al tuon splendere il lampo,
Aventa irato, ov’ha Mileto il campo.
Quando da pria gli Dei volser la luce
Ver Creta, e vider disprezzato, e abbietto
Quel Re, che fu si chiaro, e invitto Duce,
Ogni sedition scacciar dal petto.
E si piegar di non dare à la luce
Quel, che già detto havean, c’hebber sospetto;
E tanto più, quand’ei s’armò la mano
De l’arme inevitabil di Vulcano.
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Hor mentre di dar fondo il buon nocchiero
In qualche sen coperto si procaccia,
Da tramontana sorge horrido, e altero
Un vento, che da l’isola lo scaccia.
Subito il buon nocchier cangia pensiero,
E volta verso l’Africa la faccia.
E fa camin contrario al suo disegno
Per dar men noia al combattuto legno.
La traversia di Greco in tutto manca,
E vien sol da maestro, e tramontana.
E l’onda sempre più rompe, et imbianca,
E ’l legno più da l’isola allontana.
Men di quel, che vorria, tiensi à man manca
Per la forza di Circio iniqua, e strana
Il misero nocchier, ch’accorto, e saggio
Si toglie men che può dal suo viaggio.
Con poca vela và ristretta, e bassa,
Et à l’arbor maggior dà sol quel vento,
Che fà, che la galea divide, e passa
Le gran botte del mar con men tormento.
De l’humil turba sbigottita, e lassa
Star al suo officio ogn’un si vede intento.
Stà ogn’un pronto al servitio, al quale è buono
Per obedir (pur che s’udisse) al suono.
Ma tanto orgoglio, e horror ne l’aria freme,
Si grande è ’l mormorio de le rott’onde,
Del grido human, de la galea, che geme
Ne la prua, ne la poppa, e ne le sponde
Co ’l romor de le corde unito insieme,
Che del fischietto il suon fra lor s’asconde,
E non, che in prora quei, ch’à lui son presso,
No ’l ponno udir, ne quel, che ’l suona istesso.
Ma dove il suon non val, supplisce il grido.
E perche il mar già qualche remo ha rotto,
Accenna con la mano, alza lo strido,
Che dentro il palamento sia ridotto.
Lo stuol poi ver la prora schiavo, e infido
Fà sferrar tutto, e imprigionar di sotto,
Perche sferrato insieme non s’intenda,
E per la libertà l’arme non prenda.
L’onde una appresso à l’altra eran si spesse,
E tanto alcun talhor tenean coperto,
Che non havea donde spirar potesse,
E fur cagion, che ’l capitano esperto
Di sferrar sol quei de la prora elesse,
Ma non, che stesser franchi al discoperto.
E tanto più, c’havean gli ondosi torti
Già dentro à la galea due schiavi morti.
Anchor che chiusi sian tutti i portelli,
E stian di sotto à lume di candela;
Se ben v’han sopra le bovine pelli,
Onde ogni fesso lor meglio si cela;
Pur quando entran del mar gli aspri flagelli,
Qualche poco d’humore indi trapela:
Ma quei di sotto v’han gli occhi, e l’orecchie
E con sassole, e spugne empion le secchie.
Con occhi d’Argo guardan quei di sopra,
Ch’ogni rimedio lor sia fatto à segno.
E che per gettar l’acqua il balcon s’opra,
Quando men nocer può l’ondoso sdegno.
Gettato il mar nel mar fan, che si copra,
Inchiudan poi le pelli sopra il legno
Con chiodi, che non fan nel legno fossa,
Ma saltan tutti fuor con una scossa.
La notte già co ’l tenebroso manto
Per tutto l’aere havea renduto oscuro,
E ’l vento, e ’l mar cresciuto era altrettanto,
E fatto il lor periglio men sicuro:
Solo un conforto è à lor rimaso in tanto
Notturno stratio, periglioso, e duro,
C’hanno il mar largo, e per l’ondoso orgoglio
Trovar non ponno insino al giorno scoglio.
Vuol ne la prima guardia de la notte
Il comito alternar la poggia, e l’orza,
E mentre il credon far, del mar le botte
Copron la ciurma, e ’l vento alza, e rafforza,
Tanto, che fa cader l’antenne rotte,
E tanto del cader grande è la forza,
Che storpia, e uccide, e fà, ch’in poppa, e ’n prora
Il legno morto un’altra volta mora.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||nono.|163}}</noinclude><poem>
Fà il buon padron con l’affannato, e roco
Strido levar la vela del trinchetto,
Et appresso al grand’arbor le dà loco
Per far minor, che puote il suo sospetto,
E del rabbioso vento sol quel poco
Prende, ch’à lui può far più fido effetto,
E intanto il rotto mar rompendo passa
Con la poppa, e la prora hor alta, hor bassa.
Il romore è infinito, e l’aria è nera,
E non si vede il cenno, e non s’intende,
Ne si può riparare à l’onda altera,
Ch’ogn’hor con più furor freme, et offende.
Ma il balenar, che fa l’etherea spera
Di cosi spessi fuochi il cielo accende,
Che scopre il mare, e ’l cielo d’ogn’intorno,
E splender fà di mezza notte il giorno.
Ma ’l notturno splendor mostra il lor danno,
Che se ’l verno crudel molto anchor dura,
Far resistenza al mar più non potranno,
Che già la morte lor veggon sicura.
Veggon, che tutto il morto perdut’hanno,
Ne potrà riparar l’humana cura,
Da poi, che ’l mar lor tutto il morto ha tolto,
Che ’l vivo anchor non resti al fin sepolto.
Veggon, mentre arde il lampo in ogni parte,
Del legno impressa l’ultima ruina,
Lo schifo tolto, e rotte antenne, e sarte
Da l’atra tempestosa onda marina.
Pur quel, ch’in poppa gli officij comparte,
Chiede à la gelosia, che gliè vicina,
Come fa la trireme acqua di sotto,
E s’alcun legno v’è sdruscito, ò rotto:
Quel, che sotto à la poppa in guardia siede,
Dimanda à quel di mezzo il punto istesso,
La camera di mezzo ne richiede
La stanza de la prora, che gliè appresso.
Da prora à poppa la parola riede,
Che legno non v’è anchor rotto, ne fesso.
Gran ventura è la lor, poi che si trova
Esser la lor galea spalmata, e nova.
Se bene in su ’l mancar de l’aer chiaro
Per haver men travaglio il buon nocchiero,
Diè molte cose al mar crudo, et avaro
Per far restare il legno più leggiero:
Hor si difficil vede il suo riparo,
E ’l vento si rabbioso, e ’l mar si altero,
Ch’ogni più ricca merce, ond’egli è onusto,
Dona à l’ondoso orgoglio avido, e ingiusto.
L’Aurora già per fare al giorno scorta
Il volo havea ver l’oriente preso,
Ma il volto oscuro, e l’habito, che porta,
Non ha il suo bel color vario, et acceso.
Mostra il ciglio dolor, la guancia ha smorta,
Gravi ha le vesti, e ’l crin d’humido peso.
E l’ali nuvolose, ond’ella poggia,
Minaccian per quel di grandine, e pioggia.
Si levò il Sol, ma mesto, e lagrimoso,
Cinto di nubi, e mezzo ascoso il lume,
E nel levarsi alquanto di riposo
Presero i venti, e le salate spume.
Ma rivolgendo il buon nocchier dubbioso
Per lo confuso ciel l’afflitto lume,
Se bene il vento, e ’l mar non è tant’alto,
Par, che trema entro al cor di novo assalto.
Bonaccia à poco à poco il mare, e ’l vento
Men grave l’aura vien, men’alto il mare.
Tanto, ch’un resta muto, e l’altro spento;
Di sopra il Sole, e ’l ciel lucido appare.
Fà il nocchier metter fuora il palamento,
E la ciurma di sotto sprigionare.
La toglie sotto à la prigion di cerro,
E dalla sopra à la prigion di ferro.
Nel conquassato legno me’ che sanno
Dan luogo à remi, e fan drizzar la prora.
Fra Circio, e Tramontana, e via ne vanno
Fin che ministra al Sol vien la terza hora.
Et ecco vien per loro ultimo danno
Un superbo Austro impetuoso fuora,
Le nubi sparse subito d’intorno.
Tolgono à gli occhi loro il cielo, e ’l giorno.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Rafforza il vento rio torbido, e fero,
E in un momento il mar rompe, e confonde.
Alza l’irato mare il grido altero,
E manda fin’al ciel superbe l’onde.
Apron le nubi il panno oscuro, e nero,
E danno il passo à le celesti gronde.
E mentre freme in giù la pioggia, e ’l gielo,
Di mille tuoni, e fuochi avampa il cielo.
Tosto con minor vela il vento prende
In poppa il legno stanco, afflitto, e rotto,
E dentro il palamento si distende,
E ciò, che ’l nocchier dice esperto, e dotto.
Sciolta dal ferro poi la turba rende,
E falla ad un ad un serrar di sotto,
E tutto in opra pon l’ingegno, e l’arte
Per vincer contra il mar si fero Marte.
Dal giel, da la procella, e da la pioggia,
E da l’onda superba, et inhumana
Percosso il miser legno hor cade, hor poggia,
E prende il camin dritto à tramontana.
Quattr’hore andò con la gonfiata poggia
Con l’onda ogni hor più incrudelita, e strana
Dal cominciar de la seconda guerra
Senza scoprir la desiata terra.
Quel gran camin, ch’in una notte corse,
Il giorno racquistò tutto in poc’hore,
Che mentre dal sentier dritto si torse,
Men che potè il nocchier, si spinse in fuore.
Ma poi che gire al suo camin s’accorse,
E in tanto male il vento hebbe in favore,
L’antenna da rispetto al tronco strinse,
E con vela maggior la quercia spinse.
Dapoi che di lontan vide lo scoglio,
Cercò il padron d’avicinarsi al lito,
E mentre, che fendean l’ondoso orgoglio,
Discorreano fra lor qual fosse il sito.
Carpato disse alcun, ma fe su ’l soglio
Conoscer, ch’era Caso, il più perito.
Si spinge à quella volta il buon nocchiero,
Per discoprir quel, che s’è apposto al vero.
Non molto và, ch’un’Isola à man manca
Riconosce il nocchier molto maggiore,
Per dar riposo à l’alma afflitta, e stanca
La prima, e più propinqua, ma minore.
Ma per quel, ch’al distrutto legno manca,
L’altra, ch’è detta Carpato, è migliore.
Ne molto dal camin torcendo il legno
Solca ver la miglior l’ondoso sdegno.
Co ’l vento, e la fortuna in poppa stare
Non potea un’hora il legno à prender terra,
Quando ecco vien crudel la botta, e ’l mare,
E ’l misero timon dal legno sferra,
Ne più potendo la galea voltare
La vela per traverso il vento afferra,
E grava l’arbor tanto, e ’l fà si chino,
Che ’l rompe, e dona al mar l’arbore, e ’l lino.
Ben si veggon perduti il mare, e ’l vento,
E più che fosse mai superbo, e grave,
L’altro timon, le grosse onde, e ’l tormento
Tempo non dan, ch’al suo luogo s’inchiave.
Hor mentre fa ciascun certo argomento,
Che ’l mar gli affondi, e stà piangendo, e pave;
S’apron le nubi, e danno al Sol passaggio,
Et ei ne la galea splender fa il raggio.
Quando Mileto il vivo ardor paterno
Ne la morta galea risplender vede,
Le mani alza, e le luci al regno eterno,
E al Sol mercè con queste note chiede.
Padre se pure è ver, che ’l sen materno
Del tuo seme divin quà giù mi diede,
Rivolgi alquanto à me pietoso il lume,
E salva il sangue tuo da queste spume.
Il Sol, ch’al suo viaggio intento, e fiso
Talhor non guarda à l’opre de’ mortali,
Quando apre l’occhio al doloroso viso
Del figlio, e scorge i suoi propinqui mali,
Mosso à pietà con ben fondato aviso
A tre de raggi suoi fa batter l’ali,
E ne manda uno ad Eolo, e l’altro dove
Alberga il Re del mare, e ’l terzo à Giove.
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{{Ct|f=120%|v=1|t=3|L=2px|ANNOTATIONI DEL NONO LIBRO.}}
<div class=note>
La lotta di Hercole con Acheloo per cagion di Dianira figliuola di Oeneo, è mera historia perche havendo Oeneo promessa Dianira sua figliuola, bellissima giovane, per mogliera ad Hercole con questa conditione, che riducesse l’acque del fiume Acheloo che scende dal monte Pindo, in un sol vase, perche scorrendo come faceva, con dui vasi allagava tutti i frutti, e tutte le biade della campagna; e faceva grandissimi danni a quel paese, per questo si dice che Hercole dopò molte fatiche vinse Acheloo, havendogli tratto un corno quando combatteva con esso lui cangiato in un Toro; e lo lasciò con un corno solo, che fu quando raccolse tutte le sue acque in un vaso solo; fù il corno di Giove vincitore ripieno di herbe, e di frutti, e donato alla ninfa Amalthea, e da indi in poi fu sempre chiamato il corno di Amalthea, e questo fu quando si coltivò, e si rese fertile quella parte che prima ingombravano l’acque del fiume, per opera di Hercole; è da maravigliarse quivi come artificiosamente l’Anguillara habbia aggiunto il proprio Autore, se non avanzato nel descrivere la lotta, e rapresentarla cosi vivamente, che simiglia a chi legge haverla inanzi a gli occhi.
Dobbiamo essere cauti nel confidare le cose amate altrui, con l’essempio di Hercole il quale confidò molto male la sua amatissima Dianira a Nesso Centauro, che pensando di involargliela si diede a fuggire havendola in groppa, dopo havere passate l’acque gonfie del fiume Eveno come quello che sperava allontanarse di modo, che potesse godere dell’amore che haveva lungamente portato alla bellissima giovane, et involò la morte, perche come prima Hercole udì la voce di Dianira, che si doleva di essere portata via dal mostro crudele, tirò con l’Arco una saetta, e colse il fiero mostro; il quale sentendose venir meno per il veneno della ferita, non volle morire senza pensare alla vendetta, perche havendo persuasa la giovane a pigliar la camicia sua, e vestirla ad Hercole, come prima s’avvedesse ch’el voltasse l’Amor suo ad altra donna, che conoscerebbe ch’ella haveva virtu cosi di spegnere tutti gli altri amori, come ancora di conservar’il suo; fece a punto la semplice donna quanto le disse Nesso, onde come prima Hercole s’hebbe vestita la camiscia avenenata rimase di modo afflitto dal dolore del veneno, che fatto un Rogo nel monte Oeta s’abbruggiò da se medesimo; potiamo da questa favola ritrare che quello che ama la gloria, compreso sotto questa voce Hercole, vedendose rubare la fama acquistata con molte fatiche e sudori, figurata per Dianira; dalla lascivia, figurata per Nesso Centauro: gli tira una saetta tinta nella propria virtu, et la amazza; dà il Centauro la sua camiscia a Dianira, a fine che la faccia vestire ad Hercole come prima si volti ad amare altra donna; che è quando la lascivia vien meno, ma non però che non lasci de le sue spoglie alla fama; per dar la medesima morte, che è stata data a lei, all’huomo intento alla gloria il quale acceso da poi dell’amor vano, dishonesto, e lascivo di Iole si veste la camiscia dell’error suo, mandatagli dalla fama, onde ne rimane di modo pieno di afflittione, che s’abbrugia da se medesimo, e si torna a ringiovenire, perche come prima passiamo da una vita lasciva, dishonesta, e viciosa, a una temperata, honorata, e lodevole abbrusciando le male affettioni, ritorniamo giovani alla virtu, et alla gloria; e siamo dapoi ancora inalciati al Cielo, dalle ali della contemplatione, e tenuti nel numero de i Dei, che sono quelli che hanno volti tutti i loro pensieri in Dio; perche questi tali divengono Dei per participatione, nella maniera che dice il Salmo: Ho detto che voi sete Dei.
Bellissima conversione è quella dell’Anguillara, a Dianira, nella stanza Misera il tanto lagrimar, che giova?; la trasformatione di Galantide in Donola, ci da essempio, che Iddio ci da il castigo in quella parte con la quale l’habbiamo offeso; havendo Lucina punita la servente di Alchmena, perche si fece scherno di lei, e la ingannò nel parto di Hercole cangiandola in Donola, animale, che secondo i naturali partorisse con la bocca; hebbe nella medesima parte il castigo di partorire, con la quale si volle far scherno di Lucina, e farle la burla che giovò molto ad Alcmena intorno il parto.
L’infelice Driope cangiata in arbore per havere scioccamente spezzato il ramo del loto, per tenire lieto il suo figliuolo con la vaghezza di quel fiore, ci da essempio che ne a studio, ne ignorantemente l’huomo non deve giamai fare alcuna offesa a Iddio, perche facendo se ne riceverà il castigo di essere trasformato in arbore, che non è altro che rimanere solamen-<noinclude><references/></noinclude>
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Giove, che scorge liberata Creta,
Vuol, ch’à lo Dio del lume si compiaccia,
E con la vista sua gioconda, e lieta
Tutte à un tratto dal ciel le nubi scaccia.
Compiace ancho Eolo, e i venti irati acqueta,
E lascia in un balen l’aere in bonaccia.
Manda Triton lo Dio del salso regno,
Che faccia ritornar l’onde al suo segno.
Prende tosto Triton la concha attorta
Pronto verso il suo Re devoto, e fido,
E donando lo spirto à l’aura morta,
Fà da l’un polo à l’altro udire il grido.
Poi rende con la voce ogni onda accorta,
Che debbia ritornare al proprio nido.
Si spiana l’onda à poco à poco, e tace,
E lascia il legno in mar del tutto in pace.
Come manca del mar l’aspro tormento,
Metton senza indugiar l’altro timone,
E, perche soffia in aere un dolce vento,
C’ha volto il soffio ver Settentrione,
Legan la rotta antenna in un momento
Al tronco, che restò de l’artimone,
E di più pezzi di legnami, e tele
Rifan l’antenne, gli arbori, e le vele.
Giunti che sono à Carpato il pavese
Legano insieme, e ’l fan notar ne l’onde,
Che poi che ’l mar per se lo schifo prese,
Via da smontar non han migliore altronde.
Vi calar poi più d’un, ch’in terra scese,
E legò il laccio à le propinque sponde.
Qui il legno si fornì parte per parte
Di vele, antenne, remi, arbori, e sarte.
Dal lito con buon tempo il lin poi sciolse
Il provido nocchiero, et uscì fuori,
E al vento maestral la mira tolse,
E solcando andò il mar fra Sime, e Dori.
Passato c’hebbe Gnido egli rivolse
A gli Scithi la prua, la poppa à Mori,
E via solcando il liquefatto vetro
Lasciò mille isolette, e scogli à dietro.
Da man destra lasciò Nisiri, e Claro,
E Leria, e Patmo, e à quel lido pervenne,
Dov’Icaro del ciel soverchio avaro
Sforzò à cader le troppo alzate penne.
E havendo il mar tranquillo, e ’l tempo chiaro
In breve nel canal di Scio si tenne.
Ver Greco solcò poi l’ondosa spuma,
Et in Eolia al fin pervenne à Cuma.
Dopo tanto viaggio, e tanta guerra
Sentita hora dal foco, hora da l’acque
Smonta Mileto à Cuma, e và per terra,
E di fermarsi in Frigia al fin gli piacque:
Dove il Meandro si s’aggira, et erra,
Che par, che torni spesso, ove già nacque.
E una città, ch’in breve fu perfetta,
Fondò, che fu da lui Mileto detta.
Hor caminando per diporto un giorno
Per l’aggirate vie del patrio fiume,
Incontra un volto angelico, et adorno,
E vien seco à incontrar lume, con lume.
Le parla, e ’n solitario entran soggiorno,
E premon l’herbe in vece de le piume.
Figlia era di Meandro la donzella
Detta per nome Ciane adorna, e bella.
Hebbe di questa una gemella prole
Dotata d’ogni gratia illustre, et alma,
E si le lor bellezze uniche, e sole
Crebber, che sopra tutte hebber la palma.
E ben del sangue uscita esser del Sole
D’ambi parea la carnal veste, e l’alma,
Tanto saper, tanto splendor raccolto
Havean nel lume interno, e nel bel volto.
L’un fu garzone, e Cauno fu nomato,
L’altra fu detta Bibli, e fu fanciulla.
E s’ei d’ogni bellezza era dotato,
Ella ogni altra beltà fea parer nulla.
E da che l’uno, e l’altro hebbe lasciato
La prima età del latte, e de la culla,
S’amar d’un vero amor si caldo, e interno
Quanto altri mai, d’amor però fraterno.
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La donna, che ne l’odio, e ne l’amore
L’huom di natura, più costante avanza,
Havea più del fratello acceso il core,
Però di buona, e lecita speranza.
Pur non pensando à dishonesto ardore,
Tal volta si prendea troppo baldanza,
E per dar gratia à la camicia, e al manto,
Trovava via d’avicinarsi alquanto.
Venere contra ogn’un grand’odio havea,
Che traheva dal Sol l’alma, e la carne,
E come occasion se le porgea,
Non volea mai senza vendetta andarne.
Hor quando vide, ch’à costei piacea
Tanto il fratel, volle più stratio farne,
Che non fè de la zia quando amò il toro,
Per dar maggiore infamia al sangue loro.
Subito entrar ne gli occhi del fratello
L’irata Citherea fa il suo Cupido.
Và la sorella misera à vedello,
Mossa da santo amor fraterno, e fido;
Rimira l’occhio gratioso, e bello,
Ne sà, ch’allhora Amore ivi habbia il nido.
L’arco scocca ver lei subito Amore,
E fa lo stral passar per gli occhi al core.
Bibli non sà, che l’amoroso dardo
L’habbia di reo desio piagato il petto,
E quando à riveder torna il bel guardo,
Pensa, che vero sia fraterno affetto.
Hor mentre cieca del pensier bugiardo
Corre à l’irragionevole diletto,
S’adorna prima, e poi dolce favella,
E parer brama à lui faconda, e bella.
E se tal volta à sorte il fratel vede
Qualch’altra vagheggiar bella fanciulla,
E per acquistar gratia, amore, e fede,
Seco con modi honesti si trastulla,
L’ha invidia: e se in disparte il fratel siede,
S’accosta, e ’l bel de l’altra in tutto annulla.
E dice ogni difetto, e forse vero,
C’have colei nel volto, e nel pensiero.
Voi, cui la Cipria Dea non è nemica,
Da questo infame amor prendete essempio,
E fate, che la mente alma, e pudica
Scacci da se l’amor nefando, et empio.
Chi cerca farsi di sorella amica,
Acquista de l’infamia il grave scempio.
E non si può scusar, come costei,
Ch’al san pensier contrarij hebbe gli Dei.
Locate il natural caldo desio
In quel fedel amor beato, e santo,
Ch’approva il mondo, la natura, e Dio,
Onde Himeneo ne forma il carnal manto.
Ogni altro amore è scelerato, e rio,
E scorge l’alma al sempiterno pianto,
E innanzi à quei, ch’anchor godono il giorno,
Macchia l’honore altrui d’eterno scorno.
Non si conosce Bibli, e non sà il fine,
Al qual l’occulta sua facella intende.
Ma loda le bellezze alme, e divine,
E dentro maggiormente Amor l’accende.
Dà diversi ornamenti al manto, e al crine,
E ogni hor bella al suo fratel si rende.
Signor già ’l chiama, e da signor già il pregia
E i nomi, che dà il sangue, odia, e dispregia.
Quando ode, che ’l fratel soror la chiama,
Infinito dolor nel suo cor sente,
Che le rimembra quel, ch’ella non brama,
Quel nodo, c’han dal medesmo parente.
Pur se ben tanto il mira, e tanto l’ama,
Desta ha dal rio pensier vota la mente.
Non osa mentre il dì viva la tiene,
Di dare albergo à la nefanda spene.
Ma quando avien, che le cadenti stelle
Spargon sopra di noi l’onde di Lete,
E tutte l’attioni, e le favelle
Fan per tutto restar sopite, e quete:
E Bibli da le luci amate, e belle
Si parte, e dassi anch’ella à la quiete.
Secondo che ’l desio la punge, e fiede,
Sovente l’Amor suo nel sogno vede.
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Ne sol le par d’amarlo, e di vedello,
E di stupir del suo divino aspetto,
Ma d’abbracciarlo, e poi girsen con ello,
E goder seco al fin l’infame letto.
Pur si rimembra in quel, che l’è fratello,
E ben che ’l sonno anchor l’ingombri il petto,
Per la vergogna fa vermiglio il volto,
E fa restare il cor dal sonno sciolto.
Da poi, ch’insieme il sonno, e ’l sogno sparve,
Stette un gran tempo sbigottita, e muta.
E poi ch’entro à la sua memoria apparve
L’imagin, che sognando havea veduta;
Dove quella beltà goder le parve,
La qual non havea mai desta goduta,
La biasma, la rimembra, e la rappella,
E dentro al dubbio cor cosi favella.
Misera me, che sogni iniqui, e rei
Turban la mente già pudica, et alma?
E fanno ingiusti i casti pensier miei,
E d’illecito amor m’accendon l’alma?
Giamai non piaccia à sempiterni Dei,
Ch’io gravi l’honor mio di si ria salma.
Non piaccia al glorioso alto governo,
Ch’altro sia l’amor mio, ch’amor fraterno.
È bello sopra ogn’altro, e in vero è tale,
Che costringe il nemico ancho à lodarlo,
E se fratel non fosse al mio mortale,
Sposo potrei meritamente amarlo.
Fugga pur via l’affetto empio, e carnale,
Non mai più il sogno rio venga à destarlo.
E resti quell’amor fido, e pudico,
Che l’ama haver fratello, e non amico.
Ma pur, c’habbia il pensier lodato, e santo,
Mentre contemplo il dì la sua bellezza,
Perche debb’io spregiar quel sogno tanto,
Che m’hà fatto sentir si gran dolcezza?
Senza, ch’offenda il mio terreno manto,
Mi dà il sogno quel ben, che più amor prezza.
Ne può al mio amor trovarsi il più bel modo,
Che ’l cor non pecca, io non offesa il godo.
S’al soave d’amor sommo diletto
Non si pervien, se non à coppia à coppia,
Poi che v’è necessario più d’un petto,
Con testimonij amor gli amanti accoppia.
Ma senz’arbitro alcun, senza sospetto
Il sogno co ’l mio amor mi lega, e addoppia.
Lontano è il testimonio al mio trastullo,
Ma l’imitato amor non è già nullo.
Ó dolce sogno, ò Venere, ò Cupido
Quanto fu il mio piacer, quanto il mio bene,
Mentre hebbe il sonno entr’al mio petto il nido,
E fe del dolce fin lieta la spene.
Ó quanto anchor piacer nel core annido,
Quando di parte in parte me ’n soviene.
Fu breve il mio diletto, ma si grato,
Che più nel ciel gli Dei non l’han beato.
Ó invidiosa al mio stato felice
Alba, ch’apristi à miei lumi le porte.
Ó quanto erra d’assai ciascun, che dice,
Ch’una imagine il sonno è de la morte.
Che l’esser desto è una morte infelice,
Soggetta ad ogni estrema, et empia sorte.
Scarca d’affanni almen la notte ho posa,
E viver mi fa il sonno allegra, e sposa.
Fu ’l mio beato sogno breve, e finto,
Ma ’l vegghiare, e ’l dolore è lungo, e vero.
Hor s’è si dolce un ben corto, e dipinto,
Che mostra il sogno al non desto pensiero,
Che saria, se ’l mio amor tenessi avvinto
Gran tempo, quando ho sciolto il senso, e intero?
Ben da me posso imaginarmi quanto
Sia il ver piacer d’amor, se ’l finto è tanto.
Deh torna dolce sonno, e da anchor loco
Con quel finto trastullo al grande ardore.
Ma mentre son ne l’amoroso gioco,
E godo il maggior ben, che porga amore;
Del mio tanto piacer ti caglia un poco,
Lascia dentro sfogar l’acceso core.
Se in sogno sposa à lui vivo, e respiro,
Non far, ch’io porti invidia al Tasso, e al Ghiro.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
S’io provo nel vegghiar noia, e tormento,
Che ’l mio error vero scorgo empio, e mortale,
E se ne la quiete ho il cor contento,
E un piacer finto annulla ogni mio male,
Sia tutto finto ciò, ch’io veggio, e sento,
E ’l ver lunge da me dispieghi l’ale:
Et ogni opra, ch’io scorgo, ò d’altri, ò mia,
Sia tutta fittion, tutta bugia.
Ó s’io finger potessi in qualche modo,
Dolce amor mio, di non t’esser sorella,
Co ’l dolce d’Himeneo legame, e nodo
Godrei la vista tua soave, e bella.
Che la beltà, che tanto ammiro, e lodo,
Non saria ver la sposa empia, e rubella.
Ne spregieresti farti al padre mio
Genero, ch’è figliuol del più bel Dio.
Ohime, perche non fer gli eterni dei
Fra noi comune ogni fortuna, e cosa
Da padri in fuor, che ben trovar saprei
Modo da farmi à te compagna, e sposa?
Ó che rara fortuna havrà colei,
Beata sopra ogni altra, e gloriosa,
Che godrà le tue membra alme, e leggiadre,
Mentre far la vorrai consorte, e madre.
Hor, che importano, ohime, che dir vorranno
L’imagini, che ’l sonno mi dipinse?
Han forsi i sogni forza? e se pur l’hanno,
Qual forza ha quel, che col mio amor mi strinse?
Se fessero i mortai quel, ch’in ciel fanno,
Io potrei giudicar, che ’l ver mi finse,
Che ’l sogno, ch’al mio amor stretta m’avolse,
I futuri Himenei dimostrar volse.
Ma poi che non è lecito à mortali,
Che co ’l fratel la donna s’accompagni,
Voglion dir forse i miei venuti mali,
Che di già fan, ch’io mi lamenti, e lagni.
E dier luogo à gli affetti almi, e carnali,
Perche di maggior pianto il volto io bagni.
E m’han fatto goder di tanta gioia,
Perche priva di lei senta più noia.
Quanto è miglior de la terrena legge
Quella, che serva la celeste corte,
Che per quel, che di lor chiaro si legge,
Sposan le lor congiunte d’ogni sorte.
Volle quel Dio, che l’universo regge,
De la sorella propria esser consorte.
Fe sposa Opi Saturno, e l’Oceano
S’unì con Teti, e pur l’era germano.
Ma che cerco io dal ciel prendere essempio?
Non son fra ’l cielo, e noi le ragion pari.
Non dobbiam venerar nel divin tempio
L’opre de gli alti Dei su i loro altari.
Ma à voler fare un’atto infame, et empio,
Da quel, che fan gli Dei, già non s’impari.
Che dar non ponno i nostri animi erranti
Ragion de lor misterij eterni, e santi.
Io vò per ogni via scacciar dal core
Questo nefando, e scelerato affetto.
Ó se far no ’l potrò, cresca il dolore,
E de l’aura vital privi il mio petto.
Che senza biasmo mio, senza disnore
Quando sarò dentro al funebre letto,
Del mio dolce fratel l’ostro, e ’l cinabro
Darà gli ultimi baci al morto labro.
Hor sù poniam, ch’io discacciar non voglia
Dal petto il folle amor, che ’l punge, e fiede;
Convien, che in un voler cada la voglia
Di due, se vuole Amor la sua mercede.
Come farà il desio, ch’à ciò m’invoglia,
C’habbia l’amato mio la stessa fede?
Parrà à me giusto, e ’l pregherò, che m’ame,
Nefando à lui, ne vorrà farsi infame.
Son saria però il primo, il quale osasse
Nel letto entrar de la sorella propia.
Si dice pur, che Macareo v’entrasse,
E ch’ella del suo amor le fesse copia.
E s’anchor Bibli il suo fratel tentasse,
Forse di se non li farebbe inopia.
Ma stolta, che vado io cercando essempi,
Che son da ognun tenuti infami, et empi?
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||nono.|166}}</noinclude><poem>
Fuggan pur via da me gl’infami ardori,
E s’armi il cor di voglie honeste, e sante,
E dando essilio à dishonesti amori,
S’ami come fratel, non come amante.
Ben potrei haver pietà de suoi dolori,
S’havesse egli il mio amor bramato avante.
E bene il core haveria troppo empio, e fello
Chi lasciasse perire il suo fratello.
Hor se non saria honesto, ch’io soffrissi
Di veder consumare il mio germano;
Perche, s’io l’amor mio gli discoprissi,
Non dovrebbe ei ver me mostrarsi humano?
Meglio saria per me, se farlo ardissi,
Ch’io medesma il mio amor gli fessi piano.
Ma potrai tu parlar? ben poco accorta
Sei, se palesi un mal, che tanto importa.
Ma vò parlargli, e seguane che vuole,
E dirgli, che ’l suo amor sol bramo, e pregio.
Ma potrà mai la nipote del Sole
Macchiar la luce sua di si gran fregio?
Chi ti darà la voce, e le parole
Da indurre à tanta infamia il sangue regio?
Non vedi tu, ch’ei si pregiato, e raro
Havrà rispetto al suo sangue si chiaro?
Non però di pieta sarà si ignudo,
C’habbia à lasciar morir la sua sorella,
Che sa ben, che non vale elmo, ne scudo
Contra l’empie d’amore arme, e quadrella.
Se non potrà mostrare il colpo crudo
La debil voce, e timida favella;
Pregherò tutta humil la penna, e ’l foglio,
Che scoprano in mio nome il mio cordoglio.
Quest’ultimo parer, che la consiglia,
Vince la dubbia innamorata mente.
Lascia le piume à un tratto, e ’l manto piglia,
E se l’ammanta intorno solamente.
E senza ornare il bel crine, e le ciglia,
La seta, il panno, l’or, la guancia, e ’l dente,
Spinta dal grande ardor, che la consuma,
Prende una man l’acciar, l’altra la piuma.
Dove ha da scriver commoda s’asside,
E la manca appoggiata alza la penna,
La destra fa, che ’l ferro la divide
Nel mezzo de la gola, ù l’occhio accenna.
In forma d’obilisco la recide,
E poi che l’ha ben rasa la cotenna,
Sù l’unghia manca grossa il dital prende,
Dove co ’l ferro poi la spunta, e fende.
Nel vaso, ov’è l’inchiostro, indi la tinge,
E havendo sopra il foglio i lumi intenti,
Ambi i gombiti appoggia, e ’l foglio pinge,
E in varij modi accoppia gli elementi.
Le sillabe, che unite insieme stringe,
Dimostran le parole, e i loro accenti,
E come il suo concetto ha in un congiunto,
Non manca del suo segno, e del suo punto.
È ver, che ’l cassa poi, che non le piace,
E raccoglie à discorrer l’intelletto.
Come ha pensato alquanto, e si compiace,
Spiega nel foglio il suo novo concetto.
Non molto stà, che ’l novo anchor le spiace,
E qualche altro pensier fa dubbio il petto.
D’un vergognoso ardir ha il volto acceso,
E ’l pugno scrive, trema, e stà sospeso.
Ella stessa non sà quel, che si vuole,
Ne forma può trovar, che non la mute,
La carta ne le sue prime parole
Cosi parlò con voci aperte, e mute.
Se ben scrivendo tua sorella suole
Mandarti da principio la salute.
Poi il nome di sorella non vi brama,
E pone in quella vece una, che t’ama.
Poi che più cose ell’have aggiunte, e tolte,
Secondo il caldo amor le persuade,
La legge tutta quattro, e cinque volte,
E quattro, e cinque volte aggiunge, e rade.
Poi la riscrive in note aperte, e sciolte.
E quel, ch’aggiunse, in tal sententia cade;
Non ha per hor salute, onde ti scriva,
Ch’ogni salute sua da te diriva.
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Piacesse al ciel, che senza il nome mio
Potesse questa mia causa trattarsi,
E certa fossi pria del tuo cor pio,
Che venisse il mio nome à palesarsi.
Hor s’haver non può luogo il mio desio;
Se i versi miei son del mio nome scarsi,
Bibli è colei, che te nel suo cor tiene,
E c’ha fondato in te tutta la spene.
Ella è colei, che t’ama, e c’ha scolpita
Nel cor l’imagin tua divina, e bella.
Ella è, che t’ama più de la sua vita,
D’amor più caldo assai, che di sorella.
E ben mostrai, c’havea l’alma ferita
Al volto smorto, al pianto, e à la favella.
E i tanti baci, e le parole tante
Non fur già di sorella, ma d’amante.
E ben, ch’io mi sentissi accesa l’alma,
E strugger dentro il già ferito core;
Con la virtù già mia pudica, et alma
Pugnai per discacciar si fatto ardore:
Ma al fine amor ne riportò la palma,
Che posson troppo in noi l’arme d’Amore.
Pur te ’l dican per me gli eterni Dei,
Che resister cercai più, ch’io potei.
Fei più, che far non puote una fanciulla
Contra il colpo d’Amor possente, e crudo,
Ma quel poter, ch’ogni potenza annulla,
Più forte hebbe il suo stral, ch’io lo mio scudo.
E la gratia, ch’io vò, non saria nulla,
Se tu ’l il mio cor veder potessi ignudo.
Ch’à la bontà vedresti ivi dipinta,
Che contra il mio voler mi chiamo vinta.
Con quel timore, et humiltà, che deggio,
Ti discopro il mio colpo aspro, e mortale,
E sol quella pietà di cor ti chieggio,
Che può dar la salute à tanto male.
Sol la beltà, che in te contemplo, e veggio,
Sanar può il cor da l’amoroso strale.
Eleggi tu, che in te sta la virtute,
Che mi può dar la morte, e la salute.
Colei non t’è nemica, che desia,
Che ’l prego, che ti manda, approvi, e lodi.
Ma brama per congiunta, che ti sia,
Che la leghin con te più stretti nodi.
Sappiano i vecchi la ragion più pia,
Che vuol, che santo amor gli sposi annodi.
Ma non vuol l’età nostra altro consiglio
Se non quel, che ne dà Venere, e ’l figlio.
Cerchino i vecchi il lecito, e l’ingiusto,
Qual via s’ha da tener, qual da fuggire.
Ma l’anno più possente, e più robusto
Al dolcissimo Amor deve obedire.
Il vecchio poi che l’alma ha inferma, e ’l busto,
Quel, che più far non può, vieta co ’l dire.
Che sappiam noi, ch’Amor sia il santo, ò l’empio?
Seguiam pur de gli Dei l’eterno essempio.
Forse, che noi dovremo haver sospetto
Del padre, de’ congiunti, e de l’honore?
Tu vedi quel, che ne l’altrui cospetto
N’è lecito di far senza rossore.
Sol ne manca il dolcissimo diletto,
Che dà il più dolce pregio, c’habbia Amore.
E ’l piacer, che n’havrem, soave, e certo
Sotto il fraterno amor terrem coperto.
Gli abbracciamenti, i baci, e le parole
Son nulla senza il lor più dolce frutto.
Sol ne manca quel bene, onde Amor sole
Render, chi ’l puote haver, beato in tutto.
Deh veramente scesa alma dal Sole,
Habbi pietà d’un core arso, e distrutto.
Ne creder, che ’l suo amor ti confessasse,
Se ’l forte ultimo ardor non lo sforzasse.
Quel ben, c’ha posto in te l’alma natura
Per bear qualche donna amata, e bella,
Di che prender maggior dovrebbe cura,
Che di bear la sua cara sorella?
Quel ben, c’ha in se la giovinil figura
Di questa accesa, e misera donzella,
Se dè beare un bel sembiante humano,
Chi meglio dè bear, che ’l suo germano?
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S’à l’eta giovinile havrai riguardo
Del bel sangue del Sole illustre, e regio,
E se nel volto mio terrai lo sguardo,
Vedrai, ch’io non son donna da dispregio.
E se vuoi dir, che s’io sfavillo, et ardo,
Vien per lo bel, ch’è in te di maggior pregio,
Non è però si vil la mia bellezza,
Che non v’habbi à trovar gioia, e dolcezza.
Deh non chiudiamo à quel gran ben le porte,
Che di due la beltà può dare à dui;
E se possiam bear la nostra sorte,
Non ci curiam bear la sorte altrui.
Deh non ti far cagion de la mia morte,
Che non t’habbi à doler poi di colui
Che scriverà. Sta Bibli in questo avello
Da l’empio core uccisa del fratello.
Poi c’hebbe pieno il foglio in ogni parte,
E la sua voluntà contata intera,
Piegò l’infami, e dolorose carte;
E con la gemma poi segnò la cera.
Trova un ministro, e diceli in disparte,
(Il volto vergognosa, e la maniera)
Tò porta questa al mio, ma al fin non giunge,
E dopo tempo assai, fratel, v’aggiunge.
Mentre la carta al suo ministro porge,
Ei non la prende à tempo, e cade in terra.
Come cader la misera la scorge,
Prende augurio entro al cor di nova guerra.
Il ministro s’inchina, indi risorge
Co ’l foglio, che l’error nefando serra.
Ritrova Cauno, e ’l rende irato, e mesto
Co ’l verso, che vorria l’infame incesto.
Il pudico fratel da l’ira vinto,
Letto, ch’egli ha l’indegno, e rio cordoglio,
Di rabbia, e ardore il bel viso dipinto,
Straccia, e via getta in mille parti il foglio,
E quel miser ministro havrebbe estinto,
Se l’honor non tenea l’acceso orgoglio.
Pur per coprir l’error de la sorella
Al ministro di lei cosi favella.
Fuggi malvagio, e rio da la mia vista,
Osi con tanto error venirmi avanti?
E dì, ch’io la farò dolente, e trista,
E che la pena havrà de l’altre erranti,
Se quel, ch’ella ha perduto non racquista,
E poco le varran le scuse, e i pianti.
Timido ei fugge, e tien, che ’l suo disdegno
Nasca da qualche suo perduto pegno.
Hor mentre ella si veste, e ’l crine adorna,
Et à lo specchio tien la fronte opposta,
E per mostrarsi à lui più bella, e adorna
Fà, ch’ogni gemma sua sia ben disposta:
Il servo, che portò la carta, torna,
E le rapporta la crudel risposta,
E come egli stracciò le notte impresse,
E quel, che disse à lui, che le dicesse.
Come ode Bibli le repulse, e l’onte,
E c’ha compreso ben quel, ch’ei dett’have,
Si sente impallidir la mesta fronte,
E trema tutta, e vien di gielo, e pave.
Dona comiato al servo, e fa, ch’un fonte
Di lagrime il bel viso, e ’l sen le lave.
Come la mente poi torna, e rispira,
Torna anchora il furor, l’ardore, e l’ira.
Tosto da l’ira mossa, e da l’ardore
Con lo spirto vital l’aere percote,
E fa sonar la debil voce fuore
In queste meste, e dolorose note.
Meritamente sprezza egli il mio amore,
Temeraria, ch’io fui, perche fei note
Quelle fiamme impudiche, e scelerate,
Che nel mio cor dovea tener celate.
Troppo fui presta, misera, à far pieno
Di tanto errore il foglio infame, et empio.
Dovea prima, ch’aprir l’acceso seno,
Con qualche finto altrui tentarlo essempio.
Pria, ch’allentare à la mia vela il freno,
S’amava in mar fuggir l’ultimo scempio,
Pensar dovea con più d’uno argomento
Al camin dubbio, à la stagione, e al vento.
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Non posso hor più fuggir l’ira, e l’orgoglio
Del vento empio, e del mar l’ultimo sdegno.
Hor à percoter vò nel duro scoglio,
Non ho più in mio poter la vela, e ’l legno.
Ó folle amore, ò scelerato foglio,
Come scopristi altrui pensier si indegno?
Ó non prudente, e scelerata mano,
Come ardisti un’amor notar si insano?
Da i tristi augurij, oime, mi fu disdetto,
S’havessi havuto il senno in poter mio,
Di compiacer à lo sfrenato affetto,
Di palesar l’illecito desio.
Dovea pure à l’augurio haver rispetto,
Cader vedendo il foglio ingiusto, e rio,
E dovea sceglier più felice giorno
Per trarlo à l’amoroso mio soggiorno.
Non dovea far giamai vedere impressa
La mente mia ne l’odiose carte,
Dovea la mente mia scoprire io stessa
In qualche luogo commodo in disparte.
Che da soverchio amor l’alma mia oppressa
Veduto havria da l’onde, c’havrei sparte.
E da sospiri, e da la vista esterna
Veduta à pieno havria la fiamma interna.
Potea molto più dir la mia favella
Di quel, che cominciò lo scritto carme,
E s’al mio amore havea l’alma rubella,
Potea in aiuto mio movere altr’arme.
Potea abbracciar la gola amata, e bella,
E s’egli volea pur da se scacciarme,
Potea atterrarmi à suoi piè tramortita,
Et impetrare à i morti spirti aita.
Havrei provato ogni sorte opportuna,
Mostrata à me da l’amorosa speme,
E se pur no ’l moveano ad una ad una,
Mosso forse l’havriano unite insieme.
Ma forse colpa v’ha l’aspra fortuna,
Forse, ch’altro pensier l’alma hor gli preme,
Ne aspettar seppe il mio messo indiscreto,
C’havesse il cor più libero, e più lieto.
Questo è quel, ch’à me nocque, e ch’à lui spiacque,
Che fu il ministro mio male avertito,
E gli presentò il foglio, e non si tacque,
Mentre ch’egli hebbe l’animo impedito.
Che però d’una tigre egli non nacque,
La madre d’un leon non l’ha nutrito,
Non però mostra il suo nobil sembiante
Haver di ferro il cor, ne di diamante.
Ma vò, che resti ad ogni modo vinto.
Vò di novo con lui tentar la sorte,
E mentre l’alma il cor non lascia estinto,
Io vò seco pugnar costante, e forte.
Poi che ’l foglio il cor rio mostrò dipinto,
Vò l’impresa seguir fin’à la morte.
Non dovea cominciar, ne ’l core aprire,
Ma poi che cominciai, convien seguire.
Che se ben lascierò la ingiusta impresa,
Non però appresso lui sarò qual’era,
Li farà ogn’hor ver me la mente accesa
L’alma, ch’in me vedrà non casta, e intera.
E ne sarò schernita, e vilipesa
Come inhonesta, instabile, e leggiera.
Terrà, ch’altro in suo luogo habbia tentato,
E sia con fraude giunta al voto amato.
Non crederà, che quel possente Dio,
Che con si ardente fiamma arde il mio petto,
Quel caldo habbia creato in me desio,
Che m’ha fatto scoprir l’ingiusto affetto:
Ma ch’à l’amor cedessi iniquo, e rio,
Vinta da la lussuria, e dal diletto.
E quel, che non potei già haver da lui,
Con fraude, ogn’hor, ch’io vò, l’habbia d’altrui.
Già non potrò mai più dirmi innocente
Di quello error, che fa l’alma impudica.
Che se non peccò il corpo, errò la mente,
E di sorella amai di farmi amica.
E se ben hora il cor se ’n duole, e pente,
L’alma in tutto però non ho pudica,
Ne mai d’error si dirà in tutto sciolta
L’anima, che peccò sol’una volta.
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E scrissi, e dimandai di far l’incesto,
Se possa far, che putta ei non mi chiame.
In tutto è violato il core honesto,
E anchor che più non pecchi, io sono infame.
Meglio è, ch’io provi lui far dishonesto,
E ripregar, che m’accarezze, e m’ame.
Ch’io non havrò à temer la sua rampogna,
Se parte anch’egli havrà ne la vergogna.
È pochissimo error quel, ch’à far resta,
Grandissimo è l’acquisto, s’io ’l commovo.
Ó donna insana, e che discordia è questa,
Che nel tuo ingiusto cor discorro, e trovo?
Ti penti de l’illecita richiesta,
E pur ti piace ritentar di novo.
Solo il ritrova, e move il flebil metro,
E mille volte è ributtata indietro.
Quando il fratel la vede in tutto insana,
Fuggendo al sangue proprio fare oltraggio,
Lascia insieme la patria, e la germana,
Poi che ’l pensier di lei non può far saggio.
Da lei secretamente s’allontana,
E ferma al fine in Caria il suo viaggio.
E fonda per fuggir l’incesto indegno
Lontan da lei nova cittate, e regno.
Quando più Bibli il suo fratel non vede,
E de la sua partita à pieno intende,
Ne la camera sua secreta riede,
E dà fuor quel dolor, ch’entro l’offende.
Straccia l’aureo capello, e ’l petto fiede,
E muta più, che può, lo strido rende.
Che non è anchor si fuor de l’intelletto,
Che scoprir voglia altrui l’infame affetto.
Più ch’ella puote, affrena il grido, e ’l pianto,
Ma pensa ben partir secretamente,
Come il ciel mostri lo stellato manto,
E seguir lui fra la straniera gente.
E pianger per le selve, e strider tanto,
Che sfoghi à pien la dolorosa mente.
Pur mentre è il giorno, il suo dolor raffrena,
Che teme i ceppi, ò i ferri, ò maggior pena.
Come col nero vel la notte adombra
Il nostro almo hemisperio de la terra,
E che ’l sonno à mortali il senso ingombra,
Mentre dan posa à la diurna guerra;
Di se la donna il patrio albergo sgombra,
E sola, e muta và fuor de la terra.
E allontanata in solitario lido
Da luogo à le querele, al pianto, e al grido.
Per la via dubbia va la notte tutta
In tutto fuor de’ suoi regij costumi,
E stride, e passa misera, e distrutta
Per selve, e per ombrosi hispidi dumi.
E come da la via varia è condutta,
Hor guazza, hor sopra i ponti passa i fiumi.
E per quel, c’hebbe del fratello aviso,
Tien sempre al mezzo dì voltato il viso.
Ben conosce ella à le stelle diverse,
Che cerca in ciel, qual sia la parte australe.
Ma poi che l’avo suo si discoperse,
E al giorno per lo ciel fe batter l’ale,
Dal Sole entro à le selve si coperse
Sempre stridendo il suo dolore, e male,
E se ’l digiun l’assal, le frutte acerbe
Le danno il cibo, e le radici, e l’herbe.
Più ch’ella può da gli huomini s’asconde,
Sol si palesa à qualche pastorella,
A le dimande altrui poco risponde,
E con lo strido sol piange, e favella.
Straccia con ambe man le chiome bionde,
E dopo il petto misero flagella.
Ben veggon tutti à gl’atti, al volto, e al panno,
Ch’ella è gran donna, e soffre un grand’affanno.
La cercan consolar, le fanno honore,
Le danno il cibo, e ’l rustico conforto.
Di palesar l’amor già dubbio ha il core,
Acciò ch’ogn’una al suo fratel dia torto.
Pur si raffrena, e dove il suo dolore
La guida, va tosto, che ’l giorno è morto.
E passa il fiume, e scorre il monte, e ’l piano,
Ver dove trovar crede il suo germano.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
Patisce dal digiuno, e perde il sonno,
E ’l dolor sempre in lei si fa più intenso.
Tal, che le membra afflitte andar non ponno,
Come comanda, e vuol l’ardore immenso.
Tanto, che ’l senno al fin non è più donno
De la ragion, ma si da in preda al senso.
E scopre, s’altri ben non gliel dimanda,
L’ardor de la sua mente empia, e nefanda.
Stride, e chiama il fratello ingiusto, et empio,
E chiede, e vuol, ch’ogn’un le dia ragione.
E fa stupir del suo nefando essempio
Le Bubaside nuore, e le matrone.
L’intelletto perduto, e ’l duro scempio
Ben mover à pietà può le persone.
Ma il non concesso amor le da tal fregio,
Che se ben n’han pietà, l’hanno in dispregio.
Con quel furor, che le baccanti vanno
Di pampino, e di frondi ornate, e d’hasta,
Quand’honor fanno à Bacco ogni terz’anno,
E la mente han dal vin corrotta, e guasta;
Stridendo ella ne và carca d’affanno
Senza la mente haver saggia, ne casta.
E scopre con quei modi il suo dolore,
Che si conviene à chi del senno è fuore.
Già l’armigero Lelega lasciato,
E la Caria s’havea dietro à le spalle,
Crago havea in Licia, e Limire passato
Di Xanto anchor la fruttuosa valle;
E co ’l piè proprio il suo mortal portato
Havea per aspro, e faticoso calle,
Fin dove la Chimera fa quel monte,
C’ha di leon la mostruosa fronte.
Passato il monte, che ’l supremo aspetto
Ha d’un crudel leon, che ’l foco spira,
E c’ha di capra il pel, c’ha sotto al petto,
E d’un crudo dragon la coda agira;
Si dà fuor de le selve al verde letto
Dal camin stanca, dal dolor, da l’ira;
E ben, che dia riposo al carnal manto,
Non per questo può darlo al duolo, e al pianto.
Cercar l’accorte Naiade sovente
Di tor l’afflitto corpo à l’herbe, e à fiori,
E dar conforto à la stordita mente,
E pio rimedio à i desiati amori.
Giace ella muta, stupida, e dolente,
E gli occhi un rio perpetuo spargon fuori;
E mentre in pianto il duol si disacerba,
S’irrigan del suo pianto i fiori, e l’herba.
Le Naiade, vedendo in tutto privo
Di forza il corpo suo languido, e stanco,
Per fare il nome eternamente vivo,
Dov’ella stese il travagliato fianco,
Fer del suo pianto il copioso rivo
D’onde abondar, che mai non venner manco,
Sopposero al suo pianto una gran vena
D’onde, che fosse ogni hor fertile, e piena.
Qual de la scorza incisa esce la pece,
Qual de la terra gravida li bitume,
Qual l’onda, che già neve il verno fece,
L’Austro co ’l caldo Sol fonde, e consume:
Tal la misera Bibli si disfece,
E ’l pianto co ’l sudor cangiolla in fiume.
Ritien la fonte il nome, e quelle valli
Con puri irriga, e liquidi cristalli.
La fama de l’ingiusto, et empio affetto,
Onde Bibli fratel tentato havea,
E del suo trasformato in fonte aspetto,
Che ’l sorso al Licieo rustico rendea,
Tutto maravigliar fe il mondo, eccetto
La donna, e l’huom de l’isola Diteta.
Per più ragioni il bel regno di Creta
Maraviglia di lei non hebbe, ò pieta.
La prima fu, ch’ogn’un sapea del regno
L’odio, ch’al padre havea, l’alto motore.
E tenean certo, che ’l celeste sdegno
Havesse infuso in lei l’ingiusto ardore.
Ne men n’hebbe pietà per l’atto indegno,
Che fe Mileto contra il lor Signore,
Che vedendolo infermo, s’era armato
Per torre il regno al suo proprio cognato.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||nono.|170}}</noinclude><poem>
L’altra ragion, che non diè maraviglia
A l’isola Dittea, che sotto il monte,
C’ha il capo di leon, la stanca figlia
Si fosse assisa, e trasformata in fonte,
Fu, ch’in una plebea casa, e famiglia
Donna senza cangiar l’humana fronte
Sforzò nel regno stesso la natura,
Come piacque à la Dea, che n’hebbe cura.
Hor se ’l fonte Bibleo novo, e fecondo
A tutto il mondo maraviglia porse,
Eccetto à Creta, fu, che tutto il mondo
Non vide quel, che Creta sola scorse.
Per isgravar tre donne d’un gran pondo
Iside à tempo apparve, e le soccorse:
La qual fe si gran dono à una fanciulla,
Che Creta più non si stupì di nulla.
Vivea nel territorio allhor di Festo
De la plebe un buon’huom nomato Litto.
Fù d’incolpata vita, accorto, e honesto,
Ma far per povertà volle un delitto.
Hor quanto fu incolpevole nel resto,
Tanto questo à gran biasmo gli fu scritto,
Poi che quel mal co ’l tempo venne in luce,
Al qual la povertà volle esse duce.
Vedendo grave à la sua moglie il fianco
Con questo suon l’orecchie le percote,
Due voti io bramo: un faccia il tuo sen franco
Senza sentir le dolorose note;
L’altro è, che ’l parto tuo non habbia manco
Quel don, che ’l pel donar suole à le gote.
E come il terzo lustro habbia fornito
Sia buon per prender moglie, e non marito.
Tu sai di quanto peso è una citella,
Quanto la povertà ne da tormento.
Hor se pur vuol la sorte iniqua, e fella,
Che ’l parto non prometta il pelo al mento;
(Perdonami, pietà) di lei rubella
Fatti, e fa il lume suo del lume spento.
E giunto à questo segno il parlar frange,
E chi parla, e chi ascolta, il danna, e piange.
Prega allhor Teletusa il suo consorte,
Che non sl fondi in si misera speme,
Che senza dare à la lor figlia morte,
Ben passeran le lor fortune estreme.
Stà l’huom nel suo parer costante, e forte,
E mentre il vuol ridir, piangono insieme.
Prega ella, che ’l suo mal vede vicino,
L’Egittia Dea del suo favor divino.
Mentre la mezza notte à cader mena
Le prime stelle apparse in oriente,
E ’l sonno à gli animai lo spirto affrena,
Onde altri non intende, altri non sente;
La donna vinta da l’acerba pena
Al sonno diè l’affaticata mente.
E vide, ch’al suo letto Iside apparve,
Ó se pur non la vide, almen le parve.
De gli ornamenti regij ella era adorna,
Che dan le cerimonie altere, e sante:
Le spighe, e l’oro, e le lunari corna
L’ornan la fronte, e ’l suo nobil sembiante.
Anubi il can fedel seco soggiorna,
Che suol custodia à lei star sempre avante.
V’è Bubasti la Dea, v’è quel bue santo
Api, c’ha cosi vario, e bello il manto.
V’è quel, ch’a labro suol tenere il dito,
Che mostra altrui, che pian l’aura respiri.
V’ha anchor gli usati sistri, e v’ha il marito,
Il non à pien giamai cercato Osiri.
La peregrina serpe il sacro rito
Non vuol, che senza lei s’osservi, e miri,
Hor à la mente sua qual fosse desta
La Dea con questo suon si manifesta.
Ó Teletusa mia devota, e fida,
Da parte poni ogni timore, e noia,
Ne ti curar farti al marito infida,
Quale il parto si sia, non far, che muoia.
Son Dea, ch’à chi nel mio poter confida,
Aiuto soglio ogn’hor portare, e gioia.
Ne d’haver ti dorrai l’altare ornato
Di lume, incenso, e mirra à un Nume ingrato.
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L’altra ragion, che non diè maraviglia
A l’isola Dittea, che sotto il monte,
C’ha il capo di leon, la stanca figlia
Si fosse assisa, e trasformata in fonte,
Fu, ch’in una plebea casa, e famiglia
Donna senza cangiar l’humana fronte
Sforzò nel regno stesso la natura,
Come piacque à la Dea, che n’hebbe cura.
Hor se ’l fonte Bibleo novo, e fecondo
A tutto il mondo maraviglia porse,
Eccetto à Creta, fu, che tutto il mondo
Non vide quel, che Creta sola scorse.
Per isgravar tre donne d’un gran pondo
Iside à tempo apparve, e le soccorse:
La qual fe si gran dono à una fanciulla,
Che Creta più non si stupì di nulla.
Vivea nel territorio allhor di Festo
De la plebe un buon’huom nomato Litto.
Fù d’incolpata vita, accorto, e honesto,
Ma far per povertà volle un delitto.
Hor quanto fu incolpevole nel resto,
Tanto questo à gran biasmo gli fu scritto,
Poi che quel mal co ’l tempo venne in luce,
Al qual la povertà volle esse duce.
Vedendo grave à la sua moglie il fianco
Con questo suon l’orecchie le percote,
Due voti io bramo: un faccia il tuo sen franco
Senza sentir le dolorose note;
L’altro è, che ’l parto tuo non habbia manco
Quel don, che ’l pel donar suole à le gote.
E come il terzo lustro habbia fornito
Sia buon per prender moglie, e non marito.
Tu sai di quanto peso è una citella,
Quanto la povertà ne da tormento.
Hor se pur vuol la sorte iniqua, e fella,
Che ’l parto non prometta il pelo al mento;
(Perdonami, pietà) di lei rubella
Fatti, e fa il lume suo del lume spento.
E giunto à questo segno il parlar frange,
E chi parla, e chi ascolta, il danna, e piange.
Prega allhor Teletusa il suo consorte,
Che non sl fondi in si misera speme,
Che senza dare à la lor figlia morte,
Ben passeran le lor fortune estreme.
Stà l’huom nel suo parer costante, e forte,
E mentre il vuol ridir, piangono insieme.
Prega ella, che ’l suo mal vede vicino,
L’Egittia Dea del suo favor divino.
Mentre la mezza notte à cader mena
Le prime stelle apparse in oriente,
E ’l sonno à gli animai lo spirto affrena,
Onde altri non intende, altri non sente;
La donna vinta da l’acerba pena
Al sonno diè l’affaticata mente.
E vide, ch’al suo letto Iside apparve,
Ó se pur non la vide, almen le parve.
De gli ornamenti regij ella era adorna,
Che dan le cerimonie altere, e sante:
Le spighe, e l’oro, e le lunari corna
L’ornan la fronte, e ’l suo nobil sembiante.
Anubi il can fedel seco soggiorna,
Che suol custodia à lei star sempre avante.
V’è Bubasti la Dea, v’è quel bue santo
Api, c’ha cosi vario, e bello il manto.
V’è quel, ch’a labro suol tenere il dito,
Che mostra altrui, che pian l’aura respiri.
V’ha anchor gli usati sistri, e v’ha il marito,
Il non à pien giamai cercato Osiri.
La peregrina serpe il sacro rito
Non vuol, che senza lei s’osservi, e miri,
Hor à la mente sua qual fosse desta
La Dea con questo suon si manifesta.
Ó Teletusa mia devota, e fida,
Da parte poni ogni timore, e noia,
Ne ti curar farti al marito infida,
Quale il parto si sia, non far, che muoia.
Son Dea, ch’à chi nel mio poter confida,
Aiuto soglio ogn’hor portare, e gioia.
Ne d’haver ti dorrai l’altare ornato
Di lume, incenso, e mirra à un Nume ingrato.
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Detto c’hebbe cosi la Dea, disparse,
E ’l sonno lasciò lei libera, e viva.
E tal fu la pietà, che ’l petto l’arse,
Che lasciata di se la piuma priva,
Piegate le ginocchia ov’ella apparse,
Prega di cor la gloriosa Diva,
Che quel, c’ha il sogno à lei mostrato, approvi,
E al mal, che non vuol far, rimedio trovi.
Trova sua confidente una ostitrice,
E à pien del suo pensier la rende accorta,
Che servia anchor col latte di nutrice,
E lei vuol sola al letto arbitra, e scorta.
Crescon le doglie, e al giorno almo, e felice
Dal chiostro oscuro il peso si trasporta.
Figlia si trova, e la nutrice mente,
E fa creder, ch’è maschio al suo parente.
Il padre su ’l altar fa batter l’ale
Al foco, e poi da l’avo Ifi l’appella.
La madre è lieta, poi che il nome è tale,
Che si conviene à l’huomo, e à la donzella.
Ifi la madre sua propria, e carnale
Lascia, et ha da la balia la mammella.
La qual lontan dal padre la fanciulla
Tutti gli anni nutrì, ch’aman la culla.
Con pia fraude vetar l’infame oltraggio,
E fero al padre rio pietoso scorno.
E già nel mese il qual precede al Maggio
Dal dì, che ’l suo natal diede Ifi al giorno,
Tredici volte il pin, l’abete, e ’l faggio
Havean di nove chiome il capo adorno,
Et ei nel volto, ù fer le gratie il nido,
Havea Venere impressa, e ’l suo Cupido.
Pinga un’imagin Zeusi, un’altra Apelle;
E sian Venere vergine, e Narciso;
E ignude mostrin le lor membra belle,
E non manchi al lor corpo altro, che ’l viso:
Se l’aria à lor daran, che fer le stelle
Piover sopra costei dal paradiso,
Ognun dirà Narciso, e Citherea
Altro viso, che quel non vi volea.
Da poi, ch’à l’uso human la Dea Sicana,
Sopra duo lustri diè la terza arista,
Dal dì, che la sembianza alma, et humana
Il mondo allegro fe de la sua vista,
Il padre Litto la sua mente spiana,
E rende la consorte afflitta, e trista,
Mentre le dice allegro il core, e ’l ciglio,
C’ha dato moglie à lei, che crede un figlio.
Ho dice, al figliuol nostro hoggi trovata
Una sposa leggiadra, accorta, e honesta,
Nobil secondo il nostro stato, e ornata
D’ogni maniera affabile, e modesta.
È questa Iante di Teleste nata,
La cui bontate à tutti è manifesta.
Sì c’habbi l’occhio à quel, che si richiede,
Che tosto esseguirem la data fede.
L’afflitta Teletusa il volto lieto
Mostra, ma dentro il cor sente la doglia.
Che teme, ch’à scoprir s’habbia il secreto,
Ch’ascoso stà sotto mentita spoglia.
Pur con giudicio subito, e discreto
Dice, ch’alquanto anchor pensar vi voglia.
Che ’l figlio è delicato, e desioso,
E ’n troppo verde età vuol farlo sposo.
Stassi nel suo parer costante Litto,
E vanme in tanto, ove il negotio il chiama,
E lascia la moglier co ’l core afflitto,
Che d’allungar le nozze intende, e trama.
E ricorda à la Dea santa d’Egitto
Quel, che già le promise, e quel, che brama,
E co ’l ginocchio humil, co ’l cor intenso,
Dona il foco à l’altar co ’l sacro incenso.
Ifi, se ben sapea, ch’era donzella,
Non restava però d’arder d’amore
De la promessa à lei sposa novella,
E molto pria comune era l’ardore.
Era ciascuna à maraviglia bella,
Et ambe eran d’età su ’l più bel fiore.
E da primi anni conversando insieme,
Reciproco l’amore era, e la speme.
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Ifi mentre fingea d’esser fanciullo,
A più d’una donzella accese il petto.
E l’ultimo bramar seco trastullo,
Quel, che può dare amor maggior diletto.
Et Ifi il lor desio non rendea nullo
Co ’l mostrarsi contrara al loro affetto,
Ma solea con parer ben finto, e saggio
Lascivo riscontrar raggio, con raggio.
Hor mentre per mostrar, che la sua gonna,
Che porta, come gli huomini, non mente;
Rende lascivo il guardo à quella donna,
Che del suo amor conosce essere ardente;
Passa per gli occhi al core, e vi s’indonna
L’imagine d’Iante alma, e lucente.
E può si d’una vergine il sembiante,
Ch’una rende di se vergine amante.
Quel voler finger l’huom co ’l tempo havea
Ne l’imagination potuto tanto,
Che ingannò anchor se stessa; e le parea
D’esser quel, che mostrava il viril manto.
Hor mentre, che d’amore ogn’una ardea,
Odon, che i padri il matrimonio santo
Giurato han per lor due su ’l libro pio,
E fa crescer l’ardor d’ambe, e ’l desio.
Pari eran de l’angelica presenza,
Quanto à l’etate, ogn’una era fanciulla,
E pari anchor ne la benevolenza,
Da che le membra lor lasciar la culla.
Ma fur dispari ne la confidenza,
Ch’una molta n’havea, ma l’altra nulla.
Del par le strinse l’amoroso nodo,
Ma non si confidaro ambe ad un modo.
Si confidava ben la bella Iante
Ne la guerra d’amor lieta, e gioiosa
Di star al par del suo diletto amante,
E fare à pien l’officio de la sposa.
Ma l’altra, à cui quell’arma più importante
Mancava, che suol l’huom tenere ascosa;
Non havea fè ne l’amoroso invito,
Di fare à pien l’officio del marito.
E pur ardea di lei si caldamente,
Havea si acceso il cor d’unirsi à lei,
Che ’l più caldo garzon, forte, e possente,
Ch’uscisse mai de’ regni Citherei,
Bramati non havria con più fervente
Ardore, e sete i promessi Himenei.
Poi vedendo il suo errore, e ’l suo difetto
Solea sfogare il cor con questo affetto.
Che fo, misera me, che fine attendo
Di questo mostruoso, e novo ardore?
A che folle desio la mente intendo?
Perche seguo io si manifesto errore?
Me stessa con altrui del tutto offendo,
Co ’l manto tinto altrui, me con l’amore.
Che ’l cor, che in una vergine si tiene,
Fonda in un’altra vergine la spene.
Deh sommi Dei de la celeste corte
Senza haver l’occhio à miei commessi errori,
Fatemi, prego, gratia de la morte,
E date fine à miei nefandi ardori.
Ó se per darla à le tartare porte
Non volete da me l’alma trar fuori,
Datemi un’altra pena, e anchor che dura,
Contra l’uso non sia de la Natura.
Se ’l toro contra il toro alza le corna,
Per la femina il maschio il cozzo attacca;
Ma la vacca non mai la vacca scorna
Per acquistar l’amor d’un’altra vacca.
Per una agnella amabile, et adorna
Il monton al monton le corna fiacca;
Ma non cozza giamai la lor sorella
Per guadagnar l’amor d’un’altra agnella.
L’amata sposa sua vagheggia il pardo,
E poi la ’nvita à l’amoroso gioco.
Rende à l’amata il bel colombo il guardo,
E dati i baci al lor desio dan loco.
Sente il delfin da l’amoroso dardo
In mezzo à tanto mar l’ardor del foco,
Lo stesso ardor la sua consorte preme,
E al fin del lor amor godonsi insieme.
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Non so in terra trovar, ne in mar, ne in cielo,
Che femina di femina s’accenda.
Una non v’è, che l’amoroso zelo
Tutto à piacer al maschio non intenda.
Sol io di donna un bel corporeo velo
Bramo, che del suo amor lieta mi renda.
Sol’io vorrei l’ardente mio desio
Sfogar con donna, e pur son donna anch’io.
Piacesse à gli alti Dei, ch’io fossi nulla,
Ch’oltre, ch’io fuggirei tanto tormento,
Non si diria, ch’in Candia ogni fanciulla
A mostruoso amor drizza il suo intento.
La figlia di quel Dio, c’hebbe la culla
Da l’isola di Delo, amò l’armento.
Per eterno disnor d’esto paese
L’amor folle d’un bue l’alma l’accese.
Ma pur men folle amor la figlia strinse
Del Sol, poi che nel maschio hebbe il pensiero;
Che ’l fabro al meno à lei la vacca finse,
E con tant’arte ascose al toro il vero,
Ch’à l’amoroso assalto al fin l’astrinse,
E fè, ch’ella il suo amor conobbe intero.
E potè almen sotto il mentito panno
Far’adultero il bue co ’l Greco inganno.
Ma inceri pur di novo egli le piume,
E ’l temerario vol drizzi al mio lito,
E passi il sal del tridentato Nume
Per dar rimedio al mio folle appetito,
Potrà mai del suo ingegno il raro acume
Di femina, ch’io son, farmi marito?
Potrà mai l’arte sua con ogni cura
Far forza al gran poter de la natura?
Potrà mai l’arte sua, s’una è donzella,
Farla un fanciullo? e te far maschio Iante?
Deh stolta homai la mente à te rappella,
E d’amor natural renditi amante.
Scaccia da te l’ardor, che ti flagella,
Non voler nel tuo male esser costante;
Ma te medesma à te propria confessa,
E se fai cieco altrui, non far te stessa.
Non dè saggio pensier fondar l’amore
Dove convien, che ’l fin sia ingiusto, e nullo.
E se donzella sei, fa vago il core
Di qualche innamorato, e bel fanciullo.
Che con santo Himeneo sfoga l’ardore,
Con quel, che più gli sposi aman trastullo,
E mentre anchor non hai l’amato bene,
Nutrito almen l’amor sia da la spene.
I dolci baci, e i cari abbracciamenti,
Che del maggior piacer contentan dui,
Ti toglie il fatto in se, non de parenti
L’asperità, non la custodia altrui.
Non del marito accorto i lumi intenti
Ti privan di quel ben, ch’ei vuol per lui.
Ella non t’è contraria, anzi ti chiama,
E lo stesso diletto attende, e brama.
Vuol meco il padre, il socero, e la sposa,
E ’l mio voler d’ogni volere è donno,
Ne la fiamma sfogar posso amorosa,
Facciano huomini, e Dei quel, che far ponno.
Ne à tanto mal son mai per haver posa,
S’al fin non l’ho dal sempiterno sonno.
Che affligge il troppo ardor l’alma di sorte,
Che non può torle il duol se non la morte.
Che giova à me, se la virtù celeste
Comparte tante gratie al voler mio?
Che? se ’l benegno socero Teleste
Vuol co ’l padre di me quel, che voglio io?
Che? se le belle membra amate, e honeste
Son pronte à compiacer il mio desio?
Se la natura mi rispinge, e sforza,
C’ha d’ogni altro favor più spirto, e forza.
Ecco vicino il desiabil giorno
Che da novelli sposi è si bramato,
N’aspetta il letto nuttiale adorno
Per darne il ben, ch’amor può dar più grato.
Pronta ella attende il coniugal soggiorno,
Per far lo sposo suo di se beato.
Starem nel letto, havrem le voglie pronte;
E ne morrem di sete in mezzo al fonte.
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Gli sposi aman veder l’ardenti stelle,
Tosto, che l’alba desiata arriva,
Per godersi le membra amate, e belle,
Chi de l’amato suo, chi de la diva.
Sol io, misera me, non son di quelle,
C’habbia l’aria à bramar del giorno priva.
Ma pregherò, che ’l Sol più tempo aggiorni,
Perche da me medesma io non mi scorni.
Ch’oltre, che ’l finger mio sarà scoperto,
Non serverà la fè, c’hor mi mantiene,
C’hor, che ne spera l’amoroso merto,
M’ama, e desia d’unirsi à tanto bene.
Ma se l’inganno mio le sarà certo,
Non fonderà più in me l’amata spene.
Ne vorran le sue gratie alme, e divine
Amar senza speranza, e senza fine.
Pronuba Giuno, e voi sacri Himenei,
A che fin concorrete al nostro invito,
Poi che sposo io non son per menar lei,
Anzi noi ce n’andiamo ambe à marito?
Ó superna pietà, superni Dei,
Porgete aita al mio duolo infinito.
E se rimedio i miei desir non hanno,
Fate cadere in me l’ultimo danno.
Con questi, et altri assai gridi, e lamenti
Seguiti da le lagrime, e dal pianto,
Sfogava l’una sposa i suoi tormenti:
L’altra era ne l’amor calda altrettanto;
Ma non si dolea già con mesti accenti,
Anzi attendea quel dì beato, e santo;
Che non sapendo il mal, ch’à l’altra preme,
L’amor pascea con la creduta speme.
Sol dello Dio doleasi illustre, e biondo,
Che troppo trattenea ne l’aere il giorno:
Biasimava poi la Dea, ch’adombra il mondo,
Che troppo pigra già rotando intorno.
Et attendea quel dì grato, e giocondo,
Che con lo sposo far dovea soggiorno.
E chiamava Homeneo con quello affetto,
Che si richiede à tanto almo diletto.
Ma se la bella Iante il Sole accusa,
Che troppo tardo al fin del giorno giunge;
L’incolpa la dolente Teletusa,
Che troppo i suoi cavalli affretta, e punge:
E cerca tuttavia novella scusa,
Che l’aiuti à menar le nozze lunge.
Finge hor, che ’l finto maschio alcun mal punga,
Hor con augurij, e sogni il tempo allunga.
Ma già gli augurij, i sogni, e ’l corpo afflitto,
Et ogni altra materia di bugia
Tutta havea consumata, e ’l dì prescritto
Esser dovea ne l’alba, che venia.
Ricorre al tempio à l’alma Dea d’Egitto,
Et ha la mesta figlia in compagnia,
E chinata il ginocchio, e sparsa il crine,
Cosi prega le menti alte, e divine.
Ó santa Dea del Paritonio lido
Amica, e de la torre alta di Faro,
E del bel regno, ov’ha quel fiume il nido,
Che và per sette bocche à farsi amaro;
Tu sai quanto ver te lo spirto ha fido,
Tu, che l’interno cor vedi si chiaro,
Se ’l male è giunto à me dal tuo consiglio,
Provedi à me d’aiuto, e al finto figlio.
Quando per tua pietà ti concedesti
Con questi suoni in sogno al mio pensiero,
Conobbi queste insegne, e queste vesti,
E le lucide corna, e ’l cane altero,
La spiga, e l’oro, e ’l serpe, e tutti questi
Numi, che ’l tuo poter mostrano intero.
E al mio marito incauto il lume tolsi,
E le tue sante note esseguir volsi.
Costei, ch’innanzi à te la luce gode,
Per lo consiglio tuo spira, e favella,
Se punita io non son de la mia frode,
Vien da la tua ver me propitia stella.
Hor questa, che ti rende honore, e lode,
Salva dal mal, che l’ange, e la flagella.
Tu la salvasti già, salvala anchora,
Ne voler, ch’io per obedirti mora.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||libro}}</noinclude><poem>
E levandosi alquanto alto dal seggio,
Il braccio verso il mar tese, e la mano,
Di gratia (disse poi) Signor ti chieggio,
Che per tua cortesia mi faccl piano
Il nome di quell’isola, ch’io veggio,
Che mi par molto grande di lontano.
Per farlo allhor lo Dio restar contento
Fè risonare il ciel di quest’accento.
Un sol luogo non è, come ti credi,
Di molto l’occhio, Teseo s’inganna,
Che quelle son cinque isole, che vedi,
Ma la distanza il tuo vedere appanna.
Hor poi che, tua mercè, qui meco siedi,
Et ogni prudent’huom l’otio condanna,
Ti vò contar l’origine, onde nacque
Ciascuna di quell’isole in quest’acque.
Quelle Naiade fur di più d’un fonte,
Antico tributario del mio fiume,
Ch’à dieci tori già rupper la fronte,
E quei diero à l’altare, e al santo lume.
De la selva gli Dei tutti, e del monte
Furo invitati, e ogni altro agreste Nume
Al prandio, al ballo, et à l’officio pio,
Sol’io scordato fui, ch’era il lor Dio.
Io, che ’l disprezzo mio chiaro conosco,
Più che non fei giamai, m’ingrosso, e sdegno,
E d’ira, e di furor gonfio, e di tosco,
Non sol levo al terren la biada, e ’l legno;
Ma toglio il campo al campo, e ’l bosco al bosco,
E gli spingo per forza al suo regno:
Vi scaccio anchor, dimessa ogni pietate,
Co i proprij lochi lor le Ninfe ingrate.
Le dono à pena al mare, e à me le toglio,
Che l’onda salsa al mio voler risponde,
E tanto face il suo co ’l nostro orgoglio,
Che diamo à quel terren novelle sponde.
E divedendo l’un da l’altro scoglio,
Formiam le cinque Echinade sù l’onde,
Che quelle fur, ch’al sacrificio loro
Negaro al nostro altar l’incenso, e ’l toro.
Ma l’isola, ch’alquanto è lor distante,
Non fu da l’ira mia donata à l’acque,
Ma ben dal troppo crudo Hippodamante,
Di cui la sventurata donna nacque.
Già il suo leggiadro, anzi divin sembiante
Tanto à le luci mie cupide piacque,
Ch’ignuda entro al mio letto haver la volsi,
E ’l bel nome di vergine le tolsi.
Perimele di lei fu il proprio nome,
Hor subito, che ’l padre empio s’accorse
Del fallo suo, la prese per le chiome,
E su quel monte strascinolla, e corse.
Scagliando poi le non più grate some
Dal ruinoso scoglio al mar le porse.
Io corsi, e d’aiutar cercai il suo nuoto,
E dissi al Re del mar fido, e devoto.
Fratello altier di Giove, à cui la sorte
Diede il tridente in man, che regge il mare,
Onde noi Dei de l’onde erranti, e torte,
Tributo ti sogliam perpetuo dare;
Salva questa fanciulla da la morte,
Ch’io fei per troppo amor per forza errare:
Se ’l dritto mio maggior mai ti rendei,
Mostrati grato à me, pietoso à lei.
Poi che l’ha tolto il core empio paterno
D’albergar più ne la terrena riva,
Tu, che di tanto mar tieni il governo,
Non far, che sia nel sal d’albergo priva.
Falla nel tuo gran regno un loco eterno,
Si che la sua memoria almen sia viva.
Piegò Nettuno il volto al prego fido,
E fe tremar d’intorno il mare, e ’l lido.
Il gran romor, che più crudel minaccia,
Le dà maggior timor, maggior sospetto,
Pur si sostien co ’l nuoto in su le braccia,
Per non gire à trovar de l’onde il letto.
Anch’io, perche dal mar vinta non giaccia,
Con man sostegno il palpitante petto.
E ogni hor mi par sentir con più furore
Battere à l’infelice il polso, e ’l core.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||nono.|162}}</noinclude><poem>
Mandato Giove un folgor ne rafforza
Un’altro, e un’altro, e via balena, e tuona,
E dando al forte braccio ogni hor più forza,
La terra d’ogni intorno, e ’l cielo introna.
Tal, che Mileto, e ’l campo al corso sforza,
Ognun le squadre, e gli ordini abbandona.
E ’l foco, che dal ciel si ardente piove,
Ognun cerca fuggir, ma non sa dove.
L’uno abbandona l’altro, e per salvarsi
Corron, chi quà, chi là per varij lochi,
E molti in varie forme restano arsi,
Secondo varia il ciel le pietre, e i fochi.
Quei, che vivi anchor, son trovansi sparsi
Tutti chi quà, chi là smarriti, e pochi.
Mileto vede ben, che quel flagello
Gli vien, perch’al cognato egli è ribello.
Tosto, che manca il fulminar de l’aria,
La poca gente sua, che viva resta,
Vedendo la fortuna haver contraria,
Per andar verso il porto insieme appresta.
E trova, che la fiamma empia aversaria
Con la fervente, e subita tempesta
Distrutte ha le galee, rotte le navi,
L’asse, l’antenne, e l’elevate travi.
Fra tutti i grossi legni, e le triremi,
Che ’l fulminar del ciel distrutti havea,
A pena tanta ciurma, e tanti remi
Trovò da porre in punto una galea.
Di quei, che non restar de l’alma scemi
Da la fiamma del ciel crudele, e rea,
Fatta una ciurma à una galea s’attenne,
C’havea anchor salvi gli arbori, e l’antenne.
L’armata havea nel porto di Fenico,
Però c’havendo preso il regno tutto,
Vicino à questo porto il suo nemico
In un forte castel s’era ridutto.
Da questo porto misero, e mendico,
Poi che ’l foco del ciel l’have distrutto,
Sol con una galea forz’è che lasse
Quel regno, ch’assaltò con tanta classe.
Di notte, come porta il suo destino,
Fà vela, e à mezzo dì drizza la prora,
E passa il capo, c’ha nel suol mancino,
Pria, ch’à splender del ciel venga l’Aurora.
Verso levante poi prende il camino,
Et havendo al suo fin propitia l’ora,
Si trova giunto à l’apparir del lume
Sopra la bocca del Messalio fiume.
Poi che scacciato dal celeste grido
Mileto fu di Creta; haveasi eletto
Passar, come premea di Cuma il lido,
Dove ha Meandro il raggirato letto.
E quivi intendea farsi un novo nido
Per qualche suo particolar rispetto.
E conveniale costeggiare intorno
Creta, dov’ella è volta al mezzo giorno.
Come ha dunque passato Psichione,
Drizza à Greco il camin co ’l vento à l’orza,
E mentre il promontorio di Leone
Cerca acquistare, il vento alza, e rafforza,
Tanto, ch’in poppa à la galea si pone,
E gonfia il teso lin con tanta forza,
Che speran pria, che venga oscuro il cielo,
Passar se non, Itano, almeno Ampelo.
Già si chinava il Sol verso la sera,
E potea star tre hore à restar morto.
E l’aura era restata si leggiera,
Che ’l lino havean di già piegato, e attorto.
E già il legno ad Ampelo arrivat’era,
Ma sorger non volea, ne pigliar porto.
E gir piuttosto al buio, e con fatica
Volea, che prender l’isola nemica.
Ma intanto un Greco spaventoso, e tetro
Ingrossa il mare, e move al legno guerra,
E dubio il fà, se dè tornare indietro,
Ó dè afferrarsi à la nemica terra.
Ma del mar grosso il paventoso metro
Gli mostra, ch’è men mal, s’egli s’afferra.
Però che correria per l’aria bruna
Con troppo gran periglio la fortuna.
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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/336
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Alex brollo
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Hor mentre di dar fondo il buon nocchiero
In qualche sen coperto si procaccia,
Da tramontana sorge horrido, e altero
Un vento, che da l’isola lo scaccia.
Subito il buon nocchier cangia pensiero,
E volta verso l’Africa la faccia.
E fa camin contrario al suo disegno
Per dar men noia al combattuto legno.
La traversia di Greco in tutto manca,
E vien sol da maestro, e tramontana.
E l’onda sempre più rompe, et imbianca,
E ’l legno più da l’isola allontana.
Men di quel, che vorria, tiensi à man manca
Per la forza di Circio iniqua, e strana
Il misero nocchier, ch’accorto, e saggio
Si toglie men che può dal suo viaggio.
Con poca vela và ristretta, e bassa,
Et à l’arbor maggior dà sol quel vento,
Che fà, che la galea divide, e passa
Le gran botte del mar con men tormento.
De l’humil turba sbigottita, e lassa
Star al suo officio ogn’un si vede intento.
Stà ogn’un pronto al servitio, al quale è buono
Per obedir (pur che s’udisse) al suono.
Ma tanto orgoglio, e horror ne l’aria freme,
Si grande è ’l mormorio de le rott’onde,
Del grido human, de la galea, che geme
Ne la prua, ne la poppa, e ne le sponde
Co ’l romor de le corde unito insieme,
Che del fischietto il suon fra lor s’asconde,
E non, che in prora quei, ch’à lui son presso,
No ’l ponno udir, ne quel, che ’l suona istesso.
Ma dove il suon non val, supplisce il grido.
E perche il mar già qualche remo ha rotto,
Accenna con la mano, alza lo strido,
Che dentro il palamento sia ridotto.
Lo stuol poi ver la prora schiavo, e infido
Fà sferrar tutto, e imprigionar di sotto,
Perche sferrato insieme non s’intenda,
E per la libertà l’arme non prenda.
L’onde una appresso à l’altra eran si spesse,
E tanto alcun talhor tenean coperto,
Che non havea donde spirar potesse,
E fur cagion, che ’l capitano esperto
Di sferrar sol quei de la prora elesse,
Ma non, che stesser franchi al discoperto.
E tanto più, c’havean gli ondosi torti
Già dentro à la galea due schiavi morti.
Anchor che chiusi sian tutti i portelli,
E stian di sotto à lume di candela;
Se ben v’han sopra le bovine pelli,
Onde ogni fesso lor meglio si cela;
Pur quando entran del mar gli aspri flagelli,
Qualche poco d’humore indi trapela:
Ma quei di sotto v’han gli occhi, e l’orecchie
E con sassole, e spugne empion le secchie.
Con occhi d’Argo guardan quei di sopra,
Ch’ogni rimedio lor sia fatto à segno.
E che per gettar l’acqua il balcon s’opra,
Quando men nocer può l’ondoso sdegno.
Gettato il mar nel mar fan, che si copra,
Inchiudan poi le pelli sopra il legno
Con chiodi, che non fan nel legno fossa,
Ma saltan tutti fuor con una scossa.
La notte già co ’l tenebroso manto
Per tutto l’aere havea renduto oscuro,
E ’l vento, e ’l mar cresciuto era altrettanto,
E fatto il lor periglio men sicuro:
Solo un conforto è à lor rimaso in tanto
Notturno stratio, periglioso, e duro,
C’hanno il mar largo, e per l’ondoso orgoglio
Trovar non ponno insino al giorno scoglio.
Vuol ne la prima guardia de la notte
Il comito alternar la poggia, e l’orza,
E mentre il credon far, del mar le botte
Copron la ciurma, e ’l vento alza, e rafforza,
Tanto, che fa cader l’antenne rotte,
E tanto del cader grande è la forza,
Che storpia, e uccide, e fà, ch’in poppa, e ’n prora
Il legno morto un’altra volta mora.
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Autore:Placido Samperi
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| Nome = Placido
| Cognome = Samperi
| Attività = storico/gesuita
| Nazionalità = italiano
| Professione e nazionalità =
}}
== Opere ==
* ''Iconologia della gloriosa Vergine madre di Dio Maria protettrice di Messina'', G. Matthei stampatore camerale, Messina, 1644 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/index/4/ITICCUPAL0012169?fieldvalue%5B1%5D=placido+samperi&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016&fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40 SBN], [https://www.google.it/books/edition/Iconologia_della_gloriosa_Vergine_Madre/PuViAAAAcAAJ?hl=it&gbpv=1&dq=placido+samperi&pg=PA201&printsec=frontcover GB])
* ''Discorso academico in lode del porto di Messina'', per gli heredi di Pietro Brea, Messina, 1653 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/index/1/ITICCUNAPE026810?fieldvalue%5B1%5D=placido+samperi&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016&fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40 SBN], [https://www.google.it/books/edition/Discorso_academico_in_lode_del_porto_di/CPitIWaarYwC?hl=it&gbpv=1&dq=placido+samperi&pg=PA4&printsec=frontcover GB])
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Autore:Niccolò Antonio Colosso
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| Nome = Niccolò Antonio
| Cognome = Colosso
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| Nazionalità = italiano
| Professione e nazionalità =
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== Opere ==
* ''Messina la citta' preeletta'', Napoli, 1735 ([https://www.google.it/books/edition/Messina_la_citta_preeletta_singolare_nel/GTYYcGvHGAEC?hl=it&gbpv=0 GB])
* ''Una breve descrizione della città di Palermo'', Scuola tip. Boccone del Povero, Palermo, 1909 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/index/1/ITICCUPAL0039590?fieldvalue%5B1%5D=niccol%C3%B2+antonio+colosso&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016&fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40 SBN])
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Autore:Mariano Valguarnera
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| Nome = Mariano
| Cognome = Valguarnera
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| Professione e nazionalità =
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== Opere ==
* ''Discorso dell'origine ed antichita di Palermo e de'primi abitatori della Sicilia e dell'Italia'', Per Gio. Battista Maringo, Palermo, 1614 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/index/4/ITICCUSBLE008861?fieldvalue%5B1%5D=mariano+valguarnera&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016&fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40 SBN], [https://www.google.it/books/edition/Discorso_dell_origine_ed_antichita_di_Pa/rIh4BypfjKEC?hl=it&gbpv=0 GB])
* ''Le Canzoni di Anacreonte tradotte dal greco in verso sciolto'', Reale Stamperia, Palermo, 1795 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/index/5/ITICCUNAPE022718?fieldvalue%5B1%5D=mariano+valguarnera&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016&fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40 SBN], [https://www.google.it/books/edition/Le_Canzoni_di_Anacreonte_tradotte_dal_gr/Ksf49T8JirYC?hl=it&gbpv=0 GB])
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Storia dei collegi elettorali 1848-1897. Parte II/test transclusione2
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|-
|align=center|X||{{nowrap|10 marzo 1867}} ||778|| 323 ||{{sans-serif|'''Camuzzoni'''}} Giulio, dott.|| 273 || Bogoni Angelo, dott.|| 19||
|-
|align=center|XI ||20 nov. 1870<br/>27 " "||766 ||{{nowrap|1ª vot. 298}}<br/>Ball. 280 ||{{sans-serif|'''Camuzzoni'''}} Giulio, dott.|| 235<br/>227 ||Canossa march. Ottavio||55<br/>52||Dimissioni<sup>nota</sup>
|-
| ||7 maggio 1871<br/>14 " " || 766 || 1ª vot. 266<br/>Ball. 452 ||{{Wl|Q63726175|{{sans-serif|'''Zanella'''}} Bartolomeo}}, dott.|| 139<br/>237|| Angelini G. B. || 118<br/> 210||
<!--c
<br/>
{{cs|C}}| —
{{cs|L}}|
align=center|
{{Wl|Q48803185|Collegio elettorale di Tregnago}}
.
XII|| 8 nov. 1874 1017 663 Zanella Bartolomeo, avv.| 350 | Borghi Luigi, . «| 201
XIII 5 nov. 1876) 1225 75 Borghi Luigi, colonn., dirett. Genio navale 427 | Zanella Bartolomeo, avv. || 282
XIV 116 maggio 1880) 1251 1ª vot. 871) Campostrini nob. Francesco | 369 | Borghi Luigi, dirett. Genio|| 264
23 " " Ball. 952 AT4 navale 466
Alessi G. B. (1ª vot).| Od
Gualdo Airardo (id.) 64
XV, XVI e XVII
Compreso nel collegio di Verona I.
XVIII 6 nov. 1892) 5865 2845 Danieli Gualtiero, avv., prof.| 2510 | Alessi G. BL . wf 248
XIX 26 maggto 1895 || 4303 3035 Danieli Gualtiero, avv., prof.| 1995 | Ferrari Ciro, prof.) 911
XX || 21 marzo 1897 4468 1614 Danieli Gualtiero, avv., prof.| 1305 | Barbato Nicola. 2 . 165
Collegio elettorale di Trescore Balneario.
VII 25 marzo 1860) 364 205 Camozzi nob. Gabriele.| 195 | Moretti Andrea, dott. 3
VIII 27 genn. 1861) 786 1ª vot. 443) Camozzi nob, Gabriele.| 195 | Susani Guidv, ing. 236
3 feb. " 2 " 597 Sil 272
IX 22 ottobre 1865) 857 597 Camozzi nob. Gabriele. «| 303 | Del Carretto march. Costanzo.| 228
X 10 marzo 1867) 788|| 1ª vot. 263 Camozzi nob. Gabriele.| 218 | Del Carretto march.Costanzo.| 18 |
17 " " Ball. 269 238 23
Morte <sup>nota</sup>
23 maggio 1869 834 | 1ª vot. 380) Spini c.te Vincenzo, tenente|| 190 | Guastalla Enrico . «| 168
30 " " Ball. 528 colonnelio di cavalleria 300 om
<ref>Annullata l'elezione il 18 gennaio 1867 per pressioni esercitate durante le operazioni elettorali. Il presidente della sezione principale pronunziò un discorso in favore della candidatura del signor Camuzzoni. Non seguì altra elezione.</ref>
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Carlomorino
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|align=center|XII|| 8 nov. 1874|| 1017 ||663 ||{{sans-serif|'''Zanella'''}} Bartolomeo, avv.|| 350 || Borghi Luigi|| 201||
|-
|align=center|XIII|| 5 nov. 1876|| 1225 ||775||{{Wl|Q63929792|{{sans-serif|'''Borghi'''}} Luigi}}, colonn., dirett. Genio navale ||427 || Zanella Bartolomeo, avv. || 282||
|-
|align=center|XIV ||{{nowrap|16 maggio 1880}}<br/>23 " "|| 1251|| 1ª vot. 871<br/>Ball. 952||{{Wl|Q63809157|{{sans-serif|'''Campostrini'''}} nob. Francesco}}|| 369<br/>474|| Borghi Luigi, dirett. Genio navale<br/>Alessi G. B. (1ª vot)<br/>{{nowrap|Gualdo Aicardo (id.)}}|| 264<br/>466<br/>94<br/>64||
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XV, XVI e XVII
Compreso nel collegio di Verona I.
XVIII 6 nov. 1892) 5865 2845 Danieli Gualtiero, avv., prof.| 2510 | Alessi G. BL . wf 248
XIX 26 maggto 1895 || 4303 3035 Danieli Gualtiero, avv., prof.| 1995 | Ferrari Ciro, prof.) 911
XX || 21 marzo 1897 4468 1614 Danieli Gualtiero, avv., prof.| 1305 | Barbato Nicola. 2 . 165
Collegio elettorale di Trescore Balneario.
VII 25 marzo 1860) 364 205 Camozzi nob. Gabriele.| 195 | Moretti Andrea, dott. 3
VIII 27 genn. 1861) 786 1ª vot. 443<br/>Camozzi nob, Gabriele.| 195 | Susani Guidv, ing. 236
3 feb. " 2 " 597 Sil 272
IX 22 ottobre 1865) 857 597 Camozzi nob. Gabriele. «| 303 | Del Carretto march. Costanzo.| 228
X 10 marzo 1867) 788|| 1ª vot. 263 Camozzi nob. Gabriele.| 218 | Del Carretto march.Costanzo.| 18 |
17 " " Ball. 269 238 23
Morte <sup>nota</sup>
23 maggio 1869 834 | 1ª vot. 380) Spini c.te Vincenzo, tenente|| 190 | Guastalla Enrico . «| 168
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Carlomorino
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23 maggio 1869 834 | 1ª vot. 380) Spini c.te Vincenzo, tenente|| 190 | Guastalla Enrico . «| 168
30 " " Ball. 528 colonnelio di cavalleria 300 om
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di lista |
XV, XVI e XVII Compreso nel Collegio di Bergamo I.
XVIII 6 nov. 1892) 6207 1764 Suardo c.te Alessio. 1450 | Sinistri Angelo, avy, .) 189
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Collegio elettorale di Treviglio.
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XV, XVI e XVII Compreso nel Collegio di Bergamo I.
XVIII 6 nov. 1892) 6207 1764 Suardo c.te Alessio. 1450 | Sinistri Angelo, avy, .) 189
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XV, XVI e XVII Compreso nel Collegio di Bergamo I.
XVIII 6 nov. 1892) 6207 1764 Suardo c.te Alessio. 1450 | Sinistri Angelo, avy, .) 189
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Autore:Pietro Pompilio Rodotà
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</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Autore
| Nome = Pietro Pompilio
| Cognome = Rodotà
| Attività = sacerdote/studioso
| Nazionalità = italiano
| Professione e nazionalità =
}}
== Opere ==
* ''Riflessioni morali sopra la venuta della miracolosa immagine della b. Vergine del Buon Consiglio dalla città di Scutari dell'Albania, alla terra di Genazzano nella campagna di Roma'', nella Stamperia di S. Michele, Roma, 1752 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/index/34/ITICCUUM1E027815?fieldvalue%5B1%5D=pietro+pompilio+rodot%C3%A0&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016&fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40 SBN])
* ''Dell'origine, progresso, e stato presente del rito greco in Italia osservato dai greci, monaci basiliani, e albanesi''
** ''Libro primo. Dei Greci'', per Giovanni Generoso Salomoni, Roma, 1758 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/detail/SBLE015184? SBN], [https://www.google.it/books/edition/Dell_origine_progresso_e_stato_presente/sWpoAAAAcAAJ?hl=it&gbpv=1&dq=pietro+pompilio+rodot%C3%A0&pg=PP20&printsec=frontcover GB])
** ''Libro secondo. Dei monaci basiliani'', per Giovanni Generoso Salomoni, Roma, 1760 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/detail/SBLE015185? SBN], [https://www.google.it/books/edition/_/4uBIAAAAcAAJ?hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwjN6tj8p8WJAxXf_rsIHaQyAlgQ7_IDegQIEhAC GB])
** ''Libro terzo. Degli albanesi, chiese greche moderne, e collegio greco in Roma'', per Giovanni Generoso Salomoni, Roma, 1763 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/detail/SBLE015186? SBN], [https://books.google.it/books/about/Dell_origine_progresso_e_stato_presente.html?id=fKBi8Jqp7zgC&redir_esc=y GB)]
* ''Dell'arresto di tre cacciatori seguito il di 15. gennajo dell'anno corrente 1767. nella tenuta di Maccarese'', nella stamperia della rev. Camera Apostolica, Roma, 1767 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/index/31/ITICCURMRE003776?fieldvalue%5B1%5D=pietro+pompilio+rodot%C3%A0&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016&fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40 SBN])
* ''De' giuochi d'industria, di sorte, e misti, di quello in particolare, che si denomina lotto di Genova'', nella stamperia di Giovanni Zempel, 1769 ([https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata/-/opac-adv/index/28/ITICCUUM1E007859?fieldvalue%5B1%5D=pietro+pompilio+rodot%C3%A0&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016&fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40 SBN], [https://www.google.it/books/edition/De_giuochi_d_industria_di_sorte_e_misti/I5C5dC4udiMC?hl=it&gbpv=1 GB])
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Storia dei collegi elettorali 1848-1897. Parte II/Taranto - Trecate
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione||{{Sc|lettere di santa caterina}}|41}}</noinclude>colei che pone l’affetto suo in possedere, e non s’unisce con le suore (come voi dovete vivere, che dovete vivere a comune e avere tanto la grande quanto la piccola, e la piccola quanto la grande); se noi fa, ne viene in questo difetto, che ella caderà nella incontinenzia o mentale o attuale. E cade nella disobedienzia, perocché è disobediente all’ordine suo e non vuole essere corretta dal prelato. <ref>Comprende anco la superiora, secondo l’uso del tempo e secondo l'origine.</ref> E trapassa quello che aveva promesso. Onde vengono le conversazioni di coloro che vivono disordinatamente; vuoli secolari, vuoli religiosi, vuoli uomo, vuoli donna. Che la conversazione non sia fondata in Dio, non procede da altro, se non per alcuno dono o diletto piacere che trovassero. E tanto basta quello amore e amistà, quanto basta il dono e il diletto. E però dico che colei che non possiede, e che non ha che donare, dico che, non avendo che donare, sarà tolto da lei ogni disordinata conversazione.
Levata la conversazione, non ha materia di svagolare la mente, nè di cadere nella immondizia corporalmente nè spiritualmente; ma trova, e vorrà, <ref>Passa dal presente al futuro: e ciò conferisce non solo a varietà di forme e di suoni, ma fa sentire la certezza della cosa pronunziata, come se fosse già; e denota che il male non s’arresta al presente, ma è fonte di simili altri assai.</ref> la conversazione di Cristo crocifisso, e de’ servi dolcissimi suoi, i quali amano per Cristo e per amore della virtù, e non per propria utilità. Concepe uno desiderio e una fame della virtù, che non pare che se ne possa saziare. E perchè vede che della madre e della fontana dell’orazione trae la vita della grazia e il tesoro delle virtù, partesi dalla conversazione degli uomini, e fugge e ricovera in cella,<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione|46|{{Sc|lettere di santa caterina}}|}}</noinclude>quale colpa è uno vermine che rode in <ref>Più bello ''rode in che rode essa''. Entro a lei esercita opera di distruzione dolorosa, non però distrugge lei.</ref> essa coscienzia. Onde, morto che è questo vermine, e lavata che è la faccia dell’anima, è <ref>Nella stampa ''e'' congiunzione.</ref> privata del proprio e disordinato amore. Perocchè, mentre che l'amor proprio è nell’anima, questo vermine non muore mai, ne si leva la lebbra della faccia dell’anima. Poniamochè ’l sangue e il fuoco del divino amore ci sia dato (e a tutti è dato questo sangue e fuoco per nostra redenzione); e nondimeno da tutti non è participato: e questo non è per difetto del sangue, né del fuoco, nè della prima dolce Verità che ce l’ha donato; ma è difetto di chi non vota il vasello per poterlo empire d’esso sangue. Onde il vasello del cuore, mentre che egli è pieno del proprio amore, o spiritualmente
<ref>C'è un amor proprio spirituale; o, com’ora direbbero, anco i buoni talvolta peccano d’egoismo.</ref> o temporalmente non può empire <ref>Intendi ''empirsi del''. Potrebbesi correggere: nol può empire, intendendo che l’amore divino faccia partecipe il cuore della virtù del sangue: ma non in questo senso usa ''participare'' la Nostra. Orazio:''«Sinoerum est nisi vas, quodcunque infundis, acescit.''</ref> il divino amore, nè participare la virtù del sangue: e però’ non si lava la faccia, e non s’uccide il vermine. Dunque c'è bisogno di trovare modo di votarsi e d’iempirsi, acciocchè noi giugnamo a quella perfezione d’uccidere la propria volontà: perocchè, uccisa la volontà, è ucciso il vermine.
Che modo ci è dunque, carissimo figliuolo? dicovelo. Che noi ci apriamo l’occhio dell’intelletto a cognoscere uno sommo bene e uno miserabile male. Il sommo bene è Dio, il quale ci ama d’ineffabile amore: il quale amore ci è manifestato col<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione|48|{{Sc|lettere di santa caterina}}|}}</noinclude>e questo volse sostenere, perchè era bene, e per punire la colpa nostra, che è quella cosa ch’è male.
Poi, dunque, che l’occhio dell’intelletto ha così ben veduto e discernuto chi gli è cagione del bene, e chi gli è cagione del male, e quale è quello che è bene, e quello che è miserabile male; l’affetto, perchè va dietro all’intelletto, corre di subito e ama il suo Creatore, cognoscendo nel sangue l’amore suo ineffabile; e ama tutto quello che vede che ’l faccia più piacere <ref>La grammatica quadrupede porterebbe: ''piacere a lui, e unire con lui''.</ref> e unire con lui. Onde allora si diletta delle molte tribolazioni, e priva se medesimo delle consolazioni proprie per affetto e amore della virtù. E non elegge lo strumento <ref>Le tribolazioni gli sono strumento a edificare sé ed altri; ma considerandole appunto perciò come cosa sacra, non presume egli di adoperarle, quasi strumenti vili, a capriccio.</ref> delle tribolazioni, che provano le virtù, a suo modo, ma a modo di colui che gli ’l dà, cioè Dio; il quale non vuole altro, se non che siamo santificati in lui; e però gli ’l concede. Così <ref>La stampa: ''come egli''. Il Burlamacchi spiega: «Dio concede a l’uomo il bene delle tribolazioni quasi per premio, secondo che l’uomo ha saputo dall’amore di Dio trarre amore». Ma l’interpretazione mi pare sforzata, e il senso non lega. O ci deve mancare qualcosa, o s’ha porre così, e intendere: a questo modo riguardando le tribolazioni per amore concedute da Dio, l'uomo ne deduce cagione e ragione di meglio amare Lui bene sommo, e odiare l'unico vero male, la colpa.</ref> egli ha tratto l’amore dell’amore. E perchè l’occhio dell'intelletto in esso amore ha veduto il suo male, cioè la sua colpa, odialo, in tanto che desidera vendetta di quella cosa che n’è stata cagione. La cagione del peccato è il proprio amore, il quale notrica la perversa volontà, che ribella alla ragione. <ref>Sapientemente dice che la volontà del male fa ribellare la ragione al vero. Il dubbio stesso è spesso principio o effetto di colpa voluta.</ref> E mai non resta di {{Pt|cre-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione|60|{{Sc|lettere di santa caterina}}|}}</noinclude>loto <ref>Salmo: ''Eduxit me de lacu miseriae et de luto faecis»''.</ref> della miseria, e dissolve in lei ogni tenebra di proprio amore: perocché in esso cognosce quanto è spiacevole a Dio e nocivo alla sua salute; e però si leva con odio e caccialo fuore di se. Con fede viva cognobbe che ogni colpa è punita, e ogni bene è remunerato; e però abbraccia la virtù, e spregia il vizio.
Con grande sollecitudine diventa costante e perseverante in fino alla morte; in tanto che nè dimenio nè creatura nè la fragile carne il fanno voliere il capo addietro, quando questo lume perfettamente è nell’anima. Alla quale perfezione si viene con molto esercizio, con ansietato desiderio, e con profonda umiltà. La
quale umiltà l’anima acquista nella casa del cognoscimento di sè, col mezzo della continua, umile, e fedele orazione, con molte battaglie dal dimonio, e molestie
dalle creature, e da se medesimo, cioè dalla perversa volontà, e dalla fragile carne che sempre impugna centra lo spirito. A tutte resiste col lume della santissima fede; col quale lume, nella dottrina del Verbo, s’innamorò del sostenere pene e fadighe per qualunque modo Dio gliele permettesse; non eleggendo tempo nè luogo nè fadighe a modo suo, ma secondo che vuole la Verità Eterna, che non cerca né vuole altro che la nostra santificazione.
Ma perchè ci permette queste fadighe e tante ribellioni? Perché si provi in noi la virtù; e acciò che col lume cognosciamo la nostra imperfezione, e l’adiutorio che l’anima riceve da Dio nella battaglia e fadighe; e acciò che cognosciamo il fuoco della sua carità nella buona volontà che egli ha riservata nell’anima nel tempo della tenebra e delle molestie e delle molte fadighe.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione||LIBRO DECIMOQUARTO|63}}</noinclude>a ferro e fuoco. Ma il peggio loro era la fame, essendo al seminare negligenti, e corsi alla guerra di ogni età: fatto assegnamento dei nostri viveri: e andava quella gente bestiale ancor più adagio alla pace, perchè Giulio Classiciano, mandato successore a Cato, e mal d’accordo con Svetonio, guastava il ben pubblico per l’odio privato; spargendo che aspettassero a darsi al nuovo Legato che farebbe lor carezze, non avendo ira di nimico nè superbia di vincitore; e scriveva a Roma, non s’aspettasse mai fine della guerra alle mani di Svetonio, attribuendo alla malvagità di lui ogni male che seguiva, e ogni bene alla fortuna della repubblica.
XXXIX. Laonde Nerone mandò a riconoscere lo Stato di Britannia Policleto liberto, con grande speranza che l’autorità di costui potesse non pure unire il Legato col procuratore, ma co’ Barbari e ribellati una pace. Egli con gran gente, e aggravio d’Italia e Gallia, passò il mare, terribile eziandio a’ soldati nostri; ma i nimici della libertade ancora ardenti e non informati della potenza de’ liberti, si ridevano che quel capitano e quell’esercito, vincitori di sì gran guerra, ubbidissero alli schiavi. Fu nondimeno riferito il tutto all’Imperadore con più dolcezza. Avendo poi Svetonio nell’attendere a sue gravi cure, perduto certe poche navi con lor ciurma in sul lito, gli fu detto che consegnasse l’esercito, come se la guerra durasse, a Petronio Turpiliano, già uscito dà Consolo. Costui con lasciare stare il nimico ed essersi lasciato stare, pose al suo vile ozio onesto nome di pace.
XL. Nel detto anno due brutte sceleratezze ardiron fare in Roma, un Senatore e uno schiavo. Era {{Pt|Do-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione||LIBRO DECIMOQUARTO|65}}</noinclude>volevano rimutare; tra i quali C. Cassio per sua sentenza disse:
XLIII. Molte volte mi son trovato, Padri Coscritti, a sentir chieder in questo senato leggi e ordinanze nuove contro all’antiche, e non ho contraddetto; non per dubitanza, che già non fusse a tutte le cose provveduto meglio e più rettamente, da non potersi, ritoccandole, se non peggiorare, ma per non parere d’innalzare con troppo amore questa mia antichità, e anche, per non mi giocare, contraddicendoci ogni dì, quella autorità che abbiamo, ma risparmiarla per servigio della repubblica se mai bisognasse; come oggi, che sì prode nomo consolare è stato in casa sua assassinato da uno schiavo, lasciato fare, non iscoperto: e non è pero ancora stracciato il decreto, che tutta la famiglia n’abbia il supplizio. Assolvetela pure; ma chi fia unque difeso da sua dignità se non ci basta l’esser prefetto? Qual numero di schiavi da tanto, se quattrocento non hanno difeso Pedanio Secondo? Cui aiuterà la famiglia, se ora che importa a lei altresì, se ne sta? Essi forse l’ucciditore vendicato (come alcuni hanno faccia di fingere) del non avergli attenuta il padrone la libertà mercatata, qualche gran tesoro paterno, o toltogli uno schiavo de’ suoi antichi? Giudichiamo adunque che ei l’abbia ucciso con ragione.
XLIV. „Consideriamo ora le cagioni perchè i più saggi così determinarono. Ma se noi al presente sopra questo caso avessimo a deliberare per la prima volta, erederemo uno schiavo avere ardito ammazzar il padrone, senza averne sputato prima qualche bottone o minaccia o parola non saggia? Oh e’ non si volle scoprire, nascose l’arme; come poteo egli passar le<noinclude><references/></noinclude>
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XLIII. „Molte volte mi son trovato, Padri Coscritti, a sentir chieder in questo senato leggi e ordinanze nuove contro all’antiche, e non ho contraddetto; non per dubitanza, che già non fusse a tutte le cose provveduto meglio e più rettamente, da non potersi, ritoccandole, se non peggiorare, ma per non parere d’innalzare con troppo amore questa mia antichità, e anche, per non mi giocare, contraddicendoci ogni dì, quella autorità che abbiamo, ma risparmiarla per servigio della repubblica se mai bisognasse; come oggi, che sì prode nomo consolare è stato in casa sua assassinato da uno schiavo, lasciato fare, non iscoperto: e non è pero ancora stracciato il decreto, che tutta la famiglia n’abbia il supplizio. Assolvetela pure; ma chi fia unque difeso da sua dignità se non ci basta l’esser prefetto? Qual numero di schiavi da tanto, se quattrocento non hanno difeso Pedanio Secondo? Cui aiuterà la famiglia, se ora che importa a lei altresì, se ne sta? Essi forse l’ucciditore vendicato (come alcuni hanno faccia di fingere) del non avergli attenuta il padrone la libertà mercatata, qualche gran tesoro paterno, o toltogli uno schiavo de’ suoi antichi? Giudichiamo adunque che ei l’abbia ucciso con ragione.
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XLIII. „Molte volte mi son trovato, Padri Coscritti, a sentir chieder in questo senato leggi e ordinanze nuove contro all’antiche, e non ho contraddetto; non per dubitanza, che già non fusse a tutte le cose provveduto meglio e più rettamente, da non potersi, ritoccandole, se non peggiorare, ma per non parere d’innalzare con troppo amore questa mia antichità, e anche, per non mi giocare, contraddicendoci ogni dì, quella autorità che abbiamo, ma risparmiarla per servigio della repubblica se mai bisognasse; come oggi, che sì prode uomo consolare è stato in casa sua assassinato da uno schiavo, lasciato fare, non iscoperto: e non è però ancora stracciato il decreto, che tutta la famiglia n’abbia il supplizio. Assolvetela pure; ma chi fia unque difeso da sua dignità se non ci basta l’esser prefetto? Qual numero di schiavi da tanto, se quattrocento non hanno difeso Pedanio Secondo? Cui aiuterà la famiglia, se ora che importa a lei altresì, se ne sta? Essi forse l’ucciditore vendicato (come alcuni hanno faccia di fingere) del non avergli attenuta il padrone la libertà mercatata, qualche gran tesoro paterno, o toltogli uno schiavo de’ suoi antichi? Giudichiamo adunque che ei l’abbia ucciso con ragione.
XLIV. „Consideriamo ora le cagioni perchè i più saggi così determinarono. Ma se noi al presente sopra questo caso avessimo a deliberare per la prima volta, erederemo uno schiavo avere ardito ammazzar il padrone, senza averne sputato prima qualche bottone o minaccia o parola non saggia? Oh e’ non si volle scoprire, nascose l’arme; come poteo egli passar le<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|66|DEGLI ANNALI|}}</noinclude>guardie, aprir la camera, portar il lume, ammazzarlo che niuno sentisse? Antiveggon bene gli schiavi i ma' pensieri per molti indizj; scoprendoceli noi potrem vivere soli tra molti, sicuri tra i mal contenti, e (morir bisognando) vendicati tra i traditori. Sospetta ai nostri antichi fu la natura degli schiavi, quando anco nascevano con l'affezione ai padroni nell'istesse case o ville; oggi che ne abbiamo in famiglia le nazioni intere, di leggi e religioni strane o nulle, non frenereste tal feccia d’uomini sè non con la paura. Morranno degl'innocenti. A che quando d’uno esercito vigliacco si trae per sorte de’ dieci l’uno a morir di bastone, n’escono de’ valenti. Ogni grande esempio ha qualche po’ dell’iniquo contro qualcuno, ma è contrappesato dall’util pubblico„.
XLV. Al parer di Cassio niuno ardì contraddir solo; ma uscì un tuono di voci moventi a pietà; del numero, dell'età, del sesso, e la maggior parte, senza dubbio, innocenti. Vinse nondimeno la patte che voleva il supplizio; ma non poteva esser ubbidita per lo popolo ragunato, che minacciava sassi e fuoco. Cesare lo sgridò per bando; e pose soldati per tutta la via, per la quale andaro a morire i cattivi. Cingonio Varrone voleva che anche i liberti, trovatisi in quella casa, si cacciasser d’Italia: al prìncipe
non piacque con la severitate accrescer la rigidezza antica, cui non aveva ammollita la misericordia.
XLVI. in quest’anno fu condannato Tarquizio Prisco di rapacità, a stanza de’ Bitini, con gran piacere de’ Padri, che si ricordavano che egli accusò Statilio Tauro suo viceconsolo. Per le Gallie fecero il catasto Q. Volusio e Sesto Affricano, e Trebellio {{Pt|Mas-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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XLV. Al parer di Cassio niuno ardì contraddir solo; ma uscì un tuono di voci moventi a pietà; del numero, dell’età, del sesso, e la maggior parte, senza dubbio, innocenti. Vinse nondimeno la patte che voleva il supplizio; ma non poteva esser ubbidita per lo popolo ragunato, che minacciava sassi e fuoco. Cesare lo sgridò per bando; e pose soldati per tutta la via, per la quale andaro a morire i cattivi. Cingonio Varrone voleva che anche i liberti, trovatisi in quella casa, si cacciasser d’Italia: al prìncipe
non piacque con la severitate accrescer la rigidezza antica, cui non aveva ammollita la misericordia.
XLVI. in quest’anno fu condannato Tarquizio Prisco di rapacità, a stanza de’ Bitini, con gran piacere de’ Padri, che si ricordavano che egli accusò Statilio Tauro suo viceconsolo. Per le Gallie fecero il catasto Q. Volusio e Sesto Affricano, e Trebellio {{Pt|Mas-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="2" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|72|DEGLI ANNALI|}}</noinclude>{{Pt|l'Imperio|dell'Imperio}}; se già tu non tenessi da meno te di Vitellio, che fu tre volte consolo o me di Claudio; ma io non potrei tanto donarti, quanto ha con in lungo risparmio avanzato: Volusio. Anzi se io talora sdrucciolo, come giovane, tu mi reggi e rattieni. Non si dirà che tu mi abbi renduto la roba, per tua moderanza, nè lanciatomi per tua quiete, ma ognuno la darà alla mia avarizia, alla paura della mia crudeltà. E quando tu mi avessi gran lode di continente, non sarebbe da savio fare coll’infamia dell’amico sè glorioso. E qui l’abbracciò e baciò, come nato e usato a coprir l’odio con false carezze. Seneca (conclusion solita dei ragionamenti co’ principi) lo ringraziò; e riformò sua grandezza: levossi le visite, l’accompagnature per la città: usciva poco di casa sotto spezie di malsania o di filosofare.
LVII. Battuto Seneca, poco ci volle ad abbassare Fenio Ruffo, apponendoli l’amicizia di Agrippina. E Tigellino cresceva ogni dì; il quale pensando che le malvagità, per le quali sole era potente, insieme a Nerone più grato, intingendovi anche lui; fantasticò chi gli fusse più di tutti sospetto; e trovò che Silla e Plauto eran dessi, scacciati dianzi, Plauto in Asia, Silla in Proenza. Ricordò quanto erano nobili e vicini alli eserciti, questi d’Oriente, quegli di Germania: „Non tenere essò, come Burro, il piede in più staffe, ma l’occhio alla salute di Neron solo; il quale con la presenza forse poter difendersi dai trattati della città; ma come opprimere i movimenti lontani? A nome di Silla dettatore, aver alzato il capo le Gallie; nè meno sospetti essere i popoli d’Asia, per lo chiarore di Druso, avolo di Plauto. Essere quelli mendico, però arrisicato; e fare il {{Pt|dap-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione|78|{{Sc|lettere di santa caterina}}|}}</noinclude>quanto noi speriamo nella sua larghezza. Onde tanto
saremo proveduti, quanto noi spereremo. E però,
se l'uomo cognosce sè con lume della fede, egli
non si confida in sè, nè in suo sperare. <ref>Bello il non isperare nella propria speranza; cioè, il non credere a sola la credenza propria, il non amare il proprio amore.</ref> Però che
cognosce, sè per sè non essere manifestamente: che
se alcuna cosa fusse da sè, egli potrebbe possedere
di quelle cose ch’egli ama, a suo modo. La qual
cosa non é. Anco, quando vuole essere ricco, spesse
volte gli conviene essere povero; vorrebbe la sanità
e la lunga vita, ed egli
<ref>''Convenire'' così, modo antico: ma forse s’ha a scrivere e ''gli''.</ref> conviene essere infermo, e
viengli meno ’l tempo. E però è stolto e maladetto
colui che si confida nell’uomo; vedendo egli, che
alcuna cosa non è da sè, vedendo che il mondo e
l’uomo noi serve se non per propria utilità. Chi
dunque si vorrà confidare in loro, sempre ne rimarrà
ingannato; però che a <ref>Forse da levare a. Petrarca: ''«.... rapidamente ne abbandona il mondo, e picciol tempo ne tien fede».''</ref> neuna cosa gli tiene fede.
Che, volendo arricchire, egli impoverisce l’anima sua
e sè, e’ figliuoli, della sustanzia temporale. Egli diventa
disordinato e incomportabile a sè medesimo;
desiderando quello che non debbe desiderare. E l’animo
che é disordinato a volere quello che non ha,
sempre pena; però che è privato del sommo Bene,
’l quale pacifica, quieta e sazia l’anima.
O fratello e figliuolo carissimo, aprite l’occhio dell’intelletto col lume della santissima fede, acciocchè cognosciate la poca fermezza e stabilità del mondo, e la grande bontà di Dio, fermo e stabile, che non si muove mai, <ref>Dante: ''«Tutto il ciel muove. Non moto»''. Boezio: ''«Stabilique manens das cuncta moveri»''.Abbiamo ''procrastinare', parola aulica. Dante fa parlare il merlo. E sentasi in inferno il ''crio'', e in paradiso il ''tin tin''.</ref> ’l quale sazia e nutrica<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione|78|{{Sc|lettere di santa caterina}}|}}</noinclude>quanto noi speriamo nella sua larghezza. Onde tanto
saremo proveduti, quanto noi spereremo. E però,
se l'uomo cognosce sè con lume della fede, egli
non si confida in sè, nè in suo sperare. <ref>Bello il non isperare nella propria speranza; cioè, il non credere a sola la credenza propria, il non amare il proprio amore.</ref> Però che
cognosce, sè per sè non essere manifestamente: che
se alcuna cosa fusse da sè, egli potrebbe possedere
di quelle cose ch’egli ama, a suo modo. La qual
cosa non é. Anco, quando vuole essere ricco, spesse
volte gli conviene essere povero; vorrebbe la sanità
e la lunga vita, ed egli
<ref>''Convenire'' così, modo antico: ma forse s’ha a scrivere e ''gli''.</ref> conviene essere infermo, e
viengli meno ’l tempo. E però è stolto e maladetto
colui che si confida nell’uomo; vedendo egli, che
alcuna cosa non è da sè, vedendo che il mondo e
l’uomo noi serve se non per propria utilità. Chi
dunque si vorrà confidare in loro, sempre ne rimarrà
ingannato; però che a <ref>Forse da levare a. Petrarca: ''«.... rapidamente ne abbandona il mondo, e picciol tempo ne tien fede».''</ref> neuna cosa gli tiene fede.
Che, volendo arricchire, egli impoverisce l’anima sua
e sè, e’ figliuoli, della sustanzia temporale. Egli diventa
disordinato e incomportabile a sè medesimo;
desiderando quello che non debbe desiderare. E l’animo
che é disordinato a volere quello che non ha,
sempre pena; però che è privato del sommo Bene,
’l quale pacifica, quieta e sazia l’anima.
O fratello e figliuolo carissimo, aprite l’occhio dell’intelletto col lume della santissima fede, acciocchè cognosciate la poca fermezza e stabilità del mondo, e la grande bontà di Dio, fermo e stabile, che non si muove mai, <ref>Dante: ''«Tutto il ciel muove. Non moto»''. Boezio: ''«Stabilique manens das cuncta moveri»''.</ref> ’l quale sazia e nutrica<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione||{{Sc|lettere di santa caterina}}|79}}</noinclude>l’anima nell’affettuosa carità, e vestela di speranza;
sperando nel suo dolce Creatore. E sa bene che la
divina Bontà vede di quello, che ha bisogno; e però
offera il desiderio e ’l bisogno <ref>Offre non solo il desiderio ma il bisogno, quasi dono di Dio, da rendere a Dio. Non solo la necessità ma il dolore è ostia accetta, se occasione di merito.</ref> a lui, servendolo con
tutto il cuore e con tutto l’affetto suo. E la fadiga
del corpo dà alla famiglia, sovvenendogli e aiutandogli
<ref>''Sovvenire'' dice l’atto del venire in aiuto; ''aiutare'', l'opera e l’effetto. Non sempre chi sovviene, aiuta: e può aiutare anco chi non vuol sovvenire. Certi sovventori impicciano, certi nemici aiutano validamente.</ref> di quello che può. Con buona e santa coscienzia
fa quello che può; e l’avanzo
<ref>Il resto, quel eh.’ e’ non può. ''«Quod superest»''.</ref> lassa fare alla divina
Bontà, in cui egli ha posto la speranza sua, perchè
cognobbe col lume della fede la sua bontà e providenzia.
In altro modo non veggo che potreste campare
dal loto del mondo senza il lume della fede,
onde trasse la speranza e l’affettuosa carità, gustando
in questa vita l’arra di vita eterna, perchè la volontà
sua è vestita della dolce volontà di Dio.
E però io vi dissi che desideravo di vedervi alluminato del lume della santissima fede, e vestito di perfettissima speranza. Così vi prego per l'amore di Cristo crocifìsso, che facciate voi e la donna vostra, acciò che non stiate in stato di dannazione. E quello che non fusse stato fatto per lo tempo passato, io voglio che si faccia per lo presente. E non aspettate il tempo a cercare la salute vostra, però che il tempo non aspetta voi; e però non dovete aspettar lui, facendo come ’l corvo, che dice cra cra. <ref>''Orai'' per ''domani'', gli antichi dicevano; e credo sia di qualche dialetto. Abbiamo ''procrastinare', parola aulica. Dante fa parlare il merlo. E sentasi in inferno il ''crio'', e in paradiso il ''tin tin''.</ref> Così e’ perditori del tempo sempre dicono: domane farò. E così si trovano giunti alla morte,<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione|80|{{Sc|lettere di santa caterina}}|}}</noinclude>e non se n’avveggono. E allora vuole
<ref>Il singolare personifica meglio e mette più in atto.</ref> il tempo, e
non lo può avere, quando ha speso il tempo suo
miserabimente, con avarizia <ref>Bello, che l’avaro si trovi prodigo del tesoro più prezioso.</ref> e cupidità e guadagni
illeciti e con molta immondizia della mente e
del corpo suo, contaminando il sacramento del Matrimonio;
fassi Dio de’ figliuoli suoi; e, come cieco,
pone la speranza dove non la dee ponere. E così
va di cecità in cecità; in tanto che, se non si corregge
e non punisce la colpa con la contrizione del
cuore, e con la confessione e satisfazione, giusta al
suo potere e la sua possibilità, <ref>''Possibilità'' dice i minimi termini del potere, come la stessa forma grammaticale denota. E usa tutti e due i vocaboli per far meglio risaltare quella pia e generosa pirentesi: che Dio richiede il possibile.</ref> dico (e non la impossibilità, che non la richiede Dio), giunge all’eterna dannazione. Voglio dunque, che vi destiate del sonno prima che venga la morte; e quello desiderio <ref>Primo dono, ch’è l’istinto del bene; dono non negato anco a quelli a chi il lume della fede è negato o scarso.</ref> e lume che Dio v’ha dato, non sia tolto da voi, ma con perseveranzia lo esercitiate col tesoro delle virtù, e col lume della fede, e colla perfettissima speranza. E non pensate che la divina Providenzia vi venga meno: ma sempre vi sovverrà, sperando voi in lui in ogni vostro bisogno. Altro non vi dico.
Permanete nella santa e dolce dilezione di Dio. Gesù dolce, Gesù amore.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione||{{Sc|lettere di santa caterina}}|81}}</noinclude>LXXXVI. - All’abbadessa del monastero di Santa Maria delti Scalzi in Firenze. <ref>Monastero già fuor di Firenze, ora dentro le mura dietro a Santa Croce, di Francescane. Ma però il titolo dice ''Scalze'', il Burlanacchi lo crede quel di Sant’Agata, assai fuori della città.</ref>
La carità è latte d’ogni virtù. Non si guasta la dolcezza, di lei senza pena.
Da compiacersi nel iene snpre ne viene il dispiaocimento salutare de’
mali nostri. Il dolore necessario all’amore è desiderabile. Amore vuole
raccoglimento. Bandire da sé i profani e i devoti. La cella, patria e
sposa. Vigiliare con la mente sopra di se; pregare con l’opera. Norme
dell’obbedienza. Il superiore sia giusto con carità. La pena sia commisurata
al merito ed alle forze.
Al Dome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.
Carissima madre in Cristo dolce Gesù. Io Catarina,
serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo,
scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio
di vedervi fondata in vera carità, acciocché siate
vera nutrice e governatrice delle vostre pecorelle.
Bene è vero, che non potremmo nutricare altrui se
prima non nutricassimo l’anima nostra di vere e
reali virtù: e di virtù non si può notricare se non
s’attacca al petto della divina carità, dal qual petto
si trae il latte della divina dolcezza. A noi, carissima
madre, conviene fare come fa il fanciullo, il
quale volendo prendere il latte, prende la mammella
della madre, e mettesela in bocca; onde col mezzo
della carne trae a sé il latte: e così dobbiamo fare
noi, se vogliamo notricare l’anima nostra. Perocché
ci dobbiamo attaccate al petto di Cristo crocifisso,
in cui è la madre della carità; e col mezzo della
carne sua trarremo il latte che notrica l’anima nostra,
e’ figliuoli delle virtù: cioè, per mezzo dell’umanità
di Cristo; perocché nell’umanità cadde, <ref>Nell’umanità la sua pena cadde, ed egli sostenne la pena. A ''cadere'', ''pena'' è il reggente; a ''sostenere'' Cristo. Non è regolare, ma è chiaro più di Lettere di S. Caterina - Voi II.</ref> e
sostenne, la pena, ma non nella deità.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione||{{Sc|lettere di santa caterina}}|81}}</noinclude>LXXXVI. - All’abbadessa del monastero di Santa Maria delti Scalzi in Firenze. <ref>Monastero già fuor di Firenze, ora dentro le mura dietro a Santa Croce, di Francescane. Ma però il titolo dice ''Scalze'', il Burlanacchi lo crede quel di Sant’Agata, assai fuori della città.</ref>
La carità è latte d’ogni virtù. Non si guasta la dolcezza, di lei senza pena.
Da compiacersi nel iene snpre ne viene il dispiaocimento salutare de’
mali nostri. Il dolore necessario all’amore è desiderabile. Amore vuole
raccoglimento. Bandire da sé i profani e i devoti. La cella, patria e
sposa. Vigiliare con la mente sopra di se; pregare con l’opera. Norme
dell’obbedienza. Il superiore sia giusto con carità. La pena sia commisurata
al merito ed alle forze.
Al Dome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.
Carissima madre in Cristo dolce Gesù. Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedervi fondata in vera carità, acciocché siate vera nutrice e governatrice delle vostre pecorelle. Bene è vero, che non potremmo nutricare altrui se prima non nutricassimo l’anima nostra di vere e reali virtù: e di virtù non si può notricare se non s’attacca al petto della divina carità, dal qual petto si trae il latte della divina dolcezza. A noi, carissima madre, conviene fare come fa il fanciullo, il quale volendo prendere il latte, prende la mammella della madre, e mettesela in bocca; onde col mezzo della carne trae a sè il latte: e così dobbiamo fare noi, se vogliamo notricare l’anima nostra. Perocchè ci dobbiamo attaccate al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre della carità; e col mezzo della carne sua trarremo il latte che notrica l’anima nostra, e’ figliuoli delle virtù: cioè, per mezzo dell’umanità di Cristo; perocché nell’umanità cadde, <ref>Nell’umanità la sua pena cadde, ed egli sostenne la pena. A ''cadere'', ''pena'' è il reggente; a ''sostenere'' Cristo. Non è regolare, ma è chiaro più di Lettere di S. Caterina - Voi II.</ref> e sostenne, la pena, ma non nella deità.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione||{{Sc|lettere di santa caterina}}|81}}</noinclude>LXXXVI. - All’abbadessa del monastero di Santa Maria delti Scalzi in Firenze. <ref>Monastero già fuor di Firenze, ora dentro le mura dietro a Santa Croce, di Francescane. Ma però il titolo dice ''Scalze'', il Burlanacchi lo crede quel di Sant’Agata, assai fuori della città.</ref>
La carità è latte d’ogni virtù. Non si guasta la dolcezza, di lei senza pena.
Da compiacersi nel iene snpre ne viene il dispiaocimento salutare de’
mali nostri. Il dolore necessario all’amore è desiderabile. Amore vuole
raccoglimento. Bandire da sè i profani e i devoti. La cella, patria e
sposa. Vigiliare con la mente sopra di se; pregare con l’opera. Norme
dell’obbedienza. Il superiore sia giusto con carità. La pena sia commisurata
al merito ed alle forze.
Al Dome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.
Carissima madre in Cristo dolce Gesù. Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedervi fondata in vera carità, acciocché siate vera nutrice e governatrice delle vostre pecorelle. Bene è vero, che non potremmo nutricare altrui se prima non nutricassimo l’anima nostra di vere e reali virtù: e di virtù non si può notricare se non s’attacca al petto della divina carità, dal qual petto si trae il latte della divina dolcezza. A noi, carissima madre, conviene fare come fa il fanciullo, il quale volendo prendere il latte, prende la mammella della madre, e mettesela in bocca; onde col mezzo della carne trae a sè il latte: e così dobbiamo fare noi, se vogliamo notricare l’anima nostra. Perocchè ci dobbiamo attaccate al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre della carità; e col mezzo della carne sua trarremo il latte che notrica l’anima nostra, e’ figliuoli delle virtù: cioè, per mezzo dell’umanità di Cristo; perocché nell’umanità cadde, <ref>Nell’umanità la sua pena cadde, ed egli sostenne la pena. A ''cadere'', ''pena'' è il reggente; a ''sostenere'' Cristo. Non è regolare, ma è chiaro più di Lettere di S. Caterina - Voi II.</ref> e sostenne, la pena, ma non nella deità.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione||{{Sc|lettere di santa caterina}}|81}}</noinclude>LXXXVI. - All’abbadessa del monastero di Santa Maria delti Scalzi in Firenze. <ref>Monastero già fuor di Firenze, ora dentro le mura dietro a Santa Croce, di Francescane. Ma però il titolo dice ''Scalze'', il Burlanacchi lo crede quel di Sant’Agata, assai fuori della città.</ref>
La carità è latte d’ogni virtù. Non si guasta la dolcezza, di lei senza pena.
Da compiacersi nel iene snpre ne viene il dispiaocimento salutare de’
mali nostri. Il dolore necessario all’amore è desiderabile. Amore vuole
raccoglimento. Bandire da sè i profani e i devoti. La cella, patria e
sposa. Vigiliare con la mente sopra di se; pregare con l’opera. Norme
dell’obbedienza. Il superiore sia giusto con carità. La pena sia commisurata
al merito ed alle forze.
Al Dome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.
Carissima madre in Cristo dolce Gesù. Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedervi fondata in vera carità, acciocché siate vera nutrice e governatrice delle vostre pecorelle. Bene è vero, che non potremmo nutricare altrui se prima non nutricassimo l’anima nostra di vere e reali virtù: e di virtù non si può notricare se non s’attacca al petto della divina carità, dal qual petto si trae il latte della divina dolcezza. A noi, carissima madre, conviene fare come fa il fanciullo, il quale volendo prendere il latte, prende la mammella della madre, e mettesela in bocca; onde col mezzo della carne trae a sè il latte: e così dobbiamo fare noi, se vogliamo notricare l’anima nostra. Perocchè ci dobbiamo attaccate al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre della carità; e col mezzo della carne sua trarremo il latte che notrica l’anima nostra, e’ figliuoli delle virtù: cioè, per mezzo dell’umanità di Cristo; perocché nell’umanità cadde, <ref>Nell’umanità la sua pena cadde, ed egli sostenne la pena. A ''cadere'', ''pena'' è il reggente; a ''sostenere'' Cristo. Non è regolare, ma è chiaro più di molti costrutti regolarissimi. ''Cadere'' in senso simile nel Petrarca: '' In giusta parte la sentenzia cade»''. Lettere di S. Caterina - Voi II.</ref> e sostenne, la pena, ma non nella deità.<noinclude><references/></noinclude>
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Paperoastro
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 198 —|}}</noinclude>tato a schiudersi. Il «giardino» di Max, immerso nell’ombra per le prime cinquanta ore del giorno lunare, si era accuratamente coperto di brina. Poi, quando un raggio di sole scivolò nel fondo del cratere e si insinuò fino a sfiorare con la sua carezza il lieve monticello di terra, quel velo biancastro disparve. E, come ho scritto sopra, tre foglioline verdi avevan fatto capolino su quella superficie oscura e morbida. Max aveva seguito il maraviglioso fenomeno di vita con un’ansia tenera e puerile che noi ci eravamo ben guardati di turbare con una sciocca curiosità. Ma, appena fummo certi che il nostro amico era riuscito perfettamente nel suo còmpito, buttammo all’aria il riserbo e lanciammo grida di allegrezza e di commozione. In fine dei conti, Max aveva risolto un formidabile problema: quello della possibilità di sviluppo della vita su qualunque terra dell’infinito. Quei minuscoli semi terrestri, trasportati in un po’ di terra lunare, per la sola virtú generatrice del sole, avevan germogliato perfettamente. Era possibile intravedere, anche con una mediocre fantasia, gli sviluppi di questo primo risultato favorevole: per esempio, la coltivazione di certe parti della Luna, — i fondi deí cratèri, le vaste erosioni dei crepacci — che avrebbero potuto precedere una vera e propria<noinclude></noinclude>
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Paperoastro
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 199 —|}}</noinclude>opera di colonizzazione, nonostante le avverse condizioni fisiche del pianeta. Una specie di, «ringiovanimento» dei tessuti lunari aridi e vetrosi....
Dopo aver vuotato una bottiglia di ottimo cognac, io James e Max ci accordammo per scolpire su la superficie oscura della rupe che sovrastava il «giardino» queste parole: ''Qui tre abitanti della Terra videro il prodigio della vita che non conosce distanze e si rinnova vittoriosa in tutto l’Infinito''.
Però, prima di incidere con uno scalpello le prime lettere di questa epigrafe, James ha dichiarato:
— Se un giorno ritorneremo in patria, io offrirò al Dipartimento di Stato americano la protezione di questa isola dello spazio!
Max ha aggrottato le ciglia, evidentemente insodisfatto.
— Il tentativo è stato compiuto da me — le sue parole uscivan lente dalla sua bocca stirata in una smorfia di risolutezza — , e, se un giorno, la Luna dovesse diventare una specie di colonia della Terra, non potrebbe venire assegnata che a una nazione: la mia. Questa, allora, si chiamerebbe la «Germania azzurra!»
Il valoroso compagno mi guardava, quasi per<noinclude></noinclude>
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Pagina:Spanò Bolani - Storia di Reggio Calabria, Vol. II, Fibreno, 1857.djvu/183
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Modafix
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Gadget AutoreCitato
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Modafix" /></noinclude>{{Ct|v=2.5|f=110%|TAVOLA TERZA}}
{{rule|v=5|6em}}
{{Ct|v=1|f=120%|NOTIZIE DEGLI UOMINI ILLUSTRI DI REGGIO.}}
{{rule|v=5|6em}}
{{Ct|v=0.2|f=80%|ANTICHI}}
{{Sc|{{wl|Q19788994|Learco}}}}. Antichissimo statuario reggino, che alcuni fanno discepolo di Dedalo d’Atene, il quale a’ tempi di Minos re di Creta fuggì in Sicilia, e fu autore di molti famosi lavori di scoltura e di architettura. Questo Learco fece per commissione degli Spartani un Giove di bronzo (che fu collocato nel tempio di Minerva, detto il Calcieco) composto di molti pezzi o lamine connessi con chiodi, statua che si giudicava la più antica di quante se ne conoscessero di quel metallo. È uopo vedere intorno all’artifizio dello statuario reggino quel che ne dice il {{AutoreCitato|Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy|Quatremère de Quincy}} (''Le Iupiter Olimpien, L. III.)<ref>In dextera Calciaeci parte Iovis ex aere signum factum est, omnium quae ex eadem sunt materia vetustissimum; neque enim una et eadem fuit universi operis fabricatio, sed particulatim membra excusa, inter se deinde sunt apte clavis confixa, atque ita ne dissolvi possit coagmentata. Fecisse ajunt Learcum hominem Rheginum, quem Dipaeni et Scyllidis nonnulli, alii ipsius Daedali discipulum dicunt fuisse.
{{A destra|(Pausania)|2em}}</ref>.
Altri al contrario, come {{AutoreCitato|Pausania|Pausania}}, crede che il reggino Learco non dell’antichissimo {{wl|Q134756|Dedalo di Atene}} fosse stato discepolo, ma bensì di Dedalo da Sicione, o de’ costui discepoli {{wl|Q15806048|Dipeno}} e Scillide, che fiorirono mentre durava ancora l’impero de’ Medi, prima che Ciro avesse comincialo a regnare su Persiani, cioè verso l’olimpiade 50.
{{Sc|{{wl|Q3680378|Clearco}}}}. Statuario. Fu discepolo di {{wl|Q5405845|Euchire da Corinto}}, e maestro di Pitagora, altro statuario reggino famosissimo. Niun’altra notizia abbiamo di lui. Alcuni errano confondendolo con Learco.
{{Sc|{{wl|Q2705569|Pitagora}}}}. Statuario. Fu discepolo del suo concittadino Clearco,<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 200 —|}}</noinclude>chiedermi un consentimento. Tuttavia la mia sincerità fu piú grande della mia amicizia.
— È vero. Queste foglioline che si levano verso il sole della Luna, sono opera tua. Noi non ci avevamo pensato. Ma pure, questo mondo selvaggio è stato scopèito e conquistato per l’ardimento e la volontà di tre uomini. La Luna sarà, perciò, un giorno, dominio di tre nazioni. Sarà italiana, tedesca e americana. Non dovremo, credo, discutere a lungo su la di visione del nostro satellite....
Queste mie parole so.no state interrotte da una violenta scossa di terremoto. Abbiamo vedÌ1to oscillare, intorno a noi, le cime delle rupi.
Il suolo, qua e là, si è aperto in vasti crepacci, dai quali si sono levati zampilli di fumo. Bagliori verdastri hanno illuminato la vòlta del cielo.
Poi tutto è ritornato nella calma, nella immobilità. Ma il «giardino» di Max è scomparso, inghiottito in una profonda voragine. E, col «Giardino», sono scomparse le nostre ambiziose speranze.
No, la Luna non è terra per colonizzatori. Siamo rientrati nel razzo con una illusione di meno.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 203 —|}}</noinclude>{{Ct|v=2|t=2|{{Sc|Il silenzio}}}}
{{No rientro}}2 ''ottobre''.
Scendiamo nel fondo di un antico cratère vulcanico. Nessuna traccia di vita; le pareti di lava solidificata da secoli sono sempre coperte da una sterile vernice di ghiaccio. Quel che più colpisce, in questo mondo, è il silenzio. Il silenzio è cosí enorme, che, a volte, ci sembra assordante. Ma quali orecchie mai avevano gli uomini della Luna? A questo proposito mi torna alla mente la strana teoria di un cultore di scienze fisiche: — L’occhio è un organo cosmico: invece l’orecchio umano si rivela come un apparato sensorio di natura prettamente terrestre. L’orecchio umano è un prodotto del caso. La nascita della sua struttura è un mirabile episodio nella storia della nostra stirpe; un episodio che, eccettuata la classe dei mammiferi, non si ripete, nell’evoluzione, in nessun altro essere vivente nel nostro mondo e che non si può presupporre in creature di altri mondi. Non bisogna immaginare, con questo, che gli abitanti di tutti gli altri pianeti siano necessariamente sordi. Non è cosí. Essi hanno semplicemente un apparecchio uditivo costruito in modo diverso dal nostro. Certo, quando la Luna aveva un’at-<noinclude></noinclude>
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/* Pagine SAL 25% */ [[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: PROPRIETÀ LETTERARIA {{rule|4em}} Tip. Lombardi di M. Bellinzaghi Milano Fiori Oscuri, 7 - Milano
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<noinclude><pagequality level="1" user="Accolturato" /></noinclude>PROPRIETÀ LETTERARIA
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Tip. Lombardi di M. Bellinzaghi
Milano Fiori Oscuri, 7 - Milano<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 204 —|}}</noinclude>mosfera dovevano echeggiare vari e possenti i rumori. E i «seleniti» avevano, probabilmente, orecchie gigantesche....».
Piú tardi, però, con la graduale rarefazione dell’atmosfera, è comparso il Silenzio, il terribile ospite delle erre conquistate dalla morte. Pensieri lugubri, i spirati dal luogo nel quale siamo discesi.
Arrivati nel fondo del cratère, abbiamo alzato gli occhi e abbiamo veduto, nell’apertura circolare dell’abisso, scintillare le stelle. Poi si è accesa una cometa: un minuscolo pennello di luce.
— Cattivo segno — ha detto James — bisogna pensare al ritorno!...
Max ha lanciato una proposta:
— Se cercassimo, frattanto, di mettere in azione la radio? Chissà! È un tentativo che, se riuscisse, potrebbe aiutarci....
— A che cosa? — domanda l’americano.
— A ritrovar la fede in noi stessi — concluse Max.
{{Ct|v=2|t=2|{{Sc|Voci nello spazio}}}}
Rivestiti dei nostri scafandri, oggi, siamo saliti in vetta a un costone, per fare qualche prova con i nostri apparecchi radio. Come è noto, su<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 205 —|}}</noinclude>la Terra il problema di lanciare onde che, dopo aver traversato l’atmosfera possano proiettarsi in linea retta nello spazio interplanetare è stato argomento di lunghi studi e di molteplici e delicate esperienze. Si è venuti nella conclusione che per conseguire questo scopo accorrerebbero apparecchi specialissimi, con valvole particolarmente resistenti al raffreddamento, e animate da una forza otto a dieci volte superiore a quella disponibile nelle maggiori stazioni radio. Per fortuna Max aveva da gran tempo, prima della scoperta dell’esplosivo, costruito, certe valvole preparate, per le esperienze di lancio di messaggi ultra terrestri. Con queste valvole, e con una notevole collezione di grossi accumulatori, abbiamo compiuto la non facile ascensione di una tra le piú elevate barriere di roccia dell’emisfero {{Ec|sottentrionale|settentrionale}} della Luna: quasi tremilaottocento metri. Piú in alto di quando, usciti per la prima volta dal nostro razzo, ci arrampicammo in vetta a una rupe per contemplare il «panorama della Luna». Non è stata impresa facile mettere a punto i nostri due apparecchi radio e iniziare i nostri esperimenti: dopo ogni serie di appassionati tentativi e di prove, ci toccava discendere a precipizio al razzo per rifornire di aria i nostri serbatoi: e poi risalire: ma, alla fine, abbiamo avuto la sod-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Modafix" />{{RigaIntestazione|{{spazi|3}}174|{{Sc|tavola terza}}|}}</noinclude>e maestro di Sostrato da Sicione, ed anche come altri vuole (''{{AutoreCitato|Ottaviano Guasco|Guasco}}, Usage des Statues'') del famoso scultore ateniese {{wl|Q192222|Lisippo}}. Sostrato gli era nipote dal lato di madre. Pitagora fu uno de’ più celebrati artefici antichi, ed eseguì moltissimi lavori e nella Magna Grecia, e nella Grecia orientale. Emulo di lui fu il famoso {{wl|Q192211|Mirone di Eleutere}} (città di Beozia); il quale però restò vinto dal nostro nel Pancrazio di Delfo. Pitagora avea cominciato a praticar l’arte sua molto prima dell’olimp. 87; imperciocchè si nominano di lui le statue in Olimpia di {{wl|Q8846610|Eutimo Locrese}} vincitor del pugilato (olimp. 74. 76. 77.) e di Astilo vincitore nella corsa (olimp. 74. 75.). Condusse il gruppo d’Eteocle e di Polinice, e quello in bronzo del Ratto d’Europa, (di che fa menzione {{AutoreCitato|Taziano il Siro|Taziano}}), lodatissimo da {{AutoreCitato|Marco Terenzio Varrone|Varrone}}; di tal gruppo il {{AutoreCitato|Johann Joachim Winckelmann|Winckelmann}} non fa ricordanza. Rappresentò anche Leontisco da Messina cursor nello stadio. Il Winckelmann annovera il nostro Pitagora tra i cinque più famosi scultori che dopo {{wl|Q177302|Fidia}} fiorissero al tempo della guerra del Peloponneso. Ed il nostro reggino fu il primo che avesse cominciato a ridurre a regolari proporzioni le forme della sua scoltura, e ad avviar l’arte ad un’eleganza e perfezione non ancor conosciuta. Altre opere di Pitagora sono ricordate da {{AutoreCitato|Pausania|Pausania}}: in Samo nel tempio di Giunone ammimiravansi tre statue di atleti, una delle quali figurava l’atleta Protolao da Mantinea, vincitore al pugilato, ed era lodatissimo lavoro del nostro Pitagora. Altra statua di Pitagora nello stesso tempio era quella del cursore Mnasea Libi da Cirene, in grave armatura.
In Leontini vede vasi un carro di bronzo di Cratistene da Cirene, sul quale ascendeva la Vittoria, e vi sedeva lo stesso Cratistene; il che fa supporre che costui fosse riuscito vincitore al corso de’ cavalli. Questo Cratistene credevasi figlio del detto Mnasea Libi. Di questo dono olimpico fu artefice il nostro Pitagora.
{{AutoreCitato|Ibico|Ibico}}. Poeta. Suo padre si chiamò Certande. Secondo il {{AutoreCitato|Lilio Gregorio Giraldi|Giraldi}} fiorì nell’Olimpiade 50, secondo {{wl|Q216299|Suida}} nella 54.<sup>a</sup> secondo {{AutoreCitato|Eusebio di Cesarea|Eusebio}} nella 60. Viveva a’ tempi di {{AutoreCitato|Anacreonte|Anacreonte}}. I suoi versi, quasi tutti tendenti al lubrico, furon detti ''ibicini''. Parlano di lui moltissimi scrittori antichi, fra i quali {{AutoreCitato|Publio Papinio Stazio|Stazio}} (lib. 5. Sylvarum), {{AutoreCitato|Decimo Magno Ausonio|Ausonio}} (Monosyllaba), {{AutoreCitato|Plutarco|Plutarco}} (de Garrulitate), {{wl|Q114280|Antipatro}} (Antologia), {{AutoreCitato|Marco Tullio Cicerone|Cicerone}} ecc. ecc.: Visse più tempo presso {{wl|Q294840|Policrate}} tiranno di Samo, regnante Creso.
{| style="margin-left:2em"
| Furono sue opere || — || ''Amorum'' libri sette.
|-
| || || ''Certamina'', poema.
|-
| || || ''Carminum'', lib. 60.
|-
| || || ''Gorgia''.
|-
| || || ''Raptus Ganimedis''.
|-
| || || ''Pitho''.
|}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 206 —|}}</noinclude>disfazione di veder scoccare qualche scintilla in cima alla piccola antenna da noi piantata con ansiosa accuratezza in una base di ghiaccio. Sí, di ghiaccio: ghiaccio eterno, condannato a non sciogliersi mai, nemmeno sotto il morso infocato del sole, e che l’assenza dell’aria, quassú, ha trasformato in una specie di cristallo durissimo, inattaccabile dal tempo e dal calore.
Abbiamo cominciato a lanciare nell’etere, con i segni telegrafici Morse, piccole frasi convenzionali di saluto, dirette alle principali stazioni riceventi della Terra. Poi ci siamo messi in attesa. Niente. Il tempo scorreva lento e inutile. Nessuna vibrazione dei nostri apparecchi. Alla fine, avendo quasi esaurito le provviste d’aria e di pazienza, ci siamo rassegnati a smontare le antenne, le macchine, gli accumulatori, e, carichi come asini abbiamo ripreso l’aspra scalinata che scende fin quasi al razzo.
{{Ct|t=2|v=2|{{Sc|Romilde! sorella mia!}}}}
{{No rientro}}3 ''ottobre''.
Piú tardi però, mentre i miei compagni dormivano, sono uscito e son disceso fino all’ingresso della caverna, dove comincia l’aria respirabile.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 207 —|}}</noinclude>Qui ho ripreso pazientemente i tentativi di radiotrasmissione. Ma, in luogo degli accumulatori, mi sono servito della forza trasmessa dalla nostra dinamo, che ho collegato con gli apparecchi mediante un lunghissimo filo, tolto dalla nostra ben fornita officina. Anche questa volta il risultato sarebbe stato nullo, se non mi fossi a un tratto rammentato della estrema rarefazione dell’atmosfera lunare. Anche ammesso che qualche voce rispondesse dalla Terra ai miei richiami, io non avrei ''potuto sentirla!'' Bisognava disporre di un amplificatore ultra-sensibile e di potenza straordinaria. Sono ritornato nell’officina per cercare il grande amplifícatore fatto preparare da me ad Ancona poco avanti la mia partenza per la Germania, e che i miei amici giudicarono subito, solo a guardarlo, un oggetto ingombrante e inutile. Con questo e con una mezza dozzina di accumulatori, da inserire nel dispositivo elettrico dell’apparecchio, sono ritornato alle caverne. Con quale ansia, con quale trepidazione mi son rimesso al lavoro! Ebbene, sinceramente, non mi pare di aver perduto il mio tempo. D’improvviso dalla vasta tromba dell’amplificatore, sono usciti alcuni vaghi ronzii, seguiti da un sordo frusciare, come di acqua corrente. Tutto rannicchiato davanti all’apparecchio, ho teso le mie facoltà udi-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cor74" />{{RigaIntestazione|82|{{Sc|lettere di santa caterina}}|}}</noinclude>E noi non potiamo notricarci di questo latte
che traiamo dalla madre della carità, senza pena.
E differenti sono le pene. Onde spesse volte sono
pene di grandi battaglie o dal dimonio, o dalle creature,
con molte persecuzioni, infamie, strazi e rimproverii.
Queste sono pene in loro, ma non sono
pene all’anima che s’è posta a notricare a questo
dolce e glorioso petto, onde ha tratto <ref>Dante: <poem><i>Per le fosse degli occhi ammirazione
Traen di me....
Grato e lontan digiuno
Tratto, leggendo nel magno volume...</i> (in Dio).</poem> l’amore,
vedendo in Cristo crocifisso l’amore ineffabile che
ci ha mostrato col mezzo di questo dolce e amoroso
Verbo. E uell’amore ha trovato l’odio della propria
colpa, e della legge perversa sua, che sempre
impugna contra allo spirito. Ma sopra l’altre pene
che porta l’anima, che è venuta a fame e desiderio
di Dio, sì sono i crociati e amorosi desiderii
che ha per la salute di tutto quanto il mondo. Perocché
la carità fa questo, che ella s’inferma con
quelli che sono infermi, e è sana con quelli che sono
sani; ella piagne con coloro che piangono, e gode
con coloro che godono; cioè, che piagne con coloro
che sono nel tempo del pianto nel peccato mortale,
e gode con quelli che godono che sono nello stato
della Grazia. Allora ha presa la carne di Cristo crocifisso,
portando con pene la croce con lui; non pena
affliggitiva che disecchi l’anima, ma pena che la
ingrassa, dilettandosi di seguitare le vestigio di Cristo
crocifisso, E allora gusta il latte della divina
dolcezza. E con che l’ha preso? con la bocca del
santo desiderio; in tanto che, se possibile gli fusse<noinclude><references/></noinclude>
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che traiamo dalla madre della carità, senza pena.
E differenti sono le pene. Onde spesse volte sono
pene di grandi battaglie o dal dimonio, o dalle creature,
con molte persecuzioni, infamie, strazi e rimproverii.
Queste sono pene in loro, ma non sono
pene all’anima che s’è posta a notricare a questo
dolce e glorioso petto, onde ha tratto <ref>Dante: <poem><i>Per le fosse degli occhi ammirazione
Traen di me....
Grato e lontan digiuno
Tratto, leggendo nel magno volume...</i> (in Dio).</poem></ref> l’amore,
vedendo in Cristo crocifisso l’amore ineffabile che
ci ha mostrato col mezzo di questo dolce e amoroso
Verbo. E uell’amore ha trovato l’odio della propria
colpa, e della legge perversa sua, che sempre
impugna contra allo spirito. Ma sopra l’altre pene
che porta l’anima, che è venuta a fame e desiderio
di Dio, sì sono i crociati e amorosi desiderii
che ha per la salute di tutto quanto il mondo. Perocché
la carità fa questo, che ella s’inferma con
quelli che sono infermi, e è sana con quelli che sono
sani; ella piagne con coloro che piangono, e gode
con coloro che godono; cioè, che piagne con coloro
che sono nel tempo del pianto nel peccato mortale,
e gode con quelli che godono che sono nello stato
della Grazia. Allora ha presa la carne di Cristo crocifisso,
portando con pene la croce con lui; non pena
affliggitiva che disecchi l’anima, ma pena che la
ingrassa, dilettandosi di seguitare le vestigio di Cristo
crocifisso, E allora gusta il latte della divina
dolcezza. E con che l’ha preso? con la bocca del
santo desiderio; in tanto che, se possibile gli fusse<noinclude><references/></noinclude>
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che traiamo dalla madre della carità, senza pena.
E differenti sono le pene. Onde spesse volte sono
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Queste sono pene in loro, ma non sono
pene all’anima che s’è posta a notricare a questo
dolce e glorioso petto, onde ha tratto <ref>Dante: <poem><i>Per le fosse degli occhi ammirazione
Traen di me....
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Tratto, leggendo nel magno volume...</i> (in Dio).</poem></ref> l’amore, vedendo in Cristo crocifisso l’amore ineffabile che ci ha mostrato col mezzo di questo dolce e amoroso Verbo. E uell’amore ha trovato l’odio della propria colpa, e della legge perversa sua, che sempre impugna contra allo spirito. Ma sopra l’altre pene che porta l’anima, che è venuta a fame e desiderio di Dio, sì sono i crociati e amorosi desiderii che ha per la salute di tutto quanto il mondo. Perocchè la carità fa questo, che ella s’inferma con quelli che sono infermi, e è sana con quelli che sono sani; ella piagne con coloro che piangono, e gode con coloro che godono; cioè, che piagne con coloro che sono nel tempo del pianto nel peccato mortale, e gode con quelli che godono che sono nello stato della Grazia. Allora ha presa la carne di Cristo crocifisso, portando con pene la croce con lui; non pena affliggitiva che disecchi l’anima, ma pena che la ingrassa, dilettandosi di seguitare le vestigio di Cristo crocifisso, E allora gusta il latte della divina dolcezza. E con che l’ha preso? con la bocca del santo desiderio; in tanto che, se possibile gli fusse<noinclude><references/></noinclude>
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Traen di me....
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Tratto, leggendo nel magno volume...</i> (in Dio).</poem></ref> l’amore, vedendo in Cristo crocifisso l’amore ineffabile che ci ha mostrato col mezzo di questo dolce e amoroso Verbo. E uell’amore ha trovato l’odio della propria colpa, e della legge perversa sua, che sempre impugna contra allo spirito. Ma sopra l’altre pene che porta l’anima, che è venuta a fame e desiderio di Dio, sì sono i crociati e amorosi desiderii che ha per la salute di tutto quanto il mondo. Perocchè la carità fa questo, che ella s’inferma con quelli che sono infermi, e è sana con quelli che sono sani; ella piagne con coloro che piangono, e gode con coloro che godono; cioè, che piagne con coloro che sono nel tempo del pianto nel peccato mortale, e gode con quelli che godono che sono nello stato della Grazia. Allora ha presa la carne di Cristo crocifisso, portando con pene la croce con lui; non pena affliggitiva che disecchi l’anima, ma pena che la ingrassa, dilettandosi di seguitare le vestigio di Cristo crocifisso, E allora gusta il latte della divina dolcezza. E con che l’ha preso? con la bocca del santo desiderio; in tanto che, se possibile gli fusse<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 208 —|}}</noinclude>tive per raccogliere, in mezzo a quei rumori, che provenivano certo dalla profondità dello spazio, qualche suono familiare.... qualche eco dalla Terra!...
Ed ecco che, mentre cominciavo a disperare, una voce fioca, lontanissima è scaturita fra tutti quei mormorii indefinibili: una voce umana, certo.... che ripeteva alcune sillabe.... Nuovo, terribile, doloroso, sforzo: poi mi è parso di sentir sillabare questa parola: «Romilde!». Allora non ho potuto piú contenere là mia commozione, e mi son messo a piangere come un bambino. Romilde cara! Mia buona sorella! Marcello! Silvano! La mia patria, la mia famiglia, il mio osservatorio.... la mia povera Cecchina! tutto quello che amo nella vita.... Vi rivedrò mai?
Sí, certamente, vi rivedrò.
Tempesto il ricevitore di grida inarticolate. Vorrei dire: «Romilde mia, non temere, ritornerò presto». Ma non posso.... Ho la gola piena di singhiozzi.
(Questa parte di manoscritto i miei compagni non la leggeranno mai. Non voglio che sappiano la mia debolezza....).<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 211 —|}}</noinclude>
{{Ct|t=2|v=2|{{Sc|I mostri effimeri}}}}
Mentre stavo per richiudere la porticina del razzo, mi è sembrato di sentire qualche stropiccío dietro di me. Ho voltato il capo, e, a traverso il vetro dello scafandro ho veduto.... Che cosa ho veduto? Sulle prime, non mi è riuscito di capire.... ma, obbedendo a un impulso di folle terrore, ho richiuso la porticina, fermandola con le chiavi di pressione, poi sono balzato alla finestra....
Un’altra sorpresa di questo piccolo lugubre mondo. Sí.... la breve pianura su cui è caduto il razzo è ora ricoperta di un orrido groviglio di esseri biancastri, trasparenti, ''senza forma'', che sembrano aumentare di quantità e accumularsi intorno all’astronave, con un minaccioso quanto inesplicabile avvoltolarsi di tentacoli e di appendici serpentine. Qua e là, sotto il sole moribondo, questa viscida massa ha bagliori iridati, come la superficie di certe meduse. Ecco: ho trovato il termine che piú si avvicina a quel che penso in questo momento: meduse! Noi siamo nel mezzo di uno sterminato esercito di meduse!
Sveglio James e Max, i quali, dopo aver con-<noinclude></noinclude>
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Pagina:Storia dei collegi elettorali 1848-1897.djvu/695
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/* Pagine SAL 25% */ [[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: <!--a <noinclude>{|class="tabella1" {{Storia dei collegi elettorali/intestazione}} |- |colspan=9 |{{§|Tricarico}}{{Ct|f=1.5em|v=1.5|t=1.5| {{Wl|Q48803327|{{Sc|Collegio di}} '''Tricarico.'''}}}} |- |- |align=center|<small>Scrutinio di lista</small>|| || || || || || || ||</noinclude> |— --> <!--c <br/> {{cs|C}}| — {{cs|L}}| align=center| {{Wl|Q48803327|Collegio elettorale di Tricarico}} VIII| 27 genn. 1861 48 | 1ª vot....
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{{Wl|Q48803327|Collegio elettorale di Tricarico}}
VIII| 27 genn. 1861 48 | 1ª vot. 600 || Raccioppi Giacomo.| 142 | De Boni Filippo 242
3 febb. " Ball. 498 287 211
Romano Lihorio (1ª vot.). 118
Annullamento <sup>nota</sup>
7 aprile " ||943 | 1ª vot. 320 | De Boni Filippo . - 102 | Ciliberti Pasquale, dott. 104 |
Smaggio " Ball. 437 231 206
Pisanelli Giuseppe (1ª vot.). 51
Annullamento <sup>nota</sup>
22 dic. " 945 |1ª vot. 356 De Boni Filippo . 280 | D'Enrico Giuseppe. 45 |
9 febb. 1862 Ball. 271; 239 32
Dimissioni <sup>nota</sup>
24 genn. 1864) 945 — " - " | Operazioni incompiute <sup>nota</sup>
10 aprile" 873 | 1ª vot. 227) De Boni Filippo. - . 137 | Amodio Pasquale . 52
17 " " Ball. 342 |; 218 123
IX 22 ottobre 1865 | 918 471 | De Boni Vilippo. «| 333 | De Blasio Filippo . 129
X|| 10 marzo 1867 922 DNR | De Bont Filippo . «| 421 | Villari Pasquale, prof.| 68
XI|| 20 nov. 1870) 887 453 Crispi Francesco, avv. «| 359 | Cutinelli Gioacchino. 50
XII|| 8 nov. 1874 879 350 Crispi Francesco, avv. 348 | ''Voti dispersi'' . 2. 2. 7
XIII|| 5nov. 1876 900 444 Crispi Francesco, avv.) 441 | Canta Cesare, 2 1 |
Nom. a min. <sup>nota</sup>
2 gennaio 1878|| 911||654|| Crispi Francesco, avv. min. dell'interno || 653
XIV 16 maggio 1880|| 982 757 Crispi Francesco, avv.| 416 | Materi Francesco Paolo, .| 308 |
Opzione <sup>nota</sup>
11 luglio" 45 788 Del Zio Floriano, prof.| 414 | Materi Francesco Paolo.| 356
XV
Capoluogo del Collegio di Potenza III
(Dep. 3).
22 ottobre 1882 | 7678|| 6157 ||Buano Nicola, legale|| 3771 | Imperatrice Giuseppe, cons. | 2245 || Nom. a seg. gener.
fast Del Zio Floriano, prof., avv. | 3680 ‘appello ty)
del "Calica Correale Salvatore .| 3556 | Materi Francesco Paolo, .| 1664
Ridola Domenico, dott.| 1414
26 agosto 1883 8500 6117 Correale Salvatore, segretario gen. Min. lav. pubbl. 6094 | De Giacomo Emanuele. 7
<ref>Annullata l'elezione il 3 marzo 1861 per incompatibilità a d'impiego, l'eletto essendo segretario di governatore di Provincia.</ref>
<ref>Nella tornata del 1° giugno 1861 fu deliberata un’inchiesta indiziaria per accertare: se votarono individui non elettori; se il capitano della guardia nazionale non ubbidì all' invito di far uscire dalla sala gl' intrusi; se fu impedita la libertà del voto; se si votò con schede scritte anteriormente; se vi furono maneggi e pressioni. Risultate fondate tali accuse l’elezione fu annullata il 22 novembre 1861.</ref>
<ref>Dimissionario il 7 gennaio 1864.</ref>
<ref>Nella tornata del 27 febbraio 1864 furono annullate le operazioni elettorali seguite nel collegio, e fu ordinata un’inchiesta giudiziaria sulle ragioni per le quali esse non poterono essere condotte a termine. Due sezioni del collegio non vollero trasmettere alla sezione principale le liste elettorali, per la qual cosa questa ricusò di procedere oltre nelle sue operazioni.</ref>
<ref>Cessò per nomina a ministro dell'interno il 26 dicenbre 1877.</ref>
<ref>In seguito a sorteggio rimase rappresentante del I collegio di Palermo il 11 giugno 1880.</ref>
<ref>Nomina del deputato Correale a segretario generale del Ministero dei lavori pubblici il 15 luglio 1883.</ref>
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Categoria:Testi in cui è citato Gregorio Ferrante
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{{Vedi anche autore|Gregorio Ferrante}}
[[Categoria:Testi per autore citato|Ferrante, Gregorio]]
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Discussioni utente:Francesca Massarenti
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== Benvenuto ==
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Discussioni utente:Matteo Mezzalira Pollon
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== Benvenuto ==
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Carlomorino
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XVI ||23 maggio 1886 | 9162 7213 || Correale Salvatore.| 4984 | Buano Nicola, legale.| 3084
| Torraca Michele. 2 3734 | Ridola Domenico, dott.| 2712
| Imperatrice Giuseppe, cons. | 3609 | Del Zio Floriano, prof. 2353
d'appello
Nom. ad imp. <sup>nota</sup>
5 maggio 1889 10014 7183 {{AutoreCitato|Emanuele Gianturco|Gianturco Emanuele}}, prof. 5557 | Ridola Domenico, dott.| 2154
avvocato
Dimissioni <sup>nota</sup>
19 genn. 1890|| 10357 5514 Materi Francesco Paolo .| 5387 | Ridola Domenico, dott. 6
Torraca Michele. 6177 | Imperatrice Giuseppe.| 3278
Gianturco Emanuele, prof. 4408 | Ridola Domenica, dott.| 3277
Materi Francesco Paolo.| 3576 | De Bonis Teodosio, prof.| 1623
Lioy Alessandro, avv. «| 300
Imbriani-Poerio Matteo Ren. 165
XVIL 23 nov. " $11478 8465
XVIII||6 nov. 1892|| 3672|| 2754 Materi Francesco Paolo|| 1649 || Lanzillotti-Buonfanti Nicola. | 1006
XIX | 26 maggio 1895 | 1814 1177
Crispi Francesco, avv., pres. del Cons., min. interno| 1110 | Cavallotti Felice, avy . 16 |
Opzione <sup>nota</sup>
18 agosto " | 1806 1243
Materi Francesco Paolo./ 1010 | Montesano Alessandro .| 223
XX 21 marzo 18974 1868 1383 Materi Francesco Paolo.| 740 | Caputi Giovanni . «| 609
{{Wl|Q48803076|Collegio elettorale di Tricase}}.
VIII 27 gennaio 1861 | 1229 11ª vot. 760/ Romano Liborio, avv.) 412 | Pisanelli Giuseppe, avv.|| 272
3 febb. " Ball. 674 453 217
IX 22 ottobre 1865|| 835 | 1ª vot. 7 || Romano Liborio, avv.| 173 | Pisanelli Giuseppe, avv.| 146 |
29 " " Ball. 468 299 169
Panzera Giovanni (1ª vot.) 111
H Arditi Giacomo (id.)
Opzione <sup>nota</sup>
24 dic. " | 864 1ª vot. 343 Guerzoni Giuseppe, dott.| 163 | Panzera Giovanni. 117 |
31" " Ball. 510 266 240
Opzione <sup>nota</sup>
18 febbr, 1866 972 | 1ª vot. 323 Acclavio Pietro.| 226 | Panzera Giovanni. 42
25 " " Ball. 270 229 Al |
X 10 marzo 1867|| 898 | 1ª vot. 500 Romano Giuseppe, avv.| 273 | Panzera Antonio. 139 |
17 " " Ball. 561 342 215
Caputo Tommaso, avv. (1ª vot.) 77
<ref>Nomina a prefetto del deputato Correale il 31 marzo 1889.</ref>
<ref>Dimissioni dei deputato Imperatrice il 20 dicembre 1889.</ref>
<ref>Optò pel II collegio di Palermo il 2 luglio 1895.</ref>
<ref>Optò pel X collegio di Napoli il 29 novembre 1865.</ref>
<ref>Optò pel collegio di Manduria il 27 gennaio 1866.</ref>
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|-
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Carlomorino
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text/x-wiki
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{{sans-serif|'''{{type|l=-0.5px|Tricase — Trino.'''}}}}</noinclude><!--a
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{{Storia dei collegi elettorali/intestazione}}
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|-
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|—
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<br/>
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{{cs|L}}|
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Xl 20 nov. 1870 885 1ª vot. 388|| Pisanelli Giuseppe, avv.| 236 | Romano Giuseppe, avv.| 139 |
27" " Ball. 446 242 198
Opzione <sup>nota</sup>
(22 genn. 1871 886 582 Paladini Cesare .| 300 | Brunetti Gaetano. 199
XII 8 nov. 1874 953 602 Soria Michelangelo, avv. | 328 | Pizzolante Vitantonio . .| 262
XIII||5 nov. 1876||1066 ||757||
Romano Giuseppe, avv.|| 447
Pisanelli Giuseppe, avv. || 297
XIV 16 maggio 1880
23 . " Ball. 733
1125 | 1ª vot. 696!) Panzera Antonio, aav.| 287 | Romano Giuseppe, avv.
~ ' 1
Episcopo Giuseppe (1ª vot.). 133
Lopez Carlo (id 2.
18 luglio " | 1121 761 Romano Giuseppe, avv.| 403 | Episcopo Giuseppe .) S51
Opzione <sup>nota</sup>
Lecce
XVIII | 6 nov. 1892 4124 3304 || Ruggieri Giuseppe, ing.| 2059 | Visehi Nicola, avy, .| 1197
XIX 26 maggio 1895 | 2615 | 1ª vot. 2220 || Raggieri Giuseppe, ing.| 960 | Codacci-Pisanelli Alfredo, pro- 827
2 giugno " Ball. 2121; 1050 fessore 1915
Pispico Tommaso (1ª vot.) «| 368
XX 21 marzo 1897} 2674 1859 Codacci-Pisanelll Alfredo, | 1810 | ''Voti dispersi''. -| 80 |
| prof. diritto amm. Univ. Pisa
Collegio elettorale di Trino.
I 27 aprile 1848 284 |1ª vot. 203) Ferraris Luigi, avv. 67 | Brofferio Angelo, avv. 54 |
28 " " Ball. 191 138 50
II|| 22genn. 1849|| 284 138 Bianchi-Giovini Aurelio.| 93 | Mora Tommaso, teologo .| 34
III 15 luglio" 319 | 1ª vot. 140 Bianchi-Giovini Aurelio.| 68 | Bossi Pietro, ing. 32
}22 " " Ball. 181 108 R|
IV | 9 dic. " 319 |1ª vot. 168 Malinverni Germano, dott.) 55 | Bianchi-Giovini Aurelio .| 52 |)
10 " " Ball. 1653) chirurgo nelf’Accad. milit.| 109 55
Nom. ad imp. <sup>nota</sup>
28 agosto 1853) 334 | 1ª vot. 150 || Scialoja Antonio, prof. «| 61 | Avogadro della Motta conte} 27 |
31 " " | Ball. 159 98 Emiliano 61 |
Annullamento<sup>nota</sup>
<ref>Optò pel collegio di Taranto il 23 dicembre 1870.</ref>
<ref>Optò pel collegio di Lecce il 16 giugno 1880.</ref>
<ref>Cessò il 1° agosto 1853 per nomina a professore di anatomia e medicina legale nell’ Universith di Torino.</ref>
<ref>Annullata l'elezione il 15 novembre 1853 per incompatibilità d’impiego, essendo l'eletto consultore legale nell’ ufficio del catasto, dipendente dai Ministero delle finanze. Il collegio non fu riconvocato.</ref>
-->
|-
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Categoria:Testi in cui è citato Carlo Guarna Logoteta
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{{Vedi anche autore|Carlo Guarna Logoteta}}
[[Categoria:Testi per autore citato|Guarna Logoteta, Carlo]]
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Candalua
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<noinclude><pagequality level="3" user="Candalua" /></noinclude>
{{Centrato|''Varia lezione a pag. ''19''. lin.'' 11.}}
<poem>
Ch'ella ha di noi piucchè noi stessi cura,
Fate pur nel cercarle vostra possa,
Oh quanti e quanti se ne veggon’oggi
Che comprando il poder compran la fossa.
Però desio che sian colline o poggi
Il sito, ove le mura fondo ed ergo,
Ma che per strada agevole si poggi,
Benchè spesso il mal acre d’un albergo
Si toglie col mutar d’usci e finestre, ec.</poem><noinclude><references/></noinclude>
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Candalua
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Candalua" /></noinclude>
{{Centrato|''Varia lezione a pag. ''19''. lin.'' 11.}}
<poem>
Ch’ella ha di noi piucchè noi stessi cura,
Fate pur nel cercarle vostra possa,
Oh quanti e quanti se ne veggon’oggi
Che comprando il poder compran la fossa.
Però desio che sian colline o poggi
Il sito, ove le mura fondo ed ergo,
Ma che per strada agevole si poggi,
Benchè spesso il mal acre d’un albergo
Si toglie col mutar d’usci e finestre, ec.</poem><noinclude><references/></noinclude>
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Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/249
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Candalua
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/* Trascritta */
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Candalua" /></noinclude>{{Centrato|''Varia lezione al Poemetto'' il Narciso}}
{{Centrato|''Vol. II. pag.'' 4. ''lin''. 11. <ref>''La nostra buona fede sull’esattezza dell’edizione del Parnaso italiano, cui ci siamo in questo Poemetto scrupolosamente attenuti, ci fece incorrere nel medesimo errore, che in esso si trova; ci crediamo però sufficientemente giustificati colla presente addizione.''
{{A destra|Gli Editori.}}</ref>}}
<poem>
D’ogn’altra età, come la sua rischiara,
Poser le Grazie tutte estrema cura
Nel vago germe, nè mostrossi avara
Quella, che’l terzo ciel contempra e muove
In farlo tal che par non fusse altrove.
Già crescendo costui pubblica peste
Di quant’ivi n’avea donne e donzelle
Quante matrone alla virtù celeste
State ec.</poem><noinclude><references/></noinclude>
gmfssw1k293f4jcrrrtnndzpnj2435o
Pagina:Storia dei collegi elettorali 1848-1897.djvu/711
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Carlomorino
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="1" user="Carlomorino" />{{RigaIntestazione||— 695 —|}}
{{sans-serif|'''{{type|l=-0.5px|Varzi — Vasto.'''}}}}</noinclude><!--a
<noinclude>{|class="tabella1"
{{Storia dei collegi elettorali/intestazione}}
|-
|colspan=9 |{{Ct|f=1.5em|v=1.5|t=1.5| ''Segue'' {{Sc|Collegio di}} '''Varzi.'''}}
|-
|-
|align=center|<small>Collegio uninominale</small>|| || || || || || || ||</noinclude>
|—
-->
<!--c
<br/>
{{cs|C}}| —
{{cs|L}}|
align=center|
IV||9 dic. 1849 144 | 1ª vot. 55 | Bertolini Vincenzo, avv. 22 | Bianchi Pietro. ex-intendente generale 25
10 " " Ball. 73 58 15
V ||8 dic. 1853 158 103 Mazza Pietro, avv. 97 | Beleredi nob. Antonio. 3
VI||15 nov. 1857) 187 115 Mazza Pietro,avwy. 2 95 | Malaspina march. Faustino . 19
Cessò di essere capoluogo di Collegio
(V. Bobbio)
{{Wl|Q48803026|Collegio elettorale di Vasto}}.
VIII 27 genn. 1861 821 611 Spaventa Silvio 464 | Marchione Pier Domenico . Nomina a segretario generale
11 " 1863) 811 465 Spaventa Silvio, segr. gen. Min. interno| 451 Marisi Giustino
IX 22 ottobre 1865 1014 755 Marchione Pier Domenico.; 463 | Spaventa Silvio, . 6.
x 10 marzo 1867 939 | 1ª vot. 692 | Castelli Francesco.| 316 | Marchione Pier Domenico .
17 " " Ball. 748 421
De Riseis bar. Panfilo (1ª votazione)
XI 20 nov. 1870) 992 677 Castelli Francesco.| 532 | Bassi Gaetano duca d’Alanno
XII 8 nov. 1874 980 13 Castelli Francesco.| 484 | Marchione Pier Domenico .
XIII||5 nov. 1876 1007 811 La Capra-Sabelli bar. Nieola| 525 | Castelli Francesco.
XIV |16 maggio 1880 4d 750 La Capra-Sabelli bar. Nicola 424 | Castelli Francesco
Scrutinio
lista
Chieti II.
XVIII 6 nov. 1892) 4028 3424 De Risels bar. Luigi.| 1938 | Bassi duca Gaetano.
XIX || 26 magg. 1895 3282 2769 De Risels bar. Luigi|| 1678 | Ciccarone Francesco.
XX 21 marzo 1897 | 3203 2370 De Riseis bar. Luigi.| 1240 | Ciccarone Francesco. <sup>nota</sup>
<ref>Cessò per nomina a segretario generale del Ministero dell’interno l'8 dicembre 1862.</ref>
<ref>Proclamato dalla Camera e convalidato l'8 aprile 1897.</ref>
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Autore:Enrico Nava
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{{Vedi anche autore|Giorgio Gualtieri}}
[[Categoria:Testi per autore citato|Gualtieri, Giorgio]]
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Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti/LVIII
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Spero che non respingerai il tenerissimo abbraccio ch’io ti do, o mia diletta, e mi rallegro delle nuove tue vittorie. Gli occhi miei non mi permettono di dire altro.<section end="1" />
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{{ct|f=110%|L=0px|t=0|v=1|ALLA STESSA}}
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{{A destra|f=80%|''29 luglio (1835)''}}
{{spazi|15}}''Mia carissima,''
La tua ultima mi ha consolata assai dicendomi che papà si è guarito, e che voi tutti siete più tranquilli. Ciò fa che lo sia anche io; ma anch’io mi dolgo delle tue perdite non lievi, dei torti che ti si fanno, dei dispiaceri che soffri. Oh io vorrei esserti vicina per vedere come sai sopportare le disgrazie, per vedere quanto mai sei coraggiosa. Già mi pare ch’io ti debba, anche in questo, invidiare assai, ma, e in che cosa non dovrei invidiarti? In questi giorni sono stata piena di dolore per la morte di.... D. Sebastiano Sanchini! Figurati quanta pena mi abbia cagionato il perdere una persona che ho veduto sempre dacchè son nata. Ho passato le sere della sua malattia fisa dinanzi alla sua finestra nel mio giardino, e lì vedeva e sentiva i suoi lamenti, e piangeva e mi riempiva di amarissime riflessioni, poi la sua finestra un giorno si è aperta, ed egli non ci era più! Ed<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Tuvok1968" />{{RigaIntestazione|||167}}</noinclude>{{Pt|<br>|}}ogni volta che vado in giardino il cuore mi si stringe, e vorrei rivolgere lo sguardo da quella finestra, ma non posso. Ora, se vuoi, scriverai alla signora ''Marianna Corsetti''.
Mi domandi se ho relazione con {{w|Giuseppe Persiani|Persiani}}. Io non l’ho veduto che una volta sola mentre dirigeva l’orchestra nel nostro teatro, e dacchè è partito di Recanati non vi è più tornato. Non gli siamo nè meno parenti, chè egli è di onesta ma bassa condizione. Ha due sorelle, le quali lavorano per vivere, dilettanti di musica anch’esse, orribili a vedersi come il fratello. Quando leggo nei fogli relazione dei ''bei fatti'' di lui, lo faccio sapere loro, ma posso dire di conoscerle appena. L’impresario dell’opera di Ancona, ossia Lanari, ha fatto loro molto onore questa primavera, e le ha tenute in casa sua molti giorni, e si è impegnato di farle chiamare a se dal fratello, o pure di farle soccorrere da lui più abbondantemente. Ricordati che mi hai promesso di dirmi ''molte cose''; fra queste fa che ci sia una parola della bella contessa Marescalchi, che a quest’ora devi avere conosciuta.
I versi di {{AutoreCitato|Prospero Viani|Viani}} hanno eccitato la critica dei redattori del giornale ''l’amico della gioventü'' che si stampa a Modena, i quali non vogliono che si chiami l’Italia ''ospizio lagrimato delle muse'', nè vogliono che le arti debbano ora chiamarsi ''sventurate e sfortunate'', nè vogliono sia vero ch’esse ora vanno ''paurose per monti e per scogli'' ecc. A me poi quei cari versi hanno inspirato molta simpatia per quel caro giovine, e ammirazione pei suoi talenti, e desiderio ch’egli viva meno sconsolato di quello che le sue parole mostrano che<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Tuvok1968" />{{RigaIntestazione|168||}}</noinclude>{{Pt|<br>|}}sia, seppure questo desiderio può venire mai realizzato in questo mondo. Se non è morta, abbracciami e baciami Nina. Dimmi quando partirai per Genova; oh quanto mai t’invidio questi tuoi viaggi! Se Nina volesse, io le cederei il mio posto, e verrei a prendere il suo, e credo che nessuno di voi altri, miei carissimi, avrebbe a lamentarsi della mia affezione, della mia tenerezza per voi. Addio, addio, ti lascio stringendoti vivamente al mio cuore e baciandoti con grande amore.<section end="1" />
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{{A destra|f=80%|''9 agosto (1835)''}}
{{spazi|15}}''Marianna mia,''
Non istare in pena per la carissima tua diretta al povero Sanchini, chè essa mi fu recapitata immantinente. Toccava a me a compiangere la perdita di quella cara lettera, ove realmente essa si fosse smarrita, essa è piena di troppo cari ed amati dettagli, perchè io non ne avessi a regretter amaramente la perdita. Oh! ti ringrazio assai, Marianna mia, della bontà e della pazienza tua
nel narrarmi tutto quello che mi narri, nel farmi assistere ai preparativi per la festa di Nina, nell’invitarmi a pranzo con tanta amorevolezza (ma io non potei venire. proprio non potei), nel farmi<noinclude><references/></noinclude>
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Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti/LIX
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<noinclude><pagequality level="3" user="Tuvok1968" />{{RigaIntestazione|||169}}</noinclude>{{Pt|<br>|}}vedere il regalo preparato per quella briccona...... solo, in tanta distanza, non potei capire certi versi, parto di una giovine musa (il di cui muso bacio e ribacio) ma spero che me li mostrerai.
E tocca a to Ninetta mia il mostrarmeli; già son sicura che non ti farai rossa come non ti facesti rossa all’udirli, al ricevere il bel regalino che ti fu fatto, e al vedere quello che rappresentava. ''Mirabile dictu!'' Nina non arrossì, ma se lo pose subito, e la sera il povero signor Gaetanino glie lo vide portare e ne rise esternamente, ma di dentro fremeva. Povera Nina, mi vuoi bene? dimmelo presto altrimenti m’inquieto assai assai.
Addio.
Poi, Marianna mia, ti ringrazio dell’amor tuo, il quale ha voluto confortarmi nel dolore che provo. Oh vicino a te molti dolori mi verrebbero scemati e molte lagrime asciugate, ma io son avvezza tanto poco a parlare, che quando avviene talvolta che parli un poco, la gola mi avvisa che ho parlato troppo, chè tosto mi si riscalda, e prima non era così....
Ma com’è possibile ch’io ti abbia finora parlato di tutt’altro che di quel dolore che mi sta fitto in cuore? Oh miei cari, non andate a Genova! Non so se Iddio vorrà permettere che noi siam liberi da quest’orribile flagello che ne minaccia; ma quell’andargli incontro è cosa che mi fa raccapricciare. Certo, quest’anno è stato cattivo per te, e prometteva di essere tanto buono, ed io fui tanto lieta quando ti sentii fermata per Genova, poi non ti so descrivere il dolore che provai, il brivido che mi scorse per le vene quando<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Tuvok1968" />{{RigaIntestazione|170||}}</noinclude>{{Pt|<br>|}}sentii vero il chelera di Nizza, e pensai a te, Marianna mia, che dovevi andare verso quelle parti. Oh certo io non avrò pace finchè non mi dirai: non andiamo più! e allora, dopo il piacere, la gioia che ne sentirò, penserò alla perdita che farai di quel danaro, ma pazienza, è quello un pensiero assai più sopportabile.
Non ti dirò niente della tristezza infusa dal timore del cholera: già non si deve aver paura, e per me io non l' ho, perchè il morire non mi spaventa, mi spaventa bensì il veder morire. Ma pensiamo ad altro. Diamo addio alla Pantarelli e alla graziosa sua Alaide, e crediamo pure di non vederla più, già mostrano di avere poco giudizio. Era male se avessi lasciato il tuo cuore a Ravenna, ma giacchè l'hai riportato tutto con te, va bene. Certo, vorrei insegnare io a quel signorino di non venire più a disturbare le ragazze colle sue confidenze, si vede bene ch' ei non conosce il mondo, o che non sa leggere negli occhi tuoi; i miei non avrebbero saputo nascondere il ribrezzo che quei discorsi mi cagionavano. Fa che papà riprenda le sue forze, fallo mangiare un pochino di più, salutamelo tanto tanto assieme con Mamà e la cara Nina, e tu, mia carissima, vieni ch' io ti bacio con tutta l'anima mia. Non andare a Genova, per carità.
{{Pt|<br><br>{{rule|8em}}|}}<noinclude><references/></noinclude>
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Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti/LX
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Tuvok1968
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>LX. Alla stessa - A Bologna<section end="sottotitolo"/>
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Alex brollo
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text/x-wiki
== Errore di stampa ==
Il numero pagina giusto è '''78'''. Inutile usare Ec, perchè l'intestazione non è transclusa. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 17:35, 5 nov 2024 (CET)
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/* Pagine SAL 25% */ [[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: d’avere questo latte senza pena, e con esso dare vita alle virtù (perocché le virtù hanno vita dal latte dell’affocata carità), nol vorrebbe. Ma piuttosto elegge di volerlo con pena per l’amore di Cristo crocifisso; perocchè non gli pare che sotto il capo spinato debbano stare i membri delicati, ma piuttosto portare la spina insieme con lui; non eleggendo portare a suo modo, ma a modo del capo suo. E facendo così, non po...
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<noinclude><pagequality level="1" user="Cor74" />{{RigaIntestazione||{{Sc|lettere di santa caterina}}|83}}</noinclude>d’avere questo latte senza pena, e con esso dare
vita alle virtù (perocché le virtù hanno vita dal latte
dell’affocata carità), nol vorrebbe. Ma piuttosto
elegge di volerlo con pena per l’amore di Cristo
crocifisso; perocchè non gli pare che sotto il capo
spinato debbano stare i membri delicati, ma piuttosto
portare la spina insieme con lui; non eleggendo
portare a suo modo, ma a modo del capo
suo. E facendo così, non porta, ^ ma il capo suo
Cristo crocifisso n’è fntto portatore.
Oh quanto è dolce questa dolce madre della
Carità! la quale non cerca le cose sue, cioè che non
cerca se per sé, ma sé per Dio; e ciò che ella ama
e desidera ama e desidera in lui; e fore di lui nulla
vuole possedere; e in ogni stato ch’ella è, spende
il tempo suo secondo la volontà di Dio. Onde s’ella
è secolare, ella vuole essere perfetta nello stato suo;
se ella è religiosa suddita, ella è perfetta angela
terrestre in questa vita; e non appetisce né pone
l’amore ^ suo nel secolo, nè nella ricchezza, volendo
possedere in particolare, perocchè ella vede che ella
farebbe centra il voto della povertà volontaria, la
quale promesse d’osservare nella sua professione.
E non si diletta nè vuole la conversazione di coloro
<ref>La pena. Come sopportare e soffrire assoluti; è il ferre latino. Bello,
che lo uìembra del mistico aorpo, sensitive per la comunicazione col capo,
da lui abbiamo il merito del dolore, e la forza del sostenerlo, o la vivificatrice
partecipazione della divina sua vita. Ed è eziandio nuova e gentile
imagine che il latte dell’amore ci venga dall’umanità di Cristo accostata
alla nostra, come il bambino accosta le sue labbra di carne alla carne
del petto materno per averne un liquore ch’è come lo stillato della vita.
<ref>Appetire quel che non si ha, por l’amore in quel che si ha. E però
dice la ''ricchezza in particolare''; cioè che i beni posseduti in comune per
le necessita del monastero o de’ poveri, nessuno se li appropri né in atto
nè col desiderio, non ponga la essi l'amore neanco sotto specie di giovare
alla comunità; ch’è pretesto tontatorc, e può farsi diarolo.<noinclude><references/></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="2" user="Cor74" />{{RigaIntestazione|84|{{Sc|lettere di santa caterina}}|}}</noinclude>che gli volessero impedire il voto della castità: anco,
li fugge come serpenti velenosi; e mettesi in bando
delie grate e del parlatorio; e sbandisce la dimestichezza
de’ devoti, e ribandiscesi <ref>Tiene sè in bando da colloqui vani; comincia dall’imperare a sè stessa; poi sbandisce da sé anco i devoti, impone agli altri astinenza anco dalle soddisfazioni del santo piacere spirituale; e così appresa per sè una astinenza ancora più forte, si ribandisce nella sua cella, divenutale ricetto fido. ''Fida silentia sacris''. Notisi che ''ribandire'' (e qui sta la bellezza) è richiamare dal bando, il contrario di ''sbandire''. E certamente la cella è patria, so sposa. Ad Andromaca, lo sposo era famiglia e patria.</ref> alla patria della
cella, siccome vera e legittima sposa. E ine acquista
al petto di Cristo crocifisso la vigilia, e l’umile
e continua orazione; e non solamente l’occhio del
corpo, ma l’occhio dell’anima veglia in cognoscere
sè medesima, la fragilità, e la miseria sua passata,
e la dolce bontà di Dio in sè, vedendosi essere
amata ineffabilmente dal suo Creatore.
Onde allora gli seguita a mano a mano la virtù dell’umilità, e il santo e affocato desiderio, il quale è quella continua orazione della <ref>Ellissi, che sottintende, ''il senso, il valore''. Comune, ''dire di, Aprirsi d’una cosa.''</ref> quale Paolo ci manifesta, dicendo, che sempre dobbiamo orare senza intermissione. E al desiderio santo seguitano le sante e buone operazioni. E quella non cessa d’orare, che non cessa di bene adoperare. In cella fa mansione con lo sposo eterno, abbracciando le vergogne e le pene per qualunque modo gli concede; spregiando le delizie, lo stato e l’onore del mondo; annegando la propria e miserabile volontà; ponendosi dinanzi l’obedienzia di Cristo crocifisso, il quale per l’obedienzia del Padre e per la salute nostra corse all’obbrobriosa morte della croce. Sicchè, con l'obedienzia sua ^ è fatta obediente; e
<ref>Con l'esempio dell’obbienza di Cristo; anzi in forza di quella ob-</ref><noinclude><references/></noinclude>
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/* Pagine SAL 25% */ [[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: CXLVIII. — A Pietro marchese del Monte...356 CXLIX. — A Misser. Pietro Gambacorti in Pisa. 361 CL. — A Frate Francesco Tebaldi di Fiorenza, nell’Isola di Gorgona, monaco Certosino....365 CLI. — A Monna Nella, Donna che fu di Niccolò Buonconti da Pisa 371 CLII. — A Giovanni Trenta, e a Monna Giovanna sua Donna da Lucca.... 375
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<noinclude><pagequality level="1" user="Cor74" />{{RigaIntestazione||{{Sc|lettere di santa caterina}}|383}}</noinclude>CXLVIII. — A Pietro marchese del Monte...356
CXLIX. — A Misser. Pietro Gambacorti in Pisa. 361
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<noinclude><pagequality level="2" user="Cor74" />{{RigaIntestazione|382|{{Sc|INDICE}}|}}</noinclude>CXXVI. — A Monna Alessia e a Monna Cecca.. 272
CXXVII. — A Frate Bartolomeo Dominici, e a Frate Tomaso d’Antonio dell’Ordine de’ Predicatori quando erano a Pisa.. 276
CXXVIII. — A Gabriele di Divino Piccolomini.. 281
CXXIX. — A Frate Bartolomeo dell’Ordine de’ Predicatori, in Fiorenza 285
CXXX. — A Ipolito degli libertini di Firenze.. 290
CXXXI. — A Niccolò Soderini in Firenze... 294
CXXXII. — A Monna Giovanna e altre figliuole in Siena 298
CXXXIII.— Alla Reina di Napoli 300
CXXXIV. — A Bartolomeo e Jacomo, eremiti in Campo Santo in Pisa 307
CXXXV. — A Misser Pietro Marchese del Monte. 310
CXXXVI. — Ad Angelo da Ricasoli..... 313
CXXXVII. — A Misser Matteo Rettore della Chiesa della Misericordia di Siena, mentre che essa era a Pisa 316
CXXXVIII.— Alla Reina di Napoli 369
CXXXIX. — A Frate Tomaso della Fonte dell’Ordine de’ Predicatori in Siena....325
CXL. — A Misser Giovanni Condottiero, e capo della Compagnia che venne nel tempo della fame 327
CXLI. — A Don Giovanni de’ Sabbatini da Bologna monaco dell’Ordine della Certosa nel monasterio di Belriguardo, presso a Siena, quand’ella era a Pisa....331
CXLII. — A Sano di Maco, essendo la Santa in Pisa 333
CXLIII. — Alla Reina di Napoli 337
CXLIV. — A Monna Pavola a Fiesole....341
CXLV. — Alla Reina d’Ungheria, cioè alla madre del Re. - 346
CXLVI. — A Frate Bartolomeo Dominici dell’Ordine de’ Predicatori, quando era Biblico di Fiorenza 352
GXLII. — A Sano di Maco, essendo la Santa a Pisa la prima volta 355<noinclude><references/></noinclude>
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Categoria:Testi in cui è citato Enrico Nava
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[[Categoria:Testi per autore citato|Nava, Enrico]]
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Carlomorino
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{{Centrato|XVI.
'''Le Carceri Nove.'''}}
Come una minaccia e un incubo si eleva nel bel mezzo di Roma il tetro monumento delle Carceri Nove. Quella fabbrica quadrata, massiccia, scura, sembra, com’è infatti, la tomba di uomini viventi.
Ai quattro angoli vegliano eternamente le sentinelle; la porta è chiusa da un triplice cancello. Non un accento, non un gemito manifesta la vita disperata che si respira là dentro. Il Tevere passa mormorando a poca distanza, e par quasi che gema sulla sorte di tanti sventurati.
Il primo oggetto che chiama l’attenzione di chi s’inoltra in quella spaziosa e bella via Giulia, il primo pensiero che occupa la mente è l’edifizio delle Carceri Nove; e l’idea degli infelici che là dentro espiano l’amore della patria, turba l’anima siffattamente, che la bellezza scenografica della strada non è più ammirata nè avvertita.
Non è già che le Carceri Nove siano le sole carceri politiche di Roma. Dal Castello Sant’Angelo fino all’ultimo convento di frati; non v’ha in Roma un angolo che non sia stato adoperato dal governo dei preti a torturare un’anima generosa, a comprimere i palpiti più vitali di un cuore.
Quanto ai detenuti politici, la ''giustizia dei papi'' aveva edificato a posta per essi il vastissimo carcere di San Michele, nel quale dovevano starsi imprigionati insieme alle donne di mala vita. Strano concetto che dimostra la nequitosa malizia della Curia romana! Il carcere di San Michele fu destinato ai rei di stato, e alle femmine di mala vita!
I chiercuti carnefici credevano d’infamare i patrioti, accomunando il loro destino a quello delle prostitute. Stolti! la gemma della virtù rifulge più bella in mezzo alle sozzure del fango: e l’infamia ricade tutta sul capo di coloro che tentarono avvilirla.
Del resto, per quanto vasto il carcere di San Michele, non bastò ai detenuti politici nella felicissima capitale del mondo cattolico, e non bastò nemmeno la succursale di quel carcere, inaugurata per vezzo pretino col nome di ''San Micheletto''. Non bastò il forte di Paliano, scelto con sottile perfidia per l’espiazione delle condanne politiche nel luogo più insalubre e mortifero dell’agro romano, perchè le febbri maligne ajutassero e affrettassero l’opera micidiale degli aguzzini.
In breve, tutte le prigioni di Roma furono occupate dai carcerati per delitto di ''lesa maestà'', confusi in quelle bolgie cogli omicidi e coi ladri: mentre i conventi dei frati erano serbati come luogo di espiazione a quegli inquisiti più giovani e inesperti che davano ai preti qualche speranza di conversione.<noinclude><references/></noinclude>
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Piaz1606
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|monti e tognetti}}|67|riga=si}}</noinclude>
Anche nella prigione delle Carceri Nove si trovarono adunque i patrioti
agglomerati coi rei di delitti comuni; e non fu raro il caso in cui il giovi.
netto carcerato per semplice sospetto di patriotismo si trovò rinchiuso
nella medesima cella con un assassino già condannato a morte, che aspettava
di giorno in giorno l’ora del suo supplizio.
Un’iscrizione sulla porta di quella prigione ci ammonisce che la clemenza fa uno dei motivi che indussero Papa Innocenzo a far costruire le ''Carceri Nove''. L’infelice che vi si trova detenuto può farsi un’idea esatta della ''clemenza dei papi''.
I carcerati, e specialmente i politici, vi sono esposti a durissimi trattamenti. O accalcati alla rinfusa in fetidi cameroni, o isolati in celle umide e sotterranee, mancano d’aria pura e di luce. La nequizia dei preposti rese nulle e disusate anche le regole dell’igiene che presiedettero alla fondazione di quel carcere, duro ma non insalubre nella sua origine.
I detenuti delle Carceri Nove hanno oggigiorno per letto poca e sucida paglia il loro vitto è scarso e malsano; sono sottoposti al digiuno e alla sferza per colpe leggere e spesso immaginarie!
Ma ciò che rende più orribile quel luogo infernale è la tortura morale, alla quale sono spesso soggetti quei detenuti per la durezza dei guardiani, degni interpreti della efferatezza dei governanti. Non solo manca agli sventurati ogni parola di conforto, ogni ajuto di benigno consiglio, ma vien loro negata sovente quella consolazione che i congiunti o gli amici con gentile pietà cercano di inviare oltre le mura del carcere. Avviene sovente che ai prigionieri si lascia ignorare che i parenti furono a chiedere loro novelle, loro si contende un semplice ricordo, un saluto: cosicchè alle loro pene si aggiunge il martirio dell’incertezza: sia che temano sulla sorte dei loro cari, sia che li angosci il dubbio di essere nella loro miseria obliati.
Un’altra pena atroce di quella crudele fra le carceri preventive si è lo spionaggio, la mala pianta che nell’interno delle prigioni pontificie trova salde e vigorose radici. Il sollievo più caro degli infelici è il racconto dei proprii casi, il compianto delle comuni sventure. Ebbene, anche quest’ultimo conforto è conteso ai detenuti politici nelle prigioni pontificie. Il compagno di carcere, che in sembiante di amico vi si stringe d’intorno, che con modi affettuosi vi sforza a parlare, è quasi sempre uno scellerato spione, che la polizia papale ha destinato al soggiorno delle carceri, un miserabile che, abusando della vostra sventura, compra colla nefanda delazione l’impunità di altri atroci delitti.
E, incredibile a dirsi, le relazioni di quegli ignobili e degradati strumenti formano spesso la parte sostanziale dei processi politici di Roma. Le confidenze strappate sotto il velo dell’amicizia, della compassione dai compagni di carcere, divengono il sostegno più saldo dell’accusa.
E come no? La forma inquisitoria del processo, abolita oggi da ogni<noinclude><references/></noinclude>
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Edward
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Attilio
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/* Pagine SAL 75% */ [[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: {{Pt|chio,|''pidòcchio'',}} ''pidocchiería''; ''diávolo'', ''diavolería''; ''pòrco'', porchería.</div> Molti sostantivi in ''ía'' sono greci; come ''monarchía'', ''filosofía'', ''geometría'', ecc. {{§|2|§ 2.}} ''ío'' (di rado ''io''). {{indent|3|Collettivi indicanti per lo più un’azione fatta insieme da molte cause, o con particolare intensità: da verbi: ''mormoráre'', ''mormorío''; ''calpestáre'', ''calpestío''...
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cruccone" />{{RigaIntestazione||{{Sc|suffissi di nomi collettivi, locali ecc.}}|265|riga=si}}</noinclude>{{Pt|chio,|''pidòcchio'',}} ''pidocchiería''; ''diávolo'', ''diavolería''; ''pòrco'', porchería.</div>
Molti sostantivi in ''ía'' sono greci; come ''monarchía'', ''filosofía'', ''geometría'', ecc.
{{§|2|§ 2.}} ''ío'' (di rado ''io'').
{{indent|3|Collettivi indicanti per lo più un’azione fatta insieme da molte cause, o con particolare intensità: da verbi: ''mormoráre'', ''mormorío''; ''calpestáre'', ''calpestío''; ''rovináre'', ''rovinío''; ''sciupáre'', ''sciupío''; ''stropicciáre'', ''stropíccio'' o ''stropiccío''; ''chiacchieráre'', ''chiacchierío''; ''lavoráre'', ''lavorío'': da nomi: ''pólvere'', ''polverío''.}}
{{Indent|3|Astratti: ''assassináre'', ''assassínio''; ''abomináre'', ''abomínio''; ''domináre'', ''domínio''; ''aggraváre'', ''aggrávio''.}}
{{Indent|3|Concreti: ''lèggere'', ''leggío''.}}
{{§|3|§ 3.}} ''áglia'', ''íglia''.
{{Indent|3|Collettivi (per lo più in senso dispregiativo): da sostantivi: ''cáne'', ''canáglia''; ''ragázzo'', ''ragazzáglia''; ''sbírro'', ''sbirráglia'': da sostantivi collettivi: ''ciúrma'', ''ciurmáglia''; ''plèbe'', plebáglia: da aggettivi: ''pòvero'', ''poveráglia''; ''minúto'', ''minutáglia''.}}
{{Indent|3|In senso che s’avvicina al collettivo: ''múro'', ''muráglia''; ''bòsco'', ''boscáglia''; ''grámo'', ''gramáglia''; ''fángo'', ''fanghíglia''; ''canúto'', ''canutíglia''; ''móndo'', ''mondíglia''.}}
''áme'', ''íme'', ''úme''.
<div style="text-indent:3em;">Collettivi (talora in senso dispregiativo): da sostantivi: ''béstia'', ''bestiáme''; ''légno'', ''legnáme''; ''póllo'', ''polláme''; ''gènte'', ''gentáme''; ''cóncio'', ''concíme''; ''látte'', ''lattíme'': da aggettivi: ''ágro'', ''agrúmi'' (plur.); ''ácido'', ''acidúme''; ''bastárdo'', ''bastardúme''; ''grásso'', ''grassúme''; ''pútrido'', ''putridúme''; ''vècchio'', ''vecchiúme'': da verbi:<noinclude></noinclude>
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Cruccone
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<noinclude><pagequality level="3" user="Cruccone" />{{RigaIntestazione||{{Sc|suffissi di nomi collettivi, locali ecc.}}|265|riga=si}}</noinclude>{{Pt|chio,|''pidòcchio'',}} ''pidocchiería''; ''diávolo'', ''diavolería''; ''pòrco'', ''porchería''.</div>
Molti sostantivi in ''ía'' sono greci; come ''monarchía'', ''filosofía'', ''geometría'', ecc.
{{§|2|§ 2.}} ''ío'' (di rado ''io'').
{{indent|3|Collettivi indicanti per lo più un’azione fatta insieme da molte cause, o con particolare intensità: da verbi: ''mormoráre'', ''mormorío''; ''calpestáre'', ''calpestío''; ''rovináre'', ''rovinío''; ''sciupáre'', ''sciupío''; ''stropicciáre'', ''stropíccio'' o ''stropiccío''; ''chiacchieráre'', ''chiacchierío''; ''lavoráre'', ''lavorío'': da nomi: ''pólvere'', ''polverío''.}}
{{Indent|3|Astratti: ''assassináre'', ''assassínio''; ''abomináre'', ''abomínio''; ''domináre'', ''domínio''; ''aggraváre'', ''aggrávio''.}}
{{Indent|3|Concreti: ''lèggere'', ''leggío''.}}
{{§|3|§ 3.}} ''áglia'', ''íglia''.
{{Indent|3|Collettivi (per lo più in senso dispregiativo): da sostantivi: ''cáne'', ''canáglia''; ''ragázzo'', ''ragazzáglia''; ''sbírro'', ''sbirráglia'': da sostantivi collettivi: ''ciúrma'', ''ciurmáglia''; ''plèbe'', plebáglia: da aggettivi: ''pòvero'', ''poveráglia''; ''minúto'', ''minutáglia''.}}
{{Indent|3|In senso che s’avvicina al collettivo: ''múro'', ''muráglia''; ''bòsco'', ''boscáglia''; ''grámo'', ''gramáglia''; ''fángo'', ''fanghíglia''; ''canúto'', ''canutíglia''; ''móndo'', ''mondíglia''.}}
''áme'', ''íme'', ''úme''.
<div style="text-indent:3em;">Collettivi (talora in senso dispregiativo): da sostantivi: ''béstia'', ''bestiáme''; ''légno'', ''legnáme''; ''póllo'', ''polláme''; ''gènte'', ''gentáme''; ''cóncio'', ''concíme''; ''látte'', ''lattíme'': da aggettivi: ''ágro'', ''agrúmi'' (plur.); ''ácido'', ''acidúme''; ''bastárdo'', ''bastardúme''; ''grásso'', ''grassúme''; ''pútrido'', ''putridúme''; ''vècchio'', ''vecchiúme'': da verbi:<noinclude></noinclude>
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Categoria:Testi in cui è citato il testo Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici/Libro I
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{{Vedi anche|Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici/Libro I}}
[[Categoria:Testi in cui sono citati altri testi|Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici/Libro I]]
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Categoria:Pagine in cui è citato il testo Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici/Libro I
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{{Vedi anche|Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici/Libro I}}
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Pagina:Yambo, Luna paese incomodo.djvu/214
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||— 212 —|}}</noinclude>templato il nuovo fenomeno, palesano la mia stessa inquieta maraviglia.
— Esseri effimeri — sentenzia da ultimo Max Boering — e intanto si versa un bicchierino di liquore. — Moriranno, probabilmente, col morire del giorno. Ma sono orribili. Gli ultimi prodotti di un mondo decrepito: gelatine, nient’altro.
— Ma possono essere pericolose per noi — osserva James, torcendo la bocca. — Le gelatine che il mare abbandona su la spiaggia non possono venir toccate impunemente dagli uomini. E, d’altra parte, queste luride bestie emettono appendici che somigliano ai tentacoli dei cefalopodi. Bene: bisognerà rimanere qui fino a che non se ne saranno andate.
Anche James beve un bicchierino e accende la pipa. E nauseato ma seguita a guardare quelle assurde forme che scivolano lungo la superficie del razzo, e passano, rapidamente, come pennellate di colla bianca, sul vetro della finestra.
— Se ne andranno? — domando: e intanto chiudo la finestra per non vedere quello spettacolo che dà le vertigini.
— Certo, se ne andranno — afferma ora il buon Max. — Intanto, per occupare il tempo, facciamo colazione....
James crolla il capo.<noinclude></noinclude>
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Pagina:Beltrami - Ricerche di geometria analitica - 1879.pdf/37
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Paperoastro
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<noinclude><pagequality level="1" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione|259||29}}</noinclude>funzioni ''u'' per mezzo delle rimanenti <math>m + 1</math>. Se, per fissare le idee, si vogliono esprimere le funzioni
{| class=formula
|
| <math>u_{m+1}</math>,
| <math>u_{m+2},\ldots u_n</math>
|}
per mezzo delle
{| class=formula
|
| <math>u_0</math>,
| <math>u_1,\ldots u_m</math>,
|}
basta porre
{{Centrato|<math>\chi(\lambda) =
(\lambda - a_{m+1})(\lambda - a_{m+2})\ldots
(\lambda - a_{n})</math>,}}
e fare successivamente nell’equazione {{Pg|30#f6.3|(3)}}
x(2) 4(2) = λ --- α.
m+1 Si ottengono in tal
X(2)
=
λ- a am+2
modo
le nm formole
X(2) λ -an
che risultano
dalla se
guente
k= m AX(a )u k
+ AX (ap) up (a — a )p(a ) p(a ) k= 0
(4)
facendo successivamente pm + 1, m + 22,,... •; e queste per
17,.·.· · · Um mettono appunto di esprimere u, ( p > m) per mezzo di u 。, U17 ¼¸
Dall’equazione (4 ) si trae 112
AµX (α ) u >
a )p(a )
p(a ) Α.u P.P
(ap
x’ (ap)
donde, moltiplicando ambidue i membri per
1 2λ=a₂
e summando da pm + 1 fino a p = n, n
m
App λ― a p
m +1
n AX(a )u p(a )
p(a ) m + 1 (λ — a¸)(a, — a‚) x’ (α„ )<noinclude></noinclude>
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Paperoastro
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione|259||29}}</noinclude>funzioni ''u'' per mezzo delle rimanenti <math>m + 1</math>. Se, per fissare le idee, si vogliono esprimere le funzioni
{| class=formula
|
| <math>u_{m+1}</math>,
| <math>u_{m+2},\ldots u_n</math>
|}
per mezzo delle
{| class=formula
|
| <math>u_0</math>,
| <math>u_1,\ldots u_m</math>,
|}
basta porre
{{Centrato|<math>\chi(\lambda) =
(\lambda - a_{m+1})(\lambda - a_{m+2})\ldots
(\lambda - a_{n})</math>,}}
e fare successivamente nell’equazione {{Pg|30#f6.3|(3)}}
{{Centrato|<math>\psi(\lambda)
= \frac{\chi(\lambda)}{\lambda - a_{m+1}},\;
= \frac{\chi(\lambda)}{\lambda - a_{m+2}},\ldots,
= \frac{\chi(\lambda)}{\lambda - a_n}.
</math>}}
Si ottengono in tal modo le <math>n-m</math> formole che risultano dalla seguente
{| class=formula
| {{§|f6.4|(4)}}
| <math>\sum_{k=0}^{k=m}
\frac{A_k\chi(a_k)u_k}{(a_k-a_p)\phi(a_k)} +
\frac{A_p\chi'(a_p)u_p}{\phi(a_p)} = 0</math>
|}
facendo successivamente <math>p = m + 1, m + 2,\ldots n</math>; e queste permettono appunto di esprimere <math>u_p (p > m)</math> per mezzo di <math>u_0</math>, <math>u_1,\ldots u_m</math>.
Dall’equazione [[#f6.4|(4)]] si trae
{{Centrato|<math>A_p u_p =
\frac{\phi(a_p)}{\chi'(a_p)} \sum_0^m
\frac{A_k\chi(a_k)u_k}{(a_p-a_k)\phi(a_k)}
</math>,}}
donde, moltiplicando ambidue i membri per
{{Centrato|<math>\frac{1}{\lambda-a_p}</math>}}
e summando da <math>p=m + 1</math> fino a <math>p = n</math>,
{{Centrato|<math>\sum_{m+1}^n\frac{A_p u_p}{\lambda-a_p} =
\sum_0^m \frac{A_k\chi(a_k)u_k}{\phi(a_k)}
\sum_{m+1}^n \frac{\phi(a_p)}{(\lambda-a_p)(a_p-a_k)\chi'(a_p)}
</math>,}}<noinclude></noinclude>
puuttl05u78amj2xgthl4052vctahh0
Autore:Giovanni Battista Mazzini
102
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3420001
2024-11-06T10:24:07Z
Spinoziano (BEIC)
60217
[[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: <!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome"/>Giovanni Battista<section end="Nome"/> <section begin="Cognome"/>Mazzini<section end="Cognome"/> <section begin="Attività"/>medico/matematico<section end="Attività"/> <section begin="Nazionalità"/>italiano<section end="Nazionalità"/> </div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Autore | Nome = Giovanni Battista | Cognome = Mazzini | Attivit...
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text/x-wiki
<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome"/>Giovanni Battista<section end="Nome"/>
<section begin="Cognome"/>Mazzini<section end="Cognome"/>
<section begin="Attività"/>medico/matematico<section end="Attività"/>
<section begin="Nazionalità"/>italiano<section end="Nazionalità"/>
</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Autore
| Nome = Giovanni Battista
| Cognome = Mazzini
| Attività = medico/matematico
| Nazionalità = italiano
| Professione e nazionalità =
}}
== Opere ==
* ''Congetture fisico-meccaniche intorno le figure delle particelle componenti il ferro'', Brescia, 1714 ({{BEIC|IE1536713}}, {{GB|yk0twRvZPa8C}})
{{Sezione note}}
ndy4bodcsuy28lcal7usfjba91qxxaq